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Autore: Adeia Di Elferas    02/10/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Non trovando altri motivi per ritardare la partenza della comitiva che sarebbe andata a prendere Lucrecia Borja a Roma, il Duca Ercole, l'8 dicembre 1501 si vide costretto a dare il suo benestare.

In realtà quel giorno partiva da Ferrara solo l'avanguardia della spedizione nuziale, ossia i siniscalchi e gli spenditori, che si sarebbero occupati dell'alloggio e delle vivande della compagnia e che quindi dovevano andare in avanscoperta per scegliere i punti di soggiorno e mercanteggiare con la gente del luogo per i viveri.

Il momento veramente importante, quindi, venne il giorno dopo. Quel giovedì, di buon'ora, Ercole si mise in sella e fece svegliare senza troppe cerimonie il figlio. Alfonso, ancora mezzo addormentato e stordito dalla notte passata alla fucina a migliorare un tipo di proiettile che riteneva micidiale, lo seguì senza protestare fino al palazzo della Certosa.

Il Cardinale Ippolito, fratello ventiduenne del promesso sposo, e terzogenito del Duca, li stava attendendo trepidante, già pronto per mettersi in viaggio. Sapeva che quella spedizione era per lui un'occasione rara per mettersi in mostra a Roma e far crescere l'importanza non solo della sua famiglia, ma anche la sua personale, cosa non comune, alla sua età. Non sarebbe andato solo, ovviamente, lo avrebbero accompagnato due suoi fratelli, Sigismondo, che aveva appena un anno meno di lui, e il ventiquattrenne Ferrante, ma Ippolito sapeva di essere lui il vero fulcro di tutta quell'operazione.

Non a caso, si ripeteva il Cardinale, i suoi fratelli sarebbero tornati a Ferrara con la Borja, mentre lui sarebbe rimasto nell'Urbe, a tessere trame e guadagnarsi un posto nel gran mondo. La sua carriera, se ne rendeva conto, poteva virare bruscamente in una manciata di giorni. Stava a lui vedere se farle prendere il largo della fama o quello dell'oblio.

Quando suo padre e suo fratello arrivarono da lui, Ippolito salutò il Duca con grandi ossequi, ma scambiò a malapena una parola con Alfonso. Sapeva bene che per il maggiore quell'operazione diventava solo il coronamento di una nuova coercizione perpetrata dal loro padre, e quindi il Cardinale era in imbarazzo, se era quello il termine giusto, nei suoi confronti, nel vederci, invece, una grande opportunità personale.

Il corteo, una volta rimessosi in ordine di marcia, partì dal palazzo della Certosa attraversò la città, passando dalla Cattedrale e da lì si spostarono a Castel Tedaldo, proprio sulle rive del Po.

“Da qui continuerete da soli.” disse Ercole, con voce tonante, rivolgendosi, in particolare, a Ippolito.

Questi, dopo aver chinato il capo verso il padre, in segno di rispetto e ubbidienza, guardò un momento Alfonso che, immobile accanto al Duca, evitava di ricambiare lo sguardo. Lui non sarebbe andato a Roma, questo lo sapevano tutti, eppure il Cardinale si sentì in dovere di dire qualcosa in merito.

Pur sapendo di dar fiato a parole vuote, esclamò: “Potresti venire con noi, fratello! Sono certo che Madonna Lucrecia sarebbe compiaciuta, nel vederti correre da lei a Roma.”

Alfonso, ben lungi dall'essere divertito o rincuorato da quell'esortazione, s'incupì ulteriormente e sussurrò, appena udibile: “Segui ciò che deciderà di fare Gian Luca Castellini – e indicò con un vago cenno del capo il gobbo che Ercole aveva messo alle calcagna di Ippolito proprio allo scopo di guidare la spedizione e correggere gli eventuali errori del figlio – e vedrai che guadagnerai ciò che vuoi...”

Il Cardinale finse di non sentire e altrettanto fece il Duca che, con un gesto imperioso, diede il permesso al corteo di ripartire e augurò: “Che Dio vi protegga tutti e vi faccia arrivare incolumi a Bologna e di lì a Roma!”

E, come sospinti dall'augurio dell'Este, Ippolito e tutti gli altri – tra cui si annoveravano uomini dei Rangoni, dei Roverella, dei Costabili, dei Trotti, degli Strozzi di Ferrara e di tanti altri casati importanti – arrivarono a Ferrara il giorno seguente, venerdì 10 dicembre.

Giovanni Bentivoglio li accolse tutti con grandi onori e feste e poi, con una naturalezza che spiazzò tanto il Cardinale Ippolito, quanto il suo astuto accompagnatore, Castellini, affiancò alla compagnia diretta a Roma il suo figlio primogenito Annibale.

“L'amicizia tra noi e il papa – spiegò all'Este che guidava la spedizione – s'è logorata senza che vi fosse reale motivo... Mio figlio verrà con voi a Roma in segno di fedeltà e fiducia...”

Quello era davvero il primo intento del bolognese, che tremava all'idea che la prossima vittima designata dal Valentino fosse proprio la sua città, ma Annibale avrebbe raggiunto Roma anche per un altro motivo. In novembre il figlio di Giovanni aveva incontrato Giulio Orsini a Castel San Pietro per discutere dell'eventuale matrimonio tra la figlia dell'Orsini – Giacoma – e Ermes Bentivoglio, fratello, per l'appunto, di Annibale. Quell'alleanza sembrava fondamentale al signore di Bologna, e dunque sarebbe stato pronto a tutto, pur di ottenerla. Mancavano gli ultimi dettagli della trattativa, e riappacificarsi con il pontefice sarebbe stata una buona mossa per rendere il partito di Ermes molto più appetibile.

Giovanni Bentivoglio teneva moltissimo a spianare gli attriti coi Borja, e non solo per contingenze del momento. Era da qualche tempo che sentiva su di sé un'ombra scura, un presentimento, quasi, di cui parlava di rado e solo con le persone a lui più fidate. Non sapeva definirlo nemmeno lui, ma quell'inquietudine l'aveva comunque portato a fissare un appuntamento con il suo notaio, prima di fine mese, per fare testamento. Aveva cinquantotto anni, ormai, un'età a cui ben pochi uomini d'armi e di potere riuscivano ad arrivare relativamente in salute...

Fu forse anche l'atteggiamento da penitente e da 'innocuo anziano' che mise in scena a convincere i ferraresi a cedere in fretta alla sua richiesta di permettere ad Annibale di seguirli e incontrare poi il papa.

Il Cardinale Ippolito non ebbe nulla da ridire, pur non comprendendo a fondo i motivi dei Bentivoglio, e così, con cuore aperto e troppo distratto dai propri maneggi per farsi certe domande, accolse nel gruppo Annibale e ordinò la partenza per Roma già per la mattina seguente.

 

Caterina si svegliò di colpo, senza fiato, sudata fino al midollo e con le mani che ancora tremavano.

Si rese conto dopo qualche istante di non essere nel letto e di non essere nel cuore della notte, come invece credeva. Si trovava in una delle poltrone imbottite della biblioteca e dalla luce che arrivava da fuori, malgrado il cielo grigio, era chiaro che fosse pieno giorno.

La donna dovette sforzarsi di tornare in sé e capire se fosse da sola o ci fosse qualcuno con lei. Si aggrappò alla poltrona e, stringendo gli occhi, si guardò attorno. Era confusa, vedeva sfocato e la testa le girava. Aveva ancora in mente l'incubo che l'aveva svegliata. Non c'era nulla di macabro, nulla di assurdo o soprannaturale, in ciò che aveva visto e sentito... Aveva solo rivissuto la morte di suo figlio Livio, in un modo così vivido e violento da farle credere di essere davvero tornata in quella stanza buia di paura e umida di febbre in cui l'aveva stretto a sé per l'ultima volta.

Aveva ancora nelle orecchie il suo respiro tronco, sentiva sulla pelle le sue mani stringersi e poi rilasciarsi, ormai senza vita, e, più di ogni altra cosa, avvertiva la sua solitudine, l'urlo silenzioso con cui l'aveva richiamata a sé, dopo che lei, fin dalla sua nascita, l'aveva semplicemente ignorato, messo in secondo piano, dimenticato...

Anche dopo la sua morte, vi aveva pensato di rado, sempre meno, sempre sfuggendo al ricordo della sua prematura scomparsa e, ancor di più, della sua breve e povera vita. Se ne rimproverava, ma non sapeva come riparare a un errore tanto grave e ormai legato indissolubilmente al passato.

Forse quello che stava provando quel giorno era una sorta di espiazione per il suo non essere stata in grado di essere una madre per Giovanni Livio. Era stata assente con tutti i suoi figli, ma con lui sentiva di esserla stata ancora di più. Non era stato sufficiente preparargli decotti e pozioni quando non stava bene, o pagare i medici giusti per farlo seguire nei lunghi inverni in cui era sempre stato malaticcio... A Livio sarebbero serviti abbracci e tempo speso assieme, la voce e la presenza della madre... Tutte cose di cui la Leonessa, pur senza cattiveria, l'aveva privato...

La Sforza si sentiva come se suo figlio, in sogno, fosse stato in grado di trasmettere a lei il febbricitante terrore che l'aveva accompagnato all'ultimo respiro, costringendola a condividere almeno in parte la sua sofferenza. La milanese aveva brividi che la scuotevano fino al cuore, sentiva la propria pelle scottare, eppure il freddo la ghermiva senza pietà.

Non ricordava di essere stata così male, se non, forse, in un paio di occasioni, da giovane... Una volta, si ricordò fumosamente, era stato il suo Giacomo a raccoglierla da terra esanime e portarla fin nel suo letto...

Con la gola secca e il respiro corto, la donna cercò di nuovo con lo sguardo per tutta la biblioteca, in cerca di qualcuno che potesse aiutarla. Provò a parlare, ma non ci riuscì. Appurato che non ci fosse nessuno nei paraggi e che nessuno avesse sentito il suo mezzo rantolo, la Tigre provò ad alzarsi.

In un primo momento, seppur molto incerta, riuscì a mettersi in piedi. Quando provò a muovere un passo, però, perse subito l'equilibrio e, senza riuscire a fermarsi in alcun modo, cadde in terra priva di sensi.

 

Troilo guardava in silenzio il cortiletto della sua rocca. Era coperto da uno strato neve sottile, ma molto persistente. Era come se il freddo intenso che aveva circondato San Secondo volesse impedire per sempre a quella corazza bianca di andarsene.

Pensoso, grattandosi lentamente la barba rossiccia, guardò verso il cielo, trovandolo pallido e apatico, quasi come si sentiva lui stesso. Da un lato avrebbe addirittura preferito che si scatenasse una bufera: almeno avrebbe sentito di avere una ragione valida per ritardare ulteriormente la sua partenza per Firenze.

“Quante volte ti ho detto di stare attento al freddo?” la voce di sua madre, sottile e un po' roca come sempre, lo fece voltare di scatto.

La donna lo stava fissando con finta disapprovazione, le braccia incrociate sul petto. L'uomo fece un mezzo sorriso, vedendo come ancora, malgrado l'età, sul volto di sua madre si potesse vedere bene la fierezza che le aveva sempre donato l'appartenere alla famiglia degli Scotti, o meglio, al ramo degli Scotti Douglas.

“Madre, lo sapete bene... Con climi come questo io ho anche combattuto e dormito in tenda.” si prestò a fiancheggiarla lui.

C'era stato un momento in cui era stato certo di averla persa per sempre. I pericoli e gli equivoci che sorgevano in tempo di guerra, la difficoltà nel far circolare le notizie, la necessità di nascondere la verità spesso anche ai propri familiari, aveva fatto sì che Troilo si fosse convinto della morte della madre, salvo poi scoprire, con immenso sollievo, di essersi sbagliato.

“Ho passato la vita a proteggere te e i tuoi fratelli affinché un giorno la nostra famiglia possa riprendersi tutto ciò che le spetta – si mise a dire lei, scuotendo il capo, ma bonariamente, avvicinandosi a lui – non certo per permetterti di prendere una polmonite mentre guardi la neve e sospiri pensando a chissà cosa...”

Il De Rossi, che, in tutta onestà, non si era reso conto di sospirare, mentre osservava il cortiletto spoglio, in cui l'unica nota di colore stava nel piccolo pozzo centrale, sollevò le sopracciglia e commentò: “Questa rocca avrebbe bisogno di essere rimessa a nuovo... È rimasta in stato d'abbandono per quasi vent'anni... Le mura si sono sgretolate sotto le bombarde degli Sforza negli anni Ottanta, e i bastioni d'angolo non esistono praticamente più... Inoltre – soggiunse, indicando con indice e medio le finestre che affacciavano sul cortile – la zona residenziale e quella militare sono un tutt'uno... Poteva andare bene cinquanta, trent'anni fa... Adesso le dimore dei veri signori non sono più fatte così...”

“Tutte cose giuste.” ribatté Angela: “Ma so che non stavi pensando a questo, poco fa.”

Troilo strinse le labbra e guardò altrove. Non era mai stato bravo a esporre i suoi tormenti, anche se sua madre era sempre stata capace, alla fine, di tirargli fuori, anche con la forza, le informazioni essenziali che voleva sapere.

Quella volta non volle tirare la corda. Era troppo stanco e sfibrato per farlo. Forse per colpa del freddo e della neve, o forse perché non si era mai sentito così perso in vita sua, provò a cercare nella Scotti Douglas il conforto che gli serviva. In fondo, lei sapeva già che lui si era innamorato di una donna che, nell'ordine delle cose, tenuto conto di tutte le implicazioni politiche del caso, non avrebbe nemmeno dovuto guardare. Certo, non sapeva i dettagli della loro relazione, ma il fulcro, secondo lui, cambiava poco, che lei li sapesse o meno amanti.

“Madre...” cominciò, prima di fare una lunga pausa e riprendere: “Io non resisto più. Le ho fatto una promessa, devo tornare da lei.”

“Lo sai come la pensa tuo padre.” sussurrò la donna, aggrottando la fronte già rugosa e stringendo un po' le labbra.

Il De Rossi parve afflosciarsi, a quelle parole, e, trascinato dal pessimismo che lo stava prendendo, rincarò la dose di sventure borbottando: “E poi... Chi voglio prendere in giro... Sono troppo vecchio per lei. Potrei essere suo padre...”

“Quello non è necessariamente un problema.” fece Angela, muovendo un paio di passi sulla neve che scricchiolò vibrante: “Ci sono matrimoni in cui la differenza è anche maggiore, e che eppure funzionano...”

Troilo strinse i denti, guardandosi attorno. La rocca di San Secondo gli sembrava un rudere in confronto ai palazzi che aveva visto a Roma, a Milano e nell'Impero. Cosa aveva da offrire alla donna che amava? Quattro pietre diroccate, i suoi trentanove anni e una terra difficile, ancora da domare, circondata da parenti assassini e traditori che non chiedevano altro che avere la sua testa...

“Prima ho detto che ho protetto te e i tuoi fratelli affinché poteste ridare alla nostra famiglia ciò che è nostro di diritto...” soppesò la Scotti Douglas, mentre il figlio la seguiva, a passo lento, verso il porticato: “Ma in realtà io l'ho fatto soprattutto nella speranza che un giorno poteste essere felici.”

“Non ho scuse, per andare da lei. Re Luigi non mi ha dato alcun incarico ufficiale, né l'ha fatto il Trivulzio.” fece presente Troilo, che, com'era nel suo carattere, cercava di ridimensionare la smania che sentiva nel petto, anteponendovi tutto il resto, dalla ragion di Stato alle convenienze politiche.

“Lasciami parlare con tuo padre.” sussurrò a quel punto Angela: “Stasera, dopo cena, raggiungilo nel salone... Vedrai che troverete un modo.”

Con il cuore che correva all'idea che sua madre davvero potesse smuovere Giovanni De Rossi, un uomo giusto e coraggioso, ma estremamente difficile da smuovere, quando decideva qualcosa, Troilo la ringraziò con un bisboglio appena udibile.

“Adesso va a metterti davanti al camino.” lo incoraggiò lei: “Se ti prenderai una polmonite, non potrai correre dalla tua bella, anche se io dovessi convincere tuo padre..!”

 

Caterina sentiva la testa pulsare dolorosamente. Deglutì e capì di avere non solo la gola, ma anche le labbra secche.

Con fatica, schiuse gli occhi poco per volta, cercando di districarsi tra le luci e le ombre che le danzavano attorno. I casi, si disse, erano due: o era piena notte e la stanza in cui si trovava era illuminata da una candela o due al massimo, oppure era morta e quella che scorgeva doveva essere la lanterna malferma di Caronte, venuto a prenderla per portarla all'inferno.

Provò a muoversi e i dolori, sparsi in tutto il corpo, che le strapparono quasi un gemito le fecero capire di essere ancora più che viva. Il sollievo per quella scoperta fu meno travolgente di quanto avrebbe voluto.

“Volete bere un pochino, adesso?” la serva che faceva di nome Creobola era china su di lei e protendeva il braccio verso la sua bocca, apprensiva.

La Tigre ci mise un po' a capire che l'arnese che la donna le stava proponendo era un cucchiaio. Lo annusò e fece una smorfia.

“Latte e miele...” sussurrò, appena udibile.

Ogni lettera scivolata fuori dalle sue labbra pareva averle graffiato la lingua e il palato. Si chiese per quanto tempo fosse stata priva di sensi e da quanto tempo non bevesse. Si mosse ancora un po' e si rese conto di avere indosso abiti diversi da quelli che portava quando era svenuta.

Scottava ancora di febbre e si sentiva confusa. Era coperta fino al collo, ma i brividi la scuotevano senza sosta. Non aveva la lucidità sufficiente per capire cosa le stesse succedendo, ma stava così male da sapere che la situazione era grave.

“Latte e miele...” ripeté, ricordandosi come, durante la sua prigionia a Castel Sant'Angelo, quel lussuoso rimedio le fosse stato riservato solo quando il papa aveva temuto seriamente che stesse per morire: “Latte e miele... Dove sono i miei figli?”

Non fece in tempo a sentire la risposta, perché la vista le si annebbiò di nuovo e perse ancora una volta i contatti con la realtà.

 

“Io non ho cercato di dissuaderti perché sono cattivo.” disse il settantenne Giovanni De Rossi, incrociando lo sguardo di Troilo: “Ma solo perché sei mio figlio, ed è mio preciso dovere difenderti!”

Le mani dell'anziano saettarono in alto, in un gesto concitato, quasi a voler dimostrare ancora la loro forza, ma finendo solo per mettere ancora di più in risalto la loro ossatura ormai piena di storture e la loro pelle raggrinzita.

Troilo deglutì. Il salone era silenzioso e buio. Solo il bagliore diafano delle finestre e il camino lo illuminavano un po', ma le pareti vecchie e rovinate riflettevano male ogni luce, restituendola distorta e affievolita. Quella rocca, così com'era, sembrava l'effige di suo padre. In entrambi si distingueva ancora una grande bellezza, un'irruenta forza, e il ricordo di tempi migliori.

“Non siamo mai stati in una posizione facile.” riprese Giovanni, le spalle stanche che si incurvavano, nel ricordare, pur solo con quella frase, la loro partenza zoppicante: “Adesso stiamo recuperando, pian piano, quello che avevamo. Non rischiare di rovinarti con le tue mani...”

“Se mio nonno ha scelto vostro fratello minore Guido al vostro posto come erede, la colpa non è certo mia, né vostra, ma solo di mio nonno.” prese a dire Troilo, che non aveva mai sopportato quell'alone di colpa che suo padre aveva sempre addossato a se stesso e anche a lui, figlio evidentemente non ritenuto degno erede, all'epoca, da suo nonno Pier Maria: “E siete sempre stato voi a dirmi che per essere un buon signore, bisogna avere una buona moglie accanto.”

“Infatti.” proruppe subito Giovanni: “Non la figlia di una donna come Caterina Sforza. Una donna che è stata sulla bocca di tutti e nel letto di troppi, una che può solo peggiorare la nomina che già ti stai facendo coi francesi...”

Quell'accenno al fatto che, ormai, nelle chiacchiere da soldati, Troilo venisse sempre più definito un filosforzesco che aveva sbagliato fazione, fece arrabbiare davvero il De Rossi più giovane.

Allargando le spalle e sporgendo un po' in fuori il mento, ribatté: “Voi non conoscete né la Leonessa di Romagna, né sua figlia. Non potete giudicarle. Io non voglio altra moglie se non lei, e lei avrò.”

Giovanni prese un respiro profondo e gli ricordò: “La donna su cui hai messo gli occhi un marito l'ha già.”

“Sappiamo tutti che i giocattoli dei Borja si rompono in fretta.” commentò Troilo, gelido.

“Speriamo sia così...” borbottò il padre, per nulla infastidito dal pensare alla morte di un ragazzino quale era ancora Astorre Manfredi: “Tua madre mi ha parlato a lungo, questo pomeriggio. Se vuoi andare, parti, io non mi opporrò. Voglio solo che ti renda conto di quello che stai facendo.”

“Appena Astorre morirà, io e lei ci sposeremo e la porterò qui.” decretò Troilo, cercando di far capire a fondo al padre la propria determinazione: “Parlerò con Gian Giacomo e vedrò come aggirare il problema del suo cognome, se questo vi impensierisce troppo.”

“Parli spesso di risistemare questa rocca e ricostruire i bastioni...” gli fece presente il padre, allargando un po' le braccia: “Ricordati il cognome di chi li ha buttati giù a colpi di cannone. Solo questo ti chiedo.”

“Se non avete altro in contrario – deglutì il figlio – domani partirò per Firenze.”

“Che scusa userai?” indagò Giovanni, ormai arresosi davanti all'incrollabile determinazione dell'uomo che lui stesso aveva cresciuto.

“Nessuna. Non sarà una visita ufficiale, la mia.” tagliò corto Troilo.

“I francesi lo verranno a sapere.” costatò il padre.

L'altro si schiarì la voce e poi concluse, con un certo fatalismo: “In tal caso... In tal caso chiederò A Gian Giacomo di trovarmi una scusa, e lui lo farà.”

A quel punto, Giovanni, vedendo il figlio sicuro della sua scelta, non se la sentì di insistere oltre. Si rendeva conto che ormai Troilo era un uomo maturo e che le sue scelte non potevano più tenere troppo conto della sua influenza.

In uno slancio di amore paterno, sincero e bruciante, lo trasse a sé e l'abbracciò con vigore. Il figlio ricambiò la stretta, felice di sentire in quel gesto tutto l'appoggio del padre e poi, con un sospiro gli ribadì che avrebbe fatto tutto quello che poteva per il buon nome della loro famiglia, anche se a Bianca Riario non avrebbe mai rinunciato perché, ormai, semplicemente non poteva rinunciarvi più.

 

“Non lo voglio, il latte col miele...” le parole uscirono disarticolate e graffiate dalla gola di Caterina che, proprio come se non fosse appena riemersa da un giorno intero di incoscienza, aveva ripreso il discorso della notte prima.

A vegliarla, per caso, era di nuovo Creobola che, avvicendandosi ai figli della Tigre – tutti tranne Ottaviano – e a Fortunati e frate Lauro, aveva scelto per sé i turni più brutti, quelli centrali della notte.

“Non c'è qualcos'altro..?” chiese la Sforza, strizzando gli occhi, anch'essi secchi e brucianti.

“Acqua.” rispose la serva, porgendole subito il cucchiaio colmo, che la Leonessa sorbì in fretta, mettendosi poi a tossire: “Il problema – riprese Creobola – è che non avete più mangiato... Il miele e il latte vi avrebbero fatto bene...”

“Voglio qualcos'altro.” si ostinò Caterina, ancora così obnubilata da non avere nemmeno lo spirito di chiedere che fosse uno dei suoi figli, anzi, nella fattispecie Bianca, a prendersi cura di lei.

“Posso darvi un rimedio di mia invenzione, ma...” cominciò a dire la serva, indecisa.

“Cosa contiene?” più parlava, più la Tigre aveva l'impressione di tornare lucida, perciò, malgrado la fatica immensa che le costava farlo, si impose di continuare: “Dimmi gli ingredienti... Voglio sapere come lo fai...”

Creobola, sorpresa nel vedere la donna così sveglia dopo quel lungo oblio, si mise a spiegarle tutto, per filo e per segno, ma, quando arrivò alla fine, invece di sentirsi dire se il decotto da lei inventato andava bene o no, si sentì apostrofare: “Sei una donna molto strana.”

“In... In che senso, mia signora?” domandò la serva, preoccupata.

“Sai leggere e scrivere...” cominciò a dire la milanese, mentre si lasciava di nuovo imboccare con l'acqua: “E non provare a negarlo, perché ho visto benissimo che ne sei in grado. E sai come produrre un decotto per la febbre di buona qualità... Da dove vieni di preciso? Non hai la pronuncia fiorentina.”

“Ha importanza, sapere da dove vengo?” chiese l'altra, sollevando un sopracciglio e, avendo finito di dissetare la sua signora, dedicandosi all'accensione di qualche candela in più.

“Io non riesco a capire se posso o meno fidarmi di te.” confessò Caterina, troppo abbattuta per poter usare lunghi giri di parole.

“Ho tanti difetti, mia signora, ma so essere un'amica leale, se mi conviene.” rispose Creobola, riparando con la mano la fiammella dell'ultima candela, portandola vicino al letto per illuminare meglio Caterina.

“E ti conviene essermi amica?” indagò la Leonessa.

“Voi siete stata una donna molto potente e credo che potreste tornare a esserla.” ammise, senza troppi problemi, la domestica: “E io non voglio fare la semplice serva per sempre.”

La Tigre si prese qualche istante per pensare, poi, mossa dalla sua vena pragmatica, che aveva quasi sempre prevalso in lei, valutò la propria condizione e, trovandosi relativamente pulita, chiese, pungente: “Mi hai cambiata tu, mentre non ero cosciente?”

“Sì.” confermò Creobola che, in effetti, aveva chiesto di occuparsi di quell'incombenza, benché Bianca si fosse offerta in un primo momento.

“E non l'hai ritenuto un compito indegno, per una donna come te?” la punzecchiò la milanese.

“Prendersi cura di una Contessa è un compito più che degno, per una donna come me.” affermò la serva, senza ombra di ironia.

Caterina si fece seria e poi, quasi infastidita, pretese: “Fai venire qui i miei figli. Almeno...”

“Almeno Madonna Bianca e messer Galeazzo.” l'anticipò Creobola.

“E anche Bernardino.” la corresse la Tigre: “Sforzino lo vedrò più tardi... Così Fortunati e Bossi.”

Così si fece e dopo che la Tigre ebbe visto tutti quanti, rassicurandoli sul fatto che la febbre ormai stesse passando e che, probabilmente, si era trattato solo di un attacco del suo male – la malaria – la Leonessa chiese di poter restare un po' da sola con la figlia.

Bianca, premurosa come sempre, le raccontò di come tutti si fossero spaventati e di come nessuno avesse osato chiamare un medico per paura che Lorenzo Medici potesse in qualche modo impicciarsi in quella questione, facendo arrivare alla villa qualcuno di poco affidabile che, con la scusa di curarla, l'avrebbe fatta stare peggio.

“Mi sono ricordata le tue crisi passate – spiegò la Riario, passando con una certa dolcezza una pezza umida e profumata al rosmarino sulla fronte della madre, che si stava godendo quell'attimo di tenerezza – e ho capito che doveva essere quello. Perciò ho cercato di farti curare come ti avevano curato anni fa a Ravaldino...”

“Grazie, sei stata... Grazie.” deglutì la Sforza e poi, dopo qualche minuto ancora di detersioni alla fronte, ai polsi e al collo, Caterina trovò l'animo di chiedere: “Quando tornerà il tuo Troilo?”

Bianca, che non si era aspettata quella domanda in quel momento, tanto meno quel tono così pacato da parte di sua madre nel parlare del De Rossi, avvampò violentemente e, fingendo di doversi allontanare un momento dal letto per cambiare la pezzuola, rispose: “Ci eravamo promessi di non far arrivare il nuovo anno senza esserci rivisti...”

“E avete scelto il Capodanno che festeggiamo a Milano e a Forlì, come riferimento, o quello dei fiorentini?” la domanda di Caterina non era cattiva, ma alle orecchie della figlia suonò quasi come canzonatoria.

“Io mi fido di lui.” rispose, nervosa, perché sapeva bene che ormai si era quasi a metà dicembre e non aveva più avuto sue notizie, né dirette, né indirette: “Questo ci siamo promessi e questo accadrà.”

La madre capì di essersi spinta troppo oltre e, complice la febbre che ancora non l'aveva lasciata del tutto, decise di mollare la presa e concesse: “Sì, quello vi siete promessi e quello accadrà.” poi, con un sospiro pensante, usando il tono perentorio che era stato suo fin dall'adolescenza, la Leonessa disse: “Ora voglio dormire...”

La Riario smise di tamponarle le tempie e sussurrò: “Ti lascio sola, allora... Verrò a controllarti tra un po'.” poi, mentre già si stava avviando alla porta, ci tenne ad aggiungere: “Sono felice che ti stia riprendendo.”

   
 
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