Ehilà
stranieri, questa os non è esattamente un os, è
più un “pilot” per
un’altra storia che vorrei scrivere, che forse
scriverò (Crepuscolo
permettendo), in quel caso “riscriverò”
il capitolo aggiungendo e togliendo
cose, sostanzialmente non ho proceduto con la stesura della storia
perché sono
ancora indecisa se farla WhatIf/Canon-divergence o solo
WhatIf/Missingmoment e
riportarla nei giusti “binari”.
Comunque questo progetto è nato a causa di chiacchiere
deliranti con Edoardo811
a proposito di una certa questione.
Detto questo, spero possiate apprezzarla,
Buona Lettura
PS
– Calypso non appare fisicamente (nella storia sarebbe la
co-protagonista) ma è sempre presente.
Leo
Valdez and … WTF?!?
Leo
ricordava di aver bruciato ed era tutto da dire per uno che non aveva
mai sentito il calore del fuoco sulla pelle.
Poi aveva smesso di far male ed aveva aperto gli occhi e percepito di
nuovo il
suo corpo.
La pozione aveva funzionato!
Era sopravvissuto!
Anzi era rivissuto!
Festus doveva averla somministrata.
Si era tirato su, notando in quel momento di essere steso su un letto
morbido,
il più morbido, coperto da teli opalescenti bianchi, che
calavano da un
baldacchino.
Dove era?
“Ti sei svegliato, giovane Leonidas!” lo aveva
accolto una voce, prima che dal
drappo comparisse un volto.
Leo aveva giurato amore ad una sola donna, ma riconosceva che tempo a
dietro,
sarebbe impazzito.
Era una giovane ragazza dal viso ovale e capelli scurissimi che
scendevano su
un petto florido.
Leo era quasi saltato, cercando armi, qualcosa, ma non indossava altro
che un
chitone bianco, nel gesto però, era finito a ruzzolare
giù da letto.
“Tutto bene, giovane Leonidas?” aveva chiesto
incuriosita lei, anche un po’
divertita, con quella risata fastidiosa da Cheerleader membro del
Club-Cattolico, che voleva apparire gentile ma poi era un vipera. Leo
ne aveva
conosciute un po’.
“Chi sei? Dove mi trovo?” aveva indagato, un
po’ guardingo, sentendo il calore
sotto la carne accrescere, il subbuglio che provava si stava tramutando
nel suo
potere, come quando era bambino e non aveva controllo, si era
concentrato
perciò sul freddo marmo sotto i suoi palmi.
“Oh certo! Che sbadata! Io sono Ebe, dea della
gioventù e sei sull’Olimpo!”
aveva risposto quella, dandosi anche una pacca sulla fronte, come se
avesse
appena comunicato a Leo che per pranzo erano previsti i nuggets al
posto delle
polpette.
“Olimpo?” aveva chiesto.
“Oh certo, giovane Leonidas, i Pezzi Grossi vogliono parlare
con te” aveva
riferito prontamente quella, “Forse sono arrabbiati
perché hai messo lo
sgambetto alla morte” aveva ipotizzato Ebe, con il sorriso da
capo-cheerleader
sulle labbra.
Leo aveva sbuffato.
Risorgere per avere una punizione divina?Una cosa
che poteva accadere
solo a lui.
“Vuoi
qualcosa per distendere i nervi?” aveva chiesto lei con
gentilezza,
“Hai la faccia di uno che vorrebbe essere ubriaco”
aveva aggiunto.
“Ho la faccia di uno che vorrebbe non essere
risorto” aveva dichiarato Leo.
Poi aveva realizzato la cosa, l’aveva realizzata davvero.
“Gea? I miei amici?” aveva chiesto.
Ebe aveva annuito, allungando verso di lui una mano per farlo alzare,
“Oh, la
madre dei Giganti è scomparsa. Complimenti con il tuo
sacrificio hai salvato
tutti noi, anche i tuoi amici, che ora si stanno godendo una bella
festa al
campo, greci e romani tutti insieme. Con la tua morte, giovane
Leonidas, hai
messo pace tra Capuleti e Montecchi!”
aveva aggiunto.
Peccato, allora, che sia sopravvissuto, aveva pensato.
“Comunque immagino tu abbia fame, sei fortunato, stiamo per
mangiare e c’è un
posto anche per te” aveva detto subito Ebe,
“Dovremmo proprio andare, sai, ai
Grandi Capi non piace aspettare” aveva aggiunto la dea, in
questione, dandoli
un buffetto tenero sulla spalla.
“Io … cosa …” aveva provato a
boccheggiare Leo, “Però non puoi venire
così. Chi
ti ha messo addosso un Chitoniskos[1]?
Deve essere colpa di Persefone, lei ha un gusto così volgare
– intendo proprio
da volgo” aveva dichiarato Ebe.
La dea della giovinezza aveva allungato una mano ammiccando ad un
armadio a
muro, “Vediamo di trovare qualcosa di più
stiloso” aveva dichiarato, gli occhi
le erano luccicati; per un secondo aveva ricordato a Leo la sorellastra
non
esattamente gentile di Piper – Drew.
L’armadio
offerto da Ebe conteneva tutto quello che Leo avrebbe sempre
desiderato in vita, così tanto da estraniarlo.
“Allora prendiamo questa maglietta, questa giacca di pelle
– tanto qui
sull’olimpo il clima è sempre perfetto per quello
che indossi – e si,
sicuramente questi jeans attillati. Si, si! Potrei farti mettere nel
gel nei
capelli, ma hai dei ricciolini così adorabili!”
aveva dichiarato Ebe, frugando
nell’armadio e lanciando capi sul letto a baldacchino.
“Questa sera comunque sii socievole, tranne con mio marito
– tranquillo, te lo
terrò lontano – sai non ha ancora superato lo
scherzetto della tua amica con la
cornucopia!” aveva scherzato quella, strizzandoli un occhio.
Prima di
ritrovarsi in faccia i vestiti che Ebe aveva scelto per lui.
“Senti, Divina Ebe, non vedo proprio l’ora di
tirarmi a lucido e rispondere al
giudizio divino di Zeus, ma prima devo andare da un’altra
parte” aveva
dichiarato Leo, facendo cadere i vestiti sul letto.
Ebe aveva sbuffato, aggiustandosi una ciocca di capelli scuri dietro
l’orecchio, “Tranquillo avrai tempo! Dopo,
ovviamente se sarai
sopravvissuto. Chirone probabilmente si sta ancora mettendo i bigodini
alla
coda, arriverai in tempo per la festa …” poi si
era interrotta, guardandolo di
sottecchi.
“Ma tu non stai parlando del Campo” aveva valutato
poi divertita.
Un altro Leo sarebbe avvampato, ma non lui, non dopo quello che era
passato,
“Ho fatto una promessa” aveva dichiarato alla fine,
con sicurezza.
Ebe aveva ridacchiato, “Ah, le promesse di Stige! Stai
tranquillo, giovane
Leonidas Valdez, Ogigia non si è mai spostata negli ultimi
tremila-e-passa
anni, non credo lo farà per il momento” aveva
aggiunto.
Leo si era morso un labbro, la dea gli aveva pizzicato una guancia,
“Adesso
infilati quei vestiti e sorridi, il mio patrigno[2]
non apprezza aspettare” aveva dichiarato, “Se hai
un attacco di panico, be, io
sarò una di quelle con il vino” aveva smorzato la
situazione Ebe.
Per un secondo non era più sembrata una cheerleader
malefica, ma una ragazza
gioviale, una di quelle per cui il vecchio Leo si sarebbe preso
sicuramente una
sbandata.
Ebe
non lo aveva lasciato solo neanche quando si era cambiato, aveva
concesso la grazia di girarsi, non senza aggiungere divertita che Leo
avesse
sicuramente meno di quanto avesse visto da quelle parti –
“Fidati Apollo ha
una certa propensione al nudismo e quando Dionisio non era sobrio le
cose che
ho dovuto vedere!”
Lui aveva mandato giù, senza particolare fatica.
Era stupido, no, ma dopo essere morto e risorto non sembrava coltivare
più quel
senso di inadeguatezza, di ultima ruota del carro. In realtà
non credeva
neanche fosse la morte ad aver fatto la differenza, ma la vita e come
aveva
avuto il coraggio di sceglierla.
Aveva scommesso contro il suo fato ed aveva vinto.
Aveva promesso a Calypso che sarebbe tornato e l’avrebbe
fatto.
Doveva anche ritrovare Festus!
Non aveva idea di dove fosse finito il suo drago, sarebbe dovuto essere
con
lui, non poteva credere che fosse … distrutto.
I vestiti che aveva scelto Ebe per lui erano perfetti, sembravano
creati
apposta per il suo corpo e nello specchio avevano restituito a Leo, la
versione
incredibilmente cool di se stesso.
“Manca la mia cintura per gli attrezzi” aveva
valutato lui alla fine, perché
poteva anche sembrare una versione da romanzo young adult
di bello e
dannato, con la giacca di pelle anche con quaranta gradi
all’ombra, ma senza la
cintura non era Leo.
Ebe aveva ridacchiato, “Guarda
nell’armadio!” aveva sghignazzato ed era proprio
lì, appesa ad un gruccia, nel suo vivace giallo limone.
“Non è una copia è la mia!”
aveva esclamato sconvolto Leo, quando l’aveva
raccolta, ritrovandone tutte le disavventure che erano finite ad
incidersi sul
cuoio, logorato.
“Questo è l’Olimpo!” aveva
dichiarato Ebe voltandosi verso di lui, si era
rivolto con lo stesso tono con cui avrebbe parlato ad un bambino non
particolarmente sveglio, “Volendo, potresti farla tornare
anche nuovissima!” si
era prosta.
“Mi piace così” aveva dichiarato Leo,
senza controllarsi, di getto,
accompagnando la frase con un sorriso onesto.
Era stata consumata dalle sue vicende.
Ebe lo aveva guardato, studiato bene, somigliava incredibilmente ad
Era, in
quel momento, “Giuro sulla gloria dei miei zii, sei tale e
quale a mio
fratello!” aveva dichiarato poi, “Sempre
così nostalgico!” aveva aggiunto con
una punta di malizia.
“Hai un sacco di fratelli” aveva valutato Leo,
“Oh certo, ho un sacco di mezzi-fratelli
e fratellastri, ma di fratelli ne ho uno solo” aveva chiarito
Ebe, “Che non
vede proprio l’ora di vederti!” aveva aggiunto
facendoli l’occhiolino.
Leo aveva sorriso.
“Avete anche un certo debole per farvi calpestare il cuore da
donne glaciali o
terribilmente affascinanti” aveva aggiunto Ebe, volgendo uno
sguardo allo
specchio, osservando giudicante il suo vestiario. Indossava un
prendisole,
dalla gonna a campana, bianco su cui svettava una fantasia a pallini,
aveva
scosso il capo ed i vestiti su di lei si erano modificati, in pantaloni
neri ed
una camicetta bianca smanicata, con un papillon argento scintillante al
collo.
“Calypso non è algida e si è molto
affascinante, nel senso che è gentile, brava
e si, bellissima, ma non nella maniera negativa in cui lo intendi
tu!” aveva
difeso Leo l’onore della sua bella.
Ebe aveva riso con amarezza, “Vorrei che Eracle parlasse di
me così, invece è
tutto un: Ila era più divertente di te, mi manca
Megara, dovevo
rimanere con Zoe, dovevo sposare Iole e cose così.
Mica avevo voglia di
sposarmi il mio fratellastro dongiovanni, ma così, il mio
patrigno sperava di
tenere calma la mamma!” aveva detto con una certa
infelicità. Il principio di
rabbia che era fiorito in Leo si era spento subito, a quella
incredibile confessione.
“Andiamo, giovane Leonidas, come detto: il Grande Capo non
ama attendere specie
se gli invitati sono tutti sobri!” aveva dichiarato poi Ebe,
ammiccando a se
stessa.
“Puoi … chiamarmi Leo” aveva confessato
alla fine lui.
Ebe aveva sorriso, “Oh, tu puoi chiamarmi Zia se ti
va!” aveva rimarcato lei.
Faceva ridere perché parevano coetanei.
Leo
non era mai stato nella sala dei Troni degli Dei, ne aveva sentito
parlare da parte di Percy ed Annabeth, ricordava anche –
distantantemente – che
la sua amica, figlia di Atena, aveva raccontato di un paio di migliorie
che gli
dei le avevano permesso di fare sull’Olimpo, non solo in
quella specifica
stanza.
“Questa è la stanza dei Troni, anche se al momento
non ci sono. Sarebbero stati
un po’ ingombranti” si era giustificata Ebe.
Leo era rimasto ammutolito.
Sopra la sua testa non c’era un soffitto, ma un cielo
stellato, simile a quello
che aveva potuto vedere quando navigava sull’Argo II o quando
era ad Ogigia, un
cielo naturale, non inquinato da alcuna mano antropica.
Stelle luminose come diamante.
La stanza era circolare, con pavimento di marmo mosaicato …
e oro!
Ovunque vi erano triclini, dove dei, vestiti a festa, erano a stesi a
terra a
festeggiare.
Qualcuno raccontava cose.
C’era anche della musica.
Le Muse in persona stavano allietando l’aria con la voce
melodiosa, ad
accompagnare c’era Apollo. E stava usando il suo Valdezatore.
Qualsiasi costa stesse facendo, stava producendo un suono niente male,
peccato
che il dio della musica sembrasse granitico in vita.
Forse le speranze di Leo sul prendere bene la morte di Octavian erano
state
vane e da lì a poco si sarebbe ritrovato arrostito.
“Ebe! Te la sei presa comoda!” aveva scalpitato
qualcuno, era un ragazzo
giovane, con il viso di bambola, per quanto l’espressione
fosse già sconvolta.
Indossava la camicia bianca, i pantaloni neri ed il nodo a farfalla
brillantinato come Ebe.
In una mano teneva un vassoio pieno di flute ricolmi di liquido
d’oro
scintillante, che Leo scommetteva non essere champagne.
Ebe aveva assottigliato lo sguardo, “Dovevo sistemare mio
nipote!” aveva
dichiarato subito quella con superbia, l’altro aveva scosso
il capo, “Oh, be,
mentre tu sistemavi il ragazzo, io mi son dovuta prendere tutte le
sgridate di
Zeus e i malumori della divina Era!” si era lamentato quello,
“Ed Eros mi sta
evitando perché non vuole risarcirmi di averlo battuto ad
Aliossi!” aveva
aggiunto l’altro cameriere.
Ebe aveva sorriso più accomodante, “Passami il
vassoio, perché non porti Leo a
vedere cosa attira tanto l’attenzione!” lo aveva
invitato lei, recuperando i
flute.
Leo era stato scambiato l’attimo dopo come un sacco di patate.
Il ragazzo sembrava aver ripreso un po’ di colore e si era
sventolato una mano
sul viso per riprendere aria, “Potrebbero usare servi
invisibili, ma
inspiegabilmente gli dei si divertono tanto a farci
lavorare!” si era lamentato
quello, prima di ricomporsi, aggiustando pieghe inesistenti
sulla sua
camicia.
“Io sono Ganimede!” aveva dichiarato, prendendo la
mano di Leo, senza vergogna,
“È un onore conoscere un vero eroe!”
aveva aggiunto.
Oh, il coppiere di Zeus, se non ricordava male.
“Piacere mio” aveva risposto Leo.
Doveva capire come svignarsela da quella festa, anche se immaginava che
non
sarebbe stato molto possibile.
“Oh,
Leo, ragazzo mio!” la voce che lo aveva accolto era stata
quella di
suo padre, con un inclinazione più affettuosa del solito,
rispetto il tono
burbero ed amareggiato di cui sembrava sempre farsi vece.
Differentemente da solito, a Leo era capitato sempre di vederlo in
tutta da lavoro
coperto di fuligeno ed odoroso di zolfo, in tale occassione suo padre
sembrava
vestito in maniera più mondana, amplificando in maniera
quasi grottesca
l’assimetria delle spalle ed il viso butteroso.
La barba folta era spettinata, dando l’aspetto di un orso in
tuxedo; ma Leo era
felicissimo di vederlo!
“Padre!” aveva risposto.
“Grazie alle migliorie apportate alla nave alla fine siete
arrivati tutti vivi
a destinazione, io avevo torto e tu ragione” aveva
dichiarato, tirandoli delle
sonore pacche divine sulla schiena, con mani grandi come padalle, che
Leo aveva
pensato lo avrebbero spedito sulla luna.
“Non lo strappazzare troppo, Efesto!” lo aveva
imbeccato una bella donna, prima
di rivolgersi a lui, “Tu devi essere il famoso Leo! Tuo padre
parla sempre di
te, non lo dice apertamente, eh, ma credo tu sia il suo figlio
preferito, che
tu abbia superato anche Archimede!” aveva dichiarato quella.
Era bella come una stella del cinema degli anni cinquanta, con i
capelli
raccolti in una banana e i guanti di velluto fino alle ascelle.
“Stavamo proprio commentando che ottimo lavoro hai fatto con
Festus!” aveva
dichiarato suo padre, ammiccando al dragone di bronzo celeste che
occupava lo
spazio centrale della stanza, che calamitava tutti gli occhi degli
invitati – e
pareva anche piuttosto contento di tutta quell’attenzione.
“Fantastico!” si era lasciato sfuggire Ganimede,
con gli occhi luccicanti.
“Si, non credevo che qualcosa avrebbe potuto superare in
bellezza le tue
armature!” aveva valutato la bella dea, ammiccando ad Efesto.
Leo si sarebbe aspettato una serie di risposte, gli dei erano sensibili
a
quando il loro talente veniva messo in discussione – la
mitologia ne era pieno.
Anche Ganimede doveva aver avuto il suo stesso pensiero, visto che si
era fatto
più rigido di una corda di violino.
Efesto però aveva risposto: “Ovviamente! Leo
è figlio mio e non è il destino di
ogni figlio superare il proprio padre? O almeno mi hanno detto
così!” aveva
chiesto retorico.
La bella donna aveva schiuso le labbra, poi aveva riso –
doveva essere un gioco
tra loro[3].
Leo aveva fatto un passo per raggiungere Festus, il piano quale poteva
essere
poi?
Salirci in groppa e … passare per la volta celeste?
Aveva anche bisogno di recuperare quello che aveva trovato a Bologna, o
non era
sicuro di potere, ma doveva assolutamente, raggiungere Ogigia.
La dea aveva messo una mano attorno alle sue spalle, “Su,
giovane Leo,
raccontami della tua avventura, mentre mangiamo qualcosa. Ganimede
caro,
portaci del vino. Hai l’età per bere, si? Oh ma si
chi se ne importa, hai
salvato il mondo!” e senza aspettare una sua affermazione lo
aveva guidato
verso uno dei divanetti, Efesto li aveva seguiti.
“Io sono Teti, che sbadata non mi ero presentata, la tua
nonna adottiva,
possiamo dire!” aveva dichiarato quella.
“La mamma di Achille!” si era lasciato sfuggire Leo.
Il sorriso materno di Teti si era incrinato e gli occhi acquamarina si
erano
sporcati di tristezza, poi quella aveva annuito, le iridi un
po’ lucide, ma si
era ripresa subito.
Leo era un ragazzo senza madre e Teti era una dea senza figlio.
“Si quando mia madre ha ritenuto che non mi sposassi bene nel
suo quadretto da Perfetta
Famiglia Eleusina[4],
mi ha buttato giù da … qui,
Teti mi ha trovato e si è presa cura di me”
aveva raccontato Efesto, con una punta di dolcezza che Leo non credeva
si
addicesse molto a suo padre.
“Su dai racconta qualcosa a questa vecchia
cariatide!” aveva dichiarato Teti.
“Devo andare ad Ogigia!” aveva detto coinciso Leo.
Efesto aveva tossicchiato, “Dopo. Tutto a
suo tempo” aveva dichiarato
suo padre, “Calypso può aspettare ancora un
po’” aveva cercato di tamponare le
cose Teti.
“Non può! Sono millenni che aspetta”
aveva dichiarato Leo.
La dea Teti aveva parlato: “Uhm, non credo che le dia
così fastidio stare ad
Ogigia, sarebbe andata via, prima no?” aveva provato.
“È stata maledetta” aveva esclamato Leo,
non poteva credere che gli dei fossero
così ottusi certe volte, “Non può
andarsene.”
E nessuno, alla fine, può restare.
O tornare.
“No, ma la maledizione è stata sciolta
l’altr’anno dopo i fatti di Manhattan, o
sbaglio Efesto?” aveva risposto la dea.
Efesto stava raccogliendo una coppia di vino da un vassoio volante.
“Oh sì, sì, era in quello che Atena ha
chiamato la Normativa Jackson,
dove il tuo amico, ancora non ci credo, ha rigettato la
divinità per avanzare
tutta una serie di richieste” – suo padre aveva
fatto una pausa, sotto lo
sguardo vigile di Teti – “Assolutamente
legittime e giustissime” aveva
terminato, impacciato.
“Calypso può lasciare Ogigia quando
vuole?” aveva domandato Leo sconvolto.
Sarebbe potuta andare con lui, quando era andato via lui?
“Sì, in ogni momento dalla scorsa estate.
Nonostante i tentativi di Apollo di
far invalidare quella parte della richiesta!” aveva
dichiarato Efesto.
“Sempre che non vi siate dimenticati di avvertirla! O
sicuramente sono io una
malpensante!” aveva ghignato una voce, una giovane donna era
venuta verso di
loro, capelli nerissimi raccolti a ciocche, intrecciate in treccine
strettissime, che scendono fino alla vita. Ali nere come piume di
corvo,
strizzata in un vestito nocciolo di mela ed il sorriso più
cattivo che Leo
avesse mai visto su qualcuno – ed aveva parlato con Octavian,
Khione e Gea.
Teti aveva guardato Efesto, “Tu adori andare ad Ogigia,
glielo hai detto, si?”
aveva indagato. Efesto aveva aggrottato le sopracciglia spesse, creando
sul suo
viso l’orribile effetto che potevano avere i visi degli
uomini sui dipinti di
Picasso, “Non andavo ad Ogigia da quando ho dovuto recuperare
il figlio di
Poseidone” aveva dichiarato in imbarazzo.
“Ma sono sicura che qualcuno ci sarà
andato!” aveva scherzato, con cattiveria,
ancora la dea alata.
“Certo sicuramente Ermes sarà andato!”
aveva provato Efesto, titubante, più per
contraddire l’altra che per difendere davvero gli dei.
L’altra aveva riso, “Magari è andato
Apollo!” aveva insinuato, prima di
distanziarsi, con ancora sulle labbra un sorriso lezioso.
“C’è un motivo se al mio matrimonio non
la ho voluta” aveva dichiarato Teti,
gonfiando le guance; “Ricordati come è andata a
finire, per questo abbiamo
preso l’abitudine ad invitarla alle feste” aveva
replicato Efesto.
Leo era rimasto in silenzio.
Non lo avevano detto.
Avevano dimenticato di dire a Calypso che era libera.
Percy l’aveva liberata.
Ebe era tornata allungandoli un bicchiere di coca-cola con una fetta di
limone,
“Non è ancora il momento per te di ubriacarti,
aspetta il giudizio di Zeus
prima” le aveva stabilito. Efesto aveva cercato di trattenere
la sorella lì, ma
quella era fuggita quando una agitata Persefone aveva preso a chiamarla
a gran
voce.
Be, Leo immaginava fosse Persefone, era una raggiante primavera, degna
dei
quadri d’epoca moderna, che era arpionata al braccio di un
pallido uomo molto
scontento di essere lì, che ricordava a Leo terribilmente
Nico di Angelo nei
suoi momenti più neri, per quanto conoscesse poco il figlio
di Ade.
Aveva bevuto un po’ di cola ed era sgusciato via,
approfittando di Teti e suo
padre che dibattevano di qualcosa legato a chi avesse dovuto dire a
Calypso che
era libera.
Si era anche allontanato perché non era certo che sarebbe
stato in grado di
contenere la sua rabbia.
Festus
era beato tra un mucchio di dei e dee, che non facevano altro che
ammirarlo, riempirlo di complimenti e congratularsi per ogni cosa.
“Oh! Tu, ragazzo, vieni qui!” lo aveva chiamato a
gran voce qualcuno. Leo si
era voltato, vedendo una ragazza camminare verso di lui, indossava un
abito
celeste lungo, su cui spiccavano dei piccoli diamantini che formavano
una
figura e con uno spacco vertiginoso che lasciava scoperta una lunga
gamba.
Aveva un bell’incarnato ambra, gli occhi dalla forma a
mandorla scuri e capelli
color cannella, stretti in una treccia severa.
E … somigliava a Calypso.
“Ovvio!” aveva dichiarato quella, prendendolo per
il mento, assottigliando lo
sguardo per studiarlo bene, come se Leo fosse stato un cavallo.
“Tipico di Cal! Lei si schiera con i titani, non viene
neanche punita
veramente: Regina del suo personale regno, gli Dei le mandano bei bellocci
con cui spassarsela e poi le trovano pure un fidanzatino super
coraggioso da
risorgere dalla morte” aveva dichiarato.
“Di rimando, noi altre figlie di Atlante facciamo la fame,
praticamente in
compiti indegni, tra Pleiadi, Esperidi e Iadi!” aveva
dichiarato quella.
“Elettra non tormentare il ragazzo. Questa è la
sua festa!” era intervenuta
un’altra donna, anche lei, con lo stesso abito azzurro
tempestato di gemme
lucenti, solo che invece di avere lo spacco laterale che si scopriva
sulla
coscia, era dritto lungo le gambe, compensava con un vertiginoso scollo
a V.
Somigliava moltissimo sia ad Elettra sia a Calyspo, era solo
più matura in
viso, per quanto fosse possibile per una dea senza tempo esserlo. I
capelli
erano riccioli morbidi dello stesso colore della sabbia, che scendevano
fino ai
piedi.
“Certo Alcione!” aveva dichiarato Elettra, mollando
la presa da Leo.
La nuova venuta lo aveva guardato poi, con un’espressione un
po’ più dura e
giudicatrice, degna di una titanessa, “Okay, sei
passabile” aveva stabilito,
“Probabilmente il più bruttino tra gli amanti di
nostra sorella, ma immagino
che su questo ci si potrà rimettere una pezza dopo”
aveva dichiarato.
Leo si era sentito mortificato.
Elettra aveva riso, “Uhm” aveva dichiarato
sguaiatamente quella, “Immagino voi
siate le sorelle di Calypso” aveva dichiarato con una certa
resa nella voce
Leo.
“Le Pleiadi, alcune delle tue future
cognate, sì sì[5]”
aveva stabilito Alcione, incrociando le braccia sotto il seno,
“Non ti
minacceremo di trattare bene la nostra sorellina, lo sappiamo
già che lo farai”
aveva dichiarato.
“A me non frega, sia chiaro” aveva esclamato
Elettra, “E poi se dovessi farla
piangere anche solo una volta, entro la fine della stessa settimana
diventeresti nutrimento per l’orto” aveva
dichiarato cattivo la pleiade più
giovane.
Okay, urgeva una ricerca per sapere quante future cognate lo
aspettavano.
Elettra e Alcione erano state attirate dalla presenza di
un’altra ragazza, come
loro era vestita di un azzurro, solo molto più pallido, che
cercava di apparire
inosservata – le due sorelle avevano preso a chiamarla
sguaiatamente per
attirare l’attenzione su di lei.
Quella, Merope in base al nome che Leo aveva
sentito, era diventata di
un violento color melanzana[6]
e Leo ne aveva approfittato per filarsela.
“Guardala che faccino sconvolto!” aveva sentito a
malapena il commento di
Elettra.
Sgattaiolare
fuori dalla Stanza del Trono era stato relativamente più
semplice di quanto si fosse aspettato inizialmente.
Per un po’.
Aveva bisogno di un piano, quello non era un potenziale problema, una
cosa in
cui Leo era bravo era fare piani; strampalati, suicidi – nel
vero senso della
parola – e improbabili, però, era bravo.
Non poteva contare troppo su Festus, il suo drago occupava il centro
della sala
e sembrava godere di un certo piacere dei vezzeggiamenti che stava
ricevendo.
Tecnicamente, in base a quello che aveva detto Alcione, quella era la
sua festa
– ma Leo non si sentiva molto centro della festa.
In quel momento si sentiva abbastanza un Pesce fuor d’acqua,
avrebbe davvero
voluto essere altrove.
Al campo.
Ad Ogigia.
Sul ciglio di un vulcano.
“Fuggi dalla tua festa?” aveva chiesto una voce
cogliendolo di sorpresa. Leo si
era voltato, in un corridoio, appollaiato pe terra, in compagni di
calici vuoti
e con un’espressione insofferente stava Ganimede.
“Si, sai dove è la porta?” aveva chiesto.
Sapeva ci fosse un ascensore che lo avrebbe lasciato a Manhattan,
così
ricordava dalle spiegazioni dei ragazzi del campo.
Ganimede aveva riso, in maniera amara, “Non
c’è una porta – ora” aveva
dichiarato, “E comunque non rischiero di incappare
nell’ira di Zeus aiutando il
suo ospite d’onore a fuggire prima del tempo” aveva
dichiarato quello, con un
sorriso stanco in viso.
“Immagino che non sia facile essere il coppiere degli
dei” aveva provato Leo,
scoprendosi sincero nelle sue parole.
Ganimede doveva averlo notato, si era aggiustato il capello che
scivolava sul
viso ed aveva annuito, stanco, “Certo quando c’era
Dioniso qui lavoravo il
triplo – ma erano tutti più allegri. Tranne Atena,
ma non credo che sappia
essere allegra” aveva replicato quello; “Ti
offrirei del vino, ma Ebe, ha detto
che è meglio non farti arrivare ubriaco davanti a
Zeus” aveva ripreso a parlare
il coppiere.
Leo lo aveva guardato, “Se sono il festeggiato non sta
programmando di
friggermi come un nuggets, vero?” aveva proposto.
Ganimede aveva sollevato le spalle, “Io fossi in te,
pregherei che non ti
voglia ringraziare troppo!” aveva
sottolineato.
Leo non aveva avuto modo di interpretare correttamente quelle parole,
specialmente perché non voleva. “Non
c’è verso di uscire da qui, vero?” aveva
chiesto alla fine Leo, dedicendo di voler rimanere focalizzato, non era
una
cosa che veniva facilmente a lui, ma doveva sforzarsi. Non era ancora
del tutto
sconfitto, parecchio abbattuto, ma era Leo Valdez, morte e ritorno in
una sola
corsa.
Ganimede
aveva sorriso, “Uh … be, tecnicamente
sì, se sei un dio, ma no,
quando il Grande Capo non vuole, ciò non toglie che
effettivamente ho sentito
di storie di certi passaggi … ma non fraintendere, mi sei
simpatico, ti ammiro
molto e ti trovo anche piuttosto carino, ma non ho voglia di essere il
Punch-ball di Zeus al momento, grazie alla gloria di Rhea al
momento il
Divino Apollo fa il ruolo benissimo” aveva raccontato
Ganimede. Leo aveva
scosso il capo.
“Consiglio spassionato, eroe, torna alla festa, bevi, fai
qualche chiacchiera
ed attendi il giudizio di Giove a capo chino” aveva
dichiarato Ganimede, “Hai
salvato il mondo non sarai folgorato” aveva aggiunto il
coppiere, provando a
tirarlo su di morale.
Leo lo aveva guardato appena, “Se mi fossi fermato ad ogni
lascia perdere, non
sarei qui” aveva dichiarato alla fine.
“Ed è onesto!” la voce che era venuta
alle sue spalle era stata melliflua.
“Khione” aveva detto rigido Leo, voltandosi,
riconoscendo la malefica dea della
neve, “L’ultima volta che ti ho visto, Pipes ti
aveva fatto esplodere come una
spara coriandoli” aveva ricordato Leo.
La dea non aveva perso il suo sorriso di freddo, come il vetro, con lo
sguardo
duro e crudele, “Sono una dea, Leo Valdez, non posso morire
… non troppo a
lungo, almeno” aveva dichiarato, “Tu
d’altronde …” aveva lasciato la frase
cadere nel vuoto.
“Sono morto e risorto, Baby, qualcuno dica a Crillin che ha
un rivale” aveva
risposto Leo, decidendo di non farsi abbattere dalla malefica strega
delle
nevi.
“Fortune che ai mortali capitano una volta, se sono
fortunati, nella vita. Non
abuserei della mia dose di buona sorte” aveva rivelato Khione
cruda.
“Be, entro la fine della giornata probabilmente Zeus mi
folgorerà, visto che
non apprezza molto chi inganna la morte” aveva risposto Leo.
Non avrebbe mai dato a Khione una soddisfazione, ne avrebbe abbandonato
il suo
senso dell’umorismo, altrimenti probabilmente ne sarebbe
uscito matto.
O morto.
Era probabile entrambe le cose.
Khione aveva roteato gli occhi, “Ti prometto che per la tua
morte calerà la più
grande bufera di neve del creato, così smetteranno di
ciarlare su quella
sciocchezza del riscaldamento globale[7]”
aveva enunciato con cattiveria la dea, incrociando le braccia sotto il
seno.
“Per essere una appena graziata, chiacchieri molto sta
sera” si era intromesso
Ganimede, “Tu, invece, sai usare la bocca per altro oltre che
l’Irru…”
qualsiasi cattiveria Khione avesse voluto dire, era stata soffocata da
un paio
di urla piuttosto isteriche di Ganimede in un greco.
Leo capiva il greco antico e la sua mente era schifosamente veloce, ma
il
coppiere di Zeus aveva sbrigliato la lingua più rapidamente
di quanto avesse
mai fatto lui o sentito fare a qualcuno.
Alle sue orecchie era arrivata una cantilena incredibilmente svelta.
“Oh, tu, figlio di Troia[8]!”
aveva gridato Khione, sollevando i palmi aperti verso il coppiere e
colpendolo
con una bufera di aria gelata e ghiaccio affilato come rasoio.
Ganimede era volato indietro, si era tirato su con il fiatone, contuso
e
qualche graffio. L’icore d’oro era scivolato da un
labbro, “Come sei debole”
aveva stuzzicato la ninfa mentre si tirava su, il viso tumefatto aveva
ripreso
immediatamente la grazia.
Il bel viso levigato di Khione e il suo vestito bianco panna avevano
subito un
profondo cambio di colore, quando Ganimede di rimando le aveva lanciato
addosso
una caraffa di vino speziato.
Leo aveva approfittato della baruffa tra due dei per allontanarsi.
“Oh! Qualcuno chiami Morfeo così si
calmano!” aveva sentito strillare qualcuno,
non ci aveva fatto molto caso, aveva bisogno di pensare lucidamente.
Festus.
L’Astrolabio … dove era l’Astrolabio?
Calypso.
Campo.
Preferibilmente evitando il giudizio divino di Zeus.
Sua zia Ebe lo aveva preso per un gomito, proprio quando era perso nei
suoi pensieri.
“Mi ricordavo che i semidei avessero ADHD per essere sempre
attivi e vigili”
aveva dichiarato la dea. “Tendo a distrarmi un
po’” aveva ammesso Leo.
Zia Ebe aveva scosso il capo facendo oscillare la lunga chioma riccia,
“Vedevo
un po’ di fumo uscire dal tuo cervello. Stai facendo girare
gli ingranaggi?
Tenti la grande fuga, Leo?” aveva chiesto quella con una
puntina di
divertimento.
“Sì. Il grande Leo Valdez è
un animale da festa, Zia Ebe, ma non questa
festa!” aveva ammesso quello. Sua zia aveva riso, non sapeva
se fosse con lui o
di lui, ma aveva deciso per la sua autostima di scegliere alla prima
ipotesi.
Aveva salvato il mondo, per una volta se lo meritava di non essere lo
zimbello
della storia.
Zia Ebe aveva allungato verso di lui un bel bicchiere, di vetro, con un
clave
d’oro scintillante sul bordo.
“Altra coca-cola?” aveva domanda Leo, quasi
speranzoso.
“Finita. Chinotto!” aveva risposto Ebe, mentre lo
riconduceva nel ventre pieno
della sala, “È ora di far fronte al volere del
Grande Zeus! Poi ti prometto la
migliore sbronza della tua vita, diretto dalle cantine di Dionisio
– lui non
può bere ma il suo vino è ancora qui”
aveva annunciato, con l’espressione da
finta buona.
“Facciamolo. Mettiamo fine a questo strazio” aveva
dichiarato Leo.
Se non c’era modo di evitarlo, tanto meglio era ballare.
Era Leo Valdez infondo, anche se metà delle volte era puro
caos, era sempre
caos a muso duro.
Zia Ebe aveva sorriso, “Dai, sei morto e risorto. Puoi
farcela” aveva
dichiarato lei, aveva usato ancora una volta il tono finto gentile da
Cheerleader.
Hera
aveva sorriso accomodante, verso di lui. Indossava un vestito di
lustrini, degno di una festa di Capodanno, con un generoso scollo a
barca ed i
capelli acconciati.
Non somigliava a Tia Callida, per nulla.
La donna era seduta su un trono, solo leggermente più
piccolo di quello che era
al suo fianco.
L’altro era d’oro massiccio, ingombrante e
decisamente pacchiano.
Su di esso era seduto il Divino Zeus, con un completo gessato ed il
taglio dei
pantaloni larghi. Un uomo dall’aspetto rispettabile, tranne
per la barba lunga,
attraversata da scoppiettanti fulmini.
Non somigliava per nulla ai suoi figli, non aveva la stessa grazia
letale di
Thalia e sembrava del tutto privo di quella dolcezza e bontà
che animava Jason.
L’unica cosa che avevano ereditato dal padre i suoi amici
erano gli occhi, Zeus
sfoggiava occhi di un blu elettrico, incandescente, come scintille di
corrente.
“Eccoti qui, Leonidas Valdez, l’eroe” lo
aveva presentato Zeus, sollevando le
mani.
Zia Ebe si era stretta di più al suo fianco, mentre
l’intera musica nella sala
era cessata sotto le roboranti parole del padre dei numi.
Leo, doveva ammettere, si sentiva in leggera soggezione ad avere tutti
gli
occhi degli dei, rivolti verso di lui, incantati come davanti una fiera
esotica. Il che era tutto dire, visto, be … visto che era
lui.
Leo Valdez, letteralmente la settima ruota di scorta.
Non aveva controllato il tic del dito della mano, libera dalla presa di
Zia
Ebe, che teneva stesa lungo il fianco. Aveva pigiato ritmicamente il
dito
contro il suo pantalone, ripetendo come gesto impulsivo una preghiera a
sua
madre, in morse.
M-a-m-m-a-c-i-s-e-i.
Pur sapendo di non aver risposta.
“Facciamo un applauso al duro lavoro svolto da
Leo!” aveva dichiarato Hera, cominciando
lei stessa a battere le mani.
Un uovo crudo aveva colpito Leo in faccia, si era voltato sconvolto per
cercare
di chi era stato, due ragazzi avevano attirato la sua attenzione; uno
era un figaccione
in chiodo di pelle – che indossava diecimila volte meglio di
quanto facesse Leo
– e l’altro era un armadio a tre ante in
canottiera bianca smanicata, un
pugno nell’occhio rispetto l’eleganza della festa.
“Scusa nonna, mi ero
preparato per un ovazione!” aveva dichiarato quello con il
chiodo.
Afrodite, non poteva essere altra dea, aveva tirato un buffetto sulla
nuca ad
ambedue con un movimento sicuro e severo.
Hera aveva guardato con biasimo i suoi nipoti, riprendendo ad
applaudire con
più vigore, imitata dagli altri ospiti. Il sorriso che
nasceva sul viso della
dea aveva ricordato a Leo quello della sua baby-sitter psicopatica, che
sfoggiava quando Leo superava una delle sue prove infernali.
“Sì. Il nostro giovane Eroe, Leo Valdez ha
mostrato una gran dose di coraggio e
ciò che ha fatto è stato notevole, se oggi Gea
non è qui, seduta sul mio trono,
lo dobbiamo in gran parte alle sue azioni” aveva dichiarato
Zeus, diplomatico,
in quel momento, la sua austerità e sicurezza, avevano
ricordato a Leo un po’
Jason, quel suo modo di porsi come faro dei dispersi.
“Per i suoi servigi, Leo figlio di Efesto, tu sarai
ricompensato, ovviamente”
aveva dichiarato il padre dei numi.
Calypso era libera e lui era vivo, l’unica cosa che voleva
era salire in groppa
a Festus e prendere il mare per raggiungere Ogigia.
Una donna aveva tossicchiato.
Leo l’aveva riconosciuta immediatamente, non era
molto lontana da Zeus.
Una donna in un bel completo tre pezzi grigio tortora, soprattutto era
una
versione più adulta ed austera di Annabeth Chase –
con una chioma nero corvino,
anche.
Zeus aveva guardato Atena, la dea aveva fatto una smorfia appena
accennata e di
rimando l’uomo aveva annuito, “Certo …
certo” aveva liquidato l’intromissione.
Hera aveva gonfiato le guance piena di rabbia, che aveva inghiottito
poi in una
bile colma di rancore.
“Leo Valdez però ha infranto un dettame della
Legge Naturale, utilizzando il
potere di mio Nipote Asclepio, nonostante io avessi più
volte sottolineato come
questo non dovesse più accadere” aveva conferito
il padre dei Numi, gli occhi
blu come fulmini brillanti avevano raggiunto la figura di uno smorto e
pallido
Apollo, che bianco come un lenzuolo aveva cercato di nascondersi dietro
le
spalle piccole da bambina della divina Artemide – lei aveva
sicuramente lo
stesso sguardo rigoroso di Thalia.
Atena si era colpita il viso con un palmo aperto, nascondendo gli occhi
alla
vista … era un face palm?
Leo era rimasto notevolmente sconvolto davanti alla dea della ragione
che
faceva quel gesto.
Zeus aveva distolto lo sguardo infuocato da Apollo per dirigerlo verso
la sua
figlia ben vestita e guardarla con notevole confusione.
Hera aveva attirato l’attenzione di suo marito con una carezzina
sulla
guancia.
Zeus aveva putato nuovamente gli occhi lucenti su Leo, “Be,
dicevo, Leo Valdez
hai infranto le mie regole, ma per i servigi arrecati a noi tutti e il
mondo
intero” aveva ripreso Zeus, nonostante le parole poco
rassicurante il suo tono
sembrava carico di allegrezza.
Buon segno no?
“La punizione sarà lieve” aveva
dichiarato Zeus.
Leo si era dovuto trattenere dallo sbuffare, era anche solo assurdo che
volessero punirlo.
“Una sciocchezzuola, ragazzo mio” l’aveva
rassicurato Era.
Non si sentiva rassicurato.
“Ti è proibita la possibilità di
rifiutare” aveva dichiarato Zeus, “Per cento
anni?” quella seconda sentenza del padre dei numi sembrava
una domanda rivolta
alla platea, c’era stato un certo brusio di assenzo.
“Chi sa perché questa insana ossessione per il
cento!” aveva dichiarato
qualcuno, Leo aveva riconosciuto un uomo con un tuxedo leopardato
accanto ad
una donna bellissima.
“Sono
confuso” aveva ammesso Leo, grattandosi il capo riccioluto. Non
avrebbe
potuto rifiutare per cento anni?
Che cosa voleva dire?
“Oh, be, caro Leo” aveva cominciato Hera,
“Ora ti verrà posta la domanda ed
il mio adorato marito, Zeus padre dei numi” aveva ripreso
quella, tenendo un
tono di rispetto quasi stucchevole verso il compagno, “Ti ha
revocato il
diritto di negazione” aveva spiegato.
“Brevemente: non potrai rifiutare il tuo premio e chiedere
altro in pratica,
come qualcun altro di tua conoscenza” aveva dichiarato Atena,
con un tono rude
e piuttosto disgustato.
Oh, parlava di Percy!
Percy che aveva anche chiesto la liberazione di Calypso.
Immaginava che se la cose non piacesse particolarmente a Leo, alla
divina Atena
– una che toglieva i doni alla figlia perché non
faceva tutto esattamente come
voleva – non dovesse andare a genio che il fidanzato della
progenie prediletta
chiedesse la liberazione dell’ex fidanzata, praticamente.
“Per cento anni” aveva ripetuto Zeus.
Leo doveva dichiararsi stupito di se stesso, sedici anni di vita erano
lungi
dalla sua più rosea aspettativa di vita, cioè se
non considerava il fatto che
fosse tecnicamente morto e risorto, però, ecco, nonostante
la rinnovata fiducia
in se stesso non credevo avrebbe vissuto altri cento anni.
“Divino Zeus” era intervenuta Ebe nella
discussione, “Non avete detto a mio nip-al
giovane Leonidas quale è il suo premio.”
A Leo andava benissimo andarsene sulla groppa di Festos.
Zeus aveva sorriso con una certa carica di gioia, come se la figliastra
avesse
appena riportato una notizia fantastica.
“Oh certo! Leo Valdez figlio di Efesto, ero
dell’Olimpo, per le tue notevoli
gesta ti viene offerta la possibilità di diventare un
dio!” aveva stabilito
Zeus soddisfatto.
“Ebe, tesoro, dai al ragazzo il sidro” si era
intromessa Era.
Leo aveva sentito le parole scrosciarli addosso come una doccia
d’acqua fredda.
Dio?
Diventare un dio?
Mentre il criceto nel suo cervello scorreva a velocita fuori controllo,
sua zia
si era sciolta da lui, per versargli da una brocca una generosa dose di
liquido
dorato, viscoso come il miele, “Sarò onesta:
brucerà un poco, come l’intensità
di mille sole, o almeno così mi hanno detto Dionisio e mio
marito, ma sarà solo
per un momento” aveva detto Ebe, lasciandoli il calice.
Leo aveva preso il bicchiere tremolante.
Lui?
Un dio?
Il liquido dorato non restituiva nessun riflesso, neanche distorto.
Chi era distorto era Leo.
Leo e la sua mente.
Leo che era morto e risorto.
Leo che era l’ultima ruota del carro.
Leo che era letteralmente la settima ruota del carro.
Calypso a cui aveva promesso che sarebbe tornato.
I suoi amici che lo pensavano morti.
I suoi amici …
“Non … capisco”
aveva ammesso Leo.
[1]
Il chitoniskos
è una versione corta del chitone, che veniva utilizzato
dagli uomini durante le
attività agricole, o di caccia o di battaglia. Ebe sta
facendo riferimento al
primo caso, essendo Persefone legata ai culti delle messi.
[2]
Nel canone
Riordiano, mi pare, che Ebe sia figlia di Era e Zeus, però
ho trovato diversi
miti in cui lei è solo figlia di Era, come Efesto, ma
“uscita bene” (povera
stella Efesto) niente, ho tenuto su questa versione perché
si.
[3]
Se state
leggendo le note post capitolo sapete già chi è
la dea e probabilmente sapete a
cosa si sta facendo riferimento. Altrimenti: alla dea in questione era
stato
profetizzato che qualsiasi figlio avesse messo al mondo sarebbe stato
più forte
del proprio padre per questo nonostante fosse tanto corteggiata dagli
dei, alla
fine nessuno si è fatto avanti per timore di avere un figlio
che potesse
detronizzarlo.
Efesto con “Così mi hanno detto” prende
in giro le paure degli dei (che in
un’altra occasione aveva spinto pure Zeus a mangiarsi la
prima moglie) ed il
fatto che, tecnicamente, lui non ha padri da superare.
[4]
Elusi è una
città devota al culto di Demetra, quindi niente voleva
essere una battuta a
“Pefetta Famiglia del Mulino Bianco”
[5]
Nel canone
Riordano: Pleiadi ed Esperidi sono tutte figlie di Atlante e Pleione,
mentre
Calypso è figlia di Atlante e Teti (La titana, non
l’oceania – che casino lol),
non ho idea per le Iadi, comunque nella mitologia più
canonica ho trovato che
Calipso era figlia di Pleione come le Pleiadi, rendendo queste ultime
sue
sorelle di sangue. Non son voluta entrare nel merito comunque. Le
Pleiadi, le
Esperidi e co, si considerano tutte sorelle perché tutte
unite dal fatto di
essere figlie di Atlante, le quali hanno scelto gli dei (che amassero o
meno il
padre) tranne Calypso che fa da pecora nera.
[6]
Merope è la
Pleiade che ha sposato Sisifo, per cui è invisa agli dei, e
cerca sempre di non
farsi notare. Elettra ed Alcione non sono esattamente gentili lol.
[7]
Se non sto
flashando male le cose, Khione rigettava l’idea del
riscaldamento globale.
[8]
Sono una
persona orribile, Ganimede è un Principe Troiano, quindi,
ovviamente dovevo
fare questa battuta. Ma quanto sono pessima?