Il paraninfo degli ultimi
Mio
fratello è figlio unico
Deriso, frustrato, picchiato, derubato
E ti amo Mario
Mio fratello è figlio unico
Dimagrito, declassato, sottomesso, disgregato
E ti amo Mario
Mio fratello è figlio unico
Frustato, frustrato, derubato, sottomesso
E ti amo Mario
Rino Gaetano, Mio fratello è figlio
unico
Un racconto sul riscatto dei
dimenticati
Era pensiero comune credere che la pioggia sovrannaturale che
investiva le anime della parte buona dell’oltretomba fosse la sublimazione
delle lacrime dei vivi per i cari perduti. Quando il fenomeno si presentava,
chi aveva ottenuto il permesso di valicare le porte del paradiso faceva due
cose: ripararsi nella comodità delle proprie case o fermarsi, ovunque si fosse,
per lasciare che l’acqua mondasse la proiezione psichica della pelle, dei
vestiti, dei brividi di freddo che ricordavano che una volta si era vivi.
Tutti, però, avevano l’obbligo di rispettare una regola fondamentale: ci si
fermava per pensare a chi stesse soffrendo laggiù e si ringraziava in silenzio
per il ricordo che univa i due mondi.
Narancia era uno di quelli che adorava quando pioveva. Quando le nuvole avanzavano
e l’odore ferroso dell’umidità si faceva sempre più pungente, si sedeva sul
gradino del marciapiede accanto alla fermata dell’autobus e, mento sui palmi
aperti, amava immaginare che quelle gocce fossero dedicate a lui e alla mamma. Anche
se l’assenza temporanea di luce gli metteva addosso una gran mestizia, la
pioggia rimaneva la sua cosa preferita assieme ai pavoni¹ che gironzolavano
attorno al giardino di Mitra – o di Dioniso, come aveva sentito dire una volta
dall’anima di un partigiano. Provava come un miscuglio di sensazioni che gli
facevano provare una malinconia che, dopo, lo facevano stare bene, perché gli
piaceva credere di sentirsi amato da chi aveva lasciato indietro a invecchiare,
ed era la stessa sensazione che avvertiva quando ammirava il groppone di un
pavone sollevarsi per mostrare alle femmine i tanti occhi della sua ruota,
perché gli ricordavano che i suoi, di occhi, e quelli di sua madre, non glieli
potevano togliere più.
Se ne stava quindi all’addiaccio, i vestiti inzuppati e i rumori delle bizze
degli spiriti più turbolenti, provenienti dal ristorante dall’altra parte della
strada, attutiti dal ticchettare dell’acqua sul basolato. Non era raro che in
quel locale volasse un bicchiere con ancora il whisky dentro o una bottiglia di
vino, chiunque giungesse al capolinea a bordo di un autobus era stato un’anima
buona che aveva visto solo, o quasi, brutture, e quindi un po’ di quelle
brutture se le portava addosso almeno per un certo periodo, giusto il tempo di
abituarsi alla beatitudine della bellezza. Fino ad allora li si vedeva
bazzicare nel tratto di aldilà più terreno, l’unico luogo in cui giorno e notte
si alternavano come nel mondo dei viventi, senza immischiarsi negli affari degli
altri, quelli buoni e giusti, perché convinti di non meritare ancora il bene.
Si riconoscevano perché tenevano gli occhi bassi, parlavano solo tra di loro e
si ubriacavano da mane a sera pensando di essere vittime di uno scherzo, e lui
era uno di quei loro nonostante avesse prematuramente mosso i primi timidi
passi nei giardini sconfinati dell’eden assieme ai suoi compagni per vedere che
effetto faceva camminare in mezzo ai “giusti”; una volta aveva persino tentato
di offrire della birra salernitana che gli era stata donata dagli amici di
laggiù alle anime che gli avevano offerto una coppa di ciliegie in segno di
benvenuto: approfittando della loro assenza momentanea aveva abbandonato
l’arancio di sua proprietà nel campo dei caduti e aveva lasciato una bottiglia
di alcolico ai piedi del ciliegio decorato con l’ankh, per poi fuggire via
terrorizzato. Per quel gesto si era beccato del cretino da Abbacchio e gli
occhi al cielo di Bucciarati, ma lui aveva avuto la cazzimma di
rimproverare a entrambi che almeno lui aveva portato a termine la missione di
far conoscere una specialità italiana a degli stranieri, i quali avevano
dimostrato gratitudine facendogli recapitare un biglietto di ringraziamenti
scritto in quattro lingue: merci
beaucoup, shukraan jazilaan, arigato gozaimasu e grazie
mille. Il biglietto, adesso, era al sicuro dentro un quadro appeso nella
sua cameretta e ogni volta che ne aveva l’occasione non mancava di ricordare a
tutti che quello era suo, suo e di nessun altro, perché quando lo guardava si
sentiva un bravo guaglione. Non lo volevano ammettere, ma gli altri due avevano
paura di quell’albero e delle persone che riposavano sotto le sue fronde, forse
perché con alcuni condividevano la perdita dei poteri stand o perché avevano
visto un altro scugnizzo prendersi a scazzottate amichevoli col proprietario
del ciliegio – salvo poi beccarli a ronfare della grossa all’ombra di un
salice, insieme, come fratelli, esausti e sporchi di fango – o perché gli era
stato raccontato che il cagnetto tremendo che una volta aveva rubato un fermaglio
di Bucciarati da vivo era capace di evocare tempeste di sabbia o perché si
erano fatti l’idea che quelle fossero brave persone che con loro non dovevano
avere niente di che spartire… O forse perché non riuscivano a sopportare la
sensazione che esistesse un legame che li univa, qualcosa di talmente forte e
incomprensibile che persino lo stesso Bucciarati si era messo a tremare come
una foglia quando la ragazza con gli orecchini a forma di ciliegia si era
avvicinata a lui e gli aveva chiesto di portare con sé Coco Jumbo: lui, così
come Abbacchio e Narancia, non aveva detto niente, l’aveva solo guardata
prendere la tartaruga tra le braccia come si fa con un neonato e aveva chinato
il capo in risposta al suo graziè. Anche quello rimaneva un mistero, ma
tutti e tre avevano pensato che fosse corretto che la tartaruga vivesse la sua
eternità con la ragazza del ciliegio, quello era il soprannome che i tre le
avevano appioppato.
Mentre pensava a quelle e ad altre cose belle e meno belle, Narancia non si
accorse che la pioggia era cessata. Gli ci volle che una mano gli sventolasse
un cartoncino sulla faccia per riscuoterlo dal mulinello in cui stava facendo
annegare il cervello.
«Uè, Nara’!»
«Uè, sbirro».
Era l’ex collega di Abbacchio. Uno dei “giusti” che frequentava assiduamente
quel pezzo di paradiso perché amava ricercare la verità dietro le condotte dei
lanciatori di bottiglie sui marciapiedi: un passatempo, come lo definiva
Narancia, tra i più bizzarri che si potessero praticare.
«Ci sta un avviso di giacenza a nome tuo, vai a vedere cosa ti hanno portato da
giù» gli disse il poliziotto porgendogli il documento «i tuoi compari stanno
già là, quindi sarà sicuramente un regalo di gruppo»
«Ma non è presto per il due novembre?» chiese Narancia sorpreso di leggere la
data di spedizione dell’ordine «Dieci ottobre duemiladieci? Me n’agg a me,
ma quanto tempo è passato?»
«Nara’, qua di tempo non ce n’è perché è una cosa dei vivi, vai a pigliarti sto
pacco e non ci pensare, va bene?» quello gli posò una mano sulla spalla con
tanto di strizzata d’occhi «io torno al ristorante, hanno messo vicine due
tavolate piene così di pisani e livornesi e non vorrei che sfasciassero i
tavoli con tutti i piatti. Ci si becca in giro eh?»
«Ovvio, e grazie!» esclamò Narancia guardandolo allontanarsi per tornare al
proprio dovere.
«Boh, altra birra? Se è così non dico di no» pensò a voce alta, infilandosi in
un vicolo lunghissimo ma anche molto breve che portava direttamente all’ufficio
postale.
Ebbene sì, esisteva la proiezione spirituale di un ufficio postale, che
dall’esterno era uguale agli uffici postali di laggiù, ma senza impiegati né
postini e senza nemmeno un’insegna indicante che quello era un ufficio postale.
Semplicemente i pacchi arrivavano a destinazione e se non si era in casa un
conoscente ti faceva avere l’avviso di giacenza. In parole povere, una figata.
Varcata quindi la soglia si imbatté in un nugolo di suore intente a
spacchettare allegramente dei fiorellini di campagna che lo salutarono
sorridenti e gioiose, alle quali Narancia ricambiò imbarazzato: non si era del
tutto abituato alla gentilezza genuina che gli riservava chi non conosceva.
In quel momento in ufficio, che era immensamente grande ma anche immensamente
piccolo, c’erano solo le suore e, più in là, due giovinastri in abiti firmati
impegnati a raccogliere una generosa quantità di bianco e verde da un rullo
trasportatore fermo.
«Narancia, stai di nuovo fradicio» fu la prima frase che gli grugnì Abbacchio con le mani occupate da
zagare e rose bianche².
«Ma…
sti fiori?» domandò Narancia perplesso «Chi ce li manda?».
A differenza di Abbacchio, Bucciarati sfoggiava un sorriso tenerissimo nel
leggere i nomi dei mittenti sul cartellino.
«Tieni» gli disse soltanto, indicandogli i fiori a lui destinati.
Narancia eseguì: su un pezzo di carta bianco decorato con laminature argento
era scritto un invito di partecipazione di nozze, ma la vera sorpresa fu
scoprire i cognomi dei novelli sposi.
«Guido e Trish si sposano, Guido e Trish si sposanooo!» non appena ebbe
decifrato i caratteri eleganti stampati nell’invito Narancia saltò come un
grillo e improvvisò un balletto in mezzo ai pacchi da smistare, facendo
scaturire nelle suore le risate divertite e le congratulazioni per la lieta
nuova.
Nell’assistere a quella scenetta, la faccia di Abbacchio si fece ancora più
stranizzata.
«Grazie signore, grazie!» Narancia rivolse alle religiose un inchino
esageratamente profondo che costrinse Bucciarati a coprirsi il volto paonazzo
con entrambe le mani. In realtà si stava trattenendo dal ridere in faccia ad
Abbacchio, e ciò non faceva altro che rendere la scena ancora più comica.
«Jamme ja’, andiamo a piantare sti fiori, dai!» esclamò Narancia tirando
le maniche dei due compari «Forza!»
«Aspetta un attimo… Oddio» Bucciarati fece un paio di respiri a narici dilatate
per controllarsi «C’è una rosa di questo mazzo che non ci appartiene, è in
mezzo a quei girasoli».
Narancia inclinò la testa da un lato.
«Eh?»
«Uno che non conosciamo ma che sarà stato sepolto vicino a noi…» Bucciarati
lesse il nome del destinatario della rosa bianca solitaria sul cartellino
«Zeppeli? Ci hanno messo vicino agli Zeppeli? La cappella che sembra un tempio
greco?»
«Non mi dire che…» Abbacchio parve riscuotersi dalla trance della quale era
caduto vittima e divenne, guarda un po’ che novità, torvo «se è chi penso io
fate finta che m’hanno buttato nella fossa comune, io con quel Marcantonio non
ci parlo… No anzi, chiamatemi quando si fa pestare di nuovo di botte dal
giapponese»
«E perché scusa?» domandò Narancia.
«Perché» Abbacchio incrociò le braccia e piegò le labbra in una smorfia «fa
troppo rumore e attacca bottone facilmente».
Narancia stava per ribattere che non vedeva cosa ci
fosse di negativo in quelle due azioni, ma il suo tentativo di convincimento
venne subissato da un altro saluto, più caloroso di quello ricevuto da lui, che
le suore stavano riservando al nuovo arrivato, il quale non aveva perso tempo a
rispondere con altrettanto calore e una buona dose di ruffianeria.
«Fanculo» borbottò a denti stretti Abbacchio.
Il nuovo arrivato era nientemeno che l’ultima anima sulla faccia del paradiso
che il musone dei tre voleva incontrare, figurarsi conoscere.
«Buongiorno!» squillò il Marcantonio biondo allargando le braccia e affettando
un sorriso compiacente «un uccellino mi ha detto che c’è un regalo per me».
Senza attendere che il terzetto si scomponesse raccolse la rosa e i girasoli e
lesse il biglietto col suo nome.
«Anche da morto le donne mi desiderano» gettò il capo all’indietro con fare
teatrale, suscitando i sospiri delle suore più giovani, e si ravvivò la chioma
ondulata «È una vostra amica? Siete fortunati»
«Ciao, io sono Narancia!» il più giovane si avvicinò a quel ragazzone vanesio
porgendogli la mano «Alla mia destra c’è Bucciarati, mentre quello che brontola
sempre è Abbacchio, e Trish è una nostra amica»
«Piacere mio» il Marcantonio gliela strinse con vigore «io sono Caesar, era ora
che venissi a sapere i vostri nomi… Non ve la fate tanto lontano dal quartiere
del guazzabuglio, suppongo siate qui da poco»
«Molto poco» Bucciarati seguitò a stringergli la mano «non immaginavamo che
questo posto fosse così movimentato»
«Meravigliosamente movimentato» aggiunse Caesar «mi ricordate un sacco me
quando sono arrivato io, allora al posto dell’autobus c’era un calesse»
«Sì sì, molto belli i calessi» anche Abbacchio gli strinse la mano, o per
meglio dire cercò di stritolargliela «piacere di conoscerti, gli smeraldi sono
le mie pietre preziose preferite»
«Gli zaffiri arancioni sono più belli» Caesar sostenne lo sguardo di ghiaccio
del suo provocatore senza timore alcuno «spero di vederti più rilassato in
futuro, ricordati che abbiamo l’eternità davanti»
«Lo tengo a mente» rispose Abbacchio che, incontrati gli occhi affilati di
Bucciarati, decise di mettere un freno alla lingua.
«Se siete d’accordo, tengo a piantare questa splendida rosa e i girasoli donati
dal mio carissimo amico nel campo dei caduti. Mi fate compagnia?»
«Sì sì sì! Mi piace piantare i fiori nel campo dei caduti! Andiamo?» fece Narancia
agli altri due, che risposero non verbalmente in maniere del tutto opposte:
Bucciarati accennando un sorriso di contentezza più un “sì” mimato con il capo,
Abbacchio come se gli avessero detto che doveva infilarsi un bastone su per le
terga.
«Molto bene!» Caesar sembrò non accorgersi della faccia disgustata di Abbacchio
e indicò l’uscita sul retro, proprio dietro ai rulli «Prego, dopo di voi».
Con la coda dell’occhio, Narancia percepì il disagio di Abbacchio farsi sempre
più evidente. Lo aveva visto voltarsi verso l’ingresso principale quasi a voler
fuggire da lì piantando gli altri e fiori e non ne capiva il motivo.
Ma, forse, qualcun altro sì.
«Vedo che il vostro amico è più reattivo di voi, entusiasmo, dai!» fu proprio
Caesar ad afferrare le spalle di Abbacchio e condurlo verso la porta sul retro
con un ghigno malefico – o era meglio dire serafico? «Paura dei pavoni?».
Abbacchio non rispose, ma la fronte imperlata di sudore lo faceva per lui.
Dal canto suo, Bucciarati aveva deglutito piuttosto rumorosamente. Anche lui
sembrava provare eccitazione per qualcosa, ma cercava di non darlo a vedere con
risultati non proprio eccelsi.
Una volta varcata e richiusa l’uscita sul retro, sia l’ufficio che il resto
della cittadina scomparvero del tutto, lasciando il posto al sole lattiginoso,
al prato verde e ai pavoni che gironzolavano attorno ai muri di viti del
giardino di Mitra.
«Fanculo» ripeté Abbacchio a denti stretti.
Anche se era entrato solo una volta in quello che chiamavano erroneamente
giardino assieme alla mamma, a Narancia piaceva da matti l’aura di mistero che
emanava, perché potevi entrarci solo se avevi qualcosa da confessare o un
sentimento da esternare a una o più persone a te affezionate. Tuttavia, trovava
difficile capire perché Abbacchio lo odiasse così tanto.
All’ingresso del giardino di Mitra erano state piantate le proiezioni psichiche
di due roseti coi boccioli chiusi; qualche volta era possibile imbattersi in un
carro dorato trainato da colombe bianche³ nei pressi di quel luogo, ma questo
era un racconto che aveva ascoltato distrattamente da alcune coppie di
innamorati, per cui, per quanto lo riguardava, poteva trattarsi di una balla.
Comunque fosse, c’era Abbacchio che guardava terrorizzato i roseti, c’era
Bucciarati che guardava Abbacchio come se stesse pendendo dalle sue labbra,
c’era Narancia confuso e c’era Caesar con sempre quel sorriso stampato sulla
faccia. Infine c’erano i pavoni che facevano i pavoni.
«Io… non…» Abbacchio, come folgorato da una visione, guardò gli altri tre come
ad aspettarsi di sentirsi dare del pazzo «Non credo che verrò con voi. Questi
li pianto dopo perché devo… devo capire da dove viene quella biga con le
colombe».
E così dicendo indicò un punto privo di qualsiasi biga poco distante dai
roseti.
«Io non vedo niente» si affrettò a dire Narancia «stai bene, vero?»
«Se vuoi ti dico una balla e rispondo di sì… Fanculo» stavolta il sudore si era
esteso al resto del viso e al collo «bene, sono l’unico a vederla, molto bene»
«Io la vedo» disse a un tratto Bucciarati «e ci sono anche undici colombe»⁴
«Molto bene» ripeté Abbacchio guardandosi le scarpe «e ora?»
«Vuoi entrare?» lo precedette Bucciarati. C’era un che di enigmatico nella sua
domanda.
Abbacchio sollevò il capo per guardarlo: al sudore si era aggiunta la congestione
alle guance. Strinse a sé i fiori come se potessero proteggerlo da ciò che
implicava tal quesito, poi li abbassò di nuovo, e con essi il capo, e, senza
dire niente, si incamminò lentamente verso l’apertura del labirinto.
«Penso che lo seguirò» disse Bucciarati senza staccare gli occhi di dosso dalla
figura vestita di nero che si allontanava da loro.
«Aspetta, che vuol dire… ehi!» Narancia prese a protestare dinnanzi a quel
comportamento per niente da loro, ma Caesar ebbe la prontezza di tappagli la
bocca con una mano e di invitarlo a osservare i roseti con l’indice dell’altra.
Abbacchio si era fermato all’ingresso, accanto al roseto di sinistra che, al
suo passaggio, aveva dischiuso i boccioli per rivelare un tripudio di rose
color pesca⁵, e lo stesso fece quello di destra non appena Bucciarati lo ebbe
raggiunto. Narancia li vide contemplare per un istante infinitamente lungo quel
fenomeno che comunicava più di quanto i diretti interessati avrebbero voluto e
poi sparirono dietro l’angolo, facendo sì che i roseti ritrasformassero le rose
in boccioli.
«Finalmente quei due ce li siamo tolti dai piedi» pronunziò Caesar liberando
Narancia dall’impaccio «fidati, quando usciranno saranno molto più loquaci»
«No no, senti, aspetta un attimo» boccheggiò Narancia «se io e la mamma abbiamo
ottenuto le rose rosa⁶ e Bucciarati e Abbacchio hanno ottenuto quelle altre,
cosa vuol dire?»
«Facciamo che te lo diranno i diretti interessati» Caesar fece spallucce e
inarcò le sopracciglia col fare di chi se ne intendeva di certe questioni
«quando qualcuno non si è ancora lasciato andare vuol dire che non è entrato
nel giardino di Mitra con la persona giusta… Quando ci sono entrato con i miei
genitori e la mia maestra anche a me sono saltate fuori le rose rosa, ma quelle
pesca le vedo per la prima volta. In ogni caso non spaventarti» gli rivolse una
pacca sulla schiena e un altro sorriso, stavolta senza traccia alcuna di
malizia «non mordo mica».
Narancia guardò sia i roseti che Caesar: il fatto che Abbacchio e Bucciarati
avessero qualcosa in sospeso da confessarsi lo rendeva nervoso perché sia da
vivi che da spiriti non avevano mai lanciato dei segnali a riguardo, e
immaginava che, probabilmente, se fossero sopravvissuti sarebbero rimasti in
quella situazione di stallo finché fossero campati.
«Lo so, però è brutto dirsi certe cose senza più un corpo»
«Guardala sotto un altro punto di vista: adesso che siamo tutti senza vincoli
possiamo finalmente liberarci dalle nostre catene. Sembrerà strano detto in
questo contesto, ma quello che amo di più del posto in cui siamo è che niente e
nessuno ti costringe a fare quello che non vuoi. Era destino che prima o poi
sarebbero entrati nel giardino di Mitra»
«Se lo dici tu…» Narancia lanciò un’ultima occhiata ai roseti «Io penso che…
loro sono delle brave persone, qualunque cosa si diranno spero che saranno
felici, perché se lo meritano»
«Non lo metto in dubbio, altrimenti non avrebbero varcato quella soglia e le
rose non sarebbero sbocciate» Caesar si era già mosso lontano dal labirinto,
verso il campo dei caduti «Andiamo?»
«Mh» Narancia lo seguì senza altre esitazioni, per la prima volta avrebbe
piantato dei fiori in compagnia di uno spirito sconosciuto «anche tu eri un
criminale?»
«Una specie. La rabbia in corpo era talmente tanta che persino la mafia mi
stava alla larga… Alcuni dei tipacci che ho ammazzato me li sono ritrovati
qua».
A quell’affermazione Narancia spalancò la bocca.
«E tu cos’hai fatto?»
«Quello che fanno tutti gli spiriti dei criminali quando conoscono l’eternità:
si picchiano fino a quando capiscono che non ha senso continuare a odiare.
Alcune volte arriva altra gente come vigili del fuoco, sacerdoti e persino
maestre d’asilo a cercare di sedare le liti e si finisce per fare pace. Una sera
la mia maestra mi ha spaccato una padella in testa e sono svenuto sul bancone
degli alcolici, non ne poteva più di vedermi attaccare briga con gli altri… Ma
parlami di quei fiori» Caesar cambiò repentinamente argomento e fece un cenno
col mento al mazzo bianco tenuto all’ingiù dal suo nuovo conoscente.
«Ah, questi» Narancia li sollevò per annusarne il profumo delicato «due amici
che si sposano e che sono venuti a trovarci per ringraziarci. La sposa… suo
padre ha cercato di ammazzarla perché teneva più al suo potere che al suo
stesso sangue, così la mia banda si è ribellata e alcuni non ce l’hanno fatta…
Quindi eccomi qua».
Mentre Narancia parlava stavano già attraversando il sentiero che li avrebbe
condotti a destinazione: la monocromia dell’erbetta si stava diradando per fare
posto alla disomogeneità della flora di proprietà dei defunti. Le piante
appartenenti ai morti di morte violenta si riconoscevano a occhio perché erano
le più rigogliose e vivide, e perché conferivano al paesaggio tanto suggestivo
quanto straniante caratteristiche macchie di colore vivace in mezzo alla
tenuità del resto della distesa.
«Siete dei coraggiosi, si vede dalle vostre facce che la vita non è stata
gentile con voi» Caesar uscì dal sentiero e deviò a destra, dove alcuni metri –
o alcuni chilometri – più in là spiccava gagliardo un fazzoletto di terra
occupato da altri girasoli «quelli me li hanno portati due amici e la maestra,
quando era ancora viva… ho combattuto con un avversario più forte di me per
salvare l’onore della mia famiglia e la vita del mio amico, quindi eccomi qua
anch’io. Quando piove mi ci siedo in mezzo e penso ai suoi figli… Adesso lo
scemo è diventato pure bisnonno… lo so, sono uno di quelli che sbircia nella
vita di chi è rimasto laggiù, sono un impiccione!».
Caesar liberò i fiori dall’involucro e si accovacciò per piantarli: alla base
recisa degli steli crebbero delle radici che attecchirono subito al terreno.
«Alcune delle persone che sono venute qua le conoscevo già grazie al mio
ficcanasare negli affari dei vivi. Comunque non so se sai di questa teoria
secondo la quale le anime che hanno un legame particolare sono destinate a
incontrarsi; quando accade è come se le conoscessi da sempre anche se non sai
niente di loro. Ti è successo?».
Narancia non aveva bisogno di pensarci perché quella sensazione la conosceva
troppo bene, e a dire il vero la stava provando proprio il quel momento.
«Sì, è strano… In realtà la provo spesso, ad esempio quando il cane del
ciliegio cerca di rubarmi la fascia dai capelli o una scarpa, non so perché lo
faccia ma non ho mai avuto il coraggio di chiederlo ai suoi padroni»
«Iggy non ha padroni» quando Caesar ebbe finito di piantare tutti i girasoli e
la rosa, che aveva messo davanti, in bella vista, per non farla sfigurare
tra i petali gialli, si sedette a gambe incrociate in mezzo al suo campetto
personale con un sorriso soddisfatto «ha un caratteraccio, ma anche lui si è
meritato il suo posto tra i buoni»
«Sì ma io non ho ancora capito cosa c’entro con te o con le persone del
ciliegio» gli disse Narancia incrociando le gambe accanto a Caesar. Neanche a
farlo apposta, proprio il ciliegio rimaneva ben visibile anche da quella
posizione così come l’arancio vicino al quale avrebbe piantato le rose «cosa
c’entro con loro? Perché devo averci a che fare? Cioè, io vorrei ma non ne
capisco il motivo»
«Ti credo…» Caesar trasse un sospiro profondo «Da quando quell’albero è stato
piantato piove più spesso del solito, anche se non le ho contate avrò visto
passare almeno una cinquantina di anime sotto quei rami. Quando avrai il
coraggio di farti avanti e parlargli lo scoprirai esattamente come stiamo
facendo adesso noi due. Al che dirai: “perché non vengono loro a presentarsi?”;
domanda più che legittima, ma nessuno vuole recare imbarazzo agli altri, quindi
fanno quello che facciamo tutti: aspettano il momento propizio. Il tempo non
esiste più, ma le nostre anime, i nostri sentimenti, quelli ci sono ancora e
vanno rispettati, e questo vale anche per i tuoi compari che abbiamo lasciato
nel giardino di Mitra. A proposito, sapevi che puoi cambiare aspetto e
ringiovanirti o invecchiarti come ti pare e piace?» aggiunse subito dopo «Quando
il mio amico verrà qui lo saluterò travestendomi da vecchio bacucco per
confonderlo, non vedo l’ora di godermi la scena»
«Mh, hai ragione tranne sull’ultima parte, non voglio diventare vecchio»
considerò Narancia osservando gli spiriti stazionati sotto il ciliegio, il più
bello che avesse mai visto prima d’ora. Se aguzzava le orecchie riusciva a sentire
le loro risate riempire l’aria immobile.
«Mi domando» riprese sovrappensiero abbassando il capo «questa risata, io la
conosco. È della ragazza che ha preso la nostra tartaruga… chi ha potuto farle
del male?».
Caesar sospirò di nuovo, ma stavolta era un sospiro greve.
«Ci sono tante anime che piuttosto che stare qui a non fare niente dovrebbero
innamorarsi di persone vere, costruirsi una vita, una famiglia, invecchiare, ma
non sempre è così. Perlomeno la sofferenza non le toccherà più, ma non so
quanto questo possa consolare i parenti rimasti laggiù a piangerli…
L’importante è non avere rimpianti. Tu ti penti delle azioni che hai
commesso?».
Narancia scosse energicamente la testa.
«Assolutamente no, io sono qui per questi fiori, questi fiori significano tutto
per me!».
Lo disse con una tale convinzione che Caesar si drizzò a sedere e gli applaudì.
«È questo lo spirito giusto!» dopo di che, scrutò
anch’egli il ciliegio con gli occhi ridotti a fessure.
«Ah, Cherry, se solo non avessi dei pessimi gusti in fatto di uomini» cinguettò
d’un tratto cambiando totalmente tono di voce.
«Si chiama Cherry?» domandò Narancia.
«Sì, e il suo nome celestiale rispecchia la bellezza delle sue iridi» Caesar si
porto le mani alle guance con fare sognante «ma non provarci neanche!» scattò,
cambiando tono per la seconda volta, facendo trasalire Narancia «sta già con
qualcun altro… Rose blu⁷, le più rare in assoluto, ed è colpa di quello lì! Ah,
maledetti giapponesi! Con la vostra cortesia innata, la vostra gentilezza, il vostro
spirito di sacrificio e i vostri ciuffi fluenti! Come può una ragazza come
Cherry lasciarsi ammaliare da voi?».
Narancia pensò alle parole che aveva appena ascoltato e, mentre stava per
ribattere che non vedeva cosa ci fosse di negativo in quelle quattro qualità, un
giubilo improvviso si era levato proprio dal ciliegio distogliendo i due
ragazzi da quella conversazione alquanto strana.
«Hai sentito?» Narancia si mise in piedi e osservò la scena: sembrava che altre
anime si fossero aggiunte a quelle che c’erano già prima e che si stessero
abbracciando come se si conoscessero da sempre.
«Ah, però, è arrivata gente» anche Caesar si era alzato «Iggy deve aver rubato un
oggetto a qualcuno di importante per far fare a loro tutto quel chiasso».
La quasi dozzina rumorosa delle anime del ciliegio stava lasciando le piante,
apparentemente diretta verso il centro abitato: una di loro si staccò dal
gruppo e si avvicinò ai girasoli. Aveva le maniche della camicia arrotolate fino
ai gomiti, i pantaloni stropicciati e un improponibile cappellino viola a
celargli parte dei capelli spettinati, ma sul suo volto era dipinta l’immagine
della gioia.
«Ah!» esclamò Narancia, riconoscendolo «è quello con cui ti picchi sempre!»
«Caesar!» urlò lo sconosciuto, che aveva le fattezze di un adolescente «Vieni
con noi e porta anche il tuo amico della birra! Si va al ristorante!».
Così dicendo sollevò un braccio e lanciò qualcosa di piccolo e rosso che andò a
colpire la tempia di Caesar.
«Disgraziato!» abbaiò quello raccogliendo la ciliegia «Te la faccio
ingoiare con tutto il nocciolo, hai capito? Dopo voglio la rivincita della
scazzottata dell’altra volta!» gliela rilanciò contro, ma chi lo aveva
stuzzicato era già corso via per seguire gli altri.
«Mi hanno invitato al ristorante?» Narancia era incredulo «Quindi posso venire
con te?».
Caesar abbandonò per un attimo l’espressione arcigna e guardò il ragazzetto
sottile con gli occhi duri di chi aveva visto troppe brutture per la sua età: sembrava
che la felicità dell’anima che aveva appena conosciuto dipendesse dalla
risposta che avrebbe ricevuto.
«Tu devi venire con me, non ci sono scuse» sentenziò il Marcantonio
mettendogli un braccio sulla spalla «e già che ci siamo riserviamo due posti ai
i tuoi amici, tanto ogni volta che ci sediamo a tavola facciamo passare anche
cinque o sei anni terrestri, possono raggiungerci dopo»
«Evviva, sono contento! Voglio la pizza margherita!» Narancia balzò fuori dai
girasoli, sempre brandendo i fiori degli amici di laggiù, e andò ad accorciare
la distanza che lo separava dall suo piccolo arancio ancora giovane.
«Prima però devo piantare le rose! Mi aspetti, vero?».
Caesar incrociò le braccia e sorrise. Quel tipetto era davvero interessante.
«Ovvio, sono qui apposta. Però sbrigati, tra un po’ si metterà di nuovo a
piovere».
***
¹Tra i vari significati attribuiti al pavone vi è quello legato all'immortalità e alla resurrezione di Cristo, in quanto si credeva che le sue carni non fossero soggette a deterioramento. Era anche l'animale sacro a Era. Qui e qui per ulteriori approfondimenti.²Le rose, fiori sacri ad Afrodite, assumono differenti significati a seconda del colore dei petali. Le rose bianche simboleggiano purezza, castità e candore, ma anche l'amore platonico, sentimento che, nella mia headcanon e con una dovuta eccezione, unisce la banda di Bucciarati. Si contrappongono a quelle carminio (menzionate in Al-Qirmiz), che invece sono simbolo di lussuria e desiderio carnale.
³Il carro dorato trainato da colombe bianche è uno dei simboli di Afrodite.
⁴In numerologia l'undici è il numero degli amori nascosti e dei segreti personali. È inoltre accostato ai legami e si caratterizza per l'uguale presenza di proprietà sia maschili che femminili. L'accostamento con le colombe, invece, è stata una mia invenzione.
⁵Le rose pesca indicano un amore segreto.
⁶Le rose rosa indicano un sentimento di tenerezza, gratitudine e delicatezza.
⁷Le rose blu non esistono in natura. Per questo motivo simboleggiano il mistero, l'infinito e la saggezza, ma anche un amore impossibile. I personaggi a cui faccio riferimento con questo tipo di fiore, seppur legati dal destino per colpa di Dio Brando, sono destinati a non incontrarsi mai nella vita terrena e pertanto il loro essere "crack ship" li rende, di fatto, una coppia che non esiste se non nel piano spirituale.
Musica in Jojo: Mio fratello è figlio unico è uscito come singolo estratto dal secondo album omonimo di Rino Gaetano nel 1976. Attraverso l'elencazione di una serie di attività tipiche dell'italiano medio degli anni settanta, Gaetano intende raccontare della genuinità e della spontaneità di chi non si conforma ai gusti della massa, emarginandosi da essa in virtù della propria autenticità esattamente come hanno fatto i protagonisti del racconto.
Retroscena:
Sono pessima, perdonatemi.
Si sarà capito che questo capitolo mi ha fatto penare? Se non è così, lo ribadisco: scrivere di Vento Aureo per me è sempre un'impresa perché i personaggi di quell'arco narrativo sono imprevedibili, incredibilmente imprevedibili e forieri di bellezza. Croce e delizia è stato anche disseminare questo improbabile incontro di spiegoni su nozioni simbologiche che ho acciuffato un po' ovunque per l'internette. Volevo creare questa sorta di collegamento tra gli emarginati di laggiù e quelli dell'aldilà attraverso il fiore di Afrodite per antonomasia (nonché di tutta la raccolta in generale) e mi auguro che questo accostamento vi sia risultato gradito. Oltretutto non potevo non includere uno degli scorci di "paradiso" made in Araki 100% con la fermata capolinea dell'autobus in cui Abbacchio rivede il suo collega: è stato proprio da qui che mi è balenata l'idea di allargare questa dimensione con altri scenari e simbolismi vari.
Infine, per quanto concerne il giardino di Mitra sarà compito di una certa coppia per la quale nessuno, ma proprio nessuno, ha mai fangirlato prima illustrarne il funzionamento, quindi se volete saperne di più non vi resta che passare nuovamente di qua la prossima settimana.
xoxo