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Autore: Adeia Di Elferas    28/08/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Ti aspettavo...” disse piano Caterina, quando Fortunati arrivò al suo cospetto, nella biblioteca: “Da quando sono tornata dal convento volevo parlarti di Lucrezia Medici e...”

“Aspetta.” la frenò lui, sollevando una mano e togliendosi poi la mantella, andando vicino al camino.

Faceva freddo, ormai, e, anche se non pioveva, né nevicava, l'aria era intrisa di umidità, la quale si impossessava di ogni abito, dando a tutti l'impressione di non potersi sentire asciutti in alcun modo, nemmeno davanti a un fuoco acceso.

“Che c'è?” chiese la donna che, in parte ritemprata dai giorni passati alle Murate e, soprattutto, dai momenti trascorsi al convento d'Annalena assieme a Giovannino, non coglieva l'agitazione che permeava il piovano.

“Lorenzo sta giocando sporco.” buttò lì Fortunati, continuando a darle le spalle.

“Questa non mi sembra una grande novità...” commentò lei, non riuscendo, comunque, a trattenere un breve tremolio delle mani: “Ma è successo qualcosa di nuovo..?”

Finalmente Francesco si voltò verso di lei, ma con sguardo sfuggente, quasi fosse indeciso se parlarle o meno di quello che aveva scoperto. Rendendosi conto che, malgrado i tempi lunghi della legge, a breve la donna sarebbe comunque stata messa al corrente di tutto, si schiarì la voce e si mise a sedere davanti a lei.

“Mi è giunta voce – spiegò, tenendo le mani distese sulle cosce, per impedirsi di stringersele l'una nell'altra in segno di nervosismo – e ne sono certo, purtroppo, che Lorenzo voglia istruire verso di te un nuovo processo, ma non alla Tribunale dei Pupilli.”

La Tigre non disse nulla. Conosceva poco la legislazione fiorentina, ma era cosciente che quello citato dal piovano era, di fatto, l'unico tribunale cittadino che avrebbe avuto una giurisdizione legittima nel caso di affidamento di Giovannino.

“E che vorrebbe fare? Denunciarmi al Tribunale della Sacra Rota perché ho avuto più uomini di quanti ne possa ricordare?” il tono di sfida, acido e aggressivo, con cui Caterina aveva parlato, non irritò più di tanto il fiorentino che, come se lei non avesse parlato, prese fiato e si accinse a rivelare una volta per tutte quanto aveva scoperto.

“Lorenzo vuole portare il vostro contenzioso su un altro piano. Vuole trascinarti al Tribunale della Mercanzia.” le disse.

La Leonessa cercò di fare mento locale e poi, grattandosi il collo, perplessa, chiese: “Ma non si tratta di un tribunale dedicato ai contenzioni mercantili... Ai prestiti, ai debiti, a tutte quelle cose che...”

Mentre la donna faceva l'espressione disincantata di chi finalmente capiva il punto della questione, Francesco le tolse ogni dubbio: “Vuole far denuncia del fatto che tu non hai mai ripagato dei debiti che avevi contratto con lui e Giovanni negli anni Novanta.”

“Questa cosa è assurda...” soffiò lei, alzandosi di scatto e mettendosi a camminare per la biblioteca.

“Non la è.” le fece notare l'altro: “A quello che ho capito, lui pensa di poter dimostrare che tu non abbia mai restituito determinate cifre ai Medici, specie quando...”

“Giovanni non mi aveva fatto dei prestiti. Quei soldi li aveva spesi per me, perché mi amava, perché era mio marito e perché...” cominciò a elencare la Sforza, ma il piovano, che, nel frattempo, si era alzato a sua volta, la freno, scuotendo il capo e mettendosi proprio davanti a lei, impedendole di continuare a camminare come una pazza avanti e indietro.

“Tutte queste cose sono vere – concordò, ricordandosi bene di come il Medici fosse sempre stato disinteressato verso la donna che amava – ma di fatto non abbiamo prove concrete che l'attestino.”

La milanese boccheggiò un paio di volte, sudando freddo e sentendo un nuovo peso premerle sul petto. In quel momento, tutto il resto non le importava più. Quasi non ricordava nemmeno più quello che per giorni si era ripromessa di dire a Fortunati riguardo Lucrezia e Jacopo Salviati.

“Prima di citarti so che vuole screditarti, per rendere più realistiche le sue pretese.” riprese Francesco, avvilito, ma confidando che, come sempre, Caterina avesse quell'idea in più che permettesse loro di organizzare una degna difesa a quell'attacco: “Mi hanno detto che Lorenzo stia cercando di un certo Giovanni Battista, di Milano, e di David Lomellino e Francesco Girolami, fiorentini, e Girolamo Baldi, per conto del padre Naldo, di suo zio Pellegrino e di suo Cugino Raffaele...”

A quegli ultimi nomi, la Tigre capì e ricordò. Presa da uno slancio di rabbia e rancore, diede un forte colpo con il pugno chiuso a uno degli scaffali, facendosi anche un po' male, e poi guardò il piovano con occhi di fiamma, interrompendolo.

“Debiti che hanno vent'anni!” gridò: “Ancora debiti di Girolamo Riario! Non sono debiti miei! È stato lui a contrarli!”

Anche se per anni aveva dimenticato tutta quella gente, ora ricordava bene i loro nomi e, perfino, le circostanze dei loro prestiti. In particolare, i Baldi avevano ricevuto dal Riario l'incarico di confezionare una quantità notevole di drappi e panni di lana intessuti con fili d'oro e un sacco di altre cose inutili, di cui la Tigre servava una più scarsa memoria. Girolamo aveva preteso e voluto tutto in fretta e poi non li aveva mai pagati. La perdita, per i Baldi, era stata tale che, da quel che Caterina ne sapeva, avevano dovuto vendere delle proprietà, pur di non fallire.

“Io non voglio più pagare per le colpe del mio primo marito!” continuò a gridare lei, incapace di frenare quello sfogo di collera, una collera che la seguiva fin dall'infanzia: “Mi ha rovinato la vita e continua a farlo anche se è morto! Avrei dovuto ucciderlo il giorno stesso che l'ho rincontrato a Roma! Avrei dovuto ammazzarlo alla nostra prima battaglia e poi dare la colpa ai Colonna!”

Fortunati la guardava, in silenzio, convinto che lasciarla esplodere e poi sgonfiare da sola fosse l'unica cosa giusta da fare. In effetti, dopo qualche minuto di improperi e bestemmie che si fecero via via sempre più volgari e colorite, alla fine la Leonessa si andò a sedere e, massaggiandosi la mano ancora indolenzita con cui aveva tirato il pugno al legno, sollevò gli occhi verdi verso di lui, in attesa di un consiglio o di una parola di conforto.

Siccome, però, l'uomo non apriva bocca, fu lei a chiedere: “Cosa credi che faranno?”

“Io per il momento spero solo che Lorenzo faccia molta fatica a convincere tutte queste persone a sporgere degli esposti formali nei tuoi confronti.” soppesò lui: “Ma se lo facesse, laddove possibile ti consiglio di saldare i debiti, se esistono davvero.”

“E farmi passare come un'insolvente?!” sbottò la donna.

“Il contrario: si tratta di debiti vecchi, l'hai ammesso tu stessa. Coinvolgerai Ottaviano, che è l'erede di suoi padre, e troverete un modo per ripagarli.” fece notare lui: “E, rifiutandovi, invece, di riconoscere il debito con il Medici, dimostrerete che la sua è solo una menzogna, perché se gli foste veramente debitrice, come con gli altri, saldereste tutto.”

La Leonessa obiettò che non aveva alcuna risorsa per ripagare i debiti con i Baldi e con gli altri, così il piovano indicò in modo eloquente ciò che li circondava.

“Non posso usare i pochi mobili di questa villa per ripagare quei debiti...” sbuffò lei: “Si tratta di cifre improponibili.”

“Si troverà un modo.” la tranquillizzò lui: “E comunque, prima di trascinarti in una causa al Tribunale della Mercanzia, potrebbero passare mesi. Voglio solo che tu sia pronta per quello che ti aspetta.”

Caterina si rabbuiò per un solo istante e poi, agitando la mano in aria come a voler scacciare una mosca molto fastidiosa, disse solo: “Una cosa per volta... Per oggi non è il caso di pensarci. È il compleanno di mia figlia e non voglio essere di cattivo umore.”

Fortunati che, un po' per carattere un po', a suo avviso, a ragion veduta, avrebbe invece preferito approfondire ulteriormente la questione, fece un mezzo sorriso di circostanza e poi chiese, senza un concreto interesse: “Oggi è il compleanno di Bianca? Quanti anni compie?”

“Venti.” sussurrò la Tigre e poi, per quello che fu solo un istante, fu tentata di parlare con il piovano di quanto aveva saputo sulla relazione tra la ragazza e Troilo De Rossi e delle preoccupazioni che ne derivavano: “Ascolta, riguardo mia figlia...”

Innanzitutto, oltre alla differenza d'età tra i due e alla lontananza geografica delle terre del De Rossi, la Leonessa non riusciva a stare tranquilla circa la buonafede dell'uomo. Davvero sarebbe tornato, oppure aveva solo sfruttato il suo ascendente su Bianca per passare qualche notte in compagnia? La giovane era palesemente molto presa da lui, Caterina – ora che sapeva tutto – non poteva non notare il modo in cui la sua espressione cambiava, ogni volta in cui qualcuno, in casa, nominava l'emiliano. Come avrebbe reagito, se le cose fossero andate male?

“Riguardo tua figlia..?” la incoraggiò Francesco, vedendo come la milanese sembrasse non essere in grado di proseguire il discorso.

Rendendosi conto che non era il caso di coinvolgere il piovano, che, per quanto avvezzo al segreto confessionale, non aveva titolo per essere messo a parte di certe cose, la Sforza ripiegò con un elegante: “Visto che oggi è il suo compleanno, mi ha detto che dopo cena vorrebbe cantare per tutti noi. Resta anche tu, le farai piacere.”

Fortunati, un po' stupito dalla leggerezza della questione, che stonava con la cupezza iniziale del viso della Tigre, annuì subito: “Se ha te fa piacere...”

“Fermati un paio di notti, prima di tornare ai tuoi impegni...” riprese lei, che, in effetti, aveva piacere nel trovarsi quell'uomo alla villa: “Così potrò anche parlarti di Lucrezia Salviati e di Giovannino.”

Francesco, attirato, come sempre, all'idea di poter passare del tempo con Caterina, accettò all'istante, senza curarsi degli affari che avrebbe lasciato in sospeso più del dovuto: “Non ho portato con me nessun dono per Bianca, però...” ammise: “Non ricordavo che fosse oggi, il suo compleanno...”

“Non darti troppa pena...” sorrise Caterina, trovando quasi dolce l'imbarazzo del fiorentino nell'essersi fatto trovare impreparato: “Nemmeno io ho potuto farle dei doni... Ma lei ha un buon carattere, non farà pesare a nessuno di noi questa piccola mancanza.”

“Bianca è una brava giovane.” convenne Fortunati, seguendo la Leonessa, che stava uscendo dalla biblioteca: “Dovresti cercargli un buon marito. Qualcuno che sia adatto a lei.”

“Credo che mia figlia sia capace di cercarsi e scegliersi anche da sola un uomo da amare...” ribatté, un po' criptica, la Sforza.

Francesco colse la strana sfumatura che permeava la sua voce e, proprio per quello, preferì non indagare, passando ad altro: “E per questa sera è previsto qualcosa di speciale, per festeggiare?”

“Con tutte le uova che danno le nostre galline – rispose, divertita, la donna – aspettati di avere nel piatto almeno tre o quattro frittate...”

 

Era domenica 31 ottobre e Cesare Borja aveva passato l'intera giornata a controllare che tutti i preparativi per la festa di quella sera stessero filando lisci.

Le prerogative per una notte da ricordare c'erano tutti e perfino il papa, punto sul vivo della sua debolezza per le belle donne e i peccati di gola, quando aveva avuto qualche dettaglio in più su ciò che l'attendeva, si era ammorbidito e aveva smesso di lamentarsi per quell'evento privato, passando, anzi, dall'insofferenza al desiderio che calasse presto il buio per poter dare il via ai festeggiamenti.

Arrivata l'ora prestabilita, tutti gli invitati – tutti uomini, eccezion fatta per la giovane Lucrecia – si ritrovarono negli appartamenti del Valentino.

La giovane Borja, seduta tra il fratello e il padre, si guardava attorno quasi spaesata. Era da giorni, anzi, da settimane, che pensava solo al suo prossimo matrimonio con l'Este e trovarsi all'improvviso di nuovo immersa nel mondo reale la confondeva.

I presenti erano pressoché tutti uomini d'armi di nobile estrazione, ma c'era anche qualcuno tra i prelati più fidati del papa. Fin da subito Lucrecia comprese che quel clima, così fortemente maschile, aveva in sé qualcosa di pericoloso.

Non erano ancora alla seconda portata, che molti degli invitati di suo fratello erano già più che ubriachi. Lo stesso pontefice, rosso come il fuoco, beveva e rideva, rideva e beveva e si lasciava andare a battute tanto volgari ed esplicite che si sarebbe potuto pensare che si fosse dimenticato di avere la figlia proprio al suo fianco.

Cesare, invece, non aveva, per il momento, sorbito più di due sorsi di vino. Voleva essere lucido e presente, almeno finché sua sorella era ancora lì.

Arrivati al dolce, mentre la musica frastornante che aveva accompagnato anche il resto della cena continuava a costringere i commensali a urlare, per farsi sentire gli uni dagli altri, il Duca di Valentinois afferrò con rabbia il braccio di Lucrecia, costringendola ad avvicinarsi abbastanza da poterle parlare all'orecchio senza dover sbraitare: “Hai visto? Ti piace il genere di uomini che vedi qui?”

La ragazza, che, in tutta franchezza, si era sentita a disagio fin da subito a quel tavolo, non disse nulla, limitandosi ad aspettare la seconda parte del discorso, chiedendosi dove mai volesse andare a parare suo fratello.

“Il ferrarese che stai andando a sposare è anche peggio.” gli sibilò lui: “Passa le sue notti nei peggiori bordelli della sua città, sceglie solo donne grasse e vecchie, e quando è a casa, passa le sue giornate o a fondere cannoni, come l'ultimo dei bottegai, o a fare baldoria come gli uomini che vedi qui stasera...”

La Borja avrebbe voluto zittirlo, dirgli che non era vera, che non poteva essere così, perché Alfonso era l'erede di una grande casata e perché il ritratto che aveva visto faceva ben capire come avesse un animo nobile ed elegante.

“E se ti faccio schifo io, perché ho queste – concluse Cesare, indicandosi le cicatrici che aveva in volto – sappi che lui ne ha il doppio di me. Dicono che abbia le mani così rovinate dal mal francese da dover portare sempre degli spessi guanti di pelle...”

“Smettila.” riuscì a soffiare la giovane, ma la sua voce si perse nella confusione che li circondava.

“Adesso vattene.” tagliò corto il Valentino, facendole un cenno secco con il capo, sperando che le sue parole fossero state abbastanza cattive e ben scelte da farle passare almeno una notte in bianco a interrogarsi sulla loro veridicità.

“Perché dovrei andarmene?” chiese lei, lanciandogli una breve occhiata, pronta a restare solo per fargli dispetto, benché non desiderasse altro che scappare.

“Perché a breve da quella porta entrerà un piccolo esercito di meretrici. Sicura di voler rischiare che qualcuno dei miei amici, essendo ubriaco, ti scambi per una di loro e...” il Borja lasciò cadere la frase a metà e fece un sorrisetto malizioso che bastò, alla sorella, per convincerla a scattare in piedi e lasciare la stanza.

“Ma dove sta andando tua sorella?” chiese il papa, tornando poi, ben prima di aver risposta, a concentrarsi sul dolce e sulle chiacchiere volgari che stava scambiando con un prelato seduto a breve distanza da lui.

“Burckardt...” fece il Valentino, lasciando un momento il suo posto e avvicinandosi a Johannes, seduto qualche scranno alla sua destra: “Voglio che prendiate nota di tutto quello che succederà da questo momento in poi a questa festa. E voglio che scriviate e raccontiate come anche mia sorella fosse qui con noi e di quanto si sia divertita.”

“Con tutto il rispetto...” fece notare Burckardt, occhieggiando verso la porta oltre la quale era sparita Lucrecia: “Madonna Borja si è appena ritirata...”

“Lo so.” rimbeccò il Duca: “Ma voi scriverete quello che vi dico io e farete in modo che la cosa arrivi alle orecchie di quel fanfarone di Alfonso Este. Voglio vedere come troverà ancora affascinante e interessante mia sorella, dopo che avrà saputo di cosa è capace...”

Senza capire appieno quello che gli era appena stato chiesto di fare, Johannes annuì, per poi alzare gli occhi verso l'ingresso del salone, dove era appena comparso una sorta di cerimoniere che, battendo le mani stava inducendo tutti a fare silenzio, musici compresi.

Qualche servo cominciò a spegnere la maggior parte delle candele, creando un chiaroscuro che accresceva grandemente il clima d'attesa che si era creato. Poco per volta, mentre tutti tacevano, la musica tornò a farsi sentire, dapprima lieve e lenta, poi, man mano che entravano, una dopo l'altra, le cortigiane cantoniere scelte personalmente da Cesare, il ritmo si fece più audace, fino a tornare a essere frenetico.

Il Valentino guardava soddisfatto la compagine di donne che aveva reclutato con pazienza, una dopo l'altra. Erano tra le più belle, voluttuose e volgari meretrici di Roma e i loro occhi brillavano alle scarsa luce delle candele come gemme preziose. Erano mosse da una fame che Cesare poteva capire, ma che disprezzava. Si trattava perlopiù di ragazze che non avevano mai visto nulla di bello in vita loro, se non, a volte, gli abiti costosi degli uomini che davano loro due soldi in cambio di un'ora da schiave. Per loro tutto era oro e argento, tutto era meraviglia, perfino i volti cupidi dei condottieri e dei prelati che le fissavano con bramosia.

Il papa, entusiasta come un bambino davanti a un baule di giocattoli nuovi, batteva le mani frenetico, indicandone ora una ora l'altra, mentre le cantoniere cominciavano, lascive, a spogliarsi.

Il Duca di Valentinois osservava, in silenzio, con espressione scontrosa. Pur essendo stato lui a volere tutto quello che stava accadendo, qualcosa nel suo stomaco ribolliva. Che cosa aveva di sbagliato, la sua mente, se, mentre aveva davanti così tante belle giovani, disponibili e così facili da prendere, continuava solo a pensare alle donne più inaccessibili della sua vita?

Sbuffando, dopo quasi un'ora di balli esagitati, Cesare si alzò in piedi, sollevando il calice e disse, con voce tonante: “I candelabri! Le castagne!”

Un piccolo manipolo di servi, ben addestrato, accorse verso di lui con il sacco delle castagne, chiedendo come suddividerle tra i presenti, mentre altri sistemavano in terra i candelabri della mensa, riaccendendo le candele spente in precedenza.

“Che hai in mente?” chiese il padre al Valentino, fingendosi oltraggiato da tanta volgarità, ma con gli occhi che brillavano di viscida curiosità.

Cesare gli fece un cenno, come a dire che avrebbe spiegato tutto a breve e, infatti, non appena i commensali furono tutti in ombra, e le donne, nude e sudate, furono nel pieno della luce, il figlio del pontefice spiegò: “Ora si farà questo: ciascuno lancerà le castagne e le nostre ospiti, inginocchiandosi, le raccoglieranno. Chi ne raccoglierà di più, vincerà.”

“Che cosa vincerà?” chiese, ridacchiando, uno dei presenti.

Con un gesto molto esplicito, che suscito l'ilarità di tutti gli uomini presenti, papa compreso, il giovane Borja rispose: “Un grande premio, miei amici.”

Mentre ancora tutti ridevano, la musica riprese e, man mano che le castagne venivano lanciate in terra, le meretrici di Roma si tuffavano carponi a recuperarle, assumendo, più o meno volutamente, posizioni che aizzavano sempre più il loro pubblico, fino ad arrivare a un punto in cui il Valentino si trovò a proporre l'ultima delle gare, quella di cui, si sperava, si sarebbe sparlato di più.

“Johannes...” chiamò, distraendo il Burckardt, che, come gli altri, afferrava una castagna dopo l'altra, gettandola alle donne.

Un po' infastidito da quell'interruzione, ma ben conscio di doversi mostrare sempre servile con il figlio del papa, l'uomo gli si avvicinò e lasciò che il Borja gli sussurrasse all'orecchio. Il Duca gli spiegò per filo e per segno cosa aveva in mente e lo pregò di esporre con le sue 'più chiare parole' a tutti gli altri le regole del gioco.

“Ma aspettate che prima faccio portare i premi...” concluse Cesare, facendo un cenno a uno dei servi che, prontamente, sparì al di là della porta, tornando poi con altri domestici che portavano con sé vestiti, calzari e berrette.

Un po' in difficoltà per la natura particolare della sfida che era stato convinto a lanciare, Johannes si schiarì la voce e cominciò a elencare le regole di quel gioco, se così lo si poteva chiamare. Di regole, in realtà, quella gara ne aveva solo due: la prima consisteva nel fatto che i vincitori sarebbero stati coloro i quali fossero riusciti a possedere il maggior numero di donne, mentre la seconda prevedeva che, per evitare brogli, ciascuno dovesse fare ogni cosa 'dal principio alla fine' davanti a tutti gli altri.

Ci fu solo un brevissimo istante, durante il quale tutti, specie il pontefice, si guardarono attorno smarriti, come a chiedersi se potessero davvero fare una simile cosa.

Nonostante questo labile dubbio, nel momento stesso in cui i musici, d'accordo con il Valentino, cominciarono a intonare una melodia di sottofondo che conciliasse alla gara, fu proprio Alessandro VI, con una sonora risata e una fragorosa bestemmia, a sollevarsi subito il vestone da papa e correre dietro alla prima cantoniera che gli capitò a tiro. Gli altri non poterono che seguire.

“Voi non prendete parte alla gara?” chiese il Valentino, che osservava con un certo distacco suo padre e altri prelati perdere ogni pudore.

Burckardt non si era quasi accorto della vicinanza di Cesare, tanto era attonito nell'osservare le meretrici concedersi in parte senza proteste ai loro clienti, e in parte cercare di scappare davanti alla voracità di alcuni uomini che sembravano non avere alcun senso della misura.

Sollevando un sopracciglio, quindi, gli rispose con qualche secondo di scarto: “Non mi interessa vincere dei vestiti in una gara che, per essere vinta, prevede che io li debba togliere.”

“Contorto, come pensiero.” borbottò il Valentino, che cominciava ad avere mal di testa: “Guardate, guardate il vicario di Dio...” disse poi, indicando il padre, che aveva appena immobilizzato una delle ragazze più giovani: “Come potete meravigliarvi che qualcuno lo paragoni al diavolo?”

Johannes non disse nulla, guardando di sottecchi il Borja che, dandogli una pacca sulla spalla, si allontanò un po', cercandosi un angolo in ombra in cui attendere la fine della bolgia infernale che si era scatenata, in modo da poter consegnare a chi di dovere i premi da lui stesso acquistati.

Burckardt rimase fino alla premiazione, più per dovere di cronaca, che di reale curiosità. Fece in tempo a sentire il papa, ancora nudo e ubriaco, dire che quel giorno di Ognissanti non avrebbe celebrato Messa perché iniziava a sentirsi indisposto.

Nauseato dalla notte appena trascorsa, Johannes arrivò nelle sue stanze quando ormai albeggiava, si svestì in fretta per togliersi di dosso il tanfo di quella follia e poi si mise a scrivere il resoconto di quella festa, così come Cesare gli aveva chiesto di fare, includendo anche la giovane e povera Lucrecia tra i presenti.

'Post cenam posita fuerunt candelabra communia mense in candelis ardentibus per terram, et projecta ante candelabra per terram castanee quas meretrices ipse super manibus et pedibus, nude, candelabra pertranseuntes, colligebat, Papa, duce et D. Lucretia sorore sua presentibus et aspicientibus.' scrisse, cercando di essere sintetico, ma esaustivo: 'Tandem exposita dona ultima, diploides de serico, paria caligarum, biratta et alia pro illis pluries dictas meretrices carnaliter agnoscerent – fece un lungo sospiro e poi decise di chiudere la questione con un semplice – que fuerunt ibidem in aula publice carnaliter tractate arbitrio presentium, dona distributa victoribus.'.

 

Erano passati un paio di giorni dal compleanno di Bianca, e novembre cominciava a far sentire meglio il freddo dell'inverno, che, in quel 1501 sembrava voler arrivare prima del previsto.

Caterina sentiva l'umidità della notte incunearsi nelle sue ossa e di giorno, se si sbagliava a trascorrere nel cortiletto interno più di una mezz'ora, la pagava con dolori 'da vecchia', come li considerava lei, fino a sera. Dava la colpa alla prigionia, al fatto di essere rimasta per mesi in una cella al buio, ma sapeva anche che in parte il suo corpo le stava chiedendo il conto di una vita passata a non curarsi troppo dei fastidi che sopportava.

Ad accompagnare gli acciacchi del corpo, la Tigre aveva le tribolazioni del pensiero. Fortunati aveva saputo che Lorenzo stava per concretizzare le sue accuse, avendo ritrovato prima del previsto i debitori di Caterina e, a tal proposito, aveva lasciato la villa subito, per andare in cerca del denaro sufficiente per permetterle di saldare almeno creditori maggiori. Anche se un'idea era quella di ripagarli con abiti e mobilia, il piovano pensava che la moneta sonante avrebbe fatto una figura migliore. Così la Sforza, suo malgrado, si era messa ad aspettare gli eventi.

Quella mattina, Bianca era al suo fianco, davanti al camino del salone, e stava ricamando. Aveva lo sguardo basso e concentrato e sul suo viso c'era una piccola ruga severa che alla Leonessa ricordò ancora di più sua madre Lucrezia. Anche lei, quando prendeva ago e filo per qualche lavoro di precisione assumeva quell'espressione seria e attenta.

Galeazzo e Bernardino erano assieme a Sforzino nella sala delle letture, anche se la milanese immaginava si stessero dedicando come sempre all'addestrare i muscoli, più che la mente.

Di Ottaviano aveva perso le tracce, ma verosimilmente doveva essere in camera sua, e a Caterina non importava sapere cosa stesse facendo.

Seguendo il filo invisibile dei suoi pensieri, a un certo punto la donna disse: “So che Cesare ha scritto a Ottaviano, qualche giorno fa...”

Bianca sollevò un po' le spalle e rispose: “Sembra anche a me, ma non mi ha detto cosa gli ha scritto...”

“Non l'ha detto nemmeno a me.” fece la Tigre, lasciando subito cadere il discorso: “Ho visto che Galeazzo ha cominciato a rasarsi.”

“Era ora, in fondo.” commentò la Riario, smettendo finalmente di sferruzzare per sollevare gli occhi blu verso la madre: “Adesso ha un aspetto più ordinato.”

“Credi che Galeazzo...” cominciò a dire la Sforza, ma qualcuno bussò alla porta e così dovette interrompersi per dare alla serva Creobola il permesso di entrare.

“Una lettera per voi.” disse la domestica, porgendole il messaggio.

La Leonessa la ringraziò e attese che fosse uscita, prima di aprirlo. Si trattava di una missiva di Fortunati. La lesse in fretta, cercando di non lasciar intravedere proprio la sua agitazione, mentre scorreva una riga dopo l'altra.

“Qualche brutta notizia?” chiese Bianca, che aveva notato come il volto della madre avesse perso in fretta colore.

La milanese, che pure aveva affrontato cose ben peggiori nella sua vita, deglutì e fece un cenno con il capo. Lasciò perdere la parte in cui Francesco le faceva sapere che Bernardino da Cremona chiedeva il suo permesso per mettersi al soldo del fiorentino Niccolò Piccinino, e non parlò nemmeno dell'accenno a Paolo Riario che chiedeva di incontrarla, ma andò subito al dunque.

“Fortunati ha trovato un accordo con Giovanni Baldi – disse, senza ripercorrere tutta la questione, dato che la figlia era già al corrente di ogni cosa – e domani io e Ottaviano siamo convocato al palazzo di Lorenzo per sistemare tutto quanto.”

La Riario lasciò da parte una volta per tutte il ricamo, appoggiandolo alla poltrona vicina e chiese, in apprensione: “Ci possiamo fidare? È una cosa che si può fare? Andrete davvero?”

Caterina guardò di nuovo la lettera del piovano. Si fidava di Fortunati, doveva potersi fidare almeno di lui.

“Sì.” sussurrò: “Sì, è una cosa che va fatta e che faremo. Vado a dire a tuo fratello che domani dovrà venire con me in città e che dovrà... Dovrà comportarsi come se fosse davvero il degno erede di un Conte.”

Bianca non disse nulla, guardando la madre alzarsi e poi, appena la Tigre se ne fu andata, prese la lettera che la donna aveva abbandonato sul divanetto e la lesse. All'indomani, spiegava fortunati, giorno 3 novembre, avrebbe mandato qualcuno a prendere sia la Leonessa sia Ottaviano e poi sarebbero andati a casa di Lorenzo, che aveva offerto la sua dimora come sede neutra, così sosteneva, per appianare la questione davanti al notaio Braccesi.

Mettendosi a fissare il fuoco nel camino, la Riario sentì una stretta al petto e, subito, sapendo di non poter far altro per la madre, si mise a pregare con tutta la forza che aveva affinché quell'incontro non si rivelasse una trappola.

   
 
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