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Autore: Adeia Di Elferas    24/09/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Quella mattina Fortunati non aveva potuto fare a meno di seguire il consiglio di Caterina, ed era rimasto a dormire fin quasi a mezzogiorno. Si era ripromesso di scendere a mangiare qualcosa con la famiglia, ma poi aveva rinunciato, in favore di un'operazione delicata, ma necessaria.

Proprio approfittando del fatto che tutti, compreso frate Lauro, erano in sala da pranzo, voleva andare a controllare nella stanza di Ottaviano, per vedere se fosse stato così ingenuo da lasciare qualche traccia dei suoi traffici.

Così, aspettando il momento giusto, il piovano si vestì con cura con un cambio d'abiti che aveva lasciato alla villa durante il suo ultimo soggiorno e poi, con fare circospetto, uscì dalla sua stanza e si diresse verso quella del primogenito della Tigre.

Non incrociò nessuno, nemmeno un servo, eppure per tutto il tragitto Francesco ebbe la sensazione di essere osservato. Non riusciva a capire se si trattava di un'ansia fondata oppure se la notte passata a vagare al buio sotto la neve l'avesse reso troppo influenzabile. Anche se aveva trascorso poi qualche ora con la Leonessa a parlare e anche se poi era riuscito a dormire beato, fin dal suo risveglio si era sentito di nuovo addosso la fremente incertezza che aveva permeato la sua anima nel suo raggiungere la villa.

Quando giunse a destinazione, comunque, si guardò in giro più volte e, appurato di essere davvero solo, entrò nella stanza del Riario in fretta, chiudendosi all'istante la porta alle spalle e imponendosi di stare calmo. Aveva anche già una scusa pronta, nel caso in cui qualcuno lo avesse trovato lì: voleva lasciare il suo dono di compleanno a Bernardino – e in effetti aveva nella tasca il libriccino tascabile di preghiere che aveva intenzione di regalargli – e, mancando da un po', aveva fatto confusione ed era entrato nella stanza sbagliata.

Senza perdere tempo, il piovano cominciò dai posti più ovvi. Calcolando che, verosimilmente, ciò che poteva trovare erano lettere o al massimo appunti privati, l'uomo aprì i due piccoli cassetti della scrivania e da lì, trovandoli vuoti, passò alla cassapanca e poi si decise a passare al setaccio ogni angolo.

La stanza di Ottaviano gli metteva quasi paura. A parte gli abiti, sistemati quasi con cura maniacale, tutti gli altri – pochissimi – averi del figlio di Caterina erano in disordine, ma ciò che lo colpiva ancora di più era l'impersonalità e la sensazione di vuoto che dava quella camera. Avrebbe potuto viverci il Riario, come chiunque altro o come nessuno.

Stava quasi per rinunciare, convinto che, se qualche indizio esisteva davvero, Ottaviano dovesse averlo con sé, o averlo distrutto per tempo, quando gli tornò in mente un aneddoto della sua giovinezza, quando ancora studiava, con la speranza di fare una discreta carriera ecclesiastica. C'era un suo compagno di studi che, per non far trovare certe lettere che si scambiava con una ragazza, aveva preso l'abitudine di nasconderle sotto al materasso, sostenendo che nessuno si sarebbe mai messo a frugare proprio là sotto.

Così, tanto per non lasciare nulla di intentato, Francesco si avvicinò al letto del Riario e, palmo a palmo, controllò ogni angolo del materasso, fino a che, finalmente trovò qualcosa.

Incredulo egli stesso della sua fortuna, aprì la lettera spiegazzata, ma riuscì appena a leggerne il nome dell'autore – certo Pier Paolo Venanzio da Spello – e poche, centrali frasi, tra cui: 'io son di parere che omnino le S.V. Partano di cotesta Ciptà et dal suo Dominio et se reduchano in loco securo como seria in Lombardia o in Saona, el medesimo partito prendere da Madonna Bianca et de tute le faculta...'.

L'occhio di Fortunati cercò di spingersi oltre, ma la voce strascicata e allarmata di Ottaviano glielo impedì: “Come vi permettete di toccare le mie cose e di entrare nella mia stanza?”

Il giovane uomo, alto e, malgrado fosse poco atletico, abbastanza imponente, si parò davanti al piovano e gli strappò di mano la missiva. Quell'interruzione, tanto inattesa quanto improvvisa, mandò del tutto all'aria il progetto del piovano di difendersi con la scusa del regalo da consegnare a Bernardino.

“Cosa significa quella lettera?” indagò infatti Francesco, senza retrocedere, anzi, sfidando il Riario con uno sguardo acceso e inquisitorio.

“Non sono cose che vi interessino.” rispose il Riario, infilando la lettera nel giubbone.

Il suo volto era livido e portava ancora i segni del mezzo litigio iniziato a tavola tra lui e Bernardino e sedato in fretta dalla madre, che l'aveva allontanato con freddezza, preferendo dare la colpa a lui di tutte le tensioni che si erano create, senza prendersi la briga di cercare di capire chi, effettivamente, tra lui e il Feo avesse cominciato a punzecchiare l'altro. Era stato l'ordine, breve e perentorio, della Tigre a farlo alzare da tavola prima del previsto e farlo tornare in stanza con così tanto anticipo e ancora a stomaco quasi vuoto.

“E invece sono eccome cose che mi interessano!” sbottò il piovano, stringendo i pugni lungo i fianchi, il bel viso che si contraeva in un'espressione oltraggiata: “Io ho garantito con la mia stessa vita per vostra madre e anche per voi e tutti i vostri fratelli!”

“Non dovevate farlo...” fece il Riario, apparentemente impassibile anche davanti al tono aggressivo del fiorentino: “Non siete mica nostro padre, non era vostro compito...”

Francesco, forse per la prima volta in vita sua, provò un bruciante desiderio di prendere a schiaffi il ragazzo che si trovava dinnanzi, e, per evitare di farlo, si trovò a convogliare tutta la sua rabbia in un sibilo stridulo: “Ringrazio Dio di non esservi padre, messer Ottaviano.”

Il figlio primogenito della Sforza sollevò il mento, con fare da sbruffone, ma non seppe come ribattere a una simile affermazione.

“Ve lo chiedo ancora una volta: cosa significa esattamente questa lettera?” insistette Fortunati, indicando con indice malfermo il petto del Riario, laddove, tra il giubbone e il camicione, era stata messa al sicuro la missiva.

“Ancora una volta vi dico: non sono affari vostri.” ribatté ostinato Ottaviano, allargando le braccia e facendo un cenno alla porta con il capo: “Se volete togliere il disturbo...”

Voleva allontanarlo da lì il prima possibile perché, malgrado la sua sceneggiata, era terrorizzato dal piovano e dalle sue scoperte e, ancora di più, da quello che avrebbe riferito a sua madre Caterina. Si sentiva come un vaso di vetro sottilissimo nelle mani di un vetraio sbadato. Per ora non era ancora precipitato in terra, ma ogni frase che usciva dalla sue labbra o da quelle di Fortunati rischiava di essere lo scivolone fatale in cui sarebbe caduto, frantumandosi in mille pezzi.

“A chi avete dato i soldi che avete rubato a vostra madre?” domandò Francesco, provando a cambiare strategia.

“Non ho rubato niente a nessuno.” si difese, in modo abbastanza pallido, il giovane.

“A chi?” lo incalzò il fiorentino, scoprendo appena i denti e continuando a indicarlo con l'indice.

Cercando in fretta una scusa che apparisse plausibile, dato che gli sembrava impossibile continuare a sostenere di non aver preso lui i soldi, il Riario esclamò: “A una donna, per portarmela a letto, va bene?”

Il piovano fece un'espressione scettica, per non dire disgustata dalla pochezza di spirito del ragazzo, ma Ottaviano decise di tirare dritto per la sua strada.

“Non voleva e così ho dovuto offrirle più di quello che avrei voluto.” spiegò: “Ma cosa ne volete sapere voi?” continuò, pensando che la miglior difesa fosse l'attacco: “Avete l'età di Matusalemme e scommetto che una donna non sapete nemmeno com'è fatta! Di certo non siete riuscito a portarvi a letto nemmeno mia madre, che se la faceva con tutti, quando ancora stavamo a Forlì..!”

Quella volta, trattenersi dal prendere a schiaffi il Riario fu veramente un'impresa titanica. A frenare il piovano fu solo ed esclusivamente il ricordo di un altro schiaffo dato a Ottaviano, uno schiaffo di cui aveva solo sentito parlare, sempre con un tono quasi di mistero, come se fosse stato quello il primo tassello del mosaico tragico e tremendo che aveva portato alla morte del giovane Barone Feo...

“Ma non vi è bastato rovinare la vita di vostra madre una volta? Quante altre volete essere per lei una condanna?” chiese Francesco, sfinito, esausto dopo quel breve confronto.

Il Riario capì che l'altro alludeva alla morte di Giacomo Feo, ma preferì rispondere di getto, dando voce al suo tormento più oscuro e costante, senza ragionare su cosa sarebbe stato più opportuno dire: “Non è colpa mia, se sono nato.”

Fortunati, a quel punto, vide negli occhi di Ottaviano un dolore tanto profondo da non riuscire a controbattere. Malgrado la scarsissima stima che provava per lui e la naturale diffidenza, non riuscì ad accanirsi oltre.

“Malgrado tutto – gli disse solo – spero che alla fine capiate anche voi quale sia la cosa giusta da fare e che vostra madre, pur se con difficoltà, vi ha sempre protetto e scusato, anche quando sarebbe stato più facile lasciarvi alla mercé dei nemici e ai vostri errori...”

E, dopo un breve sguardo al giovane Riario, il piovano andò alla porta e lo lasciò solo coi suoi pensieri.

 

Ercole aveva passato tutto il giorno con dei dolori di stomaco tremendi e ne conosceva bene la natura. Trascorrere la mattina a raccomandarsi con i suoi messi affinché capissero bene quanto fosse importante non incorrere in inghippi, a Roma, l'aveva stremato.

Nessuno, a parte lui, sembrava capire quanto fosse cruciale il matrimonio tra Lucrecia Borja e Alfonso, anzi, proprio suo figlio era quello a cui pareva importare di meno di tutta quella questione.

Così, quel pomeriggio, tralasciando gli altri suoi doveri, il Duca di Ferrara aveva fatto chiamare il suo erede per discutere con lui di 'cose importanti'.

Anche se lo stesso Ercole, per il momento, ancora non aveva fatto partire il corteo che avrebbe scortato la sua futura nuora lì a Ferrara, era pur vero che aveva già scritto all'Imperatore Massimiliano una lunga lettera in cui lo rassicurava circa le prossime nozze di Alfonso, sostenendo come preferisse sbrigare il tutto prima che si entrasse in modo conclamato nella stagione delle nevi, per evitare che la giovane Borja attraversasse mezza Italia su strade rese insicure e pericolose dal mal tempo.

“Mi avete mandato a chiamare?” il tono di Alfonso giunse all'orecchio del padre come una provocazione.

Anche se il futuro Duca di Ferrara si era presentato in orario e aveva addirittura avuto la cura di pulirsi il volto – spesso sporco di grasso e polvere scura, per via del suo passatempo, ossia la costruzione e il collaudo di pezzi d'artiglieria – all'Este sembrava sempre che fosse manchevole in qualcosa, un po' come se gli avesse dato il contentino, presentandosi nel salone, ma con la testa fosse altrove.

“Volevo farti sapere che tra poco più di una settimana, farò partire la scorta che porterà qui la tua sposa.” disse, rigido, Ercole.

Il figlio, grattandosi un momento la fronte, sollevò le sopracciglia e rispose: “Va bene, vi ringrazio per avermelo detto.”

“Questa volta non sono ammessi fallimenti.” mise in chiaro il Duca.

Punto sul vivo, Alfonso prese colore tutto d'un colpo e, massaggiandosi le mani coperte dai guanti, l'una con l'altra, ribatté, aspro: “Dovreste dirlo anche a lei, quando sarà qui, non solo a me.”

“Il marito sarai tu.” rimbeccò, ancor più ostile, il padre: “Sta a te dominarla e segnarle la via. Starà a te insegnarle che significa...”

“Quella donna ha già avuto due mariti.” disse il giovane Este, con una sorta di ghigno, interrompendo il Duca: “E da quello che si dice non ha avuto solo loro, tra le lenzuola. Credo che sappia già molto bene tutto quello che c'è da sapere. Per quanto mi riguarda, basta che non abbia pretese assurde, e...”

“Tutti si dovranno scordare che quella donna è già stata sposata con altri.” lo redarguì Ercole: “Si dovrà dire ovunque che mai ha avuto marito prima del figlio del Duca di Ferrara.”

“E quindi i figli che ha già con chi li avrebbe concepiti? Con lo Spirito San...” Alfonso non riuscì a terminare la frase, perché il padre, svettando su di lui, benché il figlio fosse ben prestante, gli diede un forte schiaffo.

“Sciacquati la bocca, prima di dire certe cose.” fu il severo richiamo dell'uomo: “Non voglio avere uno spergiuro e un peccatore come erede.”

Il venticinquenne, davanti a quell'esternazione del padre, che denunciava una volta di più l'insoddisfazione per quel primogenito per lui così difforme dalle aspettative, si trovò a tacere e abbassare lo sguardo, senza sapere come controbattere.

Il silenzio che seguì rabbonì in parte Ercole, che lesse nello zittirsi del figlio una sorta di ammissione di colpa. Tuttavia, quando le acque si erano ormai calmate, Alfonso si lasciò di nuovo prendere dall'irrequietezza che l'aveva sempre tormentato e, con impazienza, si pianto i pugni chiusi sui fianchi.

“Allora?” chiese, dopo un po', vedendo che il Duca non diceva più nulla: “Io avrei da fare... Se mi avete chiamato qui solo per dirmi che dovrò essere un buon marito io...”

“Come tuo solito – ribatté Ercole – non hai capito nulla. Io non ti ho chiamato qui per dirti che dovrai essere un buon marito... Io ti ho chiamato qui per dirti che dovrai fare in modo che quella maledetta Borja sia una buona moglie.”

Il giovane sollevò un sopracciglio, tentato di dire la sua, ma alla fine lasciò perdere. Dopo le ultime parole del padre, su di loro aleggiava il fantasma della sua prima moglie, Anna Maria Sforza, e tanto gli bastava per non voler più andare avanti con il discorso.

“Adesso vattene.” fece, freddo, il Duca, con la stessa fretta che aveva anche Alfonso, come se pure lui avvertisse il morso gelido della defunta Anna Maria, il suo rancore e la sua infelicità: “Torna ai tuoi cannoni, o alle tue donnacce, non mi interessa, basta che ti levi dai piedi almeno fino a domani...”

Amareggiato per il tono di sufficienza con cui l'uomo, settantenne, lo trattava, il giovane Este sporse il mento in fuori e poi, con un cenno secco del capo prese commiato e se ne andò, senza aver capito, nel profondo, il reale scopo di quell'incontro.

Anche Ercole si era reso conto che il figlio non aveva colto appieno il suo messaggio e dunque, per provare ad arginare un fiume che si preannunciava molto difficile da domare, il Duca si mise a rimuginare, pensando a nuovi nomi di dame da compagnia e di serve, che andassero a infoltire ulteriormente la schiera di persone che avrebbe messo alle calcagna di Lucrecia. Quella ragazza poteva essere scaltra e viziosa come voleva, ma non avrebbe potuto dar sfogo ai suoi capricci, se fosse sempre stata circondata da occhi puntati su di lei e pagati per riferirne ogni più piccola mossa a lui... Aveva commesso, in passato, l'errore di lasciare Anna Maria Sforza troppo sola, troppo libera, illudendosi che allentare le catene bastasse per tenerla in prigione più agevolmente. Non avrebbe mai commesso il medesimo errore una seconda volta.

“Errare humanum est – disse tra sé – perseverare autem diabolicum...”

 

Caterina aveva aspettato per tutto il giorno che fosse il piovano a dirle qualcosa, in merito a Ottaviano e la sua attesa non venne delusa. Era arrivata la tarda sera, però, e Fortunati ancora non l'aveva avvicinata. Di contro, lei non l'aveva cercato, convinta che l'uomo non avesse ancora nulla di concreto da riferirle.

Così, ormai convinta che per quel giorno non avrebbe avuto novità sui maneggi segreti di suo figlio Ottaviano, vinta dalla stanchezza andò a coricarsi. Era impressionante a volte come, dopo un giorno passato a non fare quasi nulla, si sentisse a pezzi. Paradossalmente, ricordava di essere stata molto meno stanca quando combatteva, addestrava e governava. L'inerzia, unita alle preoccupazioni e al senso di impotenza che la dominava ormai quotidianamente, sembravano averla resa sottile, come una corda d'arco troppo tesa.

Non si accorse di addormentarsi, ma si rese conto di stare sognando, quando vide Ottaviano Manfredi davanti a sé. Era una condizione strana, perché sapeva benissimo che il faentino era morto da tempo e sapeva che quella che vedeva non era la realtà, eppure non voleva staccarsene.

Risentiva il suono della sua voce, l'odore della sua pelle e rivedeva il biondo pieno dei suoi capelli.

Poteva addirittura avvertirne il calore. Era qualcosa di così reale che si augurò quasi di non svegliarsi mai più.

Si abbandonò tra le braccia del suo amante, lo bramò e lo desiderò fino allo sfinimento e, anche se sempre avvolta nella nuvola del sogno, lo catturò, lo sedusse e lo dominò come aveva fatto un'infinità di volte quando lui era in vita. Era suo e basta.

Il dettaglio che più di tutti le faceva capire che si trattava di un sogno e non della realtà era il fatto che Manfredi non parlava. Non aveva detto nemmeno mezza parola. Non era una cosa da lui...

Non le importava. Si dedicò di nuovo a lui, ininterrottamente, mentre tutt'attorno a loro l'aura si sfumava, si incendiava e poi ghiacciava...

Stava saggiando il sapore sfuggente delle sue labbra, quando qualcuno bussò alla porta, svegliandola di colpo.

Confusa, frastornata e ancora immersa in sensazioni che credeva di aver scordato, anzi, che temeva che il Borja avesse cancellato per sempre in lei, Caterina chiese, con voce roca: “Chi è?”

Fortunati rispose: “Sono io... Posso entrare?”

La Tigre, ancora accaldata e scossa per il realismo del sogno appena fatto, si schiarì la voce e andò ad aprire, rispondendo: “Certo... Certo... Ti aspettavo anche prima...”

Francesco sgusciò in camera come un'ombra e poi rimase un istante in attesa. La donna gli disse di accendere qualche candela, con il solito tono che aveva usato per una vita, nella sua rocca, ossia quello del comando. Al piovano non dispiaceva, quando faceva così, perché erano i momenti in cui la riconosceva di più. Doveva ammettere che la nuova Leonessa, a volta timorosa, a volte incerta, gli piaceva meno di quella vecchia, che prendeva decisioni di continuo, che, pur di non passare per debole o spaventata, diventava aggressiva, finanche violenta. Era quella la donna che aveva imparato a conoscere e amare.

Mentre accendeva le fiammelle, Francesco diede uno sguardo al letto sfatto. Sembrava ci fosse stata una battaglia... Poi lanciò un'occhiata alla Sforza e la trovò rossa in viso e visibilmente scombussolata. Per una frazione di secondo, fu tentato di controllare se nella cassapanca ci fosse nascosto un uomo.

Accantonò subito l'idea, ma chiese, fingendo noncuranza: “Stavi facendo un incubo..?”

“Incubo?” chiese lei, tossicchiando per la terza volta nell'arco di pochi minuti, nella speranza di rendere la propria voce un po' meno gracchiante: “No, no, non direi...”

“Non volevo svegliarti...” si scusò lui, dandole ancora le spalle.

“Stavo sognando Manfredi.” ammise Caterina, sentendo il bisogno di parlarne con qualcuno.

Fortunati sentì un brivido corrergli lungo la schiena: “Mi... Mi spiace.” sussurrò, credendo che la milanese fosse rimasta intristita dai ricordi e dai rimpianti.

“Ho sognato di...” la Leonessa tentennò un istante e poi concluse: “Ho sognato di amarlo.”

Il piovano rimase in silenzio, come se avesse capito solo in parte quella confessione. Quando parve coglierne la sfumatura più terrena, deglutì e sollevò appena le sopracciglia, un po' imbarazzato.

“Ti manca?” chiese Francesco, sforzandosi di portare il discorso su un piano che poteva capire forse di più.

In realtà l'uomo non aveva alcuna voglia di parlare di Ottaviano Manfredi, specie dopo che la donna gli aveva riferito di aver fatto quel tipo di sogno su di lui. Ricordava ancora troppo bene il giorno di sole in cui era morto, il senso di minaccia e di vulnerabilità che aveva provato e, ancor di più, la paura che l'aveva quasi soffocato all'idea che Caterina potesse in qualche modo ritenerlo responsabile per l'accaduto.

La milanese fu tentata di spiegare con parole sue cosa di più le mancasse di Manfredi, ma si rese conto, con un solo sguardo, che Fortunati, almeno in quel momento, non era la persona giusta con cui confidarsi.

“Non importa...” sussurrò lei: “Dimmi cos'hai scoperto su mio figlio.

Nel giro di una manciata scarsa minuti, il piovano le riassunse con cura certosina tutte le – poche, in realtà – informazioni che aveva racimolato su Ottaviano e sui suoi maneggi. Aveva capito che anche Cesare era, come previsto, coinvolto, ma cosa, di preciso, stessero architettando gli sfuggiva.

“Probabilmente – concluse, con una certa sicurezza – stanno ancora cercando di fare ottenere un cappello cardinalizio a Ottaviano.”

La Leonessa sbuffò. Sarebbe stata divertita, se non fosse stata coinvolta tanto da vicino. Trovava che il suo primogenito fosse il prototipo in persona del Cardinale perfetto: vizioso, mangione e ignorante. Ne aveva visti a bizzeffe, da ragazza, mentre viveva a Roma. E le era parso che più fossero stupidi, sboccati e avidi, più avessero fortuna.

Il fatto che suo figlio stesse cercando di avvicinarsi al Vaticano, però, invece di suscitarle una certa ilarità, la gettava nello sconforto. Con quello che il papa, per tramite di suo figlio, le aveva fatto, come poteva Ottaviano cercare proprio nell'Urbe il suo futuro?

“A me basta che non mi rubi altri soldi – tagliò corto alla fine – perché la mia situazione, non so se è chiaro, non è difficile, ma disastrosa.”

Fortunati fece un cenno d'assenso con il capo, ma dovette anche allargare le braccia, quasi a dire che lui poteva farci bene poco.

“Piuttosto – riprese Caterina – i nostri, di maneggi, a Roma come vanno?”

L'uomo comprese subito come il soggetto della domanda fosse Baccino. Le riferì come, dalle ultime nuove che aveva, poteva darsi che la sua liberazione fosse vicina. Il Cardinale Sansoni Riario, poi, assicurava anche di avergli trovato già un posto al seguito di un suo conoscente e consigliava di aspettare, se quello era il progetto, a chiamarlo a Firenze, per non sollevare sospetti.

“Certo, perché ha il terrore che il papa pensi che lui è in combutta con me per riconquistare la Romagna!” sbottò la Tigre, non riuscendo a non vedere nella raccomandazione di Raffaele l'ombra della codardia dei Riario.

“Sei troppo dura con chi ti vuole aiutare.” la rimbrottò il piovano, che vedeva nell'insofferenza della Sforza più la delusione di non poter riavere affianco uno dei suoi vecchi amanti che non il nervosismo per il comportamento del parente.

La Leonessa si strinse nelle spalle, sentendo freddo come se si fosse accorta solo in quell'istante che la sua veste da notte era troppo leggera, senza la protezione delle pesanti coperte del suo letto.

Francesco non voleva essere troppo ruvido, perciò, dato che non riusciva a levarsi dalla mente l'idea che Caterina non facesse altro che ricordare i suoi vecchi amanti e sperare che almeno uno, ossia Baccino, tornasse presto da lei, preferì chiudere lì l'incontro, prima di diventare sgradevole e finire per allontanarla: “Adesso è meglio che vada a coricarmi, sono stanco. Se scoprirò qualcosa di nuovo su tuo figlio, te lo farò sapere.”

La milanese ringraziò e poi soggiunse, sfiorandogli appena un braccio: “Grazie, per quello che fai.”

Apparentemente quasi infastidito da quel tocco, il piovano annuì e poi disse, già alla porta: “Se vorrai andare a trovare tuo figlio in convento, ti conviene farlo presto... Da quello che ho capito i francesi vogliono mandare presto qualcuno a controllare la situazione e penso che sarebbe bene che ti trovassero qui.”

La donna avrebbe voluto dirgli che se i francesi avessero mandato Troilo De Rossi il problema non sussisteva, perché dubitava che l'amante di sua figlia avrebbe riferito al re di Francia della sua eventuale assenza, e avrebbe anche voluto dirgli che non aveva più chiesto di vedere Giovannino non perché non volesse – anzi, non avere il piccolo con sé era un dolore sordo e continuo che non l'abbandonava mai – ma perché aveva paura che Lorenzo la facesse seguire e lo trovasse. E avrebbe voluto dirgli un sacco di altre cose, ma alla fine tacque e basta.

“Allora buona notte.” sussurrò l'uomo, aprendosi la porta e andandosene senza aspettare una risposta.

Gli spiaceva, essere uscito dalla stanza a quel modo, ma si sentiva tanto confuso e rimestato da non avere alternative. Era come se dentro di lui fosse scattato qualcosa. Non vedeva più Caterina come la vedeva prima e faticava a capire l'attrazione che provava per lei.

Arrivato nella sua camera, il piovano camminò avanti e indietro per qualche minuto, il cuore in subbuglio e la mente annebbiata. Alla fine quasi corse all'inginocchiatoio e, con le mani giunte davanti a sé, si mise a pregare con tutte le sue forze, chiedendo soccorso a Dio per l'Apocalisse che gli stava agitando l'anima.

All'inizio, nel vedere Caterina, ricordava, vedeva solo una persona cara al suo amico Giovanni Medici. Poi, con l'andare del tempo, conoscendola un po' di più, aveva cominciato a vederci una persona degna della sua stima e della sua compassione in egual misura. Ci aveva visto un'amica, da difendere e proteggere e aiutare come meglio poteva... Ora... Ora ci vedeva sempre di più una donna, e rendersene conto lo spaventava come mai nient'altro l'aveva spaventato in vita sua.

Facendosi il segno della croce, ricordandosi, a voce alta, i voti presi da ragazzino e mai infranti, Fortunati si rialzò dall'inginocchiatoio, appoggiandosi con ambo le mani al legno scuro, come se sollevare il proprio corpo e tornare a schiena dritta fosse una fatica ormai immane.

Forse, si disse, era stato un errore tornare così presto alla villa. Forse avrebbe dovuto gestire tutto da Cascina o da Firenze...

Scuotendo il capo e dandosi da solo dello stolto, Francesco camminò lento fino al letto e vi ci si buttò sopra. Le mani strette al cuore, come se potesse strapparselo, chiuse gli occhi e implorò di nuovo il perdono divino per quello che pensava e provava.

La cosa che più lo tormentava era la profonda convinzione che, per la donna che era Caterina, se lui si fosse proposto a lei in modo esplicito, affindandolesi completamente, lasciandosi guidare in un mondo che non conosceva, lei, probabilmente, non l'avrebbe rifiutato. Era molto più difficile resistere a quella tentazione, sapendolo...

Quasi a volersi blandire da solo, con un sospiro, Francesco bisbigliò: “Errare humanum est...”

   
 
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