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Autore: Adeia Di Elferas    07/10/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“So bene che devi ancora riprenderti...” aveva detto Fortunati, quella mattina: “Ma adesso che tutti a Firenze sono distratti, è il momento buono, se hai voglia di vedere Giovannino...”

Caterina non se l'era fatto ripetere. Anche se era ancora malferma sulle gambe e così debole da riuscire a stento a mangiare da sola, aveva subito accettato, senza nemmeno domandare come mai Firenze – e, di conseguenza, lo fosse anche Lorenzo Medici – fosse così distratta.

Ciò che le importava era sapere che i suoi spostamenti sarebbero stati poco notati e che la sua stessa malattia le stava dando una scusa più che valida per ritirarsi qualche giorno alle Murate, per 'pregare e riprendere le forze' come aveva suggerito lo stesso piovano.

Così, solo a sera, mentre preparava la sua partenza per il monastero, scoprì di preciso cosa stava succedendo in città.

“Voi cosa ne pensate?” le chiese Bianca, che, assieme a Galeazzo, stava preparando il piccolo bagaglio per la madre, avendo cura di impacchettare anche le erbe per i decotti per la febbre, in caso avesse avuto una ricaduta.

“Di cosa?” chiese, confusa, la Tigre.

Il Riario, anticipando la sorella, rispose: “Di quello che il piovano ha detto che sta succedendo... Il matrimonio tra la figlia del papa e l'Este per voi è una cosa buona o no? Io e Bianca ne abbiamo discusso, ma non sappiamo farci un'idea precisa.”

Il fatto che i due giovani si confrontassero su argomenti attinenti alla politica estera alla Leonessa fece da un lato molto piacere, ma dall'altro la intristì. Se fosse stato possibile, avrebbe voluto farli vivere in un mondo in cui tutte quelle cose altro non erano che lontane eco delle vite degli altri... Il suo Giacomo, forse, aveva avuto ragione quando, nei suoi slanci d'amorevole passione, l'aveva implorata di lasciare tutto e scappare assieme nei boschi e vivere per sempre di quello che avrebbe dato loro la terra... Anche per i suoi figli sarebbe stata una vita più semplice...

“Madre..?” Bianca, vedendo gli occhi della Sforza farsi distanti, aveva temuto di vederla svenire di nuovo.

La milanese, invece, che si era solo distratta, perdendosi nei meandri della sua mente – come ormai le accadeva spesso – scosse un attimo il capo e domandò: “Come mai Fortunati ha parlato con voi del matrimonio tra la Borja e l'Este..?”

I due ragazzi si scambiarono un'occhiata, che alla madre parve preoccupata. Intuendo il motivo della loro apprensione, si affrettò ad agitare le mani in aria.

“Sono ancora pienamente in possesso delle mie facoltà mentali!” li rassicurò: “Sono solo stata disattenta... Francesco me ne avrà parlato, ma io pensavo ad andare da vostro fratello e...”

“Il Cardinale di Ferrara – si mise a spiegare la Riario, con un certo sollievo nello scoprire il motivo dell'apparente confusione della madre – è arrivato stamattina a Firenze, con moltissimi cavalli al seguito. Sta andando a Roma a prendere la figlia del papa...”

“Messer Fortunati ha detto che con loro hanno più di centocinquanta muli...” si infilò Galeazzo, passando intanto uno scialle pesante alla sorella, affinché lo mettesse nel bagaglio della madre: “E dicono che tutti i giovani di Firenze sono andati loro incontro per festeggiarli.”

“Stanotte hanno alloggiato nella casa del Cardinale Ippolito, il piovano dice che ne possiede una al Canto dei Pazzi...” concluse Bianca: “Mentre i cavalli erano così tanti che li hanno dovuti sistemare nelle stalle di proprietà del papa...”

“Un simile corteo per andare a prendere una sposa...” commentò Caterina, accigliandosi, mentre le riaffiorava alla mente la memoria di se stessa portata a Roma da un corteo non troppo dissimile, seppur sicuramente meno fastoso: “Sembra quasi che vogliano essere certi che non scappi...”

Quasi a voler richiamare con ancor più forza l'immagine di se stessa sballottata da una città all'altra per raggiungere Girolamo Riario alla corte del papa, la Leonessa vide proprio in quel momento frate Lauro passare davanti alla porta mezza aperta della sua stanza.

“Bossi!” lo chiamò, e l'uomo, con il suo consueto sorriso imperturbabile si affacciò subito: “Vi ricordate di quando voi facevate parte della spedizione che mi doveva accompagnare a Roma?”

Il frate cambiò subito espressione, facendosi serio come di rado lo si poteva vedere. Occhieggiò verso Bianca e poi verso Galeazzo, cercando di capire preventivamente dai loro volti cosa stesse capitando e poi, cupo, annuì.

“Svelatemi questo dubbio...” Caterina sospirò, raddrizzandosi un po' nel letto: “Eravate così tanti perché qualcuno temeva che io tagliassi la corda, o perché volevate impressionare i romani?”

Frate Lauro, che ricordava ancora bene il viso fiero, ma al contempo spaventato, della Sforza, all'epoca ragazzina, sollevò le sopracciglia e rispose: “Io dovevo vegliare su di voi. Così come le dame che vi avevano messo attorno. Tutto il resto era a uso e consumo di papa Sisto IV.”

La Tigre, che per anni, da giovane, si era posta quella domanda, si sentì abbastanza soddisfatta dalla risposta.

Sentendosi addossi gli occhi dei figli, la milanese si schiarì la voce e, fingendo di trovare interessare la notizia riguardante il Cardinale estense, sospirò: “Questo è un altro caso... La sposa deve andarsene, da Roma, non arrivarci... Però credo che anche questa volta tutta quella gente serva in parte come prova di forza e in parte a garantire che la sposa arrivi a destinazione.”

Bianca avrebbe voluto dire che ciò che lei e Galeazzo si domandavano andava oltre il corteo in sé, ma preferì lasciar perdere: “Vi metto in borsa anche un paio di guanti..?”

La Sforza, avvertendo la delusione della figlia, che evidentemente non aveva trovato lo scambio di battute che sperava, annuì e poi si rivolse a frate Lauro: “Siete stato uno dei tanti carcerieri che ho avuto in vita mia – esitò un istante e poi concluse – ma vi siete riscattato ampiamente, per quello che mi riguarda.”

Bossi, permettendosi finalmente di sorridere di nuovo, fece un mezzo inchino e addirittura si offrì di aiutare a portare di sotto il bagaglio, se necessario.

“Non preoccupatevi, frate Lauro – fece Galeazzo, allargando inconsciamente le spalle, come a mostrare alla madre quanto fosse forte – ci penso io.”

 

Lucrecia cercava di mantenere la calma, ma in realtà, mentre passava in rassegna una volta di più il suo corredo, si accorgeva di come le mani le tremassero costantemente e la pazienza le scappasse ogni volta in cui qualcuno dei sarti osava ribadirle che era tutto già pronto, tutto già perfettamente sistemato.

La Borja sembrava non provare alcuna stanchezza, nel continuare a controllare le duecento camicie, tutte decorate con oro e perle, tanto meno pareva trovare noioso il seguitare a spiegare e far ripiegare i molti abiti, compresi quei tre che da soli costavano diecimila, quindicimila e ventimila ducati rispettivamente.

Le sembrava che ogni piega del tessuto, ogni alone sulle perle, perfino ogni granello di polvere sul filo d'oro potessero compromettere un matrimonio che le sembrava sul filo del disastro ancora prima di cominciare.

Non smetteva un attimo, mentre rimirava i suoi nuovi vestiti, di pensare all'Este che, nella sua mente, corrispondeva alla perfezione al ritratto che le era stato mostrato. Si chiedeva che voce avesse e se la sua pelle puzzasse di piombo e fuligine, come tanti dicevano, o avesse il profumo dolce degli olii da bagno. Per suo padre e per il suo futuro suocero, ovviamente, quelle nozze erano solo una questione politica ed economica, ma lei, con Alfonso, avrebbe dovuto dividere la quotidianità, il letto, il futuro...

Con un sospiro pesante, Lucrecia batté le mani e ordinò che, per quel giorno, si mettessero via i vestiti del corredo. Mentre i servi, ben felici di essersela sbrigata più in fretta del solito, eseguivano, la ragazza si corrucciò e chiese alle sue dame di lasciarla sola.

Era molto raro, da che era rimasta vedova, che la Borja si muovesse in solitaria per il palazzo, ma nessuno se la sentì di insistere nel farle compagnia, visto che era visibilmente di cattivo umore.

Camminando in fretta, la giovane sentì il battito del proprio cuore accelerare e il fiato quasi mancarle nel petto. Se da un lato aveva il terrore di andare a Ferrara e scoprire che il suo nuovo marito non era affascinante e piacente come le era parso in ritratto, dall'altro sentiva come se ogni giorno trascorso ancora a Roma la corrodesse senza darle scampo.

Tutto le stava stretto: le vie anguste della città, la parlata dei romani, le chiacchiere vuote e maligne dei cortigiani di suo padre, i palassi decorati, le campane che suonavano di continuo, le Messe ridotte ormai a meri spettacoli teatrali, l'odore del Tevere nei giorni di pioggia, il tintinnare delle monete dei penitenti che credevano di comprarsi un angolo di Paradiso con qualche soldo...

Respirando a stento, la gola chiusa da mille spilli, la Borja si aggrappò al davanzale di una delle grandi finestre e cercò di tornare in sé. Le mani che toccavano il marmo freddo l'aiutarono a ritrovare un punto di contatto con la realtà.

Lentamente, mentre riprendeva a respirare, i suoi occhi osservarono la bellezza che la circondava, una bellezza che aveva amato e odiato con tutta se stessa. Rimpianse di non essere almeno a casa di sua madre Vannozza, in mezzo alla campagna, lontana dalla claustrofobica aria del Vaticano.

Lì tutto le ricordava il suo secondo marito, Alfonso d'Aragona. Quanto era stata felice con lui, tanto era stata disperata alla sua morte. Senza di lui, tutto aveva perso senso, e ora quella gabbia affrescata le sembrava simile alla catapecchia in cui erano custoditi i resti di San Pietro... Era una tomba, in cui murare i suoi ventun anni di vita...

Facendo del suo meglio per non impazzire, dicendoci che, ormai, i suoi salvatori – sperando che li fossero davvero – erano sulla via e la stavano venendo a prendere, la Borja fece due lunghi respiri, molto profondi e poi, con un'andatura un po' rigida, lasciò la finestra e si diresse nelle sue stanze.

“Mia signora – le disse piano una delle sue dame, più tardi, quella sera – ho sentito dire che il Cardinale Ippolito dovrebbe aver appena passato Siena... Dategli pochi giorni appena, e sarà qui e presto partirete voi stessa per Ferrara!”

Lucrecia, a quella notizia, sorrise, ma non commentò, perché trovò che sarebbe stato scortese, da parte sua, dire esattamente quello che pensava, ossia che avrebbe volentieri lasciato Roma anche subito, se solo avesse potuto, senza nemmeno aspettare quel Cardinale Ippolito di cui tutti a Roma avevano cominciato a parlare.

 

Caterina aveva fatto fisicamente fatica ad arrivare al convento d'Annalena, ma per tutto il tragitto la sua anima era stata leggera come una piuma.

Aveva dovuto attendere un paio di giorni, alle Murate, prima che Suor Elena le desse il permesso per quello spostamento e aveva cercato di impiegare quel tempo in modo costruttivo, dividendosi tra la nipote Cornelia e i tentativi di preghiera. In entrambi i casi, però, si era sentita distante e poco concentrata. La bambina, seppur molto sveglia e abbastanza affettuosa, le risultava ancora in parte estranea e più che offrirle una cordiale, ma fredda compagnia, non era riuscita a fare altro per lei. La preghiera, invece, era stata ancora più difficile da accostare. Essersi trovata di nuovo malata e forse vicina alla morte non l'aveva aiutata molto a entrare in comunione con la propria spiritualità, anzi, per qualche motivo, ora che cominciava a recuperare le forze, era la vita terrena a tornare ad affascinarla, non quella spirituale.

“Aspettate qui...” disse la monaca che l'aveva fatta accedere al convento d'Annalena.

Era notte e faceva abbastanza freddo. Non nevicava più, ma dicembre era nel suo vivo e il vento pungente che soffiava all'esterno pareva in grado di arrivare fin nelle viscere del monastero fiorentino.

Solo quando arrivò Giovannino, vestito da bambina e con la sua corsa vigorosa, la Tigre sentì di nuovo scaldarsi il cuore. Il bambino, che aveva passato ormai i tre anni e mezzo, cresceva forte e sano e nel modo in cui la strinse, affondando il viso nel suo mantello da viaggio, la madre poté avvertire come stesse diventando grande anche nell'intensità dei sentimenti che provava.

Dopo aver ringraziato la monaca, la Leonessa le chiese di lasciarla sola con il figlio. Benché fosse notte, il Medici non sembrava affatto assonnato. La fissava con i suoi occhietti allungati, le iridi verde piceo che riflettevano la luce tremolante delle candele, e non si staccava da lei. La lasciò andare solo un attimo, per permetterle di togliersi il mantello e mettersi più comoda.

Erano in una saletta scarna, molto piccola, ma a entrambi quell'angolo scuro di un monastero sembrava il centro del mondo.

“Come stai?” chiese la Sforza, accarezzando i ricciolini del piccolo, lasciati crescere più del dovuto, almeno secondo lei, per perpetrare lo stratagemma per nasconderlo, che lo voleva femmina.

“Bene.” rispose il bambino, distogliendo poi lo sguardo e accigliandosi.

“Mi manchi sempre.” disse la madre, senza seguire un filo logico, ma sapendo che quelle erano le parole giuste in quel momento.

Giovannino parve riaccendersi e, tornando a guardarla, ribatté: “Anche io.”

Il modo di esprimersi era quello semplice della sua età, ma in quella breve frase vibrava l'intensità di un adulto. La Tigre si rese conto in quel preciso istante di quanto il suo ultimogenito stesse crescendo in fretta e di quanto lei stesse perdendo, non avendolo con sé. Avrebbe voluto dirgli che presto l'avrebbe riportato con sé alla villa, che l'avrebbe portato via di lì il prima possibile, ma sapeva che sarebbe stata una promessa monca. Nemmeno lei sapeva come fare, perché avrebbe dovuto illuderlo?

“Cosa fai durante il giorno? Come passi il tempo?” gli chiese, sperando che fosse in grado di risponderle.

Con parole sue, il piccolo le raccontò di come un paio di suore con lui fossero molto buone, mentre le altre, semplicemente, lo ignoravano. Le ripeté a memoria alcune delle preghiere che gli avevano insegnato e spiegò diffusamente, seppur con una certa confusione di fondo, quanto fosse importante Dio e quanto fosse importante Gesù. Si lamentò solo del fatto che spesso avrebbe voluto correre e giocare, quando invece gli veniva impedito.

Su quell'ultimo punto, Caterina non se la sentì di criticare le suore. In fondo dovevano tenere il Medici sotto un basso profilo. Meno ci si accorgeva che al convento c'era un bambino, meglio era per tutti. In quell'ottica era sicuramente più comodo e facile tenerlo nella sua stanza, piuttosto che lasciarlo correre e giocare in cortile o per i corridoi.

“Quando ti porterò via da qui – promise la Leonessa, non appena Giovannino ebbe concluso il suo resoconto – potrai correre quanto vorrai. E ti insegnerò anche a usare la spada come la usava tuo nonno e come la usava il tuo bisnonno.”

“E diremo le preghiere?” domandò il bambino, confuso nel sentire parlare di spade, dato che, da che aveva memoria, non poteva dire di averne mai vista o toccata una.

“Se vorrai, sì.” rispose la Sforza, cauta: “Farai... Farai quello che preferirai.” concluse, domandandosi se forse quell'ultimo figlio, che nel suo subconscio aveva sempre visto e immaginato come un futuro guerriero, non si sarebbe un giorno dimostrato più adatto ai libri di teologia e allo spargere incenso, come Sforzino o Cesare...

“Come stanno i miei fratelli?” chiese Giovannino, aggrappandosi ancora di più alla madre.

“Bene, stanno tutti bene.” rispose subito lei: “A Bernardino manchi tantissimo.” soggiunse, ricordandosi come, anche prima di partire per le Murate, il Feo le avesse chiesto con insistenza di portare i suoi saluti al fratellino.

Il Medici parve soddisfatto di quell'inciso, e così Caterina decise di parlargli un po' del fratello maggiore. Le faceva piacere pensare che Bernardino e Giovannino avessero legato e che, anche un domani, sarebbero rimasti affiatati. Di tutti i fratelli, poi, sembrava che il Medici avesse un ricordo e un'idea molto precisa solo del Feo. Bianca, la Leonessa se n'era resa conto poco per volta, per lui era un porta sicuro, ma tendeva a confonderne il calore con il suo, come se la Riario non fosse altro che una seconda madre, così simile alla prima, da renderla nei suoi ricordi di bambino molto piccolo, quasi un tutt'uno con la Sforza.

“Sai – gli disse a un certo punto – adesso si fa chiamare da tutti Carlo...”

Il piccolo si accigliò, perplesso. Rendendosi conto di non potergli spiegare a fondo il motivo di quella scelta di Bernardino, la Tigre preferì rigirare la questione in un modo che avrebbe fatto sentire importante Giovannino.

“Noi due, però, abbiamo il suo permesso – gli rivelò – e possiamo continuare a chiamarlo Bernardino.”

Inorgoglito da quella notizia, che nella sua piccola mente stava a indicare il rapporto speciale che correva tra lui e il fratello, il Medici sorrise e abbracciò la madre, chiedendole subito dopo di raccontargli qualche storia sui suoi nonni o, ancor meglio, sui suoi bisnonni.

Con un sospiro felice, Caterina lo accarezzò e, scegliendo accuratamente la storia da narrare, cominciò a dire: “Il tuo bisnonno, Francesco Sforza, era il più valoroso e il più abile tra i guerrieri d'Italia...”

 

“Smettila, sei fastidioso.” disse Bianca, piccata, mentre Ottaviano continuava, imperterrito, a dare colpetti col tacco della scarpa alla sedia su cui si era appollaiato.

“Puoi andare in un'altra stanza.” rimbeccò lui, annoiato, guardando la sorella con aria di sfida.

La Riario, a quel punto, non disse altro e andò avanti a leggere il tomo che aveva iniziato da oltre un'ora, ma che trovava abbastanza interessante da potervi dedicare ancora un po' di tempo. Si trattava di una vecchia opera di filosofia, di un filosofo antico di cui la ragazza sapeva relativamente poco, e tanto le bastava per trovarlo una lettura stimolante.

Anche gli altri fratelli erano lì con loro. Non si era trattato di una scelta casuale, ma ragionata. Era stato frate Lauro il primo a proporre di spostarsi tutti in quella saletta e il motivo era semplice: quel giorno faceva incredibilmente freddo, aveva ripreso a nevicare e la legna da ardere non era poi molta. Anche se tutti confidavano nel fatto che Caterina avrebbe speso un po' dei soldi ottenuti dai Baldi per riscaldare la villa, mentre lei era alle Murate l'unica cosa che potevano fare era essere parsimoniosi e risparmiare il risparmiabile.

Stando tutti nella stessa stanza, potevano accendere un solo camino e scaldarsi più facilmente, anche se per alcuni la convivenza sembrava essere molto penosa.

Bernardino, che se ne stava in un angolo con Galeazzo, che gli aveva di recente insegnato a giocare ai dadi, continuava a guardare verso Ottaviano, trattenendosi di continuo dal fare commenti spiacevoli che, di certo, avrebbero infiammato gli animi e portato a una facile lite tra loro.

L'unico che sembrava pienamente rilassato era Sforzino che, intento in una conversazione a tema teologico con Bossi, pareva aver dimenticato perfino la fame. Era lui, infatti, il figlio della Tigre che più di tutti stava patendo il razionamento del cibo – arrivato di pari passo con quello della legna da ardere – e solo quando riusciva a sfamare la sua brama di conoscenza, riusciva a placare anche quella dello stomaco.

“Davvero verrà in Firenze la tavola di Nostra Donna di Santa Maria Impruneta?” chiese a un certo punto il ragazzino, guardando ammirato il frate.

Questi, che aveva avuto la notizia da Fortunati, sollevò le spalle e rispose: “Sembra così... Ma non prima di fine mese.”

“Quanto mi piacerebbe vederla...” sussurrò Sforzino, accigliandosi all'idea che non sarebbe stato possibile.

“Be', magari non potrete pregare davanti alla tavola quest'anno, ma chissà mai che più avanti voi non...” iniziò a dire Lauro, ma la serva Creobola fece capolino sulla porta, scusandosi con un cenno del capo.

“Madonna Bianca, potete venire un momento?” chiese, con un tono quasi confidenziale che insospettì tanto Bossi, quanto Ottaviano.

Il primo era mosso solo da una sincera apprensione, dato che tutto ciò che gli pareva fuori dall'ordinario poteva essere la spia di qualcosa di pericoloso, come gli aveva insegnato la Sforza in persona. Il secondo, invece, semplicemente non sopportava di vedere qualcuno approcciarsi in modo familiare alla sorella e non a lui.

La ragazza, sorpresa di essere stata apostrofata dalla serva, lasciò il tomo in cui era immersa e, scusandosi con tutti, la raggiunse e uscì con lei dalla sala.

“Ho questa per voi.” disse Creobola, porgendole una piccola lettera: “Mi hanno detto di darla a voi e a voi soltanto e di farlo il prima possibile. Aspettavo che usciste dalla saletta, ma avevo paura che si trattasse di un messaggio urgente...”

La Riario, afferrando subito il messaggio, la ringraziò e chiese di non essere disturbata fino a sera.

Con passo svelto andò in camera sua, trovandola fredda e scura. Quando respirava, addirittura, poteva vedere delle nuvolette di vapore sollevarsi dalle sue narici, ma non le importava.

Cercando un punto un po' illuminato, vicino alla finestra, aprì la missiva e lesse le pochissime parole che conteneva: 'Se Dio m'assiste: venerdì.'. Non era firmata, ma non le serviva che lo fosse.

Bianca sorrise, sentì la terra mancarle sotto ai piedi e poi scoppiò in una risata di gioia autentica. Il venerdì citato era la Vigilia di Natale. E ciò che sarebbe arrivato – 'a Dio piacendo' si disse, come a non volersi illudere troppo – sarebbe stato per lei il regalo più bello di sempre.

 

   
 
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