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Autore: Cladzky    09/02/2022    2 recensioni
Quanti mesi avrà passato Cladzky nel suo isolamento auto-imposto nello spazio? Molti, ma quando sembra che gli altri autori di EFP l'abbiano dimenticato, organizzando un party a cui parteciperanno tutti i personaggi del Multiverso, ha un'improvvisa voglia di tornare a casa.
Un po' per malinconia.
Ed un po' per vendetta.
[Storia non canonica e piena di citazioni]
Questa è una storia dedicata a voi ragazzi. Yep. I'm back guys!
E spero di farvi fare due risate, va'!
Genere: Commedia, Introspettivo, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Cominciò a rallentare solo quando i suoi sandali affondarono sul letto roccioso di un gelido fiumiciattolo. Si vedevano a malapena le schegge in bianco lunare sul pelo dell’acqua smerigliata. Spasmando dalla sorpresa, colpì un balzo per attraversarlo d’un colpo piuttosto che tornare indietro e finì per sbattere contro la ringhiera in legno di un ponticello convesso. Subito andò a issarsi sopra di esso, ma essendo più basso di quel che credeva, si slanciò per un appiglio di troppo, sporgendosi troppo di petto. Subito la mano tesa al vuoto tornò sul corrimano per tentare inutilmente di riottenere l’equilibrio, ma ormai il corpo cadeva in avanti e generò solo un cardine, facendolo ribaltare. Atterrò a culo duro sulla superficie ben levigata e inclinata, proseguendo a rotolare all’indietro fino a giungere sull’altra sponda, tornando sul sentiero ghiaioso. Rimessosi in piedi a fatica, si guardò attorno. Distingueva solo il contorno degli alberi contro il chiarore violetto del cielo. Allontanarsi così in fretta dalla pista da ballo gli aveva ricordato troppo in fretta che fosse l’una di notte e i suoi occhi non si erano ancora abituati. Alzò le braccia per proseguire a tentoni. Infame, il colpo venne dal basso, quando andò a colpire sotto il ginocchio contro il tetto in pietra di una lanterna spenta. Riuscì a cadere seduto su la stessa, stringendosi la gamba. Provò a tastarsi la ferita, sentendola bagnata. Forse era l’acqua in cui era caduto prima. Si cacciò il dito in bocca. Ferro. No, stava decisamente sanguinando. Soffiò fra i denti. Possibile che dopo tutto quello che aveva passato sinora si facesse fermare da una sbucciatura? Ecco, ora che si era fermato a riprendere fiato, in effetti, le costole sembravano esplodergli quando cercava di allargare i polmoni per inspirare profondamente. Allora, quando lo avevano preso a calci due volte prima che toccasse terra, aveva avuto effetto. Perché lo sentiva solo ora? Forse era l’adrenalina che smetteva di circolare. E in effetti cominciava pure a sentirsi stanco, quasi assonnato. Gli bruciavano le palpebre, forse per via dei riflettori di prima, che minacciavano continuamente di chiuderglisi. Tentennò sopra il tetto della lanterna, come a volersi coricare. Infine cadde a gambe all’aria sulla soffice erba alle sue spalle. Scosse la testa ma non gli veniva proprio la voglia di continuare la sua missione, ma non poteva certo permettersi di dormire nel bel mezzo di un’infrazione di domicilio. Nell’attesa gli tornasse la forza nelle sue gambe svuotate, provò a ripercorrere la pianta della casa a mente.

“Dunque” Si coricò sullo stomaco, reggendosi la testa fra le dita incrociate “Sono entrato dalla serra, sono passato per gli spogliatoi dello staff, la pista da ballo degli oldies di Hollywood, ho proseguito per l’adiacente riservata agli scheletri celebri e ora… Bah! Se solo avessi un lume di sorta.”

Si frugò nelle tasche della tunica che aveva preso a prestito indeterminato, che ovviamente erano vuote essendo uscite appena dall’armadio, eccetto per un oggetto che si portava dietro dacché lo aveva trovato nei vestiti del DJ che aveva steso poco fa. Tirò fuori un pezzo di carta ripiegato con due dita. Lo spiegò in due, poi in quattro, otto e alla fine si trovava con un mappone dell’intera villa grosso quanto una tovaglia. Un pratico omaggio di Gyber per permettere al suo staff di orientarsi. Strizzò gli occhi ma ancora nulla, ne vedeva solo i bordi spiegazzati.

–All’anima di quell’atlante di tua madre, ad avercelo un accendino!– Sbattè il foglio sul prato e vi si coricò sopra, imbronciato, su un fianco. Rumori di carta smossa provenivano però da sotto di lui, come di qualcosa intrappolato. Appena tolse il gomito da dove l’aveva piantato, subito la testa di un coltello saltò fuori, baluginando al chiar di luna, aprendo un piccolo varco per il lungo. Dal foro sbucò fuori un corpo confuso sgambettante, prima di saltare verso l’alto e divenire tre schizzi separati di pennellate rapide da quanto veloci volavano. Percorsero una rapida manovra a gomito e tornarono indietro, atterrando sopra il tetto della lanterna su cui era inciampato. Quelle tre ombre, viste dal basso contro il cielo, per quanto potessero stargli nel palmo, avevano chiaramente le proporzioni di esseri umani. Con un sibilo ritrassero tre corna a lama che avevano montate in fronte e similemente fecero i loro mantelli, sparendogli fra le scapole. 

–Dico, vuoi farci soffocare?– Gli rimproverò una voce femminile, mani sui fianchi.

–Cos’è, non ci vedi?– Chiese offeso il più piccolo dei tre, alzando un pugno.

–Onestamente no, non vi vedo– Sorpreso, ma non troppo dopo le cose che aveva visto, si grattò un orecchio e puntò l’indice sulla lanterna –Non è che avreste un accendino?

I tre individui seguirono l’indicazione fino ai loro piedi. Con uno scrollo stizzito delle spalle librarono di nuovo i mantelli e si alzarono in volo fino a frapporsi fra lui e la base in pietra.

–Raggio Microide!– Esclamò offeso quello con la voce più matura, emanando dalla fronte un fascio visibile a occhio nudo di fotoni abbastanza intenso da far divampare la lanterna in un istante di tuono. I tre, ora perfettamente visibili nelle loro uniformi attillate verde, rosso e rosa, si voltarono un ultimo momento verso il ragazzo a dargli un’occhiataccia, mostrando mantelli che non erano mantelli ma ali, rispettivamente di libellula, scarabeo e falena in vibrazione –Non c’è di che.

–Sono stufa di essere trattata come non esistessi più– Si lamentò serrando i pugni, rivolgendosi agli altri due, la ragazza, prima di allontanarsi, lasciando cadere una parabola di polvere dorata dalle ali.

–Aspetta Ageha!– Gli corse appresso il più piccolo, seguito dal verde, che indugiò un momento a rassettarsi le antenne surriscaldate.

–Non correre Mamezo, lasciala sfogare.

Cladzky rimase a bocca aperta per la prima volta da quando era entrato. Perfettamente incorniciati nel disco lunare, i tre parevano fantasmi, al punto da dissolversi nell’aria fredda, zucchero nel latte.

–Grazie– Fu tutto quel che riuscì a dire una volta ch’erano scomparsi. Abbassò lo sguardo distrattamente sulla mappa ora leggibile. Ritrovò il suo percorso abbastanza facilmente. Ecco, la serra, gli spogliatoi, le piste da ballo e ora… niente, il foro delle lame di quei tre passava proprio sul nome del settore in cui si trovava. Si rimise in piedi, rendendosi conto di essere ancora ferito alla gamba destra, e incespicò via da quel giardinetto alla giapponese che Monet avrebbe invidiato.


***


    –E qua dovrei svoltare a sinistra– Si disse, avvinghiando il braccio libero ad un lampione e appoggiandovicisi. Scrutò ancora la mappa. Le cucine si trovavano all’altro capo del misterioso settore nel quale stava vagando. Arrivato lì non sarebbe stato troppo difficile riuscire a infiltrarsi nella villa stessa. Si sarebbe fatto passare per un membro dello staff, in fondo non era qualcosa di nuovo per lui. Certo che era cambiata la planimetria del posto dall’ultima volta che c’era stato. Ma quando c’era stato l'ultima volta effettivamente? Forse era per le nozze di…? No, quella era la penultima. Certo era che con tutta la sicurezza in giro non poteva aspettarsi di entrare dall’ingresso principale. Una volta dentro cosa avrebbe fatto per trovare Gyber? Il padrone della festa non si sarebbe certo fatto trovare dentro mentre le celebrazioni andavano ancora avanti. Celebrazioni… Per cosa celebravano poi? Oh, che importanza aveva? Tornò al problema Gyber. Era vero che probabilmente non si sarebbe trovato in casa, ma entrare sarebbe stato più sicuro che restare fuori in mezzo a tutta quella gente e a schivare la sicurezza dietro l’angolo. Avrebbe potuto nascondersi sotto il suo letto e fargli venire un infarto quando si sarebbe coricato. Si diede uno schiaffo. Era un piano ridicolo, ma una smorfia seguì subito dopo, mentre si arriciolava l’orlo della tunica fra le dita. Non era ridicolo anche il modo in cui era entrato? Per pura botta di culo aveva sfondato il tetto di quella serra e trovato il passaggio sotto la barriera e per un ancor più grande botta di culo era riuscito a non farsi sventrare dal giardiniere Beppe. “Poffarbacco” Pensò una parola ben più colorita “Ma ora che quel fascio geriatrico ha il mio disco, come diavolo faccio a levare le tende a bravata conclusa?” Ma forse non era importante pensarci adesso. Pensare al futuro non era mai stato il suo forte. Una cosa per volta. Prima di tutto doveva arrivare alle cucine più in fretta possibile prima che Kishin o quell’altro tizio vestito di scuro lo raggiungessero, perché sentiva che non sarebbe sopravvissuto a un altro scontro, concluse afferrandosi il collo ancora segnato dalla morsa del sangue nero. Adocchiò la legenda –Dicevamo… Svolto a sinistra e dovrei trovarmi di fronte a un cimitero.

    Levò lo sguardo. Con rombi di tuono e cieli di fuoco apparve un gigantesco portale torii in legno marcio e muschiato che pareva uscito da un film di Rashomon, in cima ad una larga scalinata. Mancava giusto la pioggia, trattenuta dalla barriera.

    –Direi che è quello– Mormorò fra sè e sè, allungando il passo. Appena prima di posare il piede sul primo gradino, un fulmine si schiantò davanti a lui.

    “Orpo!” Si disse, mentre la luce abbagliante lo inglobava “Bella barriera del cazzo”.

    Quando, senza rumore, la saetta retrocesse dalla sua visione in briciole, si rese conto di essere ancora vivo e non solo lui. Gli era apparso, a capo chino, un ragazzo basso e tozzo, vestito in un’uniforme scolastica e chanchanko a strisce giallo-nere, che gli offriva solo la vista dei suoi capelli a nido di rondine.

    –Non puoi entrare!– Lo informò la figura alzandogli contro un jitte e il suo sguardo da un occhio solo, considerando la pettinatura che andava a coprire l’altro, mentre reggeva una lanterna di carta nell’altra mano.

    –Il piacere è tutto mio– Strabuzzò gli occhi Cladzky –Tu saresti…

    –Kitarō. Puoi considerarmi l’ufficio delle pubbliche relazioni.

    –Oh, ma certo, Kitarō! Kitarō per le pubbliche relazioni! Kitarō scelto appositamente per le pubbliche relazioni! Kitarō e le sue relazioni!

–Se non hai idea di chi sia bastava dirlo.

–Odio farmi trovare impreparato alle interrogazioni.

–Hai idea di dove ti trovi?– Abbassò il manganello Kitarō

–Beh, tempo di scoprirlo– Fece spallucce Cladzky, sorpassandolo. Con un soffio di vento, il ragazzo gli fu di nuovo di fronte dopo neppure due scalini.

–Allora non te ne rendi conto– Chiuse le braccia in una croce –Questo qui è un cimitero.

–Bella roba, lo diceva anche l’opuscolo– Replicò il ragazzo, infilandosi una mano nella scollatura e lanciando al pallido individuo la gigantesca cartina, che finì ad afferrare d’istinto per togliersela dalla faccia. Subito il pilota salì gli scalini a quattro a quattro, fino a giungere sulla cima della rampa, decorata ai lati da statuette erose di Jizo. Da lì si fermò sotto l’arcata odorosa d’incenso del portale, osservando lo spettacolo davanti a sè, ovvero il nulla. C’era una brughiera coperta d’un nebbione dentro lo spiazzo di quel parco che neanche sulla via Emilia a Gennaio. Metteva piuttosto i brividi. Ma non era solo quello a darglieli, vero? Qualcosa gli stava toccando i fianchi. Non fece neppure in tempo ad abbassare lo sguardo che uno strattone allo stomaco lo tirò giù dalla scalinata. Chiudette gli occhi credendo di schiantarsi qualche metro più in basso e invece, la velocità di caduta, diminuì fino a fermarsi a mezz’aria, ma non la stretta intorno il suo bacino che lo reggeva in orizzontale. Riapertoli, si rese conto di essere nuovamente di fronte a Kitarō, che se ne stava con la bocca spalancata e una gigantesca lingua venosa che ne usciva fuori. Tastò il laccio intorno la sua vita e confermò essere lo stesso organo molliccio, umido e caldo. Avrebbe tanto voluto chiedere di essere messo giù ma aveva visto troppi film per sapere come sarebbe andata a finire. Non era la prima volta che vedeva un’abilità del genere, ma gli faceva una certa impressione che fosse usata da un ragazzino all’apparenza normale. –Comincio a sospettare che tu non sia umano.

Il guardiano della soglia lo abbassò abbastanza da fargli toccare terra e proseguì a riarrotolare la lingua come un camaleonte.

–È solo un trucco che mi ha insegnato Kapperu, ma non dirlo a Enma-kun.

–Come se sapessi chi è l’uno e chi l’altro.

–Comunque hai sbagliato, ma per metà. Solo mio padre era uno yokai. Proprio come quel cimitero.

–Il cimitero è mezzo yokai?

–Abbi un po’ d’immaginazione!– Incrociò le braccia deluso Kitarō, per poi lanciargli indietro la cartina –Intendo dire che anche questo non è del tutto un cimitero, così come i suoi abitanti non sono del tutto morti.

–Cos’è, un film di Romero?– Roteò gli occhi, afferrandola al volo.

–Oh no, questo è il settore dell’animazione giapponese– Precisò il ragazzo in chanchanko, puntando un dito sulla mappa che Cladzky andava studiando, infilandolo nel foro.

–E tu fai parte della sicurezza di Gyber?– Si interrogò grattandosi il mento, non vedendolo vestito come tale.

–Non lavoro per nessuno. Mi occupo solo di mantenere il controllo in questa frazione particolare.

–Credevo gli invitati potessero circolare in qualunque settore gli garbasse– Si lamentò Cladzky, agitando la mappa per aria, camminando avanti e indietro –Che senso avrebbe mettere insieme Eta Beta e Doraemon se non possono incontrarsi? Che razza di mega-crossover sarebbe?

–Certo, ma in ogni settore esiste un cimitero come questo, inaccessibile agli invitati comuni.

–E dentro chi ci chiudete? Non hanno tutti il diritto di divertirsi stasera?

–Tu non sai come funziona il multiverso, vero?– Inclinò il capo il ragazzo da un occhio solo.

–So solo che devo passare per raggiungere un amico nel settore affianco e la via più breve passa per questo maledetto cimitero che cimitero non è– Si sedette a gambe incrociate per terra, scrutando Kitarō da sotto delle sopracciglia frementi e cercando di ignorare il fatto che, con un vestito così corto, stava poggiando con la pelle a contatto col ciottolato –Quindi o ti sposti o mi dai una buona ragione per cambiare strada.

–Così sia– Si inginocchiò il guardiano e alzando un indice –Hai idea di quanti siano stati invitati a questa festa?

–Molti?

–Tutti– Lo corresse, piantando il punteruolo del jitte nel terreno, mentre la torcia appoggiata di fianco ondeggiava il suo volto di ombre sinistre –Tutto il multiverso è stato richiamato da Gyber, senza distinzioni.

–Quindi ci sta anche la versione malvagia di Ezio Greggio da qualche parte?

–Stai serio o ti porto all’inferno– Lo ammonì Kitarō –E quello shintoista è bello stronzo. Chiaro?

–Limpido– Cominciò a prendere note Cladzky sul retro della mappa –E ci stanno tutti in una singola villa?

–È una villa molto grande– Si limitò a mostrare i palmi.

–Me ne sono accorto– Si tastò i polpacci pieni di acido lattico l’infiltrato –Ma con tutta questa gentaglia non si rischia che si porti anche qualcuno nel nostro universo peggiore di Shadow Blade?

–Probabile– Si portò un dito al mento il guardiano del cimitero –Ma dopo che la Lucas Force ha salvato il multiverso immagino che tutti abbiano un voto di gratitudine nei loro confronti per queste ventiquattro ore. E in ogni caso, con la massiccia presenza di potenze in gioco, dovrebbero farsi da deterrente a vicenda.

–Giustamente l’Impero non lascerebbe gli Evroniani conquistare questa dimensione al loro posto e così via– Dovette concordare Cladzky, annuendo il capo e lisciandosi una barba inesistente. Poi indicò il portale torii –Va bene, e allora chi ci tenete là dentro se non c’è pericolo?

–I fantasmi degli universi morenti– Kitarō si inclinò in avanti bisbigliandogli nell’orecchio.

–Cosa?– Assottigliò gli occhi Cladzky, tirandosi indietro –Intendi la teoria dell’entropia?

–Forse– Agitò una mano il guardiano –Non sappiamo se sia inevitabile per tutti gli universi, non sappiamo neppure da cosa sia causata, ma avviene come una graduale scomparsa della materia.

–Cioè, la materia viene distrutta? Ma non è possibile!– Prese a mangiarsi le unghie –Anche la nostra terra potrebbe sparire all’improvviso?

–Non all’improvviso– Dondolò l’indice Kitarō –Graduale ho detto e simultanea. Tutti gli atomi cominciano a lasciare quel piano dimensionale in un lungo processo alla stessa velocità.

–E come fanno a sopravvivere?– Digrignò i denti Cladzky.

–Per questo li definiamo morenti– Si passò una mano fra i capelli spettinati –Non muoiono ma sono come oggetti che vengono lentamente, molto lentamente, trasportati su un altro piano. Anche trasportarli da un universo all’altro, come ha fatto il tuo amico Gyber, non arresta questo processo. Questo vuol dire che la materia non sta lasciando solo il loro universo ma l’intero multiverso in cui esistiamo. Non sappiamo se vengono distrutti, piombano in un altro multiverso o in un’esistenza completamente diversa dalla nostra, ma per ora non sono morti, solo “più di qua che di là”, ecco.

–E non si può fare nulla?– Si strinse la veste al livello del cuore palpitante.

–Noi no– Chiuse gli occhi Kitarō –Ma alcuni universi quasi interamente traslati sono riusciti a riacquistare la loro solidità in questo piano, senza una vera spiegazione. Ma questo capita poche volte. Ecco perché molti che vengono afflitti da questo male hanno poco da sperare.

Cladzky si strinse nelle spalle, rabbrividendo più di prima per quell’angoscia esistenziale. Se un universo durava in eterno voleva dire che le possibilità di contrarre questa malattia fossero totali.

–Se ti può consolare è probabile che morirai prima di assistere a questo processo– Gli pose una mano sulla spalla il mezzo yokai.

–Come se questo dovesse farmi sentire meglio– Sbuffò Cladzky. Poi saltò in piedi pure lui nonostante la ferita al ginocchio –Ma questo non spiega perché li tenete lì dentro. La malattia è contagiosa?

–No, o almeno non è stato dimostrato– Cominciò a risalire la scalinata il ragazzo, dandogli le spalle –Ma quando ti affacci all’idea di non esistere più cominci a non ragionare più come prima. Si dice che quello stato in bilico fra questo e il piano successivo permetta ai disgraziati di raggiungere informazioni prima inconcepibili quando erano normali. Alcuni impazziscono violentemente per le rivelazioni, senza contare che si diffondono le teorie più disparate su come guarire dato che non ne esiste una certa. Dicono che, giusto il mese scorso, un universo malato ne ha invaso uno sano, massacrandone la popolazione e sostituendosi al loro posto. Speravano di curare il loro stato, ma anche così, abitando in un universo sano, rimanevano comunque collegati al loro precedente, che si spense insieme a loro. Per questo evitiamo che interagiscano con universi sani noi guardiani.

–Io ne ho visti– Balbettò Cladzky correndogli dietro sui gradini di pietra rovinata, sollevando la cartina squarciata come prova –Ho visto dei fantasmi prima. Tre tizi piccoli come Puffi che svolazzavano in giro a sparare raggi laser.

–Oh, loro– Sospirò sollevato Kitarō, fermando la lanterna dal dondolare –Avrei dovuto precisare che alcuni la prendono meglio di altri e io li lascio uscire nel resto dei settori. Yanma e i suoi non sono pericolosi.

–Questo lo dici tu– S’imbronciò il pilota appiedato, calciando un sassolino giù dalla scale e infilandosi le mani in tasca –E io come faccio a passare allora?

–Non passi– Si piazzò a gambe large sulla sommità della scalinata il guardiano, rinfoderando il jitte.

–E se tu mi scortassi?– Fece gli occhi dolci –Uno bello e forte come te non avrebbe problemi a…

–Non ci pensare nemmeno– Scosse la testa –Dopo lascerei l’uscita numero trentasette sguarnita. Il mio turno è appena iniziato. Passa fra un’ora.

–Non c’è modo che possa attraversare questo cimitero senza che i suoi abitanti bevano il mio sangue in strani rituali?

–Un modo ci sarebbe– S’intromise una terza voce, raspante e all’odore di buon sakè. Subito scese dalla fronda di un albero morto un personaggio ancora più minuto dei tre precedenti, atterrando sulla testa di una statua Jizo. Aveva un corpo tagliato con l’accetta, dalle sue gambe corte alla sua pancia tonda quanto la testa, un singolo bulbo oculare senza volto su un corpo nudo.

–Papà, non dirglielo!– Pregò nella sua direzione il ragazzo, agitando le mani mentre quello ritrovava l’equilibrio. Cladzky si avvicinò incuriosito a quell’essere. Se davvero quell’occhio antropomorfo era il genitore di Kitarō doveva ammettere che quest’ultimo non era tutto suo padre, al di fuori dell'essere entrambi dei ciclopi a modo loro. Che strambe relazioni avevano gli yokai.

–Bisogna essere onesti con gli umani, altrimenti come faranno a fidarsi di noi?– Ragionò il bulbo semovente, allungando una mano. Cladzky la strinse esitante con due dita –Piacere, Medama-oyaji. Puoi chiamarmi Babb’occhio se non sei uno weeaboo.

–Il piacere è tutto mio– Ripeté come aveva fatto con il figlio apparso da un fulmine, non meno sorpreso.

–Se vuoi attraversare un cimitero come quello avrai bisogno di un talismano come questo– Esclamò, tirando fuori, da dietro la schiena, un Omamori grosso quanto lui e mostrandoglielo manco fosse il figlio dello shogun.

–E dove lo trovo a quest’ora di notte e in un posto come questo? Li danno in tabaccheria?

–Sempre irrispettosi delle tradizioni voi giovani– Scosse la pupilla Babb’occhio in disapprovazione –Tutt’al più potrai ricorrere a portafortuna più abbordabili, come fiori di loto o i crisantemi.

–Facilissimo– Rise Cladzky –Ora svolto l’angolo e…

D’improvviso s’illuminò nel ricordare di trovarsi in un giardino alla giapponese. Interruppe il suo gracchiare sarcastico, alzò i tacchi e corse indietro, salutando senza guardare.

–Vado, colgo e torno!

–Deve avere un'essenza fresca, mi raccomando!– Gli raccomandò l'altro, mettendosi le mani davanti la bocca non presente per farsi sentire meglio.

Kitarō osservò lo strano individuo sparire nella nebbia del sentiero. Dopodiché guardò storto suo padre con l’unico occhio che aveva.

–Ma perché devi mettere delle tali fesserie in testa alla gente?

–Che ci posso fare?– Si schioccò le nocche l’esserino –È troppo divertente. E così impara a trascurare le nostre tradizioni.


***


    –Vediamo un po’– Andava dicendosi Cladzky, camminando su e giù per il viale ghiaioso, osservando con occhio vispo ogni pianta lungo le aiuole, braccio dietro la schiena, l'altro a coprirsi la bocca che si mordeva il labbro e inarcato in avanti come un segugio, sniffando l’aria fredda –Tutti questi anni a combattere piante dovrebbero avermi insegnato a riconoscere un… crisantemo!

Sarebbe saltato ma non voleva sforzare ulteriormente la ferita. A passo rapido si accucciò di fronte al fiore agognato sparso in un pagliaio di mille altri, sotto un ciliegio in fiore per giunta. Più portafortuna di così era dura trovarne. Fece per raccoglierlo ma la raccomandazione di Babb'occhio gli fermò la mano vogliosa. Avvicinò dunque le narici ai petali da riccio dell’esemplare rosato. Sapeva di resina e rugiada. Fresco era fresco, dedusse, anche se chiuso in un bozzo per la notte; forse anche troppo fresco. Difatti si agitava senza un filo di vento. Si ritrasse appena in tempo per evitare un oggetto non identificato sollevarsi da quella corona color pesca, scardinando di scatto l’intreccio petaloso e smuovendo tutta la pianta, ronzando come una mitragliatrice. Questo orbitò in una fitta di rabbia indistinguibile fuorché dal moto di un elettrone.

–Orcodio– Imprecò, cadendo seduto, scalciando sul selciato al fine d’allontanarsi da quella situazione similare, alzando le mani –Non sparate, non vi ho visto– Si morse la lingua nel rendersi conto di cosa avevo detto –Giuro che non lo faccio apposta!

L'oggetto sfumato rallentò la sua corsa, scendendo di quota, quasi a investirlo, ma si fermò prima. Qui , innanzi il suo viso scoloriccio, riacquistò una forma definita, smettendo di vibrare, e rivelò non tre ma solo due forme.

–Attento!– Lo avvertì una delle due, un’ape antropomorfa dall’aspetto d’un morto di sonno a giudicare dalle occhiaie, che brandiva un’altra sopra la propria testa, irrigidita dalla confusione –Ho una sorella e non ho paura di usarla.

Cladzky sbirciò dalle proprie dita, serrate di fronte i suoi occhi, per poi rimuoverle del tutto e asciugarsi la fronte nel constatare che nessuno pareva armato di coltelli a serramanico in testa o raggi fotonici di sorta. Ciononostante era pur sempre il settore degli anime, dunque non poteva del tutto escluderne la possibilità. Anche questi, come Yanma e compagnia, erano afflitti dallo stesso caso di trasparenza cronica, ma se le parole di Kitarō erano di che fidarsi allora non dovevano costituire un pericolo per la sua salute. Si chiese se oltre a essere trasparenti fossero pure solidi.

–Minchia, l’ape Maya– Si stropicciò gli occhi incredulo

–Senza la “M”– Lo corresse quella che veniva bandita come un’arma, piantandosi un pollice al torace –Quell’altra si trova nel settore della letteratura tedesca.

–Che razza di posto– Si resse la testa nel credere di impazzire.

–Che razza di modi– Ringhiò il fuco, lasciando andare sua sorella, che rimbalzò stordita sugli stami del crisantemo schiuso, per incrociare le braccia –Non si usa bussare dalle vostre parti?

–Dalle mie parti le api non parlano– Si difese Cladzky, alzandosi a scuotersi la polvere di dosso.

–Dovete scusare Hutch– S’intromise nella discussione Aya, aggrappata al pistillo con un braccio mentre l’altra mano copriva uno sbadiglio –Dopo che siamo diventati orfani una seconda volta, mio fratello ha il sonno leggero e la cazzimma pesante.

–Pesantissima– Sottolineò Hutch, flettendo degli adorabili muscoli da imenottero –Lasciaci dormire in pace o ti… Uhm, insulto. Ti insulto fortissimo, eh. Ho imparato un paio di parolacce nuove stasera, non vorrai che le usi?

 –Calma, non c’è bisogno di arrivare a tanto– Rise sornione, dopodichè afferrò delicatamente i lembi della tunica fra le dita, abbassò il capo e piegò le ginocchia in una cortesia accennata –Siamo partiti con il piede sbagliato. Buongiorno, sono Cladzky e ho bisogno di quel fiore per attraversare un cimitero al fine di picchiare un mio amico.

–E questo sarebbe il piede giusto?– Sbraitò il fuco, slegandosi un foulard bianco dal collo per legarselo alla fronte come una bendana e lanciandosi in una microscopica testata in mezzo agli occhi del nuovo arrivato, ancora in un mezzo inchino. Cladzky alzò le sopracciglia, ritraendosi indietro e incrociando le pupille per metterlo a fuoco –Allora non sai nulla delle tradizioni di noi api.

–Ma guarda, io non sapevo neppure che le api dormissero– Cercò di interromperlo, solo per far alzare ancora di più la voce all’insetto.

–Perché, sei entomologo tu?

–Ehi, “entomologo” a me non l’ha mai detto nessuno– Si risentì Cladzky.

–Noi ci dobbiamo dormire per forza in questo fiore!

–Ma per forza in quello preciso?

–Perché, sei botanico tu?

–Aridaje– Si mise la mano in faccia –Se vuoi c’ho ancora un costume da giardiniere da qualche parte in tasca, fa lo stesso?

–In sostanza, le nostre tradizioni, ci proibiscono di darti questo fiore– Scosse risoluto la testa.

–Ma che ci dovete fare, dico io?

–Cos’è, ti devo pure delle spiegazioni? Ci siamo arrivati prima noi e il fiore è nostro.

–Ma se io ti dicessi– Esclamò Cladzky alzando una mano verso Hutch, con il dorso dell’indice premuto contro il polpastrello del pollice. Senza preavviso fece partire una misera schicchera che investì in pieno l’insetto, spedendo il suo piccolo corpo contro lo stelo dal fiore dal quale si era alzato e strisciare giù fino all’erba –Che delle vostre tradizioni me ne sbatto il belino e il fiore me lo inculo lo stesso, ti offendi?

Si chinò dunque, superando il corpo stravolto dai propri sensi, a cogliere il fiore, chiudendovi sopra le dita. Con un sorrisetto di soddisfazione fece per flettere e sradicarlo, quando un improvviso bruciore pietrificò i suoi tendini. Dalla punta del naso stava diffondendosi come un buco nero che gli inghiottiva la faccia da quanto la contrasse. Incrociò nuovamente gli occhi. La sorella Aya lo osservava dietro due umidi occhi azzurri, mentre l’addome inoculava veleno dal pungiglione affondato nella carne. Rispondendosi alla domanda di qualche pagina fa: Sì, erano trasparenti, ma diavolo se erano solidi

–Scusa– Disse fra un singhiozzo e l’altro –Odio la violenza.

–Comprensibile– Annuì Cladzky impassibile –Le api non muoiono dopo aver colpito?

–Sì, ma io sono una regina– Specificò, lustrandosi un fiocco sulla tempia e volando via illesa a soccorrere il fratello da terra.

–Ovviamente non posso avere neppure questa soddisfazione– Sospirò demoralizzato, prima di ricordarsi dell'infernale dolore che aveva in viso e saltellando via preda a urla disumane. Proseguì per un buon pezzo di prato prima che il bruciore si attenuasse. Aveva sofferto così tanto da aver perso ogni sensazione. Infine riaprì gli occhi per vedere dove diavolo fosse arrivato. Toh, era il laghetto di prima al chiaro di luna e quella era la lanterna in pietra così cordialmente accesagli dai Microidi. Tastò il terreno coi piedi e fu abbastanza sorpreso che non fosse erboso come se lo ricordava. A dire la verità la sorpresa fu nel non sentirlo affatto. Non passò molto prima che guardasse giù a osservare i flutti lenti della corrente e passò ancor meno che la gravità tornasse a fare effetto. Nuotò nell’aria, ma non lo salvò dallo sparire in una corona di schizzi d’acqua un metro più in basso.

–Alle volte ho come l’impressione che la mia vita sia scritta da un dio estremamente patetico e annoiato– Meditò ad alta voce, liberando più bolle che parole dalla bocca. Stanco di starsene a brontolare seduto sul fondo, si alzò in piedi, abbastanza per far spuntare la testa e sputare tutto quello che aveva bevuto, oltre che una piccola carpa. Si sentiva però la testa pesante e non era solo la mancanza della spinta d’Archimede a farglielo credere. Di fronte agli occhi gli era infatti caduto un grave sudario che lo accecava. Si portò le mani alla testa e sollevò qualcosa di fibroso e floscio, per poi studiarselo fra le mani. Una ninfea e, sopra di essa, un bocciolo bianco.

–Che sia…– Esitò, adoperando il mignolo per schiudere alcuni petali, rivelando la caratterisca forma a plettro, le dimensioni proporzionate in frattali e un accenno di rosa –Un fiore di loto. Oh, grazie a…

Subito però una testa verdognola, liscia e umida sbucò timida dalla sommità del fiore chiuso, gracidando imbarazzata. Aveva pure due grossi paia d’occhioni e un cappellino da baseball in testa rosso, perché di animali normali proprio non ce n’erano in quel posto maledetto.

–...Quel porco di dio– Concluse Cladzky, sbuffando. Mandò il capo all’indietro come una balena spiaggiata per inspirare, contando fino a dieci prima di far partire morte e distruzione.

–Chi è, Demetan?– Chiese una voce femminile che non apparteneva alla piccola rana che si erta verso di lui, proveniente da dentro il fiore di loto. Ci fu il rumore di una catenina tirata e una lampadina parve accendersi lì dentro, proiettando la silohuette di un’altra rana dalle medesime, antropomorfe dimensioni sulle pareti bianche.

–Nessuno, Ranatan, semplici conoscienti– Replicò l’interpellato, distogliendo un momento lo sguardo da Cladzky e alzandosi un palmo palmato alla bocca per farsi sentire là sotto. Poi ritornò a fronteggiare il gigante che li aveva disturbati –Ti dispiacerebbe metterci giù?

–Sto per caso turbando le vostre importanti tradizioni da rane?– Calò le palpebre l’infiltrato, ormai stufo di questa solfa.

–Ma no– Rise nervosamente il ranocchio, agitando con noncuranza una zampa. Poi gli fece cenno di farsi vicino e continuò a bassa voce, sussurrandogli nel padiglione –Il fatto è che noi qui si vorrebbe scopare in santa pace.

–E proprio in questo fiore di loto dovete farlo?– Roteò gli occhi Cladzky.

–Non sai che fatica a trovare il posto giusto dove appartarci, ucciderebbe quel poco di voglia che è rimasta– Cinse le mani in preghiera –E poi, dopo trentanove puntate a vederla solo con il binocolo, ne avrò pure il diritto, no?

–E che faccio, ti dico di no, Demeta’?– Si arrese, ripoggiando la ninfea a pelo dell’acqua e camminò fuori dal laghetto, strizzandosi la gonna come uno straccio. Quella raganella salutò grata e si rituffò letteralmente dentro il fiore. Procedettero a disturbare la pace del laghetto per un bel po’, ma a noi i rapporti carnali fra due Dryophytes japonicus non ci interessano e andiamo oltre.


***


    –Al diavolo, potrei fare il giro– Considerò estraendo nuovamente la mappa e consultandola alla luce di un chōchin-obake, convinto a stare fermo grazie a quelche tartina che aveva rubato durante la sua permanenza alla pista da ballo per stuzzicarsi più tardi. Adoperandoli in questo modo il suo stomaco non potè che protestare, ma la vendetta era più forte, specie dopo tutto quello che gli era capitato –Macchè, così dovrei attraversare pure il settore dei videogiochi e figurati se con la mia fortuna non incontro il vero Kid Icarus. Oltretutto è quasi certo che finisco in faccia a un altro della Lucas Force andato a coccolare l’Hollow Knight o chi sa chi.

    Si fermò un momento. A chi garbava Hollow Knight? Ecco, un’altra informazione persa nella sua memoria. Certo che si ricordava poco dei membri della Lucas Force. Si poteva quasi dire che non ne facesse parte. Scacciò quei pensieri.

    –E dall’altro lato? Peggio, ci hanno messo il settore degli orrori cosmici e sarò pure malfidato sulla sicurezza offerta da Gyber ma non voglio che la mia anima venga consumata dal Gabibbo.

    Continuò a verificare. La mappa presentava la villa come un’arnia d’api e la similitudine gli fece prudere la punta del naso al ricordo della puntura. Era penetrato abbastanza che solo un anello di settori lo separava dal corpo principale della villa, dove sperava di infiltrarsi, ma date le condizioni forse sarebbe dovuto tornare indietro, ma così facendo avrebbe reso vani gli sforzi fatti finora.

    –Uh?– Sentì un colpo d’aria fredda carezzarlo fra le cosce e il fatto che fosse ancora bagnato dal tuffo di prima non rese meno sgradevole la situazione. Buttò un occhio all’orlo della tunica e la vide, stretta contro le gambe sul davanti, alzarsi del tutto a formare una campanellina alle sue spalle. “Piuttosto inopportuno questo vento”, pensò fra sè e sè, afferrandone il bordo centrale e cercando di abbassarla, notando una sorprendente resistenza. Strattonò un altro po’. “E pure piuttosto tenace”. Però era strano che i suoi capelli non fossero buttati indietro allo stesso modo. Girò il capo a verificare. La veste non ondeggiava, bensì cadeva a peso morto, non gonfiata dal vento, tenuta sollevata solo da… Una mano? Forse era più un acrobata che un lottatore, ma, girando sul tallone piantato a terra, riuscì a piantare l’altro sul viso di chiunque lo stesse ammirando senza consenso. Credeva di colpire una persona accucciata e invece era proprio bassa di suo. Quello che aveva tutta l’aria di essere un ragazzino di dieci anni se ne stava lì, con il viso spremuto sotto la sua suola a reggere ancora il lembo del vestito come niente fosse.

    –Ti spiace?– Provenì una voce soffocata –Non riesco a vedere così.

    Cladzky sgranò gli occhi e saltò indietro, liberandosi dalla presa e abbassandosi l'orlo con le mani, giusto per essere sicuro. Il ragazzo, impassibile nei gesti del corpo, alzò le braccia al viso e prese ad estrarre la faccia dal buco in cui era stata sepolta in sè stessa. Finito il processo con il rumore di una bottiglia stappata, l’infiltrato si trovò davanti il volto di un bambino dalle fattezze innaturalmente tenere, dalle guance paffute, il nasino all’insù e ciglia lunghe, con due sopracciglia ancora più esagerate, tanto da crescere oltre la fronte e protendere dalla testa come antenne. Già questo lo avrebbe caratterizzato abbastanza, ma aveva indosso una veste rosso sangue, cinta da un cinturone, chiuso in un mantello spillato più scuro della notte nel quale erano immersi e coronato da un malmesso cappello da strega. Agitò un bastone imperlato sulla sommità con aria delusa.

    –Ma tu sei un maschio!– Si lamentò quello, sbattendo, appena deluso, un piede trasparente a terra.

    –E tu un pervertito!– Strofinò i denti Cladzky. Certo, dopo anni di visione se lo sarebbe dovuto aspettare che, nel settore anime, camminare in giro con una gonna così corta avrebbe generato, per pura statistica, situazioni di fanservice, ma l'idea di essere un maschio lo aveva forse indotto a credere che non gli potesse capitare di essere violato in quel modo.

    –Ti sbagli– Soggiunse il cappello stesso dalla cima di quella folta chioma rossa, aprendo due occhi strabici e una bocca puntellata di denti storti per tutta la circonferenza del tessuto, alzando e abbassando la sommità separata per parlare, sotto lo sguardo di Cladzky offeso da così tanta caocità –Lui è Enma-kun!

    –No, ha ragione– Intervenne la voce spettrale di un individuo invisibile. Più veloce del pensiero, un coppino impressionante livellò di qualche centimetro Enma-kun, lasciandogli la stampa di una mano e facendogli molto più male del calcio precedente. Si materializzò presto una ragazza dal nulla, poco più alta, vestita d’un kimono bianco quasi quanto la sua pelle di ghiaccio. Soffiò una brezza gelata sul palmo ancora fumante e se lo passò fra i capelli azzurri, aggiustandosi una spilla a forma di teschietto –Sei proprio un pervertito.

    –Scusami Yukiko– Tentò di spiegarsi il rosso, abbassando le antenne in segno di sottomissione –Credevo fosse una yuki-onna come te.

    –Ti sembra una scusa?– Esclamò lei nel menargli stavolta un manrovescio tanto forte da spostargli la bocca.

–Non dimenticare la missione di tuo zio– Si premurò di ricordargli il cappello costantemente ghignante –Siamo qui per vigilare sugli yokai di questa dimensione.

–Non l'ho dimenticata, Chapeu-jii– Enma-kun dovette stringere la visiera del cappello e tenersi saldo per far smettere la testa di vibrare –Per questo ho avuto il dovere di controllare se lo fosse.

–Beh, spero che la bella vista ti abbia quantomeno convinto del contrario– Annodò le gambe Cladzky, sempre meno contento del vestito che aveva rubato.

–Non saprei, la visione è stata piuttosto breve– Il principe dei demoni si strofinò le mani guantate fino al gomito, sbavando e contraendo le antenne in linee spezzate dall'eccitazione. Cominciò ad avvicinarsi a piccoli passi agitando le dita in maniera serpentina –Che diresti di mostrarmele un'altra volta?

Cladzky arrossì, arretrando fino a sbattere con la schiena contro un albero e lo avrebbe scalato non fosse intervenuta la ragazza una seconda volta, prendendolo per l'orecchio e torcendoglielo.

–Freddo, freddo, freddo!– Gemette Enma-kun sotto la torsione di quelle dita unghiate, mentre uno strato di ghiaccio andava a ricoprire il padiglione. Cladzky aprì la bocca per ringraziarla ma gli uscì un monosillabo stridulo, avendo modulato il tono appena prima per urlare all'aggressione. Si tappò la bocca imbarazzato e riprovò.

–Graz…

–Cosa credi, che lei sia più carina di me?– Lo ignorò la principessa delle nevi, rimbrottando ancora il suo più basso compagno, togliendo la morsa dal suo orecchio con il rumore di vetri infranti allo spezzare del ghiaccio. "Ecco", si disse Cladzky, "Ci mancava solo che fosse sciroccata anche lei". Ma da dei personaggi scritti da Go Nagai che ci si poteva aspettare di meglio?

–Che lei sia una yuki-onna o meno lo appureremo dopo– Si leccò i baffi Chapeu-jii, dondolando da sopra la testa del ragazzino e portandosi in avanti, indicando con la sua punta il chōchin-obake assonnato, tirando per i capelli il proprio padrone –Ora bisogna catturare l'esemplare per cui siamo venuti.

–Hai ragione– Enma-kun si passò il dorso della mano sui lati della bocca, prima di mostrare un sorriso fatto di zanne. Diede una breve occhiata all’infiltrato, prima di correre addosso la lanterna vivente –Tu stai dove sei.

“E tu stai fresco” Si disse Cladzky, allontanandosi lentamente in punta di piedi, con un occhio sempre sulla battaglia. Il chōchin-obake, ancora intento a masticare pigramente, levò lo sguardo verso lo scalpiccio degli stivali di Enma-kun, evitando un fendente del suo bastone per un soffio che finì per troncare in due un albero.Provò a levarsi in aria, solo per essere seguito in volo dal demonietto, avvolto nel suo mantello di pece. Lo yokai, scombussolato nel volo a ogni colpo mancato per via della leggerezza della sua carta consunta, infine spalancò la bocca, esibendo il suo fioco mozzicone di candela, per ravvivarlo d’un colpo tanto forte da emanare una vampata di fuoco nella direzione di Enma-kun, investendolo in pieno.

–Scusate il ritardo, cosa mi sono perso?– Chiese un kappa, sfinito dalla corsa, appena giunto sul posto, prima di essere avvolto anche lui dalla fiammata. Quando l’inferno si diradò nell’aria lasciando un’atmosfera di zolfo, tizzoni e fumo, Enma-kun si mostrò mummificato nel suo stesso mantello. COn un movimento brusco si liberò buttandolo all’aria.

–E questo lo chiami fuoco?– Sghignazzò –Nulla che il nipote del re degli inferi non possa sopportare!

–Beato te– Esclamò il kappa ridotto a una cotoletta di rana impanata.

–Tranquillo Kapperu– Gli fece l’occhiolino il ragazzo rossiccio, roteando il bastone fra le dita –Finché ci sono io non hai nulla da temere da quest’essere.

–Mecojoni– Annuì Kapperu nell’antico dialetto di Edo, sturandosi della cenere dall’orecchio.

–Attento!– Lo richiamò all’attenzione Chapeu-jii, senza riuscire a evitare al proprio padrone di essere incornato dallo yokai a testa bassa ed essere abbattuto dallo spazio aereo, spedito addosso al suo amico anfibio.

–E tutto questo sta accadendo nel giardino di Gyber– Dovette ricordarsi Cladzky, spegnendosi con due dita una fiamma in cima i capelli castani, sfiorati dalla vampata precedente che aveva evitato per miracolo buttandosi a terra –Improvvisamente l’idea di attraversare il settore degli orrori cosmici non sembra poi tanto male. Adesso torniamo indietro e troviamo degli Scooby Snacks da offrire in sacrificio a Shaggy per il passaggio, forse è più facile.

A gattoni proseguì la sua fuga silenziosa, sempre osservando i due membri della Yokai Patrol gestire la situazione in maniera poco egregia, con Kapperu che mordeva la sommità della lanterna animata nel tentativo di aiutare Enma-kun, che veniva strozzato dalla lingua del mostro. Era così preso dal conservare il suo basso profilo che non si rese conto di infilare la testa in un paio di gambe. Alzò il mento e nell’imbarazzo si rese conto di non poter vedere la faccia a cui appartenevano, ma la visione di quel kimono dal basso fugò ogni dubbio.

–Scusate, stavo giusto levando il disturbo– Emise un risolino che finì per strozzarsi in gola quando si rese conto che la stretta di quegli arti inferiori si era chiusa sul suo collo.

–Sbaglio o ti era stato detto di non muoverti?– Si piegò a carezzargli i capelli Yukiko.

–Ma guarda, avrei delle commissioni a cui attendere…– Cercò di sibilare per via della mancanza di ossigeno. Quando la morsa si allentò, subito venne tirato su per il colletto dalla principessa delle nevi senza dargli il tempo di respirare.

–Cattivo, cattivo– Gli diede dei leggerissimi buffetti sulla guancia, prima di buttarlo con grazia contro il ramo di un albero con abbastanza convinzione da farcelo rimanere attaccato per un istante, prima di scivolare a terra senza però mai schiantarvici. Un lampo bianco, una sensazione di costrizione gelata e si ritrovò a penzolare dal ramo, legato da una catena di ghiaccio in una perfetta forma marziale di hojōjutsu, parallelo al terreno. La giovane yuki-onna gli si fece vicino, stringendogli il naso fra le nocche con un sorriso giocherellone –Ora fai il bravo e vedi aspettare il tuo turno.

–Giuro che appena scendo…– Mugugnò Cladzky cercando di liberare i polsi dietro la schiena, prima di essere zittito dalle sue fredde dita che gli si chiusero sulle labbra. Prima che se ne rendesse conto, uno strato di ghiaccio si era formato sulla sua bocca.

–Sei così adorabile quando ti arrabbi!– Chiuse gli occhi lei, mano sulla guancia e solleticandolo sotto il mento con l’unghia. Spasmò a quella terribile sensazione di riso involontario ma non potè fare altro che scalciare a vuoto. Peggio fu quando scese lungo il collo e poi ai fianchi, ma l’unica a ridere fu lei, perché lui poteva solo lanciare latrati smorzati al nulla da quel bavaglio assiderale. Infine, esausto, s’irrigidì come una torpedine per poi ricadere moscio con capo e gambe verso terra, lacrime agli occhi, così leggero nel cervello che pure l’anima gli scappava da quei polmoni bruciati dallo sforzo. Non ebbe una reazione neppure quando lei, divertita, gli assestò un’allegra sculacciata –Ma non sei in posizione da fare il maleducato.

“Perché sono nato?” Riflettè sulle alte sfere durante la sua esperienza extrasensoriale, ammirando il prato sotto di lui, dondolando lentamente avanti e indietro per il colpo “Perché sono circondato da pazzi vogliosi? Perché dio è così infame?”

–Eccoci, è stata una passeggiata!– Sopraggiunse la voce squillante di Enma-kun

–Chiamala passeggiata…– Fu quella flebile di Kapperu a unirsi, portando con sè un pungente odore di bruciato. Cladzky sollevò la testa verso i due, che si trascinavano dietro il cadavere accartocciato del chōchin-obake, lasciando una scia rossa sull’erba verde. Il principe dell’inferno fumava appena, mentre il suo compagno aveva quasi perso i capelli della sua chioma da frate tipico della sua specie da quanto era annerito.

–Padrone, ti era stato detto di catturarlo vivo!– Lagnò Chapeu-jii, saltelando indispettito sulla sua chioma.

–Mi sono lasciato trascinare dall’emozione– Alzò le spalle il ragazzo, prima di adocchiare la decorazione natalizia lasciatagli dalla compagna –Brava Yukiko, vedo che l’hai tenuta a bada.

–Ti dirò– Ragionò Kapperu, quando il suo compagno lo lasciò solo a trascinare il cadavere –A me non sembra proprio una yokai.

–Tantomeno una yuki-onna– Fece una smorfia offesa la ragazza.

–Tantomeno una donna– Aggiunse il cappello.

–Oh, insomma, nessuno è perfetto!– Gettò in aria le mani infastidito Enma-kun, camminando attorno la preda –Dopo una serata intera a cacciare mostri e fantasmi questa è una meravigliosa visione.

–Se solo si vedesse qualcosa– Si grattò la cima calva del suo cranio Kapperu –Abbiamo appena ucciso l’unica fonte di luce.

–Hai ragione– Il ragazzino millenario si fermò alle spalle dell’appeso, raggiunto dagli altri due. Senza più modo di vedere che stavano facendo, Cladzky cominciò a sudare freddo e non solo per le sue catene di ghiaccio. Dopo un minuto di silenzio sudò di nuovo, ma per la ragione opposta: l’aria si era fatta insopportabilmente calda, ma non uniforme. Annodò le gambe e inghiottì un fiotto di saliva. Qualcosa di rovente, per dirlo in maniera gentile, gli stava scottando il principio della schiena.

–Come ti sembra?– Chiese Kapperu.

–Non  sarebbe male come yuki-otoko– Osservò deliziata Yukiko.

–Prova ad avvicinarti, non vedo molto bene– Consigliò Chapeu-jii. Il pilota ebbe appena il tempo di farsi una mezza idea di quello che stava capitando che il fastidio si tramutò in dolore fisico. Era abbastanza sicuro che l’acqua bollisse a quelle temperature.

–Troppo vicino– Constatò poco dispiaciuto Enma-kun.

–Lo Yin e lo Yang– Osservò con stupida reverenza Chapeu-jii –Un supplizio simultaneo di ghiaccio e fuoco. Potremmo prendere spunto per un nuovo girone quando torniamo a casa, che dite?

Stufo del fine umorismo giapponese, con un colpo di reni, Cladzky riuscì a roteare  sull’asse della catena, ritrovandosi davanti il ragazzino con uno sguardo serioso, interrotto nel suo studio ravvicinato, a lisciarsi le sopracciglia fra le dita. Nell’altra mano ritrasse a sè il bastone, con la sommità di perla che brillava un arancio di fiamma, fonte di un calore soffocante e una luce da sirena.

–mfmmfgmfg…– Cercò di gridargli Cladzky da dietro la lastra sul viso, agitandosi nei legacci, prima di continuare per inerzia il suo lento giro. Dopo trecentosessanta gradi, tornò a fronteggiare il quartetto infernale e riprese –... e mfgmfgmfmg!

–È quello che dicono tutti– Sbadigliò Kapperu, grattandosi il guscio.

–Non lo so, devo dire che mi ha convinto– Sghignazzò Chapeu-jii.

–Sei ancora più un amore quando hai paura di essere violentato– Gli pizzicò la guancia Yukiko.

–Fermi un momento!– Scansò ambo i suoi compagni Enma-kun, buttandoli a terra, sopracciglia ritte come corna –Sento che sta cercando di dire qualcosa di importante.

Avvicinatosi al viso disperato dell’infiltrato, chiuse gli occhi, incrociò le braccia e le sue antenne saettarono in avanti, connettendosi con un rantolio di alta tensione alla fronte di Cladzky.

–Sento… Sento delle domande– Spremette le meningi il demonietto –Sì, io mi chiamo Enma-kun e quello è Kapperu, non una rana.

–Mi ha dato della rana?– Gracidò imperioso il kappa, saltando dalla rabbia –Questa è buona, kero-kero! Se io sono una rana lui è una yuki-onna!

–Sì– Proseguì il rosso, rispondendo a domande che sentiva solo lui –Noi siamo la yokai patrol e siamo qui per catturare gli yokai che turbano la pace di questa dimensione.

–In tutta onestà– S’intromise Chapeu-jii –Al signorino basta solo che ci sia da menare le mani.

–Come dici?– Sgranò gli occhi Enma-kun –Si trova all’entrata trentasette?

–Io comincio a credere che non conosca la telepatia e stia parlando da solo– Commentò Yukiko, prima di essere accecata da una vampata di calore che quasi la buttò a terra un’altra volta. Quando lei e Kapperu poterono riaprire gli occhi, abbracciati in quello spavento, videro la perla, sulla cima del bastone di Enma-kun, sfavillante fra il fumo, il loro prigioniero steso sul prato e la catena in schegge disseminate ovunque. Il principe si voltò verso i suoi amici, con un sorriso tanto malevolo da brillare nel buio rumorosamente.

–Il nostro amico ha detto di conoscere la locazione di uno yokai ben più potente di quelli che abbiamo affrontato sinora. Direi una preda… speciale.


***


Ge, Ge, GeGeGe no Ge...

Asa wa nedoko de, Guu guu guu

Tanoshii na

Tanoshii na

Obake nya gakkou mo

Shiken mo nanni mo nai!

Ge, Ge, GeGeGe no Ge...

Minna de utaou: GeGeGe no Ge…

    Kitarō canticchiò fra sè mentre sfogliava un documento dopo l’altro.

    –Massì– Sorrise, rendendoli al proprietario –Direi che è tutto in regola. Passi una buona serata.

    –Altrettanto– Alzò l’elmetto Norakuro, in libera uscita dal fronte –È dall’ultimo trasbordo dimensionale che voglio vedere come finisce Berserk.

    Il cane nero proseguì a scendere la scalinata e sparire per il lungo sentiero buio. Il guardiano del cimitero non se la sentì di dirglielo. Un altro personaggio gli toccò la spalla.

    –Mi scusi– Chiese il primo, biondo e occhi dolci, di un gruppo da nove vestiti in uniforme da parà e vestigiali sciarpe gialle –Io e i miei amici facciamo un salto dai vivi, dispiace?

    Kitarō li squadrò.

–Non saprei– Si pose un dito sulla lingua come a sentire l’aria –Quei vostri due amici mi sembrano sospetti.

–Sospetti noi?– Si risentì Chang Chang Ku, aka, Cyborg 006, rigirandosi i suoi baffetti.

–Sento odore di razzismo– Sbuffò Puma, aka Cyborg 008, alzando i labbroni esagerati per mostrare i denti.

–Non fraintendetemi– Mostrò i palmi il ragazzo della soglia –Ma il vostro design potrebbe urtare la sensibilità attuale, specie su Twitter. Meglio non farvi uscire dal vostro contesto storico.

–Ma se siamo il primo gruppo di supereroi multiculturale– Si battè un pugno sul petto Geronimo Jr., aka, Cyborg 005, deformando le sue pitture facciali per la smorfia d’offesa –Dovrebbero amarci.

–Che ti devo dire?– Scrollò le spalle e la testa Kitarō –Anche la principessa Zaffiro era considerata progressita una volta.

–E insomma non possiamo passare perché offenderebbe qualcuno?– Chiese Jet Link, aka, Cyborg 002, sollevando un naso a dir poco importante.

–Beh, le vostre intenzioni sono oneste però…– Esitò il ragazzo da un occhio solo.

–Ti prego– Fu la voce implorante di Françoise Arnoul, aka, Cyborg 003, aka, occhi di stella, reggendo fra le braccia il paffuto Ivan Whinsky, aka, Cyborg 001, stretto nella sua copertina a succhiare un ciuccio.

–Come puoi dire di no a una così dolce creatura?– Cinse le mani al cuore Bretagna, aka, Cyborg 007, mettendo in mostra le sue doti attoriali –Non vorrai far piangere il bambino?

–Oh, e va bene!– Sbuffò Kitarō –Ma non dite che vi ho fatto passare io, intesi?

Salutata anche la progenie dei Black Ghost, il guardiano dei cimiteri provò a canticchiare di nuovo, sbirciando per vedere quanto mancasse alla fine del suo turno. Abbassò la testa appena in tempo per sentire il fragore di una palla di fuoco detonare alle sue spalle.

–Kitarō, lo yokai più forte di tutti– Annunciò con una voce da grancassa Enma-kun, piombandogli addosso in volo con un martello infuocato, velocissimevolmente che a malapena Chapeu-jii si reggeva alla sua chioma leonina –Farai un figurone come trofeo in salotto!

–Tu?– Sgranò gli occhi il guardiano, saltando sulle teste delle statue Jizo e poi in cima al portale torii per schivare colpo su colpo –Credevo di essermi messo d’accordo con Kapperu per non farci incontrare stasera.

–Non avevo idea che questo tizio ci avrebbe condotto qui– Piagnucolò il povero anfibio, che reggeva l’ancora incatenato Cladzky sul guscio. Lanciò l’ostaggio alla principessa delle nevi che l’afferrò al volo e corse per separare i due –Tranquilla, ora ci penso io a separarli!

Yukiko osservò la successiva deflagrazione in maniera annoiata, reggendo il pilota come una sposa. Quando finalmente il contraccolpo smise di scuoterle il kimono bianco e spettinarle i capelli, il corpo mezzo arrostito del verde compare si schiantò ai suoi piedi.

–Li ho fatti stancare un po’, ora vai tu a finire il lavoro– Mosse la bocca impastata di terra Kapperu, prima di svenire del tutto. Roteando gli occhi per quella perdita di tempo, Yukiko lasciò cadere senza cerimonie la sua preda, per correre verso la battaglia.

–Quando capirai che non sono un tuo nemico?– Chiese Kitarō, incrociando i bastoni con il principe dell’oltretomba –Voglio solo che gli yokai vivano in pace.

–Non sotto la mia giurisdizione– saltò in un affondo Enma-kun, schivato con un salto dall’avversario, finendo per decapitare una delle statue in pietra. Prese la punta del bastone e la piegò come un fioretto, pronto a infilzare l’avversario –Altrimenti con chi mi diverto?

–Allora ti farò divertire– Urlò il guardiano delle pubbliche relazioni, mulinando per aria il suo chanchanko, fino a creare una tromba d’aria che soffiò verso il nemico della quiete pubblica. Questi afferrò la coda del ciclone speditogli con la perla della sua arma e lo fiondò indietro a sua volta con facilità, tramutandolo in una colonna di fuoco a spirale.

–Ascoltate, che ne direste se ci calmassimo tutti e…– Cercò di farli ragionare Yukiko, nonostante il fiatone, dopo aver scalato l’intero portale, prima di venire investita dal vortice di fuoco vagante, deviato da un colpo di Kitarō. Passato il vagone di fiamme, rimase carbonizzata in una figura annerita di cui si scorgevano solo due occhi basiti. Tossì per la cenere e subito i suoi vestiti si disintegrarono. Gli s’ingrossò la vena delle grandi sfuriate –Quindi è così che vogliamo giocare.

Si aggiunse anche lei al rissone, generando una baraonda di fulmini, tempeste, fiamme, pioggia e terremoti che neanche una battaglia Pokèmon. Cladzky ammirò sconcertato quelle figure mitologiche darsele di santa ragione prima di ricordarsi che era il momento di tagliare la corda. Si rimise in piedi barcollando, fortunatamente solo legato dalla vita in sù, e prese a correre come un matto verso l’ingresso del cimitero, calpestando la parte calva del povero Kapperu appena ripresosi nella foga. Giunse sotto il portale torii, ammirandolo nella sua scala gigantesca, prima di abbassare lo sguardo verso la distesa di nebbia infinita. Rabbrividì e non solo per le catene di ghiaccio. Ma in fondo Gyber si trovava dall’altro capo, no? E che faceva, tornava indietro? Già aveva infranto più leggi di quante ne potesse contare, a questo punto bisognava andare fino in fondo. Riprese a correre nella brughiera, sparendo nel nebbione, non sapendo che il peggio non era certo passato, ma ancora di là dal venire.

–Beh, è stato un piacere sprecare questi paragrafi– Si scusò Kapperu, sollevandosi, scuotendosi la terra di dosso e facendo un inchino modesto –Per rimediare vi dirò una barzelletta. Sapete cosa fa uno più cinque? Bah, ma che ve lo dico a fare, non parlate giapponese voi…


***


–Eccolo lì– Dz sgattaiolò fuori dal suo cespuglio, avvicinandosi alla figura mascherata. Non c’era nulla di meglio, dopo terribili ricordi di preoccupazioni e ansia sociale, che distrarsi incontrando uno dei propri personaggi preferiti. Dopotutto la festa serviva a questo vero? Non avrebbe mai potuto ringraziare Gyber abbastanza, pensò stirandosi il vestito regalatogli. Quatto quatto si avvicinò alle spalle di Spiderman. Che fosse Tobey Maguire, Andrew Garfield, Tom Holland o Nicholas Hammond poco importava, sarebbe stato meraviglioso in ogni caso. Venire al settore della Marvel era stata proprio una buona idea.

–Mi concede un secondo signor…

–L’emissario dell’inferno– Si voltò lentamente l’uomo ragno, facendo un backflip inutile e mostrandogli una mano pronta da stringere –Spiderman.

–Oh no– Lo assalì il dubbio. Subito si frugò nella giacca per estrarre la mappa, la spiegò in tutti i suoi metri quadri e la studiò per bene. Aveva sbagliato settore, era tornato in quello dei tokusatsu. Abbassò il foglio abbastanza per mostrare la faccia dispiaciuta –Scusi, l’avevo confusa per qualcun’altro. Ma posso avere un’autografo in ogni caso?

–Certamente– Esclamò quello allegro, estraendo una biro a sfera dal suo bracciale multiuso e scrivendogli Shinji Todō sul retro del foglio.

–Grazie infinite, ora devo andare– Sorrise, prima di ascendere al cielo.

–Vedo che hai fretta, non ti tratterrò– Lo salutò Spiderman, tornando a bere il suo caffè.

Dz ebbe mancò un battito a sentirsi sollevare così. Guardò sotto i suoi piedi e vide una cinquantina di metri di vuoto, abbastanza per osservare il tetto della villa. Essendo un kaiju non poteva soffrire di vertigini a quell’altitudine, dunque si voltò relativamente rilassato, pronto a incontrare Giuly. In tutta onestà temeva di interagire con lei visto quanto incazzata l’aveva vista minuti fa. Ma chi lo sollevava non era Giuly. Era molto peggio.

–Buongiorno– Gli ruggì in faccia la voce di Gabara, contraendo il suo viso disgustosamente gonfio di scaglie in un ghigno di incisivi.

–Posso aiutarla?– Balbettò preso alla sprovvista Dz, sentendo le unghie gialle del mostro tenerlo per il retro del completo.

–Puoi morire, per esempio– Sibilò una voce da rasoio al suo fianco. Gigan apparve nel suo campo visivo, ticchettando le sue mandibole e becco come ad affilarseli.

–Ascoltate– Sollevò le mani in maniera diplomatica il ragazzo, cercando di mantenere un atteggiamento spensierato –Prima di tutto vorrei ricordarvi che abbiamo salvato anche il vostro universo.

–E sticazzi?– Decantò Megalon, facendogli da specchio con i suoi occhi composti. Dz mandò giù un groppo di saliva.

–Secondo tutto oggi è un giorno di festa, non vorrete rovinare tutto?

–Oh, ma noi stiamo festeggiando– Rise Gabara, scuotendolo un poco e guardando gli altri –Vero ragazzi?

–Terzo tutto– Si annodò le dita Dz, tremando –Noi non ci siamo mai visti, perchè litigare?

–Perché sei un Godzilla– Gli puntò un titanico uncino alla gola Gigan, solleticandolo con il dorso della lama –Anche se non si direbbe.

–E questo porta al mio ultimo punto– Strinse i pugni e alzò la voce Dz, mettendo una mano sul braccio di Gigan nel vano ma simbolico tentativo di resistergli –Vi ricordo che sono un kaiju anch’io e pronto a combattere.

–E allora dimostralo– Lo sfidò Megalon, illuminando il suo corno di una minacciosa aura –Trasformati e facci a pezzi campione.

–Lo avete voluto voi– Serrò i denti Dz… Prima di ricordarsi che aveva indosso il completo di Gyber. Se lo avesse fatto lo avrebbe disintegrato. Si pentì per un momento di non aver preso quello di Big X, ma solo per un momento dato il ricordo di quell’obbrobrio. Alzò il mignolo –Mi dareste un momento per cambiarmi d’abito?

–Se ti dicessi di no?– Alzò un sopracciglio Gabara.

–Ricorrerei al piano B– Prese aria nei polmoni e lanciò un grido al cielo –Aiuto Spiderman!

–Quel ragazzo così elegante è in difficoltà– Alzò il capo stupito l’eroe, resosi conto dei tre mostri giganti lì vicino, una visione comune per lui in tutta onestà. Alzò il bracciale per le trasmissioni e impartì ordini al microfono –Marveller, cambio in Leopardon!

Il rumore di un motore immenso riempì l’aria e subito seguì una botta da tamponamento. Marveller era lì davanti in cielo, ma immobile.

–Temo di aver parcheggiato la mia vettura fuori dalla vostra barriera– Notò Spiderman, per poi correre via –Temo che questo esuli dalle mie capacità ragazzo, buona fortuna.

–Ti ci hanno già mandato a fanculo?– Sospirò demoralizzato Dz, prima che la seconda mano di Gabara gli si chiudesse sopra, appallottolandolo.

–Non perdiamo ulteriore tempo– S’incamminò verso i limiti del settore –Mettiamoci in un posto tranquillo e finiamo il lavoro.

E procedette a ridere, seguito da Gigan, ma non da Megalon, che stette a guardare gli altri due ridere per lui. Perché, come già detto, non era nel suo stile.

   
 
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