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Autore: Cladzky    24/02/2022    2 recensioni
Quanti mesi avrà passato Cladzky nel suo isolamento auto-imposto nello spazio? Molti, ma quando sembra che gli altri autori di EFP l'abbiano dimenticato, organizzando un party a cui parteciperanno tutti i personaggi del Multiverso, ha un'improvvisa voglia di tornare a casa.
Un po' per malinconia.
Ed un po' per vendetta.
[Storia non canonica e piena di citazioni]
Questa è una storia dedicata a voi ragazzi. Yep. I'm back guys!
E spero di farvi fare due risate, va'!
Genere: Commedia, Introspettivo, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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    Poterti smembrare coi denti e le mani, sapere i tuoi occhi bevuti dai cani…– Andava canticchiando, l’imbucato, pur di ignorare la formicolante sensazione che andava a mordergli la pelle con effetto ritardato. Non potendo usarle per aiutarsi, andava a graffiarsi le mani nella rogna, mentre i denti si chiudevano sulle labbra ritratte, saliva alla bocca.

    –Disturbo?– Lo interruppe l’uomo vestito di galassia, apparendogli, senza reale sorpresa, seduto su una lapide che recitava “Genere Mecha: 1963-2007”.

    –Odio le domande retoriche– Si ruzzolava nel sentiero di ghiaia. Ormai si era tolto ogni granello di dosso, ma l’effetto continuava a sfogarsi sulla sua cute più forte ogni volta che sembrava rilassare i tendini dal dibattimento serpentino –Sei venuto per vedermi soffrire?

    –Io non ho colpa– Scese l’uomo dalla fronte priva di rughe, coprendolo con la sua ombra e agitando un indice al cielo –Se il tuo dio mi avesse ascoltato da subito tutto questo non sarebbe stato necessario.

    –Vedo che anche tu odi le domande retoriche– Si schienò Cladzky, continuando a sgrullarsi. La piccola tunica di Pit, non certo più bianca, era stata sbrindellata da tutte le disavventure precedenti. Riuscì a grattarsi sotto il mento infiammato con le unghie del piede –Allora, cos’hai d’importante da dire, stavolta?

    –Sono qui per prestarti aiuto.

    Gli occhi di Cladzky si sgranarono e smise di grattarsi, almeno per poco, dalla sorpresa.

    –Ma che, davvero? Sarebbe una novità stanotte– Si contorsionò, ma adesso col sorriso –Puoi spegnermi questo prurito di dosso? O slegarmi da queste catene?

    –Proprio così– Annuì l’uomo dalla postura perfetta, inarcando la schiena e puntando un dito verso il capo d’una collina –Ti sarà possibile là dietro.

    –Come?– Gli andò incontro il pilota, poggiandogli il capo della testa sotto la mandibola, quasi quasi a dargli una testata da fargli saltare i denti, e ringhiando –Mi prendi in giro? Se tu puoi dire al tuo dio cosa fare, ordinagli allora di terminare le mie sofferenze.

    –Il suicidio non è mai la soluzione– Sorrise l’uomo dalle orecchie in sezione aurea.

    –Qualcosa che non si potrebbe dire al tuo riguardo– Lo spinse a sedere contro la lapide, per poi allargare le scapole come ali dal fastidio che gli pizzicava i nervi e mordeva i tendini –Insomma, sei passato solo per dirmi di buttarmi da un burrone. Tante grazie, anche a te e famiglia, cane incluso.

    –Non prendertela con me, mi hai frainteso– Accavallò le gambe e si prese le ginocchia fra le mani congiunte.

    –Il tuo pessimo senso dell’umorismo non aiuta di certo– Si morse un polpaccio Cladzky fra una frase e l’altra da quanto cercava di combattere il bruciore cutaneo –Insomma, vuoi aiutarmi o no.

    –Mi sembra di averti già detto che non posso intervenire di persona– Gli fece la linguaccia il ragazzo di bell’aspetto –E infatti ho detto che te lo presto. L’aiuto si trova oltre quell’ermo colle.

    –E magari là trovo anche il prossimo spirito pronto a malmenarmi– Sputò Cladzky –Sono stanco di venire strapazzato ovunque vado.

    –In effetti, con questo, saranno tre capitoli che succedono le stesse cose ma in salsa diversa– Picchiettò le dita sulla pietra tombale il dio degli dei.

    –E allora dimmi dove sta l’uscita di questo dedalo così picchio Gyber e concludiamo questa menata. Sembra che questa notte non finisca mai.

    –In effetti sono cinque anni che è notte– Si grattò il naso l’essere dal collo parmigianino.

    –Ma di che cianci ora?

    –Oh, non capiresti come al solito.

    –Insomma, io ci sto perdendo la testa– Anche Cladzky si grattò il naso, ma dovette passarselo fra le suole dei sandali –Dammi una mano!

    –Si trova oltre la collina!

    –E io vado nella direzione opposta perché non mi fido, mica sono scemo!– E corse appunto via da lui. L’uomo dalla chioma mai spettinata estrasse il suo blocco note e si preparò a prendere appunti. Passò qualche secondo, poi un urlo e infine un tuffo nell’acqua.

    –Gliel’avevo detto– Scosse la testa, poi chiuse le mani in preghiera e contrasse le tempie –Ma tu vuoi tirare questa cosa per le lunghe vero? Hai paura di giungere alla conclusione. Magari si potrebbe tornare a parlare di Dz, Gyber, Giuly, Kishin, Raven, Litios, Alexander o anche Aswin, si dovrebbero chiudere i loro archi narrativi in fondo, ma non te lo permetterò. Se tu lo facessi, se ignorassi il problema, la vostra simbiosi proseguirà al punto che ne prenderai il posto. È questo quello che vuoi, non è vero? Spadroneggiare in un universo in cui hai pieni poteri. Ma dimentichi che te lo avevamo solo assegnato da amministrare. Non ti permetterò di ucciderlo per favorire la tua alienazione. Non vedesti come finirono gli altri dei che hanno tentato l’auto-inserimento? Alla gente servono personaggi, non persone. Ci dovrà sempre essere una linea di separazione fra lui e l’autore. I comportamenti reali delle persone sono estremamente noiosi e fuori luogo in un contesto drammatico come la narrativa, quantomeno questa narrativa. Per favore, resta nella tua. Se non per l’arte, fallo per gli altri.


***


    Il vivo avvilupparsi d’una fiamma chiarì perché gli stesse bruciando il volto, così vicino alle scoppiettanti braci di arteriose scintille che a momenti un lapillo gli atterrava sugli occhi. Oltre di essa il buio della notte, reso più impenetrabile dal suo contrastante bagliore, senonché, fra una lingua e l’altra, un viso appariva, sbalzato nei volumi da riflessi arancio sulla sua giovane pelle. Due pozzi neri gli occhi suoi, sul fondo le speculari stelle del falò a cui ambo si scaldavano. Se si fosse avvicinato abbastanza avrebbe potuto vedere anche il suo viso ancora mezzo morto. Si rese conto di stare coricato di fianco su uno strato di fine a sabbia a giudicare dal movimento del terreno sotto di lui e lo sfregamento dei suoi talloni, affossati nella battiglia, carezzati dal vivace gioco di leggere onde dalla voce acuta d’una bottiglia. Sbuffò un naso che ancora sapeva di minerali sciolti in acqua, cui ancora si sentiva impregnato. Si mise sulla schiena per drizzare la schiena incurvata, schioccando qualche vertebra nello stiracchiarsi, tirando il capo all’indietro e abbassando il tarso fintanto che fu parallelo al resto della gamba, piegando le spalle all’indietro nel frattempo, sollevando il bacino da terra per un momento. Quando sentì i propri muscoli svegliarsi dal torpore, aprì più che potè la mandibola, tanto da stirarsi le guance e si rilassò di nuovo, spirando a lungo, decomprimendo il petto.

    –Dormito bene?– Chiese la voce sincera del ragazzo all’altro capo del falò. Lo sentì smuovere la sabbia sotto di lui nello strisciare da una posizione inginocchiata, smuovendo con un bastone i ciocchi di legno che gli apparivano così luminosi, ma solo perché unica fonte in quella nebbia. Non si vedeva neppure il cielo. In effetti andavano diminuendo insieme al loro crepitare e le fiamme andavano scendendo fino a sollevarsi appena dalle loro braci annerite, non più sanguinanti di lava. Il ragazzo prese una manciata di bastoni alle sue spalle, rintoccando ben poco nella loro gommosità. Girandosi, tenendoli sollevati sopra i carboni fiochi, scorse il profilo, delimitato di rosso dal calore, di legna ancora verde stretta nel palmo. La dispose con minuzia geometrica sopra le braci, ma era dura scottarsi sopra quelle fiamme, men che meno far attecchire il fuoco a bastoni così freschi. Era quasi ridicolo nel suo formare il disegno d’un cristallo di neve, pentacolo che mai si sarebbe acceso, anzi, seppelliva quel poco sfavillare rimasto. Finito il ricamo si portò la mano al fianco, senza prendersi la briga di contemplare cosa avesse fatto. Le temperature andavano scendendo di nuovo. Cladzky si coricò nuovamente su di un fianco, stringendo le gambe e piegandosi in avanti con il torso, chiudendosi a riccio, con il vento che andava scuotergli la colonna vertebrale, partendo dalle piante bagnate, che ritrasse presto al riparo. Di cosa? Non era avvolto nella tunica di prima, era un panno decisamente più largo, non un vestito, più un telo di materiale leggero, non lino o cotone, ma neppure seta. Ci si mosse un po’, per mettersi a proprio agio, abbassando la testa, fino al naso, sotto il bordo. Uno squarcio d’alba rossa sovrastò il chiarore del fuoco. Abituati gli occhi a quel fuoco fatuo, cominciò a contraddistinguere una figura nell’abbaglio sanguigno: la forma di una punta vibrante di calore, innestata nel manico dall’elsa ondulata, stretto fra le dita appena contratte nella naturalezza d’un gesto mondano del ragazzo, tinto anch’egli di magenta sotto quell’irradiazione, viola negli occhi e giallo nei capelli, sparati all’indietro, come sospinti dalla forza che ovunque gettava i suoi raggi, ma non era tanto forte da agitare il vento che fendeva; dovette assumere, con uno sforzo d’immaginazione, che avesse passato così tanto tempo a correre da far cristallizzare, quel manto, in un gesto fin troppo frequente. Senza indugio abbassò il pugnale, ma non con foga, nè nel movimento nè nella posa, lentamente abbassandolo con il pollice a fiancheggiare l’innesto, sfiorando appena il centro del fiocco dei bastoni, verdi di linfa, con la punta incandescente. Subito spumeggiò uno sfrigolio di contatto d’alta tensione in una nuvoletta e lapilli da saldatrice. Il fuoco si sprigionò dal legno neanche fosse essiccato da giorni, coronandolo in un guizzo di fornello a gas, passando da un blu ossigenato a un più tenue mandarino. Fece appena in tempo a togliere la mano che le lingue tornarono più alte di prima. Infilò nuovamente il pugnale rossastro nel fodero, sospirando pesantemente.

    –No– Replicò con estremo ritardo alla domanda precedente, con la bocca impastata da carlino. Si rigirò nel telo, strofinando le spalle scoperte sul solido tessuto. Tirò su con il naso, strizzando gli occhi, abbacinati nuovamente dal bagliore pirotecnico primiero.

    –Certo, hai fatto un bel volo– Notò l’altro, ridotto nuovamente a una voce nel buio oltre la fiamma. Si alzò in piedi, mostrando una figura deformata nell’atmosfera, agitata dal surriscaldamento di quel falò, resa uno specchio d’acqua smossa. Riconosceva appena un ragazzo dai contorni sfumati, illuminato dal basso di bagliori infernali ma che non ne celavano l’aspetto gentile della slanciata figura dal portamento dritto, schiena a formare un arco, spalle larghe, braccia magre, vitino sottile dove stringeva la cintura, cosce spesse, ma tutto proporzionato nella minuta figura della sua giovane età, più scolpito dalla vita che dall’esercizio, senza risultare invecchiato precocemente nel corpo e dalle movenze inoffensive. Si spostò abbastanza dalla colonna di calore perché potesse distinguerne bene i particolari del volto. Con passo fermo, ma non d’aggressione, principesco forse, lo scrutava con due occhi azzurri, ma tanto scuriti da sembrare neri, cionondimeno fuorché opachi. Grandi, lo fissavano, ma scrutavano ben oltre lui, come avessero già visto quel che c’era alle sue spalle. Ora, senza deformazioni, ne era sicuro: i suoi capelli erano proprio verdi, di quel verde che bagna le isole Fiji. Piantò nella sabbia, con decisione, i piedi scalzi, mentre l’occhio del rinsavito risaliva a studiarlo ancora. Dei gambali rivestivano i polpacci, rivestiti a loro volta da un motivetto a scaglie di pesce dorate, avvolti sotto il ginocchio, fin sopra le caviglie, senza alcuna cerniera di sorta a poterli aprire. Ben misera protezione, forse non ne aveva bisogno. Anche lui sfoggiava un chitone, rimembrante l’Ellade nella fattura, anch’esso breve nel taglio, ma meno volgare data la taglia, cucita apposta. Lo sfavillante pugnale giaceva ancora nel fodero, nascondendo la propria luce,senza dare l’impressione di fondere il recipiente, assicurato alla cintura di cuoio che divideva il costato dal bacino –La tensione superficiale non aiuta in questi casi.

    –Ma che cazzo stai a dire? La tensione superficiale, lui…– Mugugnò il pilota, dando le spalle al fuoco coricandosi in senso opposto, tirandosi dietro il telo di  porpora fenicia. Richiuse gli occhi –Ma chi ti conosce?

    –Ti ho visto cadere dal ciglio della parete– Spiegò in fretta il salvatore. Il suono della sua voce si spostò, insieme al rumore dei suoi passi, fino ad apparirgli davanti. Stentò ad aprire gli occhi. Avendone portato uno fino ad allora, sapeva che non sarebbe stato carino guardare un ragazzo da sotto in sù se indossava un vestito. Ma parlando della tunica di Pit, perché sentiva la sua schiena a diretto contatto con la coperta? Perché le sue spalle sfregavano l’intreccio del tessuto? Perché il petto avvertiva un solo strato, oltre il quale soffiava la brezza notturna? La voce riprese, più vicina, forse si era accovacciato. Un’ombra gli calò sulle palpebre. –Hai perso i sensi per un po’.

    –Dove mi trovo?– Strinse i denti, contorcendo la schiena, allargando le braccia. Allargare? Finora aveva evitato di provare in ricordo di quei nodi, ma ora quelle catene, insieme al loro gelo, erano sparite, seppure il sentore fantasma e le scottature d’assideramento perduravano sulla pelle. Agitò i polsi liberamente, schioccando i gomiti nel distenderli.

    –In fondo alla rupe, ora– Lo rassicurò la voce, ponendogli una mano calda, priva di calli o altre imperfezioni, sulla fronte –Ma non ti devi preoccupare.

    –Ah, no– Sbuffò Cladzky, togliendo la mano con uno scossone –Sono solo caduto da un burrone.

    –Sì, la parete a cui fa da base il lago.

    –Dio, perché non sono morto?– Alzò le braccia fuori dal telo, in un gesto d’implorazione, solo per ritrarle subito dopo nel bozzolo.

    –Beh, era dura mancare il lago.

    Beh, almeno era chiaro perché la sensazione di prurito fosse svanita. Cladzky si mise a sedere con enorme fatica, quasi stesse facendo un addominale a giudicare dal bruciore al ventre. Una volta issatosi, ricadde all’indietro, solo per essere prontamente afferrato dalle mani del ragazzo e retto finché non si mise in equilibrio, ma la testa gli girava che era dura tenere dritto lo sguardo. La testa ciondolava qui e là. Aprì gli occhi. La poca luce creò trame di ragno evanescenti, propagarsi come terremoti su ogni cosa dove posava lo sguardo, mentre chiazze verdi coprivano con immagini residue il fuoco dell’immagine. Sbatté le palpebre, si strofinò pigramente una mano sul viso e contrasse il collo. Quando finalmente gli effetti di quella salita troppo rapida svanirono, potè vedere davanti a sé la spiaggia. Sembrava di stare alle pendici di Kaoredake, dove le sorgenti del fiume Jinzū scendono a valle. Uno specchio d’acqua grosso quanto una piscina olimpionica stava davanti i due, immerso anch’esso nella nebbia che scivolava sopra la superficie verdognola, increspata da una piccola cascata discendente dalla menzionata rupe, dalla quale si era calato in maniera poco ortodossa e igienica: una parete di pietra violacea alta quanto un Bricoman, preda di rampicanti, muschi, felci e liane, con una cima erbosa che appena si vedeva. Il fondo era nascosto anche accanto la riva, ma l’apparizione fugace d’una pinna caudale gli assicurò una profondità non indifferente. Prese ad avere il fiatone, ma non sapeva perché, ma l’effetto doveva essere piuttosto notevole, perché le stesse mani che lo reggevano lo costrinsero a posarsi di nuovo a terra. Il viso del ragazzo calò sopra il suo, con le sue ciglia appena accennate. Guardò meglio. Due stelle erano gli occhi suoi. Letteralmente dato che era la costellazione dell’Orsa Maggiore quella dietro il suo cranio. Si era quasi illuso di esserne uscito.

    –Calmo, sei al sicuro ora.

    –No, sono ancora in questo fottuto cimitero!– Sbraitò con la voce grave, da orso appena svernato, liberandosi dal telo e le sue mani con un gesto di stizza, arracando in piedi. Le gambe, ancora addormentate, non gli ressero e per poco non finiva con la faccia nel fuoco. Il suo salvatore lo trattenne per un braccio e lo tirò indietro, fino a reggerlo di nuovo in un abbraccio, per evitare che cadesse, poggiandogli la testa sul petto, dove arrivava in punta di piedi. Cladzky si congelò a quella stretta. Non era la stretta di uno spettro, di un morto, era la stretta di qualcuno che gli aveva impedito di annegare. Pareva proprio vivo come lui e secondo le previsioni del cialtrone divino, correva il rischio di diminuire le differenze fra loro. Kitarō lo aveva avvertito che, chi veniva colto dal mal di vivere, la prendeva con filosofia diversa. E allora, in quella unione, si credette, per un momento, già abitante del cimitero e andò rilassando i muscoli fino a restituire, in appena due carezze, quell’abbraccio, con la paura di fare troppo forte su quella testolina verde. Una sensazione gli risalì il sistema nervoso, che lo indusse a guardare in basso. –Giuda ballerino!

Buttò con uno spintone il ragazzo a terra e si calò a riprendere lo stesso mantello porpora che aveva gettato pocanzi. Quando si rialzò vide che anche il ragazzo era di nuovo scattato in piedi senza ritardo.

–Dove sono i miei vestiti?– Strillò offeso, stringendo di più il manto sul suo corpo, esponendo solo due piedi che si reggevano sulle punte.

–Te l’ho detto, sei caduto nel lago…–Cercò di spiegarsi, non riuscendo a fare un passo che venne caricato a testa bassa dall’imbucato, che gli premette la fronte contro la sua.

–Che cosa mi hai fatto piccolo…

–Stai calmo, sono ad asciugare!– Restituì la testata, stanco di farsi urlare in faccia, premendogli contro la frangia verde, fino a farlo indietreggiare. Si pulì dallo sputo di quell’altercazione e indicò, con espressione tutt’altro che scherzosa, un basso ramo che correva accanto il fuoco. Su di essi stavano disposti con metodo, in ordine, la sua tuta da pilota bianca, l’uniforme da giardiniere, il completo da DJ e, infine, la tunica di Pit, tutti senza una piega che fosse una. Gli unici difetti erano tutti i danni ricevuti precedentemente durante le sue scorribande. Pure l’orologio da polso aveva il suo giaciglio.

–Oh– Sembrò placarsi, ma le molestie precedenti lo avevano messo sul chi vive. Gli puntò addosso un dito, solo per tirarlo subito indietro quando il telo, non più sorretto, prese a calare. Optò per guardarlo male e basta –Mi hai denudato!

–Che altro avrei dovuto fare?– S’inervosì l’additato, premendosi le dita al petto, tirato indietro dall’accusa –Volevi morire d’ipotermia?

–Io…– Si morse la lingua –Non mi hai fatto nulla, vero?

–Come puoi pensare una cosa simile?– Si risentì quello vestito di bianco, sgranando gli occhi.

–Posso perché ho avuto a che fare con fin troppi dimenticati oggi e ne ho pieni i coglioni di cercare fiori come amuleti per conto di occhi parlanti, delle vostre tradizioni da ape, dei vostri accoppiamenti nei petali di loto, venire quasi stuprato da un pedofilo alla rovescia, finire nella collezione BDSM di una principessa delle nevi, dei vostri scontri fra demoni del folklore giapponese, di correre senza vedere dove vado, di imbattermi in dei ancora più porci del mio, farmi scudisciare da rami di rosa, disturbare la meditazione di ninja minorenni, farmi tirare shuriken addosso, prendere fuoco, venire cosparso di chissà cosa, cadere da un burrone e ora di farmi spogliare da un altro, maledetto, ragazzino dai capelli colorati, nel mentre che sono svenuto!

–Devi essere ancora scosso allora, ma se ti fermi un momento…– Alzò la voce il ragazzo dai capelli verdi, cercando di sovrastare la sua e afferrandolo per un polso, costringendolo fisicamente a ragionare.

–Tieni giù le mani!– Alzò di scatto il braccio ghermito e, non potendosi liberare così, assestò una manata a palmo aperto sul naso del giovane in chitone, riversandolo sulla battiglia a gambe all’aria –Sono fin troppo lucido per restare tra voi pazzi.

–Ascolta– Scattò nuovamente in piedi, senza dibattimenti inutili nell’acqua, passandosi una mano a massaggiarsi il setto schiacciato –Voglio ricordarti che ti ho appena salvato la vita.

–Cos’è, vuoi un premio per aver fatto il minimo indispensabile? Allora grazie per non avermi lasciato annegare, ma voglio allontanarmi il più possibile da voi… cosi.

–”Il minimo…”– S’interrupe il ragazzo, mordendosi il labbro inferiore, occhi svuotati, collo venato, serrando i pugni –È la mia schiena quella che ti ha portato a riva, è il mio fuoco quello a cui ti sei scaldato ed è il mio mantello quello in cui ti serri in questo momento!

Cladzky si sentì sporco per la vergogna, per una ragione o l’altra, e quasi la sua presa sul tessuto rosso cedette.

–Quanto ho dormito?

–Prometti di calmarti, ora?.

–Cos’è, vuoi ricominciare?

–Ah, adesso sarei io che…– Trattenne il fiato, gonfiando le guance, poi soffiò via ogni frustrazione, abbassando le spalle e allargando le braccia –Poco, credo.

–Credi?– Alzò lo sguardo, ma subito, l’occhio, si perdette nel decifrare le costellazioni, annebbiandosi per il rapido movimento –Dove cazzo sta la luna?

–È comunque troppo poco per alzarsi così in fretta– Gli corse dietro –Con tutti i lividi che hai…

–Ho passato di peggio. E poi non posso permettermi di dormire ancora, con tutta la gente che mi sta cercando…– A furia di guardare in alto, pose il piede sul mantello e, non volendo mollare la presa, cadde in avanti, finendoci disteso sopra.

–Non ti reggi nemmeno in piedi–Si abbassò al suo livello per aiutarlo ma finì per evitare un’altra spinta.

–Sono solo inciampato nella tua stupida tovaglia– Gli gridò contro, quasi sbilanciandosi dalla sua posizione quadrupede per il colpo andato a vuoto. Quello che lo fece sbilanciare del tutto fu quando si sentì rimuovere il capo da sotto le ginocchia con un movimento rapido. Schienato come una tartaruga, si portò le mani all’inguine, mentre l’altro andava a ispezionare il manto rosso –Ma sei matto, che fai?

–Il mio mantello…– Esibì l’indumento tenendolo dritto davanti a sé, osservandolo da dietro un lungo squarcio verticale nel tessuto –Ti rendi conto di cosa hai fatto?

–Non l’ho fatto apposta– Gesticolò con una mano sola, essendo l’altra impegnata a fare da scudo –Se devi piangere per uno strappo che dovrei fare io? Prendi ago e filo te lo metti a posto, io faccio così per la mia tuta.

–Era fra i pochi ricordi che avevo dei miei genitori– Vibrarono gli occhi azzurri del ragazzo, mentre se lo spillava nuovamente sulle spalle.

–Oh– Si guardò intorno imbarazzato il pilota, arretrando fino a poggiare una mano sui propri panni stesi, ancora fradici. Li ispezionò tutti, ma il risultato non cambiava –Diavolo, e ora cosa mi metto?

–È tutto quello che hai da dire al riguardo?– Tremò la voce del ragazzo,immobile all’infuori dei suoi capelli verdi, sguardo basso a stringersi nel mantello.  

–Attualmente ho problemi maggiori che chiederti scusa– Afferrò il suo orologio da polso per un lancetto e lo portò vicino il fuoco, impegnandosi per leggere le lancette oltre il riflesso del vetro. Le due e mezza circa. Non fece in tempo a tirare un sospiro di sollievo che si rese conto essere fermo, forse da quando aveva impattato con l’acqua. Si guardò oltre le spalle –Ma se bastasse a ridarmelo potrei anche farlo.

–Cosa?– Lasciò andare i capi dell’indumento nell’allargare le dita, facendolo ricadere come la schiena drizzata dalla sorpresa.

–Intendo dire, non è che potresti ridarmi quell’affare per coprirmi? La mia roba non è ancora asciutta e fa un freddo dell’anima. Cioè, non ho freddo come prima, per via delle catene di ghiaccio sai, però non è comunque ideale stare in giro col pacco di fuori, specie vicino a un… quanti anni avrai, undici? Dai, forse tredici. Senti, non volevo urlarti contro prima, però dopo tutto quello che mi è capitato…

–Non hai sentito quello che ho detto?– Lo guardò con le pupille dilatate e la sclera umida, dall’alto in basso.

–Beh, sì, è il mantello lasciato dai tuoi genitori, però…– Si grattò una guancia –Credo di averne più bisogno io al momento.

Ci fu un attimo di silenzio.

–Questo è tutto ciò che ti importa?

–Insomma, tu sei già vestito, cosa può costarti…

–D’accordo– Aprì la spilla dorata, strascicò, con un gesto lento, il tessuto rosso dalle spalle, per poi afferrarlo con ambo le mani e arrotolarlo in uno spesso cordone.

–Cos… cosa stai facendo?

–Voglio solo aiutarti– Chiese, inclinando un poco il capo e senza chiudere del tutto la bocca in uno sguardo volutamente sconcertato dal suo dubbio –Cos’è, non ti fidi?

–Onestamente, non molto. Tutti i dimenticati che mi sono apparsi finora sono stati dei…

–Lunatici?– Sferzò la spiaggia con un colpo del manto porpora, liberando nell’aria un polverone giallo alla luce del falò. Cladzky trasalì, nel vedere quel telo aprirsi sulla spiaggia, leggero e morbido, dopo essere appena stato adoperato come uno staffile per ammansire i cavalli più selvaggi. La chioma verde lo sollevò nuovamente –Oh, non te ne faccio una colpa se noi… come ci avevi chiamato? Ah, sì; Se noi “Cosi” ti facciamo paura. La nostra condizione ci porta alla pazzia, è questo quello che hai sentito, dico bene?

–B-beh– Biascicò con il cuore in gola, sfiorando con i talloni le braci nella sua ritirata –Almeno è quanto mi ha detto Kitarō all’entrata.

–Oh, dovevo aspettarmelo da lui– sollevò gli occhi al cielo il ragazzo, sorridendo, avvicinandosi –Che fai, tremi?

–Sarà per il freddo– Balbettò Cladzky, vedendosi venire quegli occhi iridescenti al buio contro, allargando una gamba alla sua sinistra per prepararsi a uno scatto fugace. Quando infine lo fece, furono più rapide le braccia del ragazzo a chiudere il mantello sul suo collo e trattenerlo sul posto.

–Dove vai, non volevi coprirti?– Gli torse il collo, abbassandolo.

–Apprezzo– Ingoiò un groppo di saliva, senza riuscirci, con il viso arrossato, battendo una mano sulla presa salda –Ma stai stringendo un po’ troppo.

–Oh, scusa– Allentò subito la morsa, lasciandolo rimettere in piedi. Glielo sistemò addosso mentre riprendeva fiato, spianandolo per bene come una tenda. Poi estrasse la spilla dorata, ricca di fregi nautici ed estrasse per bene il punteruolo, poggiandolo sulla giuntura delle clavicole a punzecchiargli la trachea –Ora non ti muovere, potrei tagliarti, sai?

–Altrochè– Scese una goccia di sudore sul suo sopracciglio. Chiuse gli occhi, ma in un battito di ciglia aveva finito di appuntarglielo e stava ora scuotendogli della sabbia di dosso.

–Tu non credi a quello che ti ha detto Kitarō, non è vero?

–Prometti di non picchiarmi, qualunque risposta io dica?– Si allontanò verso la battiglia, per poi sedersi sulla riva.

–Ascolta, io non capisco perché continui a sentirti minacciato– Evitò di seguirlo, anzi, sedendosi all’altro capo del fuoco. Dalle sue spalle era facilmente visibile lo strappo nel mantello –Non devi ascoltare quello che dicono su di noi perché non ci conoscono; nessuno ci conosce. Ho visto il tuo corpo mal ridotto in acqua e non potevo lasciarti in quello stato. Mi spiace se pensi che non abbia fatto abbastanza.

–Per favore, mi fai venire un’emicrania– Si premette le mani sulle tempie.

–Potresti provare a riposare.

–No, non è questo; sto dimenticando qualcosa– Rialzò il viso di scatto. Si stava facendo tardi e non sapeva quanto tardi, l’orologio era fermo, poteva anche albeggiare a momenti. L’orologio era fermo? Certo era caduto in acqua. Questo voleva dire che anche… –La prova, maledizione!

–Che succede?– Si rimise subito in piedi il ragazzo. Cladzky si stava strappando i capelli a guardare il lago. Girò i suoi occhi arrossati verso di lui.

–Hai messo ad asciugare anche il contratto?

–Quale contratto?

–Quale contratto!?– Cladzky si smascellò dall’angoscia. Il contratto, la prova, il documento che voleva leggere, prima di essere interrotto dal dio dei ciarlatani, quello che attestava di non essere pazzo, di far parte della Lucas Force per davvero –Controlla nelle tasche della tunica, deve essere lì da qualche parte, ma fai piano.

–Le ho già svuotate prima– Fu la timida risposta del chitonato, scuotendo la testa –Mi spiace.

–Hai tirato fuori me ma non il contratto dall’acqua?– Si tirò da solo le orecchie il pilota, sgranando gli occhi e dipanando le narici, mentre le vene del collo andavano sporgendo e il respiro si faceva affannoso –Potevi lasciarmi annegare allora!

–Era così importante?– Avanzò con passo sospeso, mordendosi le unghie.

–Certo che era importante!– Sbatté un pugno sulla sabbia, accecandosi da solo –Senza di quello non ho modo di dimostrare di avere ragione.

Non aveva idea di cosa il salvato stesse blaterando, ma, se l’avesse fatto smettere di frignare, allora glielo avrebbe riportato.

–Andrò a cercarlo– Si mosse deciso, già con le caviglie in acqua –Dev’essere rimasto sul fondo: il circuito della villa non ha una corrente abbastanza forte da smuoverlo.

–Lascia perdere.

–Ma avevi detto che era importan… Ehi!– Si parò il viso da schegge d’acqua scagliate da un calcio capriccioso. Tossì fuori un po’ di cloro liquido entratogli nel bel mezzo della frase.

–Ormai sarà illeggibile– Si voltò e uscì dall’acqua, smosse un poco le gambe per asciugarsi e si diresse al ramo, recuperando le sue vesti ancora umide, diede un’altra occhiata al suo salvatore e sputò sul falò ardente, livido, la fronte contrita, lingua un poco a penzoloni e le ciglia a offuscargli gli occhi. Pronunciò le ultime parole in una smorfia che gli strinse la faccia –Grazie tante, eroe.

–Aspetta– Lo richiamò che già il suo piede faceva da base per il voltare il busto, guardandolo dietro orbite bagnate di bromo che velava lacrime, passandosi una mano a spostare i capelli appesantiti e incollati al viso –Il mio mantello!

Cladzky non disse nulla. Con una mano rimosse con poca grazia il manto di porpora e glielo buttò addosso con poca voglia. Facendo barriera al vento, questo cadde troppo presto e l’altro dovette gettarsi in avanti per recuperarlo, sbattendo sulla battiglia. Lo vide alzare i tacchi e andare via, sparendo dalla luce del falò e dentro la nebbia. Si alzò a fatica dal terreno frabile piantando le ginocchia e i palmi, rimirò lo squarcio nel mantello davanti a sé, sporco di sabbia e stavolta fu lui a dare un calcio in acqua, spegnendo il falò con una pioggia improvvisa. Restò immobile ad ansimare, inarcato in avanti.

–Toriton– Una voce femminile gli carezzò l’orecchio. Si voltò. Ruka era lì, a pelo d’acqua, un metro più lontana. Il chiaro di luna sbalzava dal suo dorso perlaceo bagnato e si specchiava nei motivetti aurei –Non piangere.

–Hai sentito tutto?– Abbassò lo sguardo e si strofinò un avambraccio sugli occhi, lasciando cadere un paio di lacrime nel lago.

–Perché ti sei lasciato trattare così?– Provò ad avvicinarsi lei, ma l’acqua era troppo bassa a riva.

–Lo sai che non ce la faccio a essere cattivo– Si issò il mantello sulle spalle con lo sguardo perso nel vuoto, per poi muoversi con passi pigri verso di lei, inciampando nelle irregolarità del fondo.

–Ma questo non vuol dire essere buoni– Offrì il suo fianco perché lui potesse salirvici e così fece, ma in modo tutt’altro che fiero, sdraiandosi di pancia sulla pelle liscia del cetaceo e reggendosi alla pinna caudale ornata –Dovevi solo pretendere un po’ più di riconoscenza per quanto hai fatto per lui.

–Un vero eroe non dovrebbe reclamare ringraziamenti. Non conosco i suoi bisogni. Se non lo ha fatto vuol dire che l’ho deluso, non è stato abbastanza.

–Oh, piccolo mio– Si mosse verso il centro del lago il delfino bianco, fino a fiancheggiare la parete di roccia muschiata –Certa gente dà per scontato il bene che gli viene fatto. Crede che tutto gli sia dovuto perché non riescono a capire di non essere indispensabili per gli altri. Tu hai fatto molto più del minimo indispensabile, gli sei rimasto accanto fino a che non se ne è andato lui; nessuno aveva il diritto di chiederti altro.

–Però non posso che provare pena per quel poveretto. È così malridotto che temo non andrà lontano.

–Non puoi pretendere di aiutare tutti, specie chi morde la mano che lo nutre.

–Grazie delle tue parole Ruka– Tirò su con il naso, mettendosi seduto a cavalcioni coi talloni a sfiorare la superficie scura, togliendosi un bruscolino dall’occhio –Mi hai quasi convinto che non è colpa mia.

–Oh, non fare lo stupido– Rse lei, anche se in un rapporto telepatico è dura descrivere la vibrazione di una risata –Ascolta, se proprio vuoi fare il possibile ho trovato questo sul fondo. Dagli un’occhiata.

Toriton si sporse in avanti, osservando qualcosa steso sul muso di Ruka teso fuori dall’acqua, incollato da quanto era umido. Delicatamente prese il foglio fra le mani e lo staccò, portando davanti i suoi occhi quel pesante pezzo di carta sgocciolante e aderente alle sue dita.

–Non riesco a leggerlo, è troppo buio.

–Frapponilo alla luna, dovrebbe essere più semplice.

Annuì, Ruka deviò il suo corso, indirizzandosi verso il teschio pallido del cielo e Toriton sollevò il pezzo, facendo fatica a tenerlo dritto. I raggi lo trapassavano come vetro da quanto era impregnato, bloccandosi nell’inchiostro in cui era stampato.

–Questo è un contratto di assunzione.


***


    –Siamo ancora qui?

    Il dio degli dei si voltò, dacché stava osservando la scena e spuntava un’altra casella contrassegnata come “Ingratitudine”.

    –Potrei farti la stessa domanda– Ribadì mentre già pregustava il prossimo incontro.

    –Sono solo venuto a lamentarmi per non essere ancora apparso. Non era stabilito nel contratto un bel monologo strappalacrime? E non dirmi che è questa, altrimenti scateno un inferno che gli brucio la scheda grafica.

    –Oh, sei morto combattendo e continui a vivere come tale.

    –Piano con le battute, è ancora aperta la ferita.

    –Minchia, saranno passati quasi cinque anni dal fattaccio e ancora non ti sei abituato.

    –Eh no, compare, specie ora che son pure tornato in altre spoglie, ma con lo stesso spirito.

    –Intanto piano con i fraternalismi, “compare”, che io e te non siamo proprio amici-amici. Commetti certi crimini contro la scrittura alle volte che…

    –Boh, l’importante è che tutti si divertino no? Però io non mi diverto affatto ad aspettare e neanche gli altri credo. Giuly è sull’orlo di una crisi di nervi, Raven sta cercando Kishin, Donut è stato rapito da un branco di bulletti d’asilo, Alexander sta cercando Deadpool, Gyber non vuole più essere il capo del gruppo, Litios non si sa Kishin cerca Cladzky… Insomma, tutti cercano una conclusione, invece sono più di ventimila parole e tre capitoli che stiamo a seguire vicende con personaggi che nessuno conosce e a nessuno importa.

    –Che ci vuoi fare, alle volte è dura chiudere qualcosa una volta per tutte. Tu per esempio, non facesti lo stesso con, vediamo se ricordo bene, finire di punto in bianco nel mondo di Super Mario? Oppure nel centro di contenimento degli SCP? L’autore sente che il finale si avvicina e vuole terminare tutti i crossover possibili, prima di chiudere la vicenda e non avere più l’occasione di far interagire il proprio personaggio con questa gentaglia variegata.

    –Avesse almeno scelto gente più riconoscibile. Mi sento perso in un mare di citazioni di una persona troppo annoiata per avere niente di meglio da fare che andarsi a spulciare animazione in bianco e nero per fare lo “storico”. Non sei tu il difensore della buona scrittura? E allora digli che pure il pubblico si sente disorientato da questo esercito di volti girellari.

    –Aspetta, ti assicuro che c’è un motivo se non riconosci manco mezzo nome. È del tutto intenzionale.

    –Ah, certo, ora si chiama così. E per quanto ancora dovremo sopportare questa lagna autoindulgente?

   
 
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