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Autore: Adeia Di Elferas    24/12/2021    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Il modo in cui Giovannino aveva stretto nel piccolo pugno l'elsa della spada di legno aveva instillato nel petto di Caterina uno strano orgoglio. Il bambino si era dimostrato subito felice di quel dono, arrivato da una cugina che non conosceva, ma l'entusiasmo si era spento quando, poco dopo, gli era stato detto che non avrebbe potuto giocarci spesso.

“Solo quando sarete con vostra madre – gli aveva fatto presente la monaca che per prima era stata messa a parte di quel dono – nessun altro deve vedervi con in mano quel giocattolo...”

La Tigre, suo malgrado, aveva dovuto rafforzare quella raccomandazione, spiegando al figlio quanto fosse importante che tutti continuassero a considerarlo una bambina e che, quindi, un gioco tanto maschile venisse usato solo quando non c'era pericolo di essere visto.

Il Medici era parso molto contrariato da quella precisazione, ma, con la semplicità della sua età, dopo pochi minuti già non ci aveva più pensato ed era andato avanti a raccontare alla madre la sua giornata.

Dopo quell'incontro, la Sforza era riuscita a vedere Giovannino altre tre volte, di cui l'ultima quella mattina e, tutte le volte, aveva giocato con lui con la spada di legno, cercando di insegnargli già le basi della scherma, per quanto, non avendo ancora compiuto quattro anni, il bambino fosse ancora troppo piccolo per capire davvero. Le faceva comunque piacere vedere come si stesse rendendo avvezzo a quel genere di occupazione. Quando era con lei, il piccolo sembrava più impaziente di muoversi e tirare di spada che non di ripetere a memoria lunghe preghiere in un latino stentato e per lui incomprensibile.

Caterina avrebbe passato ancora il pomeriggio e la sera alle Murate e poi sarebbe tornata alla villa di Castello. Non nevicava quasi più, ma in terra si era fermato uno strato spesso di neve e ghiaccio e, dal biancore del cielo, la Leonessa si attendeva a breve nuove precipitazioni. Non le piaceva muoversi, se c'era brutto tempo e dunque, non avendo più in previsione altre visite a Giovannino, un po' le pesava restare ancora al convento, con il rischio di imbattersi in una nevicata il giorno dopo.

Era perciò di cattivo umore, quel pomeriggio, e rifuggì in fretta la compagnia delle suore in preghiera nella cappella. Dapprima si chiuse nella sua cella, poi cambiò idea e provò ad andare dalla nipote Cornelia, ma la vide intenta a giocare con Suor Ubbidienza, e quindi evitò di intromettersi.

La piccola assomigliava sempre di più a Ottaviano, o, meglio, ai Riario in generale. Il viso allungato, i tratti tutto sommato belli, ma che alla Leonessa risultavano sempre poco graditi, e perfino certe espressioni che assumeva: tutto ricordava Girolamo e i suoi parenti. Tutto questo bastava a rendere difficile alla Sforza la sua vicinanza, dunque lasciare la bambina ai suoi giochi con la suora non fu un dispiacere per lei.

Volendo restare sola, ma non sopportando di chiudersi nella propria celletta, la donna cominciò a vagare per le Murate. Portava un leggerissimo velo sui capelli sciolti, in rispetto al luogo in cui si trovava, ma quando uscì nel cortile interno, una folata di vento la scompigliò, svelandola.

Rincorrendo per un momento il velo, pestando la neve che in alcuni punti era puro ghiaccio, Caterina non si accorse subito di essere osservata. Solo quando si chinò e recuperò il mal tolto dal vento, notò che il giardiniere la stava fissando dall'altro angolo del chiostro.

Senza mostrarsi intimidita da quell'insistenza, si risistemò il velo e la capigliatura, stringendosi poi nelle spalle per far fronte al freddo. Non aveva addosso abiti adatti a stare fuori, specie a quell'ora tarda del pomeriggio, eppure riusciva a stare immobile, senza rabbrividire. Anche se dopo la prigionia a Roma era diventata molto più sensibile alle basse temperature, in quel momento la sua attenzione era tanto indirizzata al giovane giardiniere da cancellare tutto il resto.

Dal canto suo, l'uomo cominciava a essere un po' in imbarazzo. Era abituato a reazioni molto più pudiche, da parte delle suore, davanti ai suoi sguardi insistenti. Anche quelle che poi lo cercavano in un secondo momento, nell'immediato fingevano di non essergli interessate o, ancor più spesso, mostravano un'ipocrita ritrosia imparata in anni e anni di buone maniere e rigidi costumi.

Il modo in cui la Tigre stava ritta al suo posto, apparentemente incurante anche del vento freddo e della neve che di certo iniziava a inumidire i suoi calzari, lo stava stregando. Sapeva bene chi era quella donna, lo sapevano tutti, non era un mistero che fosse lì, per pregare, dicevano... Era la prima volta, però, che riusciva a osservarla in modo tanto diretto. Ora che ci faceva caso, vedeva in lei una somiglianza molto evidente con la ragazza che era stata ospite per settimane alle Murate, qualche mese prima. Il sospetto che quella giovane fosse la figlia della Leonessa di Romagna, di colpo, divenne per lui una certezza.

Allo stesso modo, guardando il profilo accattivante del giovane e il suo fisico robusto e atletico, Caterina si ritrovò a pensare ancora una volta alla possibilità che Bianca fosse ricorsa a lui, come ormai le era chiaro facessero spesso tante delle suore delle Murate, specie le più giovani, per alleviare un po' la solitudine delle lunghe notti passate tra quelle quattro mura. Se fino a quel momento non aveva voluto darsi una risposta precisa, ora le sembrava quasi ovvio che la Riario avesse ceduto a quella piccola debolezza...

Respirando a fondo l'aria gelida di quel giorno di fine febbraio, Caterina si sentì sospinta da una forza invisibile, che la voleva arrendevole e vittima una volta di più dei propri istinti. Si stava già muovendo verso il giardiniere, convinta che, con un uomo del genere, sarebbe stato tutto più semplice, esattamente come, morto da poco Giacomo, il ragazzo biondo del bordello di Forlì le aveva permesso di tornare a respirare dopo un interminabile inferno...

Però, quando ormai anche il giovane aveva capito e aveva cominciato a camminare a sua volta verso di lei, la Leonessa si bloccò di colpo. Un nodo le strinse lo stomaco e quel freno inatteso la portò a voltarsi e andarsene subito. Non era solo la consapevolezza che, verosimilmente, quel ragazzo aveva conosciuto anche sua figlia, ma soprattutto il suo sentirsi ancora inadeguata e non pronta a un contatto del genere con un uomo.

Anche se fremeva al solo pensiero, anche se certe notti la voglia era tanto assillante da tenerla sveglia, aveva ancora paura. Temeva di soffrire, di sentirsi a disagio, di rivivere in qualche modo i soprusi e le violenze del Valentino.

Trattenendo a stento le lacrime, di rabbia e vergogna, la donna raggiunse la sua cella e da lì non si mosse più fino all'ora di cena, passando il suo tempo a maledire Cesare Borja e il giorno in cui era riuscito a vincerla.

 

Bianca stava leggendo in silenzio vicino a una delle finestre, ma i suoi occhi continuavano a correre via dalla pagina, andando alla finestra, ipnotizzati dalla neve che continuava a cadere senza tregua. A tratti si era anche chiesta come avrebbe fatto sua madre a tornare dalle Murate, ma poi si era detta più volte che la Tigre di Forlì era sopravvissuta a una miriade di congiure e all'assedio del Valentino, dunque due fiocchi di neve non l'avrebbero messa poi tanto in difficoltà.

Distratta, di quando in quando si sfiorava il ventre con la punta delle dita, chiedendosi se quello che le aveva detto il medico mandato da Fortunati fosse vero. Anche lei pensava di essere incinta, eppure era un concetto ancora così astratto da sembrarle impossibile. In quei giorni di solitudine – si era trovata a prendere volontariamente le distanze anche dai fratelli, presa com'era dai suoi ragionamenti – era come se Troilo non fosse mai stato lì con lei, non l'avesse mai amata, nemmeno sfiorata... Era tutto così impalpabile e lontano da farle quasi girare la testa.

“Sei sicura di stare bene?” Galeazzo le era arrivato accanto in modo tanto silenzioso che la sorella sussultò, nel sentirsi apostrofare.

Con lentezza, chiuse il libro che stava cercando di leggere e, senza darsi pena di tenere il segno con le dita, guardò il fratello e sollevò un sopracciglio: “Sì, sì, grazie, sto bene...”

Il Riario, che aveva notato ormai da tempo il pallore innaturale di Bianca, piantò meglio i piedi in terra e, incrociando le braccia sul petto, disse, ancora più diretto: “Lo so che quello che ha portato qui Fortunati era un medico, e so che ha visitato te.”

La Tigre era stata molto attenta, all'arrivo di quel particolare ospite, a non far capire a nessuno per chi fosse lì. Anzi, aveva fatto del suo meglio per far sì che tutti ritenessero che la paziente fosse lei.

A Galeazzo, però, non era sfuggita la verità e, fin dal giorno della visita, non aveva mai smesso di chiedersi se la sorella stesse veramente male. Amava molto Bianca e non avrebbe sopportato di saperla in pericolo, specie dopo tutto quello che avevano superato assieme.

“Se stai male, voglio saperlo.” insistette il ragazzo, che, con i suoi sedici anni, cominciava ad avere un'aria abbastanza virile, quando si faceva così serio.

La giovane squadrò per un istante il bel viso del fratello e poi, rendendosi conto dell'affetto che provava per lui, non se la sentì di tacergli oltre la verità: “A quanto sembra, sono incinta.” gli confessò.

Il Riario ci mise qualche minuto per metabolizzare quella rivelazione, poi, con le guance e il collo che prendevano calore, domandò: “Stai scherzando?”

Bianca, che aveva intanto lasciato il suo posto vicino alla finestra, si guardava attorno un po' in apprensione, temendo che ci fosse in ascolto qualche orecchio indiscreto: “No, no, non sto scherzando.” bisbigliò, quando fu abbastanza sicura che non ci fosse in vista nessuno.

Galeazzo si schiarì la voce, mettendosi a ispezionare il corridoio come lei, capendo la delicatezza della questione: “Il padre è... Il padre è messer De Rossi?”

Il tono quasi reverenziale con cui il ragazzo aveva citato Troilo in parte piacque alla Riario che, senza tema di sentir sminuire il suo innamorato, rispose: “Sì, è lui.”

“Lo ami?” indagò lui, cercando gli occhi blu scuro della sorella, mentre una strana vertigine lo coglieva, nel pensare che sua sorella fosse davvero in attesa di un figlio.

Anche stavolta la risposta della giovane arrivò con prontezza: “Sì.”

A quel punto, Galeazzo si prese un momento. Di tutte le cose a cui aveva pensato, quella era la più remota. In tutta onestà, non sapeva dire se fosse più confuso, felice o spaventato. Era una cosa così enorme, così bella e allo stesso tempo così pericolosa...

“Quando dovrebbe nascere?” chiese, cercando di fare qualche conto, mentre lo sguardo gli cadeva sul ventre della sorella, ancora imperscrutabile.

“Quest'autunno...” rispose Bianca, un po' evasiva, dato che lei per prima non aveva ancora voluto fare un calcolo preciso, ancora troppo stordita da tutta quella situazione per poter prendere coscienza anche di quello.

“A messer De Rossi l'hai già detto?” il Riario non voleva suonare pedante, ma gli premeva avere il quadro più preciso possibile, perché se mai ci fosse stato bisogno di aiutare la sorella, lui voleva essere pronto a farlo.

“No, non ancora.” ammise lei, mordendosi poi il labbro.

“Come mai?” il ragazzo cominciò a temere che ci fosse qualcosa di sbagliato, qualcosa che gli sfuggiva.

“Perché è complicato... Voglio dirglielo di persona.” spiegò la giovane.

Il Riario annuì e poi continuò: “E quando tornerà qui, messer De Rossi?”

“Puoi chiamarlo Troilo, specie quando ne parli con me.” lo corresse Bianca: “Comunque non lo so, quando tornerà. Spero presto, ma è dovuto tornare a San Secondo all'improvviso perché suo padre non stava bene.”

“Ho capito.” sussurrò Galeazzo, per poi chiedere, questa volta con un tono molto diverso da quello usato all'inizio della loro conversazione: “Sei sicura di stare bene?”

La ragazza, riscaldata dagli accenti preoccupati e affettuosi del fratello, fece un breve sorriso e ammise: “Ho un po' di paura, per... Per tutto. Però sto bene.”

Cedendo all'impulso del momento, per quanto di norma non fosse avvezzo a dimostrare a quel modo la sua vicinanza, il Riario allargò le braccia e strinse a sé la sorella, con una dolcezza e una delicatezza che un po' la sorpresero. Galeazzo era d'animo gentile, e sapeva essere molto galante, ma in quell'abbraccio c'era qualcosa di più, una sorta di consapevole commozione, come se il sapere la sorella incinta rendesse per lui quel contatto fisico molto più importante.

“Stai tranquilla – le sussurrò, appena prima di lasciarla – penserò io a difendere mio nipote, se servirà.”

Mentre si allontanava un po' da lui, tenendo però una mano saldamente sul suo forte braccio, Bianca si commosse e, vedendo nel fratello un uomo e non più solo un ragazzino, gli accarezzò lentamente la guancia, un po' ispida di barba e gli sussurrò: “Grazie.”

Galeazzo arrossì un po', tornando di colpo un ragazzino, almeno nell'espressione e poi, distratto dal vociare che arrivava dal piano di sotto, chiese: “Ma che succede?”

Anche la giovane tese l'orecchio e, cogliendo alcune frasi chiave, dette dalla voce imperturbabilmente serafica di frate Lauro Bossi, rispose: “Nostra madre è tornata.”

 

“Domani partirà buona parte dei miei famigli.” spiegò Alessandro VI, guardando di traverso il figlio Cesare: “Ma con 'famigli' non intendevo anche te.”

Il Valentino, che, dopo il tribolato viaggio in mare per l'Isola d'Elba e l'altrettanto complicato rientro a Piombino, non vedeva l'ora di allontanarsi dalla costa, piegò le labbra di lato e, sollevando le sopracciglia, commentò solo: “Bastava essere più chiari.”

Il pontefice avrebbe lasciato volentieri che il figlio ripartisse per Roma tra i primi, ma lo irritava profondamente quel suo atteggiamento lavativo e disinteressato. Quel viaggio era servito non solo per dare alla popolazione locale la sensazione che il pontefice fosse una presenza concreta, ma anche per valutare i lavori da commissionare al maestro Leonardo e, soprattutto, per discutere in santa pace dei prossimi passi da compiere nella conquista del centro Italia.

“Se non avete altro da dirmi, andrei a prepararmi per il pranzo...” fece Cesare, alzandosi dallo scranno coperto di foglia d'oro su cui stava seduto da una manciata di minuti.

“Cosa c'è, hai il fuoco sotto, per aver tanta fretta?” lo derise il padre, convinto che il figlio volesse ritirarsi solo per sfogare la delusione della mancata partenza in solitudine.

Punto sul vivo, il Duca di Valentinois si risiedette subito, borbottando: “Credevo solo che fosse quasi ora di pranzo...”

“Quando tornerò a Roma – cominciò a dire a voce bassa il Santo Padre – firmerò una scomunica maggiore e l'anatema di spergiuro per Giulio Cesare da Varano, il signore di Camerino.”

L'attenzione di Cesare, all'improvviso, si riaccese. Fissava il padre in silenzio, aspettandosi il prosieguo di quella dichiarazione e Rodrigo, ben felice di vedere finalmente il figlio presente a se stesso, fece un mezzo ghigno.

“Quando Camerino cadrà – riassunse – a est delle montagne nessuno oserà opporsi più a noi e Firenze... Firenze si accorgerà di avere a oriente la Romagna, ormai in nostra mano, e le Marche, che, caduta Camerino, saranno nostre, al nord Milano, francese, Ferrara, Mantova e Bologna, ormai nostre alleate grazie a Lucrecia, a occidente Piombino, nostra, a occidente e a sud Roma.”

Il Valentino si morse l'interno della guancia e poi, dopo un breve tentennamento, si risolse a chiedere: “E a quel punto attaccheremo Firenze?”

Alessandro VI fece una smorfia. Non voleva parlare nemmeno con il figlio dei suoi reali progetti, perciò cercò di non sbottonarsi.

Con un'alzata di spalle, disse solo: “Una cosa per volta. Tu, piuttosto, sii pronto ad andare nelle Marche. Prima dell'estate voglio che tutti dicano che il figlio del papa è il nuovo Giulio Cesare, conquistatore di terre e forgiatore di imperi.”

Deglutendo, Cesare fece un cenno con il capo, che poteva essere sia d'assenso, sia di incertezza, e poi, quando il padre agitò la mano in aria, come a dirgli che ora poteva andarsene, non attese ulteriori ordini e scattò in piedi, ben felice di potersi ritirare per un po' e pensare. Gli piaceva l'idea di essere considerato un conquistatore... Gli piaceva molto meno, invece, l'idea di tornare sul campo di battaglia.

Sapeva bene che di Tigre ce n'era stata una sola, ma l'ansia di incappare di nuovo negli stessi errori commessi in Romagna gli strinse lo stomaco come una morsa.

“Ecco...” borbottò tra sé, mentre si cambiava per il pranzo: “Ora non riuscirò nemmeno a mangiare...”

 

Caterina, che aveva invano sperato fino all'ultimo di non dover fare tutta la strada sotto la nevicata, guardava in lontananza la villa di Castello desiderando di poter volare fino alle sue stanze calde, davanti a un camino, e togliersi di dosso la cappa umida e pesante di neve che si stava sciogliendo.

Il carretto su cui viaggiava non era coperto e le ruote, troppo esili per sopportare bene quell'ultimo tratto, continuavano a incagliarsi in blocchi di neve congelata, rallentando il passo. L'uomo che guidava il cavallo da traino aveva il volto rubizzo, per la fatica di tenere le redini e per il vento freddo che lo sferzava, ma la Tigre non provava nessun moto di gratitudine o pena per lui: l'unica cosa che riusciva a pensare era che se avesse potuto comandare lei, di certo il ronzino sarebbe andato più veloce e avrebbero evitato di impantanarsi così spesso.

Capì di essere stata notata in anticipo quando il portone della villa si spalancò, con lei ancora abbastanza lontana, e ne uscirono nell'ordine: Bernardino, Galeazzo e Bianca e, per ultimi, Sforzino assieme a frate Lauro. Ottaviano, come accadeva spesso, non si era dato peso di presenziare al rientro della madre.

Mentre i suoi figli si facevano sempre più vicini, la Leonessa si riportò alla mente il saluto del giorno prima a Giovannino, il modo in cui l'aveva stretta a sé cercando di non lasciarla partire...

Con il cuore che le si stringeva nel petto, ricacciò indietro le lacrime, e si concentrò sui figli che erano lì, davanti ai suoi occhi. Si accorse con un velo di vergogna di quanto raramente pensasse a Cesare, lontano da lei ormai da anni.

“Mia signora – l'accolse in casa Bossi, aiutandola subito a togliere la cappa umida, mentre tutti gli altri li seguivano, in attesa di avere notizie del piccolo Medici – mentre eravate via sono arrivate delle missive per voi. Fortunati le ha fatte recapitare a me, e le ho conservate in attesa del vostro ritorno.”

La Sforza si accigliò, chiedendosi chi potesse scriverle in quei giorni, ma non fece domande, disse solo: “Grazie, più tardi le leggerò.”

In effetti, salutati i figli, pranzato e chiesto sinceratasi in privato sullo stato di Bianca che, tutto sommato, stava meglio, la Tigre andò dal frate e si fece consegnare le missive. Attese però che fosse sera tarda, prima di dedicarvisi.

Rimase sorpresa dal vedere quante fossero. Un paio erano di Fortunati, che l'aggiornava su cose che, in parte, le aveva già raccontato Lucrezia Medici. C'erano un paio di lettere di suoi vecchi soldati, uno di Imola e uno che era riuscito fortunosamente a sopravvivere all'ultimo massacro di Forlì. Entrambi la riempivano di elogi e ripercorrevano alcuni momenti passati assieme, dandole allo stesso tempo un sottile piacere e una grande tristezza.

Si imbatté poi in una lettera di Giovanni da Casale, molto corposa, accompagnata da un biglietto di presentazione di Fortunati, che la pregava di leggere quanto Pirovano le scriveva e di lasciare che la rabbia defluisse, essendo ormai passato del buon tempo dal giorno della disfatta a Ravaldino.

Senza fare una piega, la Sforza prese il messaggio di Giovanni e lo lanciò ancora chiuso nel camino acceso. Lo guardò bruciare a lungo, gli occhi persi nelle fiamme e la mente che tornava all'inverno del 1499, quando aveva creduto di avere in Pirovano un compagno, un amante e, soprattutto, un alleato, trovandovi invece solo un intralcio, un traditore e una colossale delusione.

Solo quando anche l'ultimo stralcio di lettera fu ridotto in cenere, la Tigre fece un respiro profondo e tornò alla corrispondeza.

L'ultima lettera, la più sostanziosa di tutte, arrivava da Imola. Incuriosita e ansiosa, la donna ruppe il sigillo e corse subito alla firma: Giambattista Tonello.

Passandosi una mano sulle labbra, cercando di temperare l'agitazione che la stava prendendo nel ricevere notizie di prima mano di quella che, un tempo, era stata la seconda città più importante della sua Contea, la Leonessa cominciò a leggere.

Tonello le riportava, fedelmente, una lista di traditori che, a suo dire, erano stati fondamentali nella cessione di Imola e dello Stato tutto nelle mani del Valentino. Poi, parlando di se stesso e di altri due imolesi che la Sforza conosceva bene, le fece sapere che loro le restavano fedeli e, anzi, rimarcava la loro lealtà dipingendole in poche parole una scena che le riempì il cuore di commozione.

'Et sempre may la sera ce retrovamo la maggior parte de noi in casa mia a parlare et raxonare insieme sempremai di Vostra Signoria che se ce havessi visto vene sareste maravigliata – scriveva l'uomo – et hora facciamo piu che prima perché cognosciamo et vediamo che Vostra Signoria sera in casa et il elstato suo.'.

La Tigre fece un respiro profondo e poi continuò: 'In poche septimane che dio e la nostra donna gliene presti quella gratia: cusi como desideriamo; et uno zorno ce pare mille miara de anni... Prego Vostra Signoria ce vogliate dare un poco de consularione e conforto: cusi como dette Gesu Crispto a li suoi dissipoli quando glie aparse visibilmente acio non havessero a perdere la fede_ e cussi Vostra Signoria sia contenta de farmi intendere a mi como e concluxo le cose di Vostra Signoria, a cio chio possa confortare tutti li servitori di Vostra Signoria che stanno de hora in hora con le braza aperte per intendere che Vostra Signoria venga a liberarsi de man di questi porzi Marani che Dio li profonda a casa del Diavolo.'.

Caterina dovette prendersi un lungo momento. Sentiva gli occhi pungere e la gola stringersi. Non era tanto l'entità delle parole che aveva letto, quanto la nostalgia tremenda della Romagna, la sua Romagna, una terra che all'inizio aveva mal sopportato e che aveva finito a identificare con la sua stessa vita.

Tuttavia, mentre si asciugava una lacrima e ricominciava a leggere, si ricordò anche di come quelle stesse persone, per quanto fedeli e leali, l'avevano sempre lasciata sola, nei momenti cruciali della sua vita. L'avevano venduta, anche loro, si erano piegati al Borja... Imola non era stata una figlia devota, per lei, alla fine...

Ora che si trovavano in mano agli sgherri del Valentino, però, come la invocavano, alla sera, come la pregavano di rialzare la testa e combattere ancora una volta, ancora gratuitamente, ancora solo per loro...

'Si che dunque quella non me denienghi questo, acio non habia a morire de dollore, se io dormo pare che io sia con Vostra Signoria – insisteva Tonello – se io vieghio el simile, se io magno lasso de magnare e parlo de Vostra Signoria, se io vo fazo simiante fazzame quello chio voglio ve ho scolpito nel core, si che adunque Vostra Signoria me chiarisca e diamwe bona nova che non aspecto altro: qua se dice che Vostra Signoria ha havuto il stato vostro et a Bologna se dice anco per tutto: de questi poltroni traditori vanno molmorezando e comenzano a stare de mala voglia a ferrara se dice anco el simile: voce del populo voce de Dio.'.

La Tigre sentì una rabbia feroce nascerle nel petto. Tonello le parlava a quel modo non solo per metterla a parte dei pettegolezzi su di lei, che la volevano felice con un 'suo Stato' addirittura, come se avesse venduto Forlì in cambio di una nuova terra, più tranquilla e semplice. Ciò che la dilaniava era intuire come lui gliene avesse parlato per avere una sua reazione e capire se era vero.

Lesse quasi con distrazione il resto della missiva, in cui si raccontava lo stato tragico in cui vertevano anche le terre vicine, in mano ai papalini, e come Bologna avesse chiesto soldi a tutti, per fare un regalo di nozze a Lucrecia Borja.

Prendendosi la testa tra le mani, la donna strinse gli occhi con forza e poi, dando una manata alla lettera, spostandola di lato, si abbandonò contro lo schienale della sedia. Respirò a fondo più e più volte e alla fine si alzò in piedi.

Ragionò con furia sull'incostanza delle genti, sulla pericolosità di affidarsi al popolo, sulla cattiveria che l'essere umano sapeva mostrare, nella sua indifferenza, nella sua incapacità di sventolare a lungo lo stesso stendardo, alla facilità estrema e spaventevole con cui seguiva ora questo ora quel signore, sempre annusando nuove ricompense, rivoltandosi contro la mano che lo nutriva, per cercarne una più prodiga...

Camminando furiosamente avanti e indietro, ripensò al discorso fatto con la moglie di Jacopo Salviati e si scontrò una volta di più contro l'idea di Italia, quell'idea così effimera e sfuggente, che pure a lei era sempre sembrata concreta e vincente. Se solo avesse potuto creare lei stessa un esercito d'Italia, avrebbe cacciato tutti gli stranieri, tutti i fanfaroni e tutti gli avventurieri disonesti e avrebbe fatto di questa nuova Italia la patria dei giusti e dei valorosi.

Ma l'Italia, se n'era resa conto già da tempo, già quando preparava le difese contro il Valentino, era solo un'idea che baluginava nella sua mente e in quella di pochissimi altri. Erano troppo pochi ad alimentarla, troppo pochi per permetterle di venire davvero al mondo...

Trascinata da quel calore bruciante che non provava da tempo, Caterina sentì un groviglio indistinto nel petto. La smania di guerra si mescolò al fantasma dell'Italia, la voglia di tornare a guidare un suo esercito si sposò con il desiderio ancora zoppicante, ma urente, di avere di nuovo un uomo nel suo letto, il bisogno di impugnare una spada si fece tutt'uno con quella di liberare il proprio corpo dalle catene che il Valentino pareva averle lasciato.

Non curandosi affatto della neve che continuava a cadere in gran quantità, né del buio della notte, dei pericoli, dei divieti, la Tigre prese il suo mantello, infilò gli stivali e lasciò la sua stanza, decisa, se Dio l'assisteva, ad andare di nascosto nel bosco, l'unico posto al mondo, lo sapeva, capace di farle ritrovare davvero se stessa.

 

   
 
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