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Autore: Adeia Di Elferas    28/06/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Caterina aveva avuto il cuore in gola per tutto il tragitto dalle Murate al convento d'Annalena. Pur sapendo che suo figlio Giovannino era in buona salute, non riusciva a liberare la mente dalle peggiori immagini che potesse ideare.

In primis si figurava già schiava, di nuovo in prigione, vittima di una trappola di suo cognato Lorenzo. Aveva dovuto ripetersi decine e decine di volte che non c'era motivo di provare tanta ansia, perché in mezzo a tutti quei maneggi c'era Fortunati, e di lui poteva fidarsi. Eppure, una piccola parte di sé, non riusciva a credere che sarebbe tutto filato perfettamente liscio.

Firenze di notte era come una culla agitata, con il rumore di qualche carro solitario, le grida che uscivano dai lupanari e dalle osterie, e dal sentore, mai davvero lontano, dell'Arno che l'attraversava. L'odore che riempiva le narici della Tigre era diverso da quello della sua Milano e, ancor più, da quello di Forlì. Era ancora sconosciuto, per lei, e, come se fosse stata davvero la bestia selvatica che tutti dipingevano, avvertiva quell'estraneità in modo spiccato e con diffidenza.

Una volta a destinazione, perciò, Caterina si era fatta ancor più guardinga e aveva vissuto con riluttanza la separazione da chi l'aveva accompagnata fin lì. Attraversare, con il buio, un'entrata secondaria del convento la fece sentire ancor più malferma sulle gambe. Nemmeno quando le prime candele illuminarono i suoi passi riuscì a calmarsi.

Quando, poi, una suora le chiese di seguirla giù da una rampa di scale, la Leonessa avvertì una repulsione tanto profonda da non riuscire quasi a fare ciò che le era stato chiesto. L'ultima volta, pensava, che si era avventurata nelle viscere di un edificio, era stato a Roma, e là sotto c'era rimasta per mesi.

Respirando più velocemente, facendo di tutto per convincersi che quella volta non correva rischio alcuno, la donna riuscì infine a mettere un piede davanti all'altro. A ogni gradino il suo cuore sprofondava un po' di più, e quando si trovarono in una specie di cantina, la Tigre si trovò a faticare davvero molto, nel trovare la forza di andare avanti e di mantenere la lucidità.

Lei e la suora camminarono per qualche minuto e poi, all'improvviso, salirono di nuovo una rampa di scale, tornando al piano terra. Era come se la monaca avesse voluto farle attraversare l'intero convento celandola al mondo.

Tornando a respirare abbastanza normalmente, Caterina si sentì una sciocca ad avere avuto così tanta paura. Riconosceva in sé la debolezza che tante volte non aveva perdonato in altri, e si sentiva in parte in colpa per la sua passata intransigenza.

Mentre stava ancora valutando quanto lei fosse stata rigida, a tratti quasi crudele, con chi, in sua presenza, aveva mostrato paura, la donna si sentì dire dalla suora: “Si trova qui, in questa stanza, con una delle nostre consorelle. Non vuole mai dormire da solo...”

La Sforza si risvegliò all'istante dai suoi pensieri. Quella caratteristica di Giovannino, che lei stessa aveva avuto modo di scoprire e conoscere, l'ancorò di nuovo alla realtà che stava vivendo, permettendole di lasciarsi alle spalle, almeno per il momento, tutto il resto.

“Se dorme, lo lascerò dormire.” assicurò Caterina, avendo sentito una sorta di avvertimento nella voce della monaca, come se volesse farle capire che farlo riaddormentare non sarebbe stato facile, con la fatica che si era fatta a farlo acquietare.

Non appena entrò in stanza, i suoi occhi corsero subito al piccolo. Dormiva, il visino corrucciato e severo, le mani strette a pugno e, sotto la copertina leggera, si poteva vedere un vestitino che sarebbe sicuramente stato più adatto a una bambina. La Tigre, che aveva gran fretta di restare da sola con il figlio, congedò con un ringraziamento sussurrato sia la suora che l'aveva accompagnata fin lì, sia quella che faceva da guardia al Medici, e fece intendere che sarebbe rimasta lei a vegliare e lei sola.

Felici di accontentarla, le due se ne andarono all'istante, e così la Leonessa fu libera di prendersi il suo tempo. Dato che Giovannino non si era minimamente mosso, ebbe modo di guardare un po' la stanza, per rendersi conto dell'ambiente in cui suo figlio passava le sue notti e, probabilmente, anche buona parte delle sue giornate.

C'era buio, ma la candela accesa accanto al letto le permetteva di scorgere una camera semplice, ma molto pulita. La Sforza sapeva bene che quella fonte di luce, che alla maggior parte delle persone avrebbe dato fastidio di notte, per il bambino era una fonte di consolazione e di coraggio tale per cui, fin da quando era ancor più piccolo, era stato sempre impossibile riuscire a farlo riposare senza.

Sedendosi sulla stessa sedia che era stata occupata fino a poco prima dalla monaca, Caterina si mise a osservare il profilo del suo ultimogenito. Vedeva che era agitato da qualche brutto sogno, ma non aveva voglia di svegliarlo subito. Doveva prima calmare il proprio, di animo, per riuscire a fare altrettanto con quello di qualcun altro.

Mentre i minuti passavano, rendendo quasi ipnotico lo spettacolo dato da suo figlio che respirava lentamente, stringendo le piccole mani dalle dita un po' tozze, la Tigre si trovò a realizzare come si fosse completamente scordata tanto dell'anniversario della morte di Giovanni, ricorso un paio di settimane addietro e, ancor di più, quello di Giacomo, il 27 agosto.

Era stata così presa dai suoi problemi che quelle due date erano scivolate via, confuse con tutte le altre, e forse era stato un bene. Le bastavano il dolore e la rabbia che provava costantemente come sottofondo, senza doverli acuire ulteriormente una volta all'anno.

La sua mente, però, era come sempre molto difficile da imbrigliare e, dopo qualche istante, quella stanza quasi del tutto buia, le ricordò troppo da vicino la stanza del palazzotto a Santa Maria in Bagno in cui era morto Giovanni. Per sfuggire ai propri fantasmi, più che per distrarre Giovannino dai suoi incubi, gli sfiorò una guancia con la punta delle dita.

Il sonno del piccolo Medici era leggero e bastò quel lievissimo tocco a svegliarlo. I suoi occhietti verde scurissimo lampeggiarono, increduli di trovarsi davanti la madre, e poi, appena fu cosciente a sufficienza per capire che non stava più sognando, ma che la Leonessa era davvero lì, in carne e ossa, scattò seduto sul suo lettuccio e, slanciandosi in avanti, le si aggrappò al collo.

Caterina, che aveva anticipato in parte le sue mosse, lo strinse a sua volta, sentendolo tremare, mentre un pianto di pura gioia lo scuoteva. Voleva tranquillizzarlo, non le piaceva sentirlo singhiozzare, anche se era per un bel motivo, ma la sua gola era chiusa e tappezzata di spilli e sapeva che ogni parola avrebbe potuto portare al pianto anche lei.

Così ci mise parecchio, prima di riuscire a bisbigliargli all'orecchio: “Te l'avevo promesso. Devi ricordarlo sempre: un vero Sforza mantiene sempre le sue promesse.”

Giovannino inspirò con forza, cercando di placare le lacrime e poi, con decisione, annuì, senza smettere di aggrapparsi alla madre.

Quella caparbietà nel non volerla lasciare, la commosse più di tutto il resto, facendola finalmente sciogliere.

Mentre sentiva gli occhi bruciare e le guance inumidirsi, accarezzò i ricciolini del piccolo, e gli disse, cercando di fare eco alle parole che suo padre Galeazzo Maria le aveva detto tante volte, quando era piccola: “Finisci sempre quello che cominci, non lasciare mai nulla a metà.”

Giovannino non ebbe particolari reazioni a quell'insegnamento a cui Caterina sentiva di dovere moltissimo, ma la donna non se ne preoccupò. Aveva poco più di tre anni: avrebbe avuto tempo, per capire e far suo quel modo di vedere il mondo.

Così, dopo che entrambi riuscirono a placare il pianto, la Sforza fece ricoricare il figlio e accarezzandolo lentamente in fronte e sulla guancia, gli chiese se gli andasse di sentire qualche storia della loro famiglia.

Lui annuì subito, ma chiese: “Quanto resti?”

La Tigre sollevò un sopracciglio e fu costretta a rispondere: “Fino all'alba, ma tornerò dopodomani notte. E farò così per una decina di giorni...”

Indubbiamente quel calcolo era troppo complicato per la piccola mente di Giovannino, ma il bambino capì ugualmente che la visita della madre non sarebbe stata isolata, e tanto gli bastò per calmarsi un po'.

“La storia della bisnonna...” chiese, mentre uno sbadiglio lo portava a fare una pausa: “Ti prego.”

Caterina sorrise e poi si sistemò meglio sulla sedia e, felice di quella parvenza di normalità, benché fosse tarda notte e lei e il suo ultimogenito si trovassero in un convento, a nascondersi da Lorenzo, cominciò a raccontare: “La tua bisnonna, Bianca Maria, era la figlia del Duca di Milano...”

“Filippo Maria...” completò la frase Giovannino.

Entusiasta nel vedere la pronta memoria del figlio, la Leonessa sorrise ancor di più e riprese: “Era una giovane donna, intelligente e sicura di sé e quando un giorno vide il tuo bisnonno Francesco sfilare durante una parata militare, disse a suo padre il Duca Filippo Maria che avrebbe sposato lui e lui soltanto...”

Sapeva che la parte che il bambino preferiva arrivava dopo, all'avventurosa nascita di Galeazzo Maria, avvenuta a Fermo, appena dopo la conquista della città. A Giovannino piaceva sentire di come la sua bisnonna aveva cavalcato accanto al marito in guerra, di come, pur di nobilissima stirpe, avesse dormito in tenda e mangiato le stesse cose che mangiavano i soldati.

Anche se era molto piccolo, il Medici pareva capire e trovare affascinante quel mondo. E Caterina, per quanto cercasse di non farsi troppe domande sul futuro che avrebbe avuto il suo ultimo figlio, nel profondo era orgogliosa di vedere in lui quell'interesse per il mondo militare e, per quel poco che poteva, non sarebbe stata certo lei a distoglierlo da quella passione che, alla sua tenera età, poteva essere anche solamente un'infatuazione passeggera.

Così si godette l'espressione concentrata di Giovannino, quando arrivò a parlare della guerra nelle Marche e, addolcendo i racconti delle battaglie per come poteva, dilatò il più che poté la storia della nascita di suo padre e solo dopo quella parte, il piccolo Medici sbadigliò e cedette al sonno, una manina ancora stretta attorno al pollice della madre e l'altra di nuovo chiusa a pugno, magari a immaginare di stringere una spada luccicante al fianco del suo leggendario bisnonno.

 

Cesena sembrava essere stata stretta in un pugno invisibile, che aveva per dita Cesare Borja e tutti i suoi compari di avventura. Era quasi da una settimana, ormai, che nessuno poteva dirsi salvo dalla loro presenza e, allo stesso tempo, né le autorità della città, né il papa, né il re Francia sembravano curarsi di quello che capitava.

La cosa più innocua in cui potesse incorrere un cesenate, in quei giorni dal cielo grigio e dalla fitta nebbia serotina, era di imbattersi nel Valentino, mascherato come sempre, e scortato da un paio di scagnozzi che, ridendo sguaiatamente, agitavano il fango delle pozzanghere con dei bastoni appositamente modificati, per schizzare e imbrattare il prossimo.

Nei casi peggiori, invece, bisognava sperare che il Duca fosse in vena di lasciare in vita la preda con cui aveva deciso di divertirsi quel giorno.

In breve, in quella confusa baldoria che oscillava tra il carnevalesco e l'osceno, a Taddeo Della Volpe, Dionigi da Brisighella, Juan Cardona e Don Ugo di Mancanda, si erano aggiunti altri partecipanti: Marades, veterano degli eserciti di Granada, Cesare Spadari, alcuni Orsini e perfino Ercole Bentivoglio, reduce dalle accuse mosse dalla moglie, che lo dipingeva come colui che aveva cercato di venderne le grazie per denaro ai migliori offerenti.

Se molti di costoro in guerra erano tremendi, in tempo di pace sapevano essere dieci volte più devastanti, e, sotto le direttive del Borja la loro capacità di creare scompiglio si moltiplicava ulteriormente.

L'impunita, sicura e assicurata giorno per giorno dallo stesso Cesare, incoraggiava tutti loro a superare costantemente il limite già labile della licenziosità e della morale e per i cesenati quella che era cominciata come 'una breve visita del signor Duca' si stava trasformando in un incubo.

Ormai era ottobre e l'estate sembrava già un ricordo lontano. Le ore di luce erano meno e il tardo pomeriggio era già sera a tutti gli effetti. Con i brutti ceffi che si aggiravano per le vie di Cesena non era per nulla saggio farsi trovare in giro dopo il calare del sole.

Bona di Severo Pasolini lo sapeva molto bene, ma quel giorno non aveva potuto evitare di trovarsi ancora sulla via quando si era fatto buio. Si era trovata, senza rendersene conto, a imboccare delle viuzze anguste e deserte, nella speranza di fare più in fretta, senza dar abbastanza peso al pericolo che stava correndo.

Portava sotto al braccio un piccolo cesto, con le cose che aveva comprato per la famiglia e ogni suo passo pareva attutirsi fino a scomparire nell'attonito silenzio della sera cesenate. Da che il Borja era in città era sempre così: dopo il tramonto, quasi tutti si chiudevano in casa e nemmeno le locande, a volte, osavano restare aperte.

Bona avvertì il pericolo con qualche secondo di scarto. Era talmente concentrata a controllare che dalla traversa cui si stava avvinando non arrivasse nessuno, che non si rese conto in tempo delle due mani grandi e ruvide che la stavano afferrando per un braccio. Non ebbe nemmeno il tempo materiale di gridare, perché subito, mentre il cesto cadeva in terra, un'altra mano le tappò la bocca e altre dieci, o forse venti la tenevano ferma e poi la sollevavano di peso.

Prima che potesse realizzare ciò che stava accadendo, si trovò con l'abito strappato e la pelle già livida per la rudezza con cui era stata spogliata. Riuscì a intravedere poco, all'inizio, solo delle scale e poi una stanza buia, fredda. Sentiva il tavolo rigido sotto di sé, il legno che le graffiava la schiena, e poi la voce di alcuni uomini, tanti uomini, e la paura che la rendeva una statua immobile, mentre il suo corpo veniva usato senza remore.

Non c'era quasi luce, forse solo una torcia o una manciata di candele, ma anche se fossero stati alla luce del sole, la ragazza non avrebbe saputo distinguere nessuna delle molte facce che si trovava davanti, perché tutti indossavano una maschera.

Mentre un uomo nerboruto e non più giovanissimo la bloccava con il suo peso contro al tavolo, Bona cercò di gridare, ma tutto ciò che ottenne fu un pugno tanto forte che per qualche istante la stordì a tal punto da farle perdere i sensi.

Nella nebbia che aveva riempito la sua testa, fu una voce a farla tornare in parte presente a se stessa.

“Ma che fate?” stava chiedendo un giovane uomo, celato da una maschera che, con un singulto di terrore, la Pasolini riconobbe come il Duca Valentino: “Se le rovinate il viso, dovremo cercarcene un'altra... È la cosa più bella che ha...”

Per caso, o, meglio, per errore, la giovane guardò con troppa insistenza Cesare che, incrociando per un istante i suoi occhi terrorizzati, ebbe un solo attimo di smarrimento. Arrabbiato con se stesso per quella sensazione, che detestava, il Duca scosse con forza il capo. Si era sentito allo stesso modo un paio di volte, con la Tigre di Forlì, e aveva giurato a se stesso che mai più avrebbe avuto pietà o paura di una donna che decideva di far sua.

“Se anche dovete ucciderla – concesse alla fine – non toccatele più la faccia. Ma chiamatemi prima che sia morta, perché a me piacciono vive. E asciugatele quel sangue, quando sarà il mio turno non voglio vederlo...”

Qualcuno, con un gesto secco, strofinò uno straccio sul naso della giovane, che, in effetti, sanguinava copiosamente, rendendole anche difficile respirare. Il dolore, a quel tocco grossolano, fu tale e tanto che Bona svenne di nuovo, e questa volta per molto più tempo.

Quando finalmente la ragazza schiuse di nuovo gli occhi, capì all'istante che l'ordine del Borja era stato rispettato solo in parte. Non riusciva ad aprire un occhio e, per non vomitare, si trovò a sputare subito un grumo di sangue e un dente. Le doleva ogni singola fibra del suo corpo. Si sentiva dilaniata, insanguinata, spezzata, sporca, rotta...

Ci mise qualche minuto a orientarsi. Era ancora nella stanza buia e non era del tutto sola. Molti dei suoi aggressori erano andati via, ma una dozzina erano ancora lì. Dormivano tutti. Il tanfo era tremendo, e si avvertiva una spiccatissima nota vinosa, confermata dalla presenza di più di una caraffa vuota in terra.

Bona sapeva di essere in bilico, tra la vita e la morte, e sapeva che aveva una sola possibilità e doveva sfruttarla. Con immensa difficoltà si mise a sedere. Vomitò all'istante, ma riuscì a farlo in silenzio, riversando in egual misura sangue e acido sullo stesso tavolo su cui era stata torturata per quelle che dovevano essere state ore.

Era nuda, ma non le importava. Ci vedeva male e le girava la testa, ma doveva provare. Appoggiò i piedi in terra e dovette tenersi, per non cadere. Il dolore era così diffuso da sembrarle quasi inesistente. Cominciava a capire cosa provassero quei soldati che, feriti in più punti, riuscivano ancora a correre all'assalto.

Inciampò due volte, ma riuscì a non svegliare nessuno degli ubriachi. Salire le scale si dimostrò un'impresa titanica, ma, lasciandosi alle spalle una traccia densa di sangue, riuscì ad arrivare al livello della strada e da lì all'esterno.

Era ancora notte, ma il cielo aveva una sfumatura grigia tutta particolare, la stessa che aveva visto mille volte prima dell'alba, d'inverno.

Pensò di tornare a casa, ma la paura glielo impedì. Si vergognava e immaginava come i suoi familiari avrebbero reagito: cercando giustizia presso il Borja. Ne avrebbero ottenuto solo altro dolore e morte e lei non voleva.

Cadde e si rialzò, sputando ancora sangue. Il suo ventre era come una voragine e le sue gambe come due steli spezzati. Non c'era nessuno in giro, ma ne era felice: non voleva che nessuno la vedesse così.

Costeggiò i palazzi, affiancò le porte serrate, afferrò un sacco vuoto lasciato fuori da una bottega chiusa e poi, in un punto che conosceva bene, si avvicinò alle mura.

Non sapeva se sarebbe sopravvissuta, ma doveva provare. Con le ultime forze che aveva, salì sulle mura, usando una scaletta di legno mezza rotta e non più in uso da tempo, ma che lei sapeva arrivare fino in cima.

Giunta sui bastioni, prima che una delle sonnolente guardie la notasse, si buttò senza indugio giù, nel fossato.

L'impatto con l'acqua fredda quasi la uccise. Faticava a respirare, tossiva e il sacco che aveva portato con sé la impediva ancor di più nei movimenti. La limacciosità del fossato la rallentava e temeva di non riuscire ad arrivare alla riva.

E invece, nel buio che precedeva l'aurora, mentre davanti a lei si stagliava solo la nebbia e alle sue spalle la città in cui giurò che non sarebbe tornata mai più, tornò a respirare.

Si prese qualche secondo, ma poco, perché subito la paura che qualcuno la vedesse e la inseguisse la pungolò. Coprendosi come meglio poté con il sacco che aveva portato con sé e cominciò a camminare.

Sapeva dove voleva andare: Ravenna. Suo padre gliene aveva parlato tanto come di una terra fieramente veneziana, e dunque sapeva che lì avrebbe trovato asilo. Sapeva anche che strada imboccare e, mentre cominciava a far chiaro, la trovò.

Non sapeva come avrebbe fatto a raggiungere Ravenna, ma l'avrebbe fatto, avesse dovuto usare l'ultimo fiato che aveva. Sarebbe arrivata nuda e sporca, piena di sangue e con ancora il tanfo dei suoi aguzzini addosso, ma non le importava.

Mentre si trascinava avanti, incurante dei piedi che si graffiavano sulla ghiaia, si mise a ridere: era viva, ce l'aveva fatta, era salva e, se esisteva una giustizia divina, il Duca di Valentinois alla fine l'avrebbe pagata cara, mentre lei avrebbe avuto la vita lunga e lieta che lui, quella notte, aveva cercato di strapparle.

 

Caterina era già riuscita a incontrare Giovannino un paio di volte, e l'attesa per la terza visita notturna sembrava essere ancor più pesante delle precedenti.

Da un lato si stava trovando ad apprezzare il clima delle Murate, perché, nella semplicità del suo isolamento, il convento le dava l'impressione di essere l'equivalente di una piccola fortezza militare, praticamente inespugnabile ed enormemente distante dal mondo esterno. Un po' come era stata la rocca di Ravaldino, aveva delle regole tutte sue e ogni abitante le conosceva alla perfezione e non faceva nulla che andasse a turbare la metodica quiete che scandiva ogni giornata.

In tutta onestà, la Tigre non avrebbe mai creduto di trovare un andamento quasi militaresco in un convento, forse perché i racconti che aveva sentito arrivavano sempre e solo da congregazioni maschili. Le monache, forti della loro veste e della loro maggior razionalità, sembravano prendere la vita da religiose come una missione reale, checché molte di loro fossero finite tra quelle mura non per loro volontà.

In linea di massima, la Leonessa aveva cercato la solitudine, non avendo voglia di attirare gli sguardi incuriositi delle Murate, né di sforzarsi realmente di mettere in pratica i consigli di Suor Elena, che la volevano impegnata in una personale ricerca della salvezza tramite la riscoperta della preghiera e della meditazione. Il suo unico scopo, in quel soggiorno, era incontrare suo figlio. Il resto del tempo che doveva trascorrere lì era solo un incidente di percorso, il prezzo da pagare per avere ciò che voleva.

Passava dunque buona parte delle sue giornate nella sua cella, a sonnecchiare o a pensare, più raramente a leggere qualcosa – gli unici libri che le avevano prestato erano o di teologia o di filosofia e lei non aveva alcuna voglia di concentrarsi su tematiche tanto complesse – ma quella mattina la solitudine le stava facendo un brutto effetto.

Fuori piovigginava, c'era una luce plumbea che si filtrava pacata dalla piccola finestra. Caterina aveva trascorso una notte infernale cercando di riposare, ma riuscendo solo o a far incubi o a ripensare ad alcuni dei momenti peggiori della sua vita. L'alba era stata un'autentica consolazione, ma non era bastata a lenire del tutto la profonda angoscia che l'assillava.

Quando, dopo una brevissima colazione, si era trovata di nuovo sola con se stessa, stesa a letto immobile, non aveva più sopportato il rumore dei propri pensieri.

Aveva dapprima provato a muoversi un po' per la cella, e poi, sentendo le pareti sempre più strette e soffocanti, aveva deciso di provare a raggiungere le monache che, in quel momento, stavano pregando assieme in una delle cappelle.

Così, messasi in testa il velo scuro e leggero che le era stato pregato di indossare almeno quando si trovava nelle parti comuni del convento, la Sforza lasciò la sua cella e, a passo lento, ma deciso, andò verso il punto in cui sapeva che le Murate erano radunate in preghiera da quasi un'ora.

Arrivata alla cappella, la stupì il silenzio. Rimase un momento sulla porta, osservando le tante testa chine, coperte dalla stoffa nera e pesante con cui erano confezionate le tuniche delle monache. Si chiese cosa ci fosse, in tutte quelle menti e quanto forte potesse essere la loro preghiera. In un secondo di smarrimento, si chiese perché non urlassero quello che, invece, stavano solo pensando.

Come potevano essere certe che le loro invocazioni salissero fino a Dio?

Caterina guardò il crocifisso. Non le piaceva il modo in cui era stato intagliato, ma cercò di non soffermarsi sul valore artistico, ma sul significato profondo di quel simbolo.

Riuscì solo a farsi tornare in mente una vivida immagine di se stessa che, distrutta dalla rabbia e dal dolore, staccava a forza il crocifisso della chiesa di Mordano e inveiva contro di lui. Quella volta, anche se aveva gridato come una pazza, era certa che Dio non avesse ascoltato nemmeno la metà delle parole che le erano scivolate di bocca.

Strizzando gli occhi un paio di volte, per levarsi da davanti l'immagine delle donne di Mordano, immagine che spesso tornava a visitarla anche in sogno, Caterina mosse silenziosamente qualche passo e si andò a sedere in fondo alla cappella, lasciando tra sé e le monache una fila di panchette.

Solo un paio di loro si voltarono, avvertendo una nuova presenza, ma non diedero a vedere di essere sorprese di trovarla lì. In fin dei conti, la copertura ufficiale che Suor Elena aveva scelto, per poter tenere la Tigre al sicuro, era compatibile con la sua presenza a una sessione di preghiera. Per tutti, infatti, lei era lì solo ed esclusivamente per portare avanti degli esercizi spirituali che avevano avuto l'approvazione perfino della Santa Sede.

Così, non appena nessuno più si curò di lei, la Leonessa si abbandonò contro lo schienale e si mise a osservare le schiene delle monache, cercando di svuotare la mente.

Più le guardava, più le invidiava. In quel momento, ma non solo, le sembravano tranquille, sicure della loro vita. Perfino quelle che visibilmente la trovavano monotona e la percepivano come imposta, alla fine trovavano una sorta di rifugio nella fede.

Le invidiava tutte, profondamente.

Smossa forse dal clima di raccoglimento che c'era, o forse dalla stanchezza che l'aveva accompagnata in quei lunghi giorni, la Leonessa abbassò un po' la testa, si coprì meglio con il velo e, facendo del suo meglio per non emettere nessun rumore, si mise a piangere. Non singhiozzava, né si lamentava. Erano lacrime calde, dense e frequenti, ma il suo viso era impassibile.

Solo Suor Ubbidienza – arrivata solo in quel momento, perché impegnata, prima, con Cornelia – si accorse del suo pianto. Andò a sedersi accanto a lei, fingendo di non essersi accorta della sua condizione di difficoltà e, senza che Caterina potesse evitarlo, le prese una mano e gliela strinse, con forza, continuando a guardare fisso davanti a sé, verso il crocifisso.

La milanese sapeva che quella monaca stava pregando per lei, probabilmente stava chiedendo a Dio di aiutarla, in qualunque modo fosse a lui possibile. Quella certezza le diede una nuova forza e, da quel preciso istante, sentì come se un piccolo peso, tra i tanti che le schiacciavano l'anima, se ne fosse andato. Le lacrime continuavano a scendere, ma erano come acqua fresca, ora, capace di lavare via la lo strato più superficiale del suo malessere.

“Ci vuole tempo.” sussurrò Suor Ubbidienza, quando la sessione di preghiera finì: “Non richiudete lo spiraglio che avete aperto.”

Quel consiglio, detto con un placido sorriso, colpì molto la Sforza che, colta di sorpresa, mentre la monaca finalmente lasciava la sua mano, annuì: “Cercherò di fare come dite.”

 

Bianca stava leggendo, senza prestarvi troppa attenzione, un volume che aveva trovato nella scarna biblioteca della villa.

Fuori il clima era strano, come se stesse per scatenarsi un forte temporale, e pur essendo solo primo pomeriggio, era già venuto buio. Non faceva freddo, ma la ragazza aveva comunque chiesto di poter accendere uno dei camini e vi si era seduta davanti con il libro.

Sua madre era ancora alle Murate e, se aveva capito bene, non sarebbe tornata fino al giorno seguente. Tutto sommato in casa c'era una discreta tranquillità. L'unico che aveva dato qualche problema – a parte Bernardino, che era stato acciuffato da Galeazzo appena prima che provasse a scappare nei boschi per qualche bravata – era stato Ottaviano che, fattosi forte dell'assenza della Tigre, aveva provato ad avvicinare una delle serve senza che lei lo volesse.

Interpellato anche frate Lauro e Fortunati, che in quei giorni aveva raggiunto i figli della Leonessa a mo' di ulteriore difesa nei casi fosse successo qualcosa di particolare, si era deciso di tentare di tenerlo a freno con le buone, provando a parlargli. Come la Riario aveva previsto, non era stato possibile farlo ragionare e così, loro malgrado, Bossi e il piovano avevano fatto in modo di pagare una donna che calmasse i suoi bollenti spiriti, a patto che, per il ritorno della Sforza, si tornasse alla normalità.

Bianca aveva visto con disappunto quell'episodio, pur trovandosi d'accordo con gli altri di non dire nulla alla madre, una volta che fosse tornata. Si poi era chiesta, con una vena critica, se in fondo Ottaviano non avesse solo ereditato, anche se in maniera deviata, il sangue caldo della loro madre, lo stesso che aveva portato anche la stessa Bianca a passare sopra a molte remore e convenzioni, pur di ottenere ciò che desiderava intensamente.

Si stava rassicurando da sola sul fatto che tra lei e il fratello correva un'enorme differenza, ossia che lui, a differenza sua, aveva sempre preso senza curarsi che gli altri fossero d'accordo, quando Fortunati fece capolino nella sala e le disse: “Sono arrivati un paio di emissari francesi... Non li aspettavamo prima che tra un paio di giorni, ma...”

La Riario sentì subito il cuore schizzarle in gola, e, chiudendo immediatamente il libro che teneva in grembo, si alzò e chiese: “E chi sono?”

Francesco si accigliò, sorpreso da una simile reazione, ma rispose ugualmente: “Non ne ho idea, sono ancora troppo distanti... Probabilmente hanno mandato qualcuno di quelli che sta passando da Firenze per andare verso nord...”

Senza nemmeno ascoltarlo, la giovane lo ringraziò e gli passò accanto quasi correndo. Arrivata alla finestra più vicina che dava sulla facciata principale della villa, strizzò gli occhi per scorgere nella luce fioca e innaturale di quel pomeriggio d'ottobre chi fossero gli uomini che si stavano avvicinando a cavallo.

Forse si stava suggestionando, o forse aveva proprio ragione, ma uno di loro aveva i capelli di un biondo rossiccio inconfondibile e portava la barba un po' lunga, del medesimo colore. In un solo istante fu certa che Troilo avesse trovato il modo di tornare da lei.

Ricomponendosi in fretta, la Riario sentì Fortunati che parlava con Galeazzo, accorso per chiedere cosa stesse accadendo. Decise che non avrebbe dato mostra alcuna della sua felicità. Non voleva che qualcuno capisse qualcosa. Non subito, almeno, non finché lei per prima non fosse stata certa della solidità e del valore di quello che avrebbe potuto costruire con il De Rossi.

Con calma, mentre qualcuno apriva il portone, e si sentivano le voci di un francese e quella di Troilo, Bianca scese le scale e poi, arrivata all'ingresso, rimase un po' in disparte. L'emiliano la stava cercando con lo sguardo e quando finalmente la trovò, non riuscì a trattenere un sorriso.

Era bella come la ricordava, vivida come la immaginava ogni notte. In un primissimo momento rimase spiazzato nel vederla distante, ma poi capì. Gli bastò incrociare un solo istante il suo sguardo per sapere il perché di quell'apparente freddezza.

Assecondandola, realizzando quanto lei, seppur molto più giovane di lui, avesse ragione su tutta la linea, anche lui finse quasi di non notarla e si mise a parlare con il piovano.

In modo molto formale, per quel che restava del pomeriggio, Troilo e il francese che l'accompagnava fecero domande delle più svariate a Fortunati e anche a frate Lauro. A cena mangiarono assieme ai figli della Tigre, ma anche in quel caso i discorsi vennero quasi tutti pilotati da Francesco e da Bossi, che sembravano decisi a dare tutte le informazioni possibili ai due emissari di Luigi XII per far sì che il re difendesse appieno Caterina dall'aggressione che verosimilmente il cognato Lorenzo le aveva mosso, cercando di rapire Giovannino.

“Dunque – aveva detto con fare deciso il piovano, a fine cena – questo è quanto e vi chiediamo di riferire al più presto al vostro re. Anzi, se vorrete ripartire già domani, vi forniremo il necessario per...”

“Aspetteremo il ritorno di Madonna Sforza dai suoi esercizi spirituali.” lo interruppe il De Rossi, che non aveva la benché minima intenzione di ripartire subito: “Quando avremo discusso ampiamente la cosa con lei, decideremo il da farsi.”

Non potendo obbiettare ulteriormente, Francesco aveva chinato il capo e aveva addirittura ringraziato.

Quando, finito di mangiare, tutti si alzarono da tavola, senza farsi notare, Bianca si avvicinò un po' a Troilo e gli bisbigliò: “Vieni in camera mia, più tardi.”

Egli non diede a vedere di aver sentito, ma il modo impercettibile in cui aveva sollevato un sopracciglio rese sicura la Riario che il suo invito fosse giunto a destinazione e fosse stato accettato.

Così, con un'agitazione che le scaldava l'anima, la giovane andò in fretta nella sua stanza e si mise ad aspettare. Non si cambiò d'abito, né si guardò allo specchio. Era tutta un fremito, così nervosa da non riuscire a far altro che chiedersi cosa si sarebbero detti o come si sarebbero riabbracciati.

Alternava momenti in cui era certa che la passione li avrebbe di nuovo travolti, a momenti in cui si immaginava Troilo distaccato e ironico, intento a spiegarle che il loro primo incontro furtivo era stato solo un passatempo. Nella peggiore delle ipotesi, si vedeva a passare la notte intera in sua attesa senza vederlo arrivare.

Quando la porta si aprì e si richiuse in un lampo, la ragazza stava ancora passando in rassegna la sua stanza, un passo alla volta, le mani allacciate dietro la schiena e l'anima immersa in un pelago limaccioso di dubbi.

Troilo rimase un istante immobile a fissarla. Alla luce delle candele la splendida donna che gli stava dinnanzi gli sembrava una divinità fatta di carne e sangue. Poteva quasi avvertirne, anche a distanza, il calore e il palpito.

Bianca, che avrebbe compiuto vent'anni alla fine del mese, ricambiò l'occhiata, ritrovando in lui l'uomo solido e robusto per cui aveva provato fin da subito un'innata attrazione. Le sue gambe lunghe e snelle e la sua postura altera la soggiogarono una volta di più, e così non riuscì a resistere, quando lui mosse un paio di passi in sua direzione e la strinse a sé per baciarla.

Ritrovarsi di nuovo a quel modo, con i loro corpi che già si desideravano a vicenda e le loro labbra che faticavano ad allontanarsi le une dalle altre, spense per qualche minuto la coscienza di entrambi.

Solo quando fu in grado di tornare a formulare un pensiero sensato il De Rossi domandò: “Tuo fratello sta bene?”

“Giovannino?” fece Bianca, deglutendo: “Sì.”

“Dov'è?” indagò lui, trattenendosi a fatica dal lasciar perdere quelle richieste e tornare a baciarla.

“Non posso dirtelo.” rispose lei, ben sapendo, tramite l'esperienza filtrata di sua madre, che certe cose era bene non dirle a nessuno, nemmeno all'uomo che si amava.

“Dimmi solo se rischio la vita a dire al re che sta bene ed è al sicuro...” cedette subito lui, senza provare a estorcerle l'informazione che più di tutte era stato inviato a cercare.

“Posso solo dirti che è al sicuro e che sta bene.” ribatté la giovane, puntando i suoi occhi blu in quelli color miele dell'emiliano.

“Va bene.” sussurrò lui e riprese subito a baciarla.

La Riario aveva la mente del tutto spenta. Si muoveva senza che avesse davvero il controllo del suo corpo. Non le era mai successo di provare un trasporto simile per qualcuno. Anche se Troilo non era stato il suo primo uomo, in un certo senso era come se lo fosse. Chi l'aveva preceduto era stato solo una pallida ombra di quello che era lui.

Mentre l'uomo cominciava a spogliarla, in risposta all'iniziativa di lei, che, con le mani rese veloci dal desiderio, gli aveva già tolto il giubbone e il camicione, la Riario si rese conto per la prima volta in modo concreto di quanto la sua assenza le fosse pesata, di come il vuoto che lui aveva lasciato l'avesse provata in quelle settimane. Il malessere quasi fisico che aveva provato ogni notte, l'apatia delle sue giornate e l'irrequietezza delle lunghe sere di inizio autunno... Ora ne capiva appieno il motivo.

Troilo, invece, stringendola e scoprendola, afferrando con le sue mani forti le sue cosce, i glutei e il seno, si domandava, istupidito, come avesse potuto perdere a tal punto la testa per una donna così tanto più giovane di lui, quando, invece, aveva sempre e solo guardato le sue coetanee, trovando quasi immorali gli uomini che, a quarant'anni, cercavano la compagnia di una ventenne.

Bianca gli aveva confuso l'animo e il corpo, gli era passata dentro come una tempesta, lo aveva rivoltato e sradicato e alla fine l'aveva portato a fare quello che di norma non avrebbe mai fatto, arrivando anche a trascurare la sua carriera e il suo Stato appena ritrovato, pur di poter tornare da lei.

“Non mi sono mai sentito così – le confessò, mentre si insinuava tra le sue cosce, sopra le coperte ancora perfettamente risvoltate del letto – senza di te è come se mi mancasse l'aria...”

Bianca trattenne un sospiro di appagamento, aggrappandosi con voracità alla sua schiena incurante di lasciare sulla sua pelle i segni qualche graffio, e gli sussurrò all'orecchio: “Ti amo.”

 

   
 
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