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Autore: Adeia Di Elferas    18/12/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Caterina era ormai alle Murate da giorni. Aveva trovato il modo di conciliare i suoi incontri con Giovannino e la sua immagine di facciata, fatta di preghiere e lunghi momenti di silenzio.

Suo figlio pretendeva da lei tutta l'attenzione possibile, le restava incollato, l'abbracciava e la baciava di continuo, dimostrando un'affettuosità che in parte sorprese la Tigre. Era come se quel suo tratto si fosse acuito enormemente e, ora che aveva quasi quattro anni, il suo carattere sembrava farsi sempre più spiccato.

Amava muoversi, usare il proprio corpo, correre, saltare, giocare in modo spericolato, con gran scorno delle suore del convento d'Annalena, che facevano di tutto per farlo sembrare un'innocua e tranquilla bambina. Era orgoglioso e sapeva essere riflessivo, anche se a volte – un po' come sua madre – perdeva la pazienza di colpo e si lasciava trascinare dall'impeto del momento.

Un tratto, però, su tutti che la Leonessa non riusciva a capire quanto fosse innato, era il suo filiale rispetto per tutto ciò che aveva a che fare con la religione. Era inevitabile, forse, che respirando tutto il giorno odore di incenso e ascoltando dall'alba al tramonto le invocazioni delle monache, il piccolo sentisse quell'attaccamento verso Dio che Caterina, da che aveva memoria, aveva sempre fatto fatica ad avere.

Quando si trovava poi sola, alle Murate, ripensava al tono infantile con cui Giovannino le ripeteva le preghiere, anche quelle più complesse, in latino, e alla sua cieca fiducia nella Provvidenza e in tutte quelle altre cose complicate che non aveva capito a fondo, ma a cui credeva senza riserve. Si sforzava, nel ricordare tutto ciò, di essere come il figlio, ma, più si sforzava, più non riusciva.

Guardava il crocefisso nella cappella, le suore con i loro abiti scuri, i rosari appesi ai loro fianchi, i libri di preghiere e i messali... Ma non riusciva a cogliere in nulla di tutto questo qualcosa a cui aggrapparsi.

Il suo rapporto con la spiritualità e con la religione era ancora conflittuale e spinoso. Non c'era serenità, nei suoi pensieri. Tutto quello che riusciva a elaborare erano sentimenti rancorosi e violenti. Ricordava la strage di Mordano, la rabbia feroce che aveva provato verso Dio nel vedere lo scempio di tante donne innocenti... Non poteva togliersi di dosso la sensazione viscida che l'aveva accompagnata per anni, mentre viveva a Roma, sotto il pontificato di Sisto IV... E non poteva neppure scordare la paura e il dolore provati per colpa di Girolamo, sia da bambina sia dopo, senza chiedersi dove fosse Dio in quei momenti...

Suor Elena sembrava aver in parte intercettato il suo malessere e, di quando in quando, le sciorinava qualche ragionamento vago, o le poneva qualche domanda strategica, ma, per il momento, non era ancora riuscita a far breccia nella sua anima.

Anche quella mattina, mentre era sola in cappella, a fissare il crocifisso riempiendosi la testa di domande, Caterina credette che la Superiora le fosse arrivata accanto per provare a trovare con lei un campo d'intendimento comune per poi riportarla all'ovile, come la pecorella smarrita che era.

Perciò si sorprese parecchio quando, invece, le sussurrò: “Nel mio studio c'è una visita per voi.”

“Ma tra non molto devo andare da mio figlio – provò a opporsi la Tigre, immaginando che a volerla vedere fosse Lucrezia Medici, e sapendo che, con lei, il discorso non sarebbe durato poco – non voglio fare tardi... Gli ho promesso che avrei pranzato con lui, oggi...”

“Ditelo alla nostra ospite e sono certa che Madonna Salviati non vi tratterrà più del dovuto.” tagliò corto Suor Elena, facendo capire alla Leonessa che quello era il genere di visite che non si potevano rifiutare con leggerezza.

Abbozzando un segno della croce, la Sforza dedicò un ultimo sguardo a Cristo in croce e poi annuendo, seguì docilmente la Superiora, sperando, in cuor suo, che la Medici non fosse lì per darle cattive notizie.

Lucrezia si dimostrò molto felice di vedere Caterina e la tranquillità con cui la salutò fece subito sparire dalla mente della milanese tutti i cattivi pensieri che l'avevano accompagnata fino allo studiolo.

Suor Elena le lasciò sole e la Medici continuò per un po' a parlare del più e del meno con una cordialità che la Tigre lesse, a un certo punto, come un maldestro tentativo di prendere alla larga il vero motivo di quella visita.

La Sforza era a un passo dal domandare in modo esplicito all'altra donna di cosa volesse parlarle davvero, quando fu Lucrezia a cambiare bruscamente tono.

Facendosi un po' incerta, tralasciò i sorrisi di convenienza e si rabbuiò, dicendo: “Tira un'aria strana a Firenze... Vorrei... Anche mio marito vorrebbe... Ecco, entrambi vorremmo avere un vostro parere su quello che sta accadendo.”

“Un mio parere?” fece eco la Leonessa, sorpresa.

“Voi avete guidato per tanto tempo le vostre terre, siete stata capace di preservarle da nemici più forti e più ricchi di voi... Sapete come va il mondo e so che potreste darci una visione più lucida di quella che abbiamo noi.” la blandì la Medici: “Per noi sarebbe importante.”

“Io non penso di essere all'altezza di quello che mi chiedete – si schiarì la voce la milanese, appoggiandosi un po' in imbarazzo alla scrivania della Superiora, come se quel contatto con il legno massiccio potesse darle sicurezza – ma, vi prego, parlatemene e vedrò se posso darvi qualche consiglio...”

Senza farselo ripetere, Lucrezia propose alla cugina acquisita di sedersi e, dopo che entrambe si furono accomodate, cominciò a riassumere con dovizia di particolari la situazione politica di Firenze, la posizione del Gonfaloniere Soderini, citando addirittura Niccolò Machiavelli, e passando da Lorenzo il Popolano, fino a citare perfino la recente ambasceria di Ermes Sforza per conto dell'Imperatore, anzi, ci tenne a precisare la moglie di Jacopo Salviati, per conto dell'Imperatrice.

Caterina ascoltava, estraniandosi più spesso di quanto avrebbe voluto. Sentendo citare Soderini, ricordò il giorno in cui, bruciante di rabbia e delusione, era arrivata a Firenze per mettere in guardia la Signoria nei confronti delle mire dei Borja... Rivide davanti ai suoi occhi soprattutto l'espressione oltraggiata e spaventata del Gonfaloniere, mentre lei picchiava il pugno sul tavolinetto posto davanti a lui.

Il nome di Machiavelli le risvegliò memorie ancora più profonde e radicate. Ripensò ai giorni in cui quello strano fiorentino era stato suo ospite a Forlì, risentì appieno l'antipatia profonda che aveva provato fin da subito per lui e, soprattutto, si intristì nel ripensare a come all'epoca lei fosse la padrona incontrastata del suo Stato e di come i suoi uomini la seguissero, fedeli e leali, in tutto quello che faceva, fosse anche prendere per i fondelli un ambasciatore fiorentino.

Quando la Medici le parlò del recente matrimonio di Lucrecia Borja, della sospetta pausa, che si prolungava sempre di più, di Cesare Borja a Roma, e anche dell'apparente impasse raggiunto a Milano, finalmente la Tigre tornò a concentrarsi davvero sul discorso presente, lasciando perdere i propri ricordi.

Man mano che Lucrezia esponeva i fatti, affiancandovi le teorie che lei e Jacopo avevano elaborato, la Leonessa commentava e spesso esprimeva il suo giudizio, non di rado diverso, se non addirittura opposto a quello della Medici. Alla fine, quando la fiorentina espresse a mezza bocca una vaga irritazione per quello che le sembrava solo desiderio di contraddirla, la milanese sospirò e allargò le braccia.

“Voi ragionate da mercante, figlia di mercante e madre di mercanti. Perché anche i banchieri sono mercanti a modo loro: vendono e comprano denaro.” le disse, senza mezzi termini, senza aver paura di suonare offensiva: “Io sono figlia di un Duca, moglie di un Conte e madre di figli che hanno dovuto lottare per sopravvivere. Non sarò riuscita a tenermi le mie terre, ma, come avete ricordato poco fa voi stessa, ho saputo tenerle al sicuro più di quanto sarebbe riuscito a molti altri.”

Lucrezia non disse nulla, limitandosi a fissarla. Nei suoi occhi non c'era più la lieve insofferenza di poco prima, ma una silenziosa ammirazione, la stessa, pensò la Leonessa, che aveva visto a tratti in alcuni soldati.

“Mi avete chiesto un parere e, come avete visto, sulla politica di Firenze ho taciuto, perché non conosco questo mondo fatto di mercati, feste, mecenati, prestiti e meritocrazia repubblicana.” la Tigre fece una smorfia, nel dire l'ultima parola, ma la Medici non se ne accorse nemmeno, tanto era presa dal discorso: “Quando avete parlato di ciò che conosco, però, ho detto la mia. Soldati, guerre, nobili, artiglieria e diplomazia tra corti importanti... Sono cose che ho respirato fin da quando sono nata e sono entrate nel mio sangue come è successo a voi con i conti della banca e le buone maniere da famiglia arricchita... Quindi, se volete, vi ho detto quello che penso.”

Lucrezia fece un respiro profondo, rendendosi conto di quanto, in effetti, fosse stata preziosa la consulenza ricevuta, dato che la Sforza aveva messo in luce aspetti e risvolti della politica internazionale che né lei né Jacopo avevano mai nemmeno preso in considerazione. Sperando di ricordarsi tutto, annuì e la ringraziò, senza più provare a polemizzare.

“Siete davvero una donna molto saggia.” concluse la fiorentina, sporgendosi in avanti per posare una mano su quelle di Caterina.

Questa ebbe la tentazione di ritrarsi, ma, alla fine, non si sottrasse al tocco della Medici, che, rassicurata da quel silenzioso permesso a prendersi un po' di confidenza, le sorrise.

“Sono felice che facciate parte della mia famiglia.” proseguì Lucrezia, stringendo appena le dita della Leonessa e poi ritraendosi, quasi a voler far capire che sapeva rispettare gli spazi e i tempi dell'altra.

“Volevate vedermi per avere un mio parere...” concluse la Sforza, alzandosi, mentre il rintocco placido delle campane le ricordava che non poteva ritardare oltre il suo appuntamento con Giovannino: “L'avete avuto, dunque possiamo salutarci. Ho una cosa da fare e...”

“Aspettate, solo un istante, ho una cosa da darvi...” la frenò la Medici, andando vicino alla porta e prendendo qualcosa di avvolto in teli grezzi, ma nuovi.

Dalla forma allungata e stretta, Caterina inizialmente pensò a un bastone, ma poi, quando la donna le parlò di nuovo, capì al volo di cosa dovesse trattarsi.

“Questo è per vostro figlio, il più piccolo – spiegò la fiorentina, porgendole il dono – spero che possa piacergli e che, per la sua età, non sia troppo grande...”

La Tigre, apprezzando finalmente il contorno di una spada di legno dalle dimensioni adatte a un bambino forse appena più grande di Giovannino, strinse le labbra e, impreparata, invece di ringraziare, soppesò: “Immagino che ci abbiate ragionato parecchio...”

La moglie di Jacopo Salviati, che si era attesa una reazione se non commossa, come l'ultima volta in cui aveva portato un regalo, almeno gentile, rimase un attimo interdetta, ma rispose con prontezza, convinta che quella della Leonessa non fosse mancanza di rispetto, ma solo l'espressione più autentica del suo carattere, spigoloso come una pietra grezza: “Ho pensato che il figlio non poteva essere tanto diverso dalla madre, tutto qui.”

Caterina, facendo un breve cenno d'assenso, pensò a quanto Giovannino sembrasse al momento più indirizzato verso i turiboli e i cibori che non verso le spade e le picche, ribatté solo: “Staremo a vedere...”

Dato che non sapeva che altro dire, la Medici si congedò, raccomandandosi con la Sforza di farle sapere presto quando avrebbero potuto incontrarsi di nuovo.

Solo quando Lucrezia fu alla porta, la Tigre sollevò un po' la spada celata dalla stoffa e le disse, con voce bassa: “Grazie.”

L'altra donna, che ormai non se l'aspettava più, schiuse la labbra, ma poi preferì non dire nulla e, agitando un attimo in aria la mano, accettò il ringraziamento e se ne andò.

 

“Ma mi stai ascoltando?” la voce di Semiramide arrivò lontana a Lorenzo, che ancora fingeva di leggere il foglio che aveva davanti.

Era una giornata fredda e l'uomo aveva la testa altrove, eppure non aveva potuto evitare di accettare la richiesta della moglie di discutere un momento a quattrocchi delle ultime spese che andavano fatte.

“Certo che ti sto ascoltando...” borbottò il Medici, accigliandosi, ma non sollevando lo sguardo dalla missiva redatta dalla mano precisa, ma incline agli svolazzi, del suo carissimo amico Amerigo Vespucci.

L'Appiani allungò l'occhio verso la pagina e, quando intravide la firma in calce, sbuffò, contrariata e impaziente: “Ti interessa sapere di più dei viaggi di quel fanfarone che non della sorte di tua figlia! Come se ti dovesse interessare di quello che succede in Asia o in capo al mondo...”

Lorenzo, infastidito dal tono lamentoso della moglie, ripiegò con calma la lettera e ribatté, cercando di non scomporsi: “In questa lettera Amerigo mi parla delle isole che chiamano di Capo Verde e di alcune terre oltre il mare che... Ah, lasciamo perdere! Che te ne parlo a fare?!” sbottò alla fine, non avendo alcuna voglia di parlare di amenità con la consorte: “Piuttosto, non è affatto vero che non mi occupa di nostra figlia Laudomia. Come ben sai ho curato tutto ciò che riguardava il contratto di nozze e...”

“Hai fatto tutto nei ritagli di tempo.” lo rimproverò Semiramide, stringendosi un po' nello scialle di lana: “Mi sa che è già tanto se ti ricordi come si chiama il nostro futuro genero!”

L'Appiani non voleva ammetterlo, ma ciò che la metteva in ansia non era l'atteggiamento distaccato e freddo del marito, ma il doversi staccare da una figlia ancora tanto giovane. Non era contraria a quel matrimonio con Francesco di Giuliano Salviati, ma si sentiva impreparata nell'appoggiare la figlia in un momento tanto delicato. Sentirsi completamente sola in frangente tanto delicato era per lei un dolore quasi fisico.

Eppure, quando parlò di nuovo, l'unica cosa che riuscì a dire fu: “Non hai nemmeno dato una scorta al Libro d'Ore commissionato per Laudomia a Boccardino... E sì che lo paghi di tasca tua! Si potrebbe pensare, per quanto te ne disinteressi, che i denari li debba tirar fuori qualcun altro!”

“Si può sapere che cosa vuoi?” chiese a quel punto Lorenzo, grattandosi nervosamente il dorso della mano e puntando gli occhi tondi e spenti in quelli della donna: “Quel libro di preghiere è come deve essere e ho pagato affinché fosse così. Mi hai detto che dovevamo discutere di spese da fare per il matrimonio, ma mi risulta che abbiamo già deciso tutto. Di che altro dovremmo parlare?”

Semiramide fece un paio di respiri profondi e poi, dopo aver lanciato uno sguardo al marito e uno alla finestra, che permetteva solo in parte di intuire il grigiore di quella gelida giornata di febbraio, si decise a dire: “Laudomia mi sembra spaventata all'idea di sposarsi. È giovane e...”

“Sei tu sua madre – tagliò corto Lorenzo, lasciando la scrivania e facendo qualche passo verso la porta, come a dire che, per quanto lo riguardava, la questione poteva dirsi chiusa – spetta a te dirle cosa l'aspetta.”

“Ma è ancora così bambina... Io non credo che...” riprovò l'Appiani, ma il Medici la frenò, sollevando una della tozze mani.

“L'età di andare in sposa a un uomo ce l'ha.” concluse freddo il Popolano: “E se la cosa non le sta bene, veda di cambiare idea. Così va il mondo: prima lo capirà, e meglio sarà anche per lei.”

“Qualche anno fa non avresti parlato così.” sussurrò Semiramide, rinunciando a scontrarsi con lui, ma volendo esprimere fino in fondo la sua amarezza: “Se avessi saputo che uomo saresti diventato, avrei fatto in modo di non darti nemmeno un figlio.”

Lorenzo ebbe la tentazione fortissima di rispondere alla provocazione, tanto che tornò sui suoi passi, sollevando una mano, ma, vedendo come la moglie non si spaventava davanti al suo gesto, abbassò subito il braccio e sibilò: “Se quel buono a nulla di tuo fratello Jacopo non avesse ceduto Piombino al Valentino lo scorso anno..!”

Quell'accenno all'assedio che aveva visto sconfitto per fame, dopo mesi, Jacopo Appiani lasciò di sasso Semiramide, che, non capendo come si fosse finiti a parlare di lui, chiese: “Ma che stai dicendo..?”

“Se tuo marito è tanto distratto da non poter pensare alle nozze di Laudomia – la incalzò lui, prendendo quel pretesto come scusa per tutti i suoi malumori e le sue assenze – è anche per colpa sua! Sai che il papa è adesso, proprio in questi giorni, a far baldoria a Piombino? E sai cosa c'è andato a fare?”

La donna rimase in silenzio, fissando il volto sempre più rubizzo di Lorenzo. Vedeva le sue vene gonfiarsi, nel collo e sulle tempie e le parve come se i suoi occhi tondi potessero schizzare fuori dalle orbite da un momento all'altro.

“Vuole consolidare il suo potere a Piombino per poi prenderci in una morsa! Attaccare Firenze dalla terra e dal mare, incatenarci e distruggerci! Se quella cagna della Sforza non avesse ceduto Imola e Forlì, almeno avremmo un corridoio in Romagna, ma quella meretrice ha ben pensato di aprire le porte del suo Stato, oltre che le gambe, non appena ha visto il Valentino! E ora Piombino è in mano del papa e andandoci ne sta rivendicando la proprietà! E non c'è andato in visita di piacere e basta, nossignore, è partito con tre galee, tre! Armate fino ai denti! E se solo quella maledetta avesse difeso come doveva le sue rocche, almeno adesso ci sarebbe servita a qualcosa, e invece è qui in casa mia, servita da domestici pagati da me, mangiando alla mia tavola, e mi fa anche la guerra!” la voce del Medici si era fatta acuta e le parole di inseguivano mangiandosi a vicenda, inciampando e ruzzolando, rendendo quasi impossibile seguire il filo logico – se c'era – del suo ragionamento.

Spaventata dalla confusione tangibile del marito, Semiramide fece un passo indietro e, con voce roca, gli fece solo presente: “Sei stato tu a fare di tutto affinché Firenze appoggiasse il Valentino, solo per poter distruggere nostra cognata. Chi devi dunque rimproverare del fatto che il Valentino ne abbia conquistato le terre?”

“Ma cosa c'entra questo...” sbuffò l'uomo, mentre la vista gli si annebbiava un po' e la testa cominciava a dolergli.

Era un dolore pulsante, penetrante. Gli capitava di quando in quando, di recente, e ogni volta finiva a doversi coricare da qualche parte, aspettando che finisse, perché il male era tanto forte da essere invalidante.

“Stai bene?” gli chiese l'Appiani che, pur volendo dar mostra di non aver a cuore la salute del marito, si preoccupò molto, nel vederlo barcollare per un istante tenendosi una mano sulla fronte.

“Levati di torno, mi fai scoppiare la testa...” bofonchiò lui, con eloquio poco fluido.

“Lorenzo, vuoi che chiami un medico..?” la voce della moglie gli sembrava lontana e difficile da capire.

Incerto, quindi, su quale fosse la domanda che gli era stata posta, il Medici rispose solamente con un grido: “Vattene!” e provò a indicare la porta, ma puntò l'indice dalla parte sbagliata.

“Ti farò portare qualcosa di caldo da bere.” sussurrò la donna, andando però all'uscita e lanciandogli un ultimo sguardo, in apprensione.

Malgrado tutto, non riusciva a staccarsi da Lorenzo. Non era più l'uomo che aveva sposato, ma non era quasi più nemmeno l'uomo ossessionato dal distruggere la cognata e rimettere le mani sui soldi del povero Giovanni. Si stava assottigliando giorno dopo giorno ed era sempre più difficile trovare con lui un punto di contatto. Semiramide voleva pensare a lui come a un ammalato: in quel modo, in fondo, le risultava più facile accettarne le intemperanze e gli scatti di rabbia.

Mentre si chiudeva la porta alle spalle, vide il marito stendersi in fretta sulla panca di legno vicino alla finestra, i palmi delle mani premuti sulle tempie. Le ci volle tutta la sua forza di volontà per non tornare indietro, avvicinarsi e chiedergli di nuovo come stesse, per vedere se poteva far qualcosa per aiutarlo.

Con un sospiro profondo, mentre cercava una serva per ordinare che venisse portato qualcosa di caldo a Lorenzo, l'Appiani si disse che, al momento, l'unica cosa che poteva fare davvero per soccorrere il consorte era cercare di essere più lucida di lui.

Perciò, sistemate le contingenze del momento, chiese di poter vedere uno dei segretari del Medici e, fattogli giurare di non riferire all'uomo del loro incontro, si fece spiegare meglio cosa stesse accadendo a Piombino: se la disfatta di Firenze e con essa dei Medici era vicina, lei voleva essere la prima a saperlo.

 

   
 
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