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Autore: Krgul00    04/03/2022    1 recensioni
Charlie è una donna con dei segreti stufa che questi la tengano lontana da suo padre, l'unica persona che può chiamare famiglia. Tornata al suo paese natale per ricucire il loro rapporto, Charlie si troverà coinvolta con l'affascinate nuovo sceriffo.
Ma ancora una volta, il non detto rischia di mettere a repentaglio ciò che ha di più caro.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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CAPITOLO TREDICI
All’alba, il giorno sorse su una Sunlake dormiente e innevata. Il bianco ricopriva ogni cosa, come morbida panna montata su un delizioso dolce natalizio, il ché contribuiva a rendere l’atmosfera ovattata e quasi spettrale.
Il silenzio riecheggiava tra le case e le strade deserte. Solo verso le otto di mattina qualche volenteroso iniziò a spalare la neve dai vialetti e dai marciapiedi; tuttavia, quel lavoro non sarebbe durato per molto, visto il tempo grigio.
Il Sole, coperto da un leggero strato di nuvole, aveva un aspetto malato, proprio come la luce che irradiava e, sembrava, non avesse voglia d’uscire da sotto quella coperta plumbea. Solo diverse ore dopo, a pochi passi dall’apice della sua scalata quotidiana, parve stiracchiarsi e far capolino da quelle coltri.
Un piccolo raggio luminoso, infatti, sfuggì a quel manto fatto d’acqua condensata e minuscoli cristalli di ghiaccio e, di tutti i posti possibili, scelse di intrufolarsi nella sottile fessura delle persiane della camera da letto di casa Moore, andando a scaldare la guancia destra, un po’ ispida, dello sceriffo.
Era sempre stato un uomo mattiniero, eppure, la preoccupazione della notte prima gli aveva impedito di addormentarsi d’un sonno profondo e davvero riposante.
Si rigirò infastidito nel letto, quindi, spostandosi sul fianco sinistro. Quel movimento non fu sufficiente a svegliarlo, nonostante si trovasse in quel limbo delicato di un sonno leggero, quasi sfumato; fu una voce, invece, a perforare la nebbia della sua incoscienza.
“Papà.”
Si spostò ancora una volta, tra le coperte, e rispose a quella voce frutto dei suoi sogni. “Mmh?”
Delle dita lo pungolarono su una spalla e la voce sembrò farsi più urgente, quando ripeté: “Papà!”
Stavolta, Logan aprì gli occhi, solo per portarsi subito un braccio davanti al viso con un lamento, quando la luce del giorno l’accecò.
In piedi, di fianco al letto, con indosso il suo pigiamino di Superman e i capelli scompigliati in tutte le direzioni, c’era Jake e aveva tutto l’aspetto d’essersi appena alzato. E se suo figlio s’era alzato prima di lui, di sabato, voleva dire che era davvero tardi. Si costrinse a sbirciare di nuovo da sotto la sua barriera protettiva. “Che ore sono?” Domandò con voce arrochita dal sonno.
“Le dieci.”
Dei del cielo. Aveva dormito cinque ore e comunque si sentiva come se avesse appena corso una maratona: stanco morto. Si alzò su un gomito e, con gli occhi ancora socchiusi, lanciò una veloce occhiata all’altra parte del letto: vuota.
Sospirò e osservò suo figlio, in piedi vicino a lui, che guardava nervosamente verso la porta della stanza. Si accigliò e cercò di mettersi più dritto. “Cosa c’è?” Chiese, non potendo fare a meno di sbadigliare.
Jake si avvicinò, come volendo fargli da sostegno morale alle parole che stava per dire. “C’è Charlie in cucina.”
Da come lo disse, gli parve che con quelle sole parole avrebbe dovuto capire tutto, ma lui era ancora stravolto e in deficit di sonno; pertanto, non gli sembrò una cosa così sconvolgente.
D’accordo, suo figlio non sapeva che la donna dormisse praticamente ogni notte con lui, però aveva sempre adorato Charlie, e credeva sarebbe stato felice di quella novità.
Si grattò pigramente una guancia, insicuro su cosa dire. “Ha dormito qui…” Provò, come giustificandosi.
Il bambino scosse la testa, come un professore contrariato da un alunno indisciplinato. “Ha detto che sta preparando la colazione. Hai mai assaggiato la sua cioccolata calda?” No, però era sicuro che Jake sapesse di cosa stesse parlando e la sua espressione gli disse chiaramente cosa ne pensasse. “Il cioccolato non ha quel sapore.” Si spinse i piccoli occhiali sul naso, e sembrò cercare una risposta scientifica che spiegasse come avesse fatto Charlie a renderlo tanto disgustoso.
In ogni caso, la sentenza, com’è ovvio, fu una: “Devi fere qualcosa, papà.” Quella supplica lo fece ridere di cuore e buttò i piedi giù dal letto, improvvisamente meno stanco d’un istante prima.
Padre e figlio si affrettarono per il corridoio, verso la cucina, ed entrambi si fermarono sulla soglia allo spettacolo che gli si presentò: Charlie, vestita con una vecchia tuta sbiadita di Logan, canticchiava un famoso motivetto, mentre con una spatola girava dei pancake in una padella.
Il profumo non gli sembrò affatto male, ma lui – che si fidava ciecamente di Charlie - non si fidava affatto delle sue doti culinarie.
Nessuno dei due se ne accorse ma, entrambi in pigiama, con i capelli scuri scompigliati dal cuscino e con la stessa espressione un po’ schifata all’indirizzo della colazione, sembravano due gocce d’acqua. Uno la copia in miniatura o ingrandita dell’altro, e quando si voltò, la donna lo notò eccome.
Il suo sorriso quasi lo accecò. “Ecco i miei uomini! Siete pronti per i pancake?” Cinguettò con esuberanza, agitando la spatola nella loro direzione, ma il suo entusiasmo fu accolto da eguali sorrisi titubanti.
L’uomo si grattò la nuca, incerto, ritrovandosi tra due fuochi: da una parte quella splendida donna gioiosa e dall’altra il suo unico figlio, che non voleva venisse avvelenato.
Fu quest’ultimo che lo tirò fuori dalla sua indecisione, spingendolo da dietro e spronandolo a rappresentare il dissenso popolare.
Perciò, Logan si schiarì la gola, passandosi una mano tra il marasma che erano i suoi capelli. “Tesoro, forse è meglio se lasci fare a me. Che ne dici?” Ecco fatto, assolutamente diplomatico.
La risata di lei riempì la stanza, per nulla toccata da quel tentativo di levarle il controllo dei fornelli. Anche lui si ritrovò a sorridere, di rimando, al suo umore contagioso.
Charlie scosse la testa. “Questi sono pancake magici. Assolutamente magnifici.”
Non ne dubitava, soprattutto se li aveva mangiati anche lei: era impossibile essere tanto allegri, con meno di cinque ore di sonno, senza un po’ di magia.
Ad ogni modo, Logan sbuffò divertito a quel suo tenero tentativo di convincerli; lui e Jake non avrebbero certo ceduto tanto facilmente…
Fece per ribattere, ma suo figlio si fece avanti, avvicinandosi come stregato, gli occhi pieni di fanciullesco stupore e innocente curiosità. “Davvero?”
Dannazione. Va bene, lui non avrebbe ceduto. E dire che poco prima era sembrato tanto categorico, immaginò che quello cambiasse tutto, però.
“Vuoi assaggiare?” Lo invitò quel diavolo tentatore biondo, muovendo le sopracciglia con fare allettante.
Come un fulmine, il bambino si sedette al tavolo e Charlie gli mise subito davanti un piatto pieno di pancake colanti sciroppo.
I due adulti rimasero in attesa del verdetto, Logan con le braccia incrociate al petto e lo scetticismo negli occhi; mentre, il sorriso della donna non vacillò un momento, guardandolo con le dita intrecciate davanti alla bocca, come in una silenziosa preghiera.
Osservarono attentamente un lato della forchetta immergersi in quei morbidi dischetti dorati e staccarne un pezzetto, poi, i rebbi vi affondarono e Jake si portò quel succoso boccone alle labbra.
I suoi occhi si spalancarono e, una volta che ebbe deglutito, si girò a guardare suo padre. “Sono buonissimi!” Commentò con tono incredulo ed esultante. A quelle parole, il sorriso di Charlie – sembrava impossibile ma era così – si ingigantì ancor di più.
“Te l’ho detto…” Affermò lei, con manifesta soddisfazione, come se poco prima non stesse implorando gli dèi affinché quei pancake fossero buoni davvero.
Poi, toccò a lui, e lo guardò con quelle sue liquide iridi blu, inclinando leggermente la testa nel suo solito modo giocoso. “Vieni a fare colazione, cowboy?”
E, seriamente, non ci si poteva aspettare che le resistesse. Non era mai stata più bella: piena di gioia incontrollata, mentre si girava per impilare i suoi pancake nel piatto in un piccolo balletto di vittoria e autocompiacimento.
Rise e prima che potesse versare lo sciroppo, Logan si sporse oltre le sue spalle e strappò un pezzetto di pancake con due dita, per poi infilarselo velocemente in bocca.
Non solo avevano il sapore che ci si sarebbe aspettati, ma erano addirittura molto buoni. Davvero squisiti.
Aveva creduto che Jake si fosse lasciato suggestionare, invece…
I suoi pensieri dovettero essere palesi, perché Charlie lo guardò con consapevole soddisfazione.
“Come hai fatto?” Sussurrò ammirato.
“Te l’ho detto, magia…” Sollevò le mani nello spazio tra loro, scuotendo le dita in modo evocativo.
Logan fece un passo avanti, poggiandosi sul ripiano della cucina, intrappolandola tra sé e il bancone. La guardò attentamente negli occhi, dall’alto, cercandovi una risposta e trovandovi solo divertimento. Non riuscì a resistere, si piegò a depositare un piccolo bacio sul suo collo.
La sentì ridacchiare, prima che mormorasse: “Potrei aver comprato la pasta già pronta della signora Peterson, al market.”
Le labbra dell’uomo si curvarono in un sorriso pigro sulla morbida pelle di Charlie. “Hai imbrogliato, quindi…” Sussurrò, assaporando il suo delizioso profumo di donna.
“Non lo chiamerei così.” Osservò tranquillamente e lui si ritrasse per guardarla in viso, alzando un sopracciglio. “Direi che ho trovato una soluzione ad un problema… Non c’è di che, comunque.”
Lui buttò la testa indietro e rise di nuovo. “Invece, sembra proprio che tu abbia barato.”
“Sei solo geloso perché i miei pancake sono più buoni dei tuoi.”
“I pancake della signora Peterson, intendi.”
Quella bocca seducente si curvò in un sorrisino sfacciato. “Ehi, li ho cotti senza bruciarli. Quindi sono più miei che suoi.”
Santo cielo, era deliziosa. Avrebbe volentieri mangiato lei, per colazione.
La baciò fugacemente sulla bocca, per poi prendere il suo piatto e farle l’occhiolino. “Come vuoi, tesoro.”
Tuttavia, non appena si girò, si fermò di colpo, sbattendo contro la consapevolezza d’avere un pubblico. Seduto al tavolo, Jake li osservava curioso, continuando a mangiare di buon gusto, godendosi uno spettacolo grandioso.
Per fortuna, lo squillo del telefono lo salvò.
L’unica persona che chiamasse a casa, in particolar modo di sabato, era sua madre. Invece, con sua grande sorpresa, fu la voce di Ryan Clark a dargli il buongiorno. “Logan, ho provato a chiamarti tutta la mattina. Ho delle novità.”
Il suo tono sembrava più nervoso del solito, il che era tutto dire per lui.
“Scusami, avevo il cellulare spento. Dimmi tutto.”
In sottofondo sentì Charlie e Jake parlare di un film di supereroi, e non poté non sorridere al suono della risata cristallina di suo figlio. Avrebbe ascoltato cos’aveva da dirgli di tanto urgente, e poi sarebbe tornato da loro. Tuttavia, l’altro non parve dello stesso avviso.
“No, non al telefono. Sto venendo lì, sono riuscito ad uscire solo mezz’ora fa, a causa della nevicata di stanotte.” Si accigliò, dovevano essere davvero delle cattive notizie per spingerlo a venire a Sunlake, nonostante il tempo. “Sarò lì tra poco.” Detto ciò, attaccò.
Perciò, quaranta minuti dopo, Logan si ritrovò seduto alla scrivania del suo ufficio a rimpiangere d’aver lasciato la felicità della sua cucina. Soprattutto perché i due uomini difronte a lui sembravano intenzionati a non spiccicare parola.
Era normale che Ryan Clark fosse nervoso, lo era sempre; pertanto, non era affatto una novità che avesse afferrato una delle sue penne e la stesse torturando con le dita, evitando il suo sguardo.
Ciò che era decisamente strano, però, era il comportamento di Luke Thomson. Il vicesceriffo, solitamente sempre tranquillo e di buon umore, pareva avesse perso il sorriso, e non aveva smesso un secondo di muoversi a disagio sulla sua sedia.
Ad ogni modo, lui non aveva intenzione di passare tutto il suo giorno libero ad aspettare che uno di loro trovasse il coraggio di parlare. “Allora, volete dirmi cosa sta succedendo?” Chiese, leggermente irritato d’essere l’unico che, a quanto pareva, era all’oscuro degli eventi.
Se possibile, però, a quella domanda, i due sembrarono farsi più tesi e Logan sospirò. Non sarebbe mai riuscito a tornarsene a casa ad un’ora decente, di quel passo.
Per fortuna, Charlie sarebbe stata occupata per il resto della mattina con il comitato cittadino, trascinando Jake con sé. Tuttavia, se lo avessero lasciato andare, avrebbe potuto convincerla a sgattaiolare via e, magari, tutti e tre, avrebbero potuto godersi il resto del sabato in tranquillità.
Fu Ryan a schiarirsi la gola e a parlare per primo. “Ieri sera, uno dei miei uomini ha visto Liam Ruiz al Gryson’s.”
Logan non fu per niente impressionato: non era nulla di nuovo, sorvegliavano quel locale da più d’un mese.
Dopo un attimo d’esitazione, l’altro continuò. “Una donna lo ha avvicinato, sembravano molto in confidenza. Lo ha baciato con… uhm… familiarità.
Lo fissò, in silenzio, aspettando che continuasse. Non capiva dove volesse andare a parare. Che la donna avesse sporto denuncia contro Ruiz? Non ne sarebbe rimasto stupito, aveva visto il fascicolo di quell’uomo, sapeva di cosa fosse capace. Proprio per quel motivo chiuse gli occhi, aspettandosi il peggio. “L’ha uccisa?” Cercò di indovinare e solo a quel pensiero gli parve di avere un macigno sullo stomaco.
Non vide lo sguardo incerto che si scambiarono gli altri due, prima che il suo vice si affrettasse a rassicurarlo. “No, niente del genere. La donna è andata via incolume.”
Lo sceriffo si passò una mano sul viso, sollevato. “Quindi? Chi diavolo è?” Stavolta, vide perfettamente l’occhiata tra Luke e Ryan; sembravano soppesarsi come a decidere chi dei due avrebbe dovuto comunicargli una brutta notizia.
Magari, se avesse riposato come si deve e se il suo risveglio non fosse stato tanto delizioso, avrebbe indovinato facilmente il motivo di tutta quella esitazione. Invece, era troppo stanco e distratto per concentrarsi a fondo sul lavoro; non avrebbe nemmeno dovuto esser lì, dopotutto.
“Pensiamo lo stia aiutando, passandogli delle informazioni sensibili.” Quel chiarimento fu sufficiente a spiegare perché lo sceriffo di Twin Lake avesse fatto tanta strada.
Logan si raddrizzò sulla sedia, protendendosi leggermente in avanti, da sopra la scrivania. “Stai dicendo che è qualcuno che lavora per noi?” Domandò incredulo.
Iniziò subito a farsi un elenco mentale delle donne che lavoravano in centrale o che, per un motivo o l’altro, passavano spesso di lì; eppure, non ce la vedeva nessuna di loro in quel ruolo.
Scosse la testa. È impossibile, pensò. Ma non lo disse, curioso di sentire il resto.
Tuttavia, la risposta di Ryan lo confuse ancor di più: “No, non è una persona interna.”
D’accordo. Stava iniziando davvero a perdere la pazienza. Se lo avesse saputo, avrebbe portato l’Indovina Chi? di suo figlio. Non potevano aspettarsi sul serio che avrebbe continuato a tirare a caso, che glielo dicessero e basta, per l’amor di dio!
Puntò gli occhi in quelli di Luke, pretendendo una risposta chiara e concisa. Ma lui abbasso la testa e tutto ciò che disse, in un sospiro sconsolato, fu: “Logan…”
Il suo tono, pieno di profonda tristezza e rammarico, bastò. La comprensione lo travolse come un’onda in piena: era una donna che entrambi conoscevano e a cui volevano bene. Una donna che, magari, era già stata coinvolta in tutto quel casino.
Pertanto, le parole di Ryan Clark furono del tutto superflue: “Mi dispiace, Logan, ma si tratta di Charlie Royce.”
 
Annabelle King, come ogni sabato mattina, presiedeva la seduta del comitato cittadino e, a parte Charlie, nessuno fece molto caso ai tanti cambiamenti della donna. Il più evidente, ovviamente, fu la sua rinuncia a chiamarla Charlotte; eppure, se si fosse prestata davvero attenzione, si sarebbero potuti cogliere comportamenti ben diversi dal solito.
La donna sembrava molto più rilassata e a suo agio, non sulla difensiva come sempre.  Le sue guance, rosse per il colore, non erano più pallide dalla tensione e il suo sorriso – decisamente più frequente del solito – contribuiva a rendere l’atmosfera più serena e costruttiva.
Tutto ciò, ovviamente, si rifletteva sulla percezione che ne avevano gli altri e, oltre a sembrare più bella, risultava anche più abile nel suo ruolo di presidentessa.
Perché, a parte tutto, Annabelle era davvero capace nella gestione e nell’organizzazione degli eventi della comunità. Di certo, la sua mania di voler controllare ogni minimo dettaglio tornava utile, ma aveva anche dei modi estremamente propositivi e costruttivi, quando voleva.
In buona parte, sembrava esser tornata la ragazza impegnata nel sociale che era stata al liceo: disponibile al confronto ed esuberante verso le nuove idee.
Tuttavia, Charlie non poteva sapere che era la sua sola presenza a render possibile tutto ciò. Infatti, da quando si era presentata a casa sua, Annabelle non aveva smesso di cercare la sua compagnia; pareva che, una volta scoperchiato il vaso dei suoi segreti, la donna non potesse più fare a meno di confidarsi. In Charlie aveva trovato la tanta desiderata comprensione che, aveva paura, non avrebbe ottenuto dalla madre e quei momenti le avevano avvicinate in pochissimo tempo; pertanto, Annabelle non sentiva il bisogno di mettersi sulla difensiva, quando sapeva esserci Charlie a darle man forte. Aveva trovato una sorta d’alleata, qualcuno che era stata in guerra con lei e che la capiva; che le avrebbe coperto le spalle semmai ne avesse avuto bisogno.
Anche se, con Maddie, non riusciva ad aprirsi come con l’amica, Annabelle aveva scoperto d’apprezzare anche la sua compagnia, così come, Diddi aveva rivalutato l’altra.
Ad ogni modo, per la prima volta, Charlie apprezzò appieno l’esperienza del comitato cittadino, fatta di un’atmosfera decisamente più godibile.
L’argomento del giorno era il Natale e, come ogni anno, era necessario organizzare il pranzo che si sarebbe tenuto nella piazza centrale, e a cui avrebbe partecipato tutto il paese. Bisognava predisporre al meglio le cose per l’occasione: il menù era il primo punto di cui occuparsi, poi veniva la disposizione dei tavoli, le decorazioni, la musica, la tettoia per ripararsi da una possibile nevicata, scegliere chi avrebbe impersonato Babbo Natale e molto altro ancora.
“Ho pensato che potremmo disporre sorta di tenda da circo, in modo che l’acqua, possa drenare più facilmente. Ovviamente, speriamo sia bel tempo.” Incrociò le dita e fece un sorriso affabile. “Almeno, in questo modo, eviteremo lo spiacevole incidente dell’anno scorso.”
Charlie non aveva idea di quale incidente parlasse ma, guardando gli occhi dell’altra brillare di malcelato divertimento, immaginò che dell’acqua stagnante – rimasta bloccata sulla superficie della tettoia improvvisata – si fosse rovesciata addosso a qualcuno.
Annuì comunque con convinzione a quella idea senz’altro buona.
“Così possiamo appendere tante luci diverse ed otterremo un effetto-” Fu interrotta dal suono inaspettato del campanello.
Approfittando di quella pausa, Charlie si chinò verso Jake, seduto al suo fianco, tra lei e sua nonna, che giocava ad un videogioco sul telefono.
Il bambino non era stato molto entusiasta di andare a quella riunione, ovviamente, ma lei si era decisamente fatta perdonare, consegnandogli il suo smartphone e autorizzandolo a scaricarvi qualsiasi cosa volesse.
Nessuna, tantomeno Sylvie, era rimasta particolarmente colpita nel vederla arrivare con il figlio dello sceriffo, non era certo la prima volta che Logan le affidava Jake e, in ogni caso, era ben noto che i due fossero amici. Perciò, stranamente, non avevano fatto domande sul perché stessero insieme, già a quell’ora.
“Stai vincendo?”
Con la lingua tra i denti, concentrato a premere freneticamente i tasti sullo schermo del cellulare, Jake borbottò: “Non riesco a superare questo livello.”
Un sorriso iniziò ad aprirsi sul suo viso, e divenne ancor più profondo quando sentì la voce di Annabelle salutare il nuovo arrivato: “Logan!”
Alzando lo sguardo verso la porta, però, il sorriso le morì sulle labbra. Charlie non aveva mai visto quell’espressione sul viso dell’uomo, che la stava guardando oltre le spalle della padrona di casa. Sembrava un misto di rabbia, tristezza e qualcos’altro; che le ricordò vagamente il volto di suo padre, quando aveva scoperto che gli aveva mentito per anni.
Si alzò di scatto dalla sua sedia, ben prima che l’uomo dicesse: “Devo parlare con la signorina Royce.” Il suo tono di voce, che non conteneva nulla della dolcezza di appena un’ora prima, contribuì a torcerle le budella. Non seppe nemmeno lei dove trovò la forza di seguirlo fuori.
Attraversò la strada e si avvicinò il più possibile al limitare degli alberi, in modo da poter ottenere la giusta privacy.
Logan rimase in silenzio, le mani sui fianchi, apparentemente calmo; tuttavia, solo il fatto che non la guardasse fu sufficiente a rivelarne il vero stato d’animo: stava ribollendo di rabbia.
Con la testa voltata verso la casa da cui erano appena usciti, parve stesse cercando di calmarsi e trovare le parole più adatte.
“Uno degli uomini di Clark era al Gryson’s, ieri sera.” E quell’annuncio, tanto tranquillo e pacato, ebbe il potere di toglierle il fiato. Avrebbe dovuto immaginarselo. Non appena gli aveva visto quello sguardo dardeggiante, avrebbe dovuto sapere quale fosse la causa di quella rabbia.
Charlie rimase in silenzio, nonostante dentro di sé stesse urlarndo. “Ti ha visto baciare Ruiz.”
Con quelle parole, il timore di Charlie che Logan avrebbe potuto scoprire ciò che era successo, senza poter essere in grado di spiegare appieno, divenne realtà.
Cercò i suoi occhi, ma l’uomo ancora non la guardava; fu per quel motivo - perché non poteva leggere la profondità dell’emozione che nascondeva – che le parole le uscirono di bocca prima che potesse fermarle. “No, non è così.” E, finalmente, lo sceriffo si voltò.
Charlie non se ne accorse neppure e scosse la testa, completamente a soqquadro, cecando di fare chiarezza tra i suoi pensieri. “Cioè, sì. È vero, ma non è come credi… Voglio dire, io…” Improvvisamente, le sembrò impossibile trovare un buon ordine per le parole, e non riuscì a formulare una frase con un senso.
Non ebbe importanza. “Hai detto che non era successo niente.” Stavolta, il tono di lui tradì solo una punta d’irritazione e lei osservò la sua mano, leggermente tremante per il nervosismo, tuffarsi tra i capelli scuri.
Batté le palpebre confusa e le sembrò d’essersi persa una parte fondamentale della conversazione; infatti, era stata convinta che, poche ore prima, Logan avesse davvero letto dentro di lei ciò che non aveva avuto il coraggio di dirgli.
Non può essere, si disse. Non poteva credere che si fosse sbagliata così tanto.  
In ogni caso, la sua sicurezza vacillò; d’altronde, lo conosceva da solo un mese – nonostante le sembrasse di conoscerlo da tutta la vita – poteva benissimo aver travisato.
“Mi hai detto che non t’importava…” Mormorò in un sussurro.
Sentì il suo cuore incrinarsi, come se stesse per disintegrarsi da un momento all’altro, ed era certa che non sarebbe mai riuscita a raccogliere tutti i pezzi da quel prato.
Lo sceriffo si passò una mano sul viso, sempre più nervoso. “Come puoi credere che non mi importi?” Domandò, incredulo.
Charlie deglutì, non sapendo proprio da dove iniziare e si costrinse a guardarlo. Trovò un po’ del suo coraggio e raddrizzò le spalle, facendosi forza, e s’affidò a sé stessa: “Logan, è stata una cosa assolutamente insignificante. Quel bacio non-”
Non riuscì a finire la frase: Logan perse il controllo della sua calma ed esplose. “’Fanculo quel dannato bacio, Charlie!” Gridò esasperato, iniziando a camminare avanti e indietro sull’erba ancora bagnata dalla neve. “Mi hai promesso che me lo avresti detto se qualcuno ti avesse fatto del male!”
D’accordo, ora era davvero confusa. Che razza di informazioni strampalate gli avevano fornito? Se non gli importava che avesse baciato Liam Ruiz, allora cos’aveva d’esser così furioso? Non era scoppiata alcuna rissa e nessun’arma era stata coinvolta in nessun modo. Non capiva davvero di cosa stesse parlando. “Non è successo nien-”
Lo sguardo duro che le rivolse la bloccò, fermandola dal finire quella frase che, lo sapeva, lo avrebbe fatto arrabbiare ancor di più.
“Già, immagino che Ruiz sia stato un vero principe. Ti ha anche invitato a prendere un tè?” Osservò con sprezzo.
Le labbra di Charlie si assottigliarono, per la forza con cui le strinse tra loro e l’indignazione iniziò a circolare anche nelle sue vene. “Certamente, non è il primo che si comporta da stronzo.” Osservò, alzando un sopracciglio e sfidandolo a contraddirla.
Con determinazione furiosa, puntò un dito verso di lei, sottolineando le sue parole: “Sarà sicuramente l’ultimo, te lo garantisco.”
Va bene, era davvero impazzito. Non sembrava rendersi conto dell’impossibilità di quel che aveva appena detto. L’unico modo in cui poteva evitare che accadesse era impedirle di uscire di casa, oppure seguirla ovunque andasse.
Era ridicolo.
Sbuffò, incrociando le braccia al petto. “Cosa vorrebbe dire?”
“Vuol dire che Liam Ruiz farebbe meglio ad accendere un cero da qualche parte, perché è un miracolo se ha ancora ogni arto attaccato al corpo.” Sibilò.
Non riuscì a controllare la sua reazione e fece un passo indietro, le mani che le ricaddero lungo i fianchi. Pensare a Logan, il rispettabile sceriffo di una comunità, padre di un figlio di otto anni, perdere la testa e far del male a qualcuno, la sconvolse. “Non dici sul serio…”
“Cristo santo, Charlie. Come pensavi l’avrei presa?” Domandò, fermandosi difronte a lei, il petto che si alzava e abbassava repentinamente. “Credi sul serio che non me ne importi nulla che qualcuno ti metta le mani addosso e si comporti come un dannato-”
“Ho preso io l’iniziativa. Sono stata io a baciarlo.” Ammise, con una sicurezza che non le apparteneva.
Logan sbuffò, e ancora una volta si passò la mano tra i capelli, sconvolgendoli ancor di più. “Lo so.” Borbottò, per niente contento. “Ryan Clark non è stato avaro con i dettagli, fidati. Non so come, ma sono riuscito a convincerlo che ti avrei tenuta d’occhio io.” Dalla sua smorfia ironica, fu perfettamente chiaro con quanta perizia avrebbe adempiuto al suo compito. “E non è stata un’impresa facile, te lo garantisco.”
Rimasero entrambi in silenzio per un momento, prima che Logan riprendesse a parlare. Non c’era più traccia d’irritazione nei suoi occhi, era rimasta solo la preoccupazione che l’aveva generata.
“Ti sei sciolta in lacrime tra le mie braccia, ieri notte. Eri sconvolta. Ed ora salta fuori questa storia.” Vide il suo pomo d’Adamo fare su e giù, quando deglutì. “Quell’uomo ha ucciso una donna, Charlie. Ha stuprato e ammazzato la sua futura moglie.” Allungò una mano, come per toccarla, ma poi si girò di nuovo verso casa di Annabelle e ci ripensò. Lo sentì bofonchiare, pieno di frustrazione, qualcosa su dei maledetti impiccioni e, stavolta, seguì la direzione del suo sguardo; così, anche lei vide le donne del comitato cittadino affacciate alla finestra, niente affatto imbarazzate dall’esser state beccate a ficcanasare.
“Dimmi che starai lontana da lui.” Fu quasi una supplica e Charlie sentì il suo cuore incrinarsi alla consapevolezza di non potergli promettere una cosa simile.
Chiuse gli occhi e scosse il capo.
“Bene. Perfetto.” Al tono sollevato che usò, Charlie alzò di scatto la testa. “Sono felice che siamo d’accordo.”
La donna aggrottò le sopracciglia. “Non siamo d’accordo.”
“Ottimo.” Ripeté, ignorandola completamente. “Penso proprio che preparerò una bella lasagna. Vi aspetto a casa, quando avete fatto.” Le disse da sopra la spalla, mentre se ne andava.
Charlie non si mosse, convinta che da un momento all’altro sarebbe tornato indietro per dirgliene quattro; eppure, non si girò e con quel suo passo disinvolto, così maledettamente accattivante, sparì diversi metri più in là.
Rimase ferma su quel prato, alzando la testa al cielo grigio. Si diede un pizzicotto ad un braccio, ancora incredula di come fosse andata a finire.
Al ricordo dello sguardo di Logan che la pregava di stare lontano da Ruiz, al pensiero di come preferisse consapevolmente illudersi che il suo silenzio fosse un assenzo, nel suo cuore Charlie fece quella promessa.
Gli starò il più lontano possibile.
Non s’era resa conto di quanto le avesse pesato anche solo l’idea di quell’eventualità e, sollevata da tutta la situazione, ridacchiò.
In ogni caso, delle finestre di casa di Annabelle, sembrò che la donna piangesse; pertanto, quel confronto tra Charlie e Logan non poté passare inosservato.
Ovviamente, la brava gente di Sunlake non pensò a una discussione tra innamorati e furono molte le ipotesi su ciò che la giovane Royce avesse combinato per far infuriare così tanto il loro amato sceriffo. Fu proprio quello ad aver colpito maggiormente la gente, il fatto che lui, sempre calmo e ben disposto, avesse alzato la voce contro uno di loro. Perché il tenore della discussione, ai loro occhi, era stato inconfutabile.
E la voce si sparse.
All’ora di pranzo Benjamin Davis origliò frammenti della conversazione tra Gracie Howard e Daisy Peterson – entrambe nel comitato cittadino – e chiese chiarimenti a Pit Cooper che, essendo un poliziotto, poteva saperne qualcosa.
Tuttavia, per Pit quella era un’assoluta novità e si ritrovò a discuterne con Hannah Lewis, mentre prendevano un caffè, più tardi.
Hannah era una cara amica di Doroty Andrews e, la madre di quest’ultima era solita comprare i fiori freschi da Lara Young.
Arthur Foster incontrò il sindaco, quando, alle quattro del pomeriggio, andò a comprare due birre e un paio di spuntini al market; ovviamente, il primo cittadino non perse tempo nel riferire quella nuova voce ad uno dei pochi ancora ignari.
Purtroppo, il padre di Maddie era un grande amico di Stephen Royce che, non avendo la televisione, veniva spesso invitato a casa Foster a fumare un sigaro davanti una partita di football, sport di cui Arthur era un fan sfegatato.
Fu così che il Maggiore Royce venne a sapere che sua figlia e lo sceriffo avevano avuto quello che sembrava un accanito diverbio; perché è questo ciò che succede con i pettegolezzi, più la voce passa di bocca in bocca e più tende ad essere distorta e ingigantita.
Stephen, però, non prese quella diceria per ciò che era – solo una diceria, appunto – ma come l’assoluta verità. Perciò, quando tornò a casa – non aspettò nemmeno la fine della partita – si sentì in diritto di cercare una possibile spiegazione all’episodio che gli era stato riferito.
In tutto ciò, le uniche orecchie che non vennero minimamente raggiunte da quel gran parlare furono quelle dei diretti interessati. Anzi, Charlie sembrava avesse attraversato la soglia d’una dimensione parallela, in cui nulla poteva toccarla.
Non pensò minimamente a suo padre, almeno finché non fu l’ora di tornare a casa. Si rese conto, infatti, di non averlo visto per tutto il giorno. Non avevano fatto colazione insieme, ovviamente, e non lo aveva nemmeno avvisato che avrebbe fatto tardi per la cena, quella sera.
Tuttavia, quando aprì la porta d’ingresso non era minimamente preoccupata, in fin dei conti, poteva capitare, no?
Non si accorse subito della luce accesa in cucina; invece, mentre si toglieva il cappotto, pensò a quella strana giornata. Era sicuramente iniziata nel migliore dei modi, per poi incappare in un piccolo intoppo ma, alla fine, si era conclusa ancor meglio di quanto fosse iniziata.
Non avrebbe dovuto cantar vittoria troppo presto, però.
Si avviò verso quel chiarore che illuminava il salotto buio, fermandosi sulla soglia e la sua tranquillità evaporò in un istante.
Seduto al piccolo tavolo da pranzo c’era suo padre, i gomiti sul ripiano e le mani intrecciate davanti la bocca. I suoi occhi blu la guardarono con severità e Charlie sentì improvvisamente un freddo gelido scorrerle lungo le vene. Si impose di rimanere calma, di non lasciar trapelare la sua improvvisa agitazione; tuttavia, il suo cuore iniziò a scalpitare, forsennato.
Dovette ricorrere al rituale che, da un po’di tempo, aveva smesso di usare: inspirò profondamente, contò fino a sette ed espirò. Lo ripeté altre due volte, prima di poter mostrare anche solo una parvenza di autocontrollo.
Fece due passi in avanti, entrando completamente nella stanza e fermandosi dietro la sedia – la sua sedia - vuota, proprio difronte all’uomo.
Le mani nelle tasche, con disinvoltura, come se non le si stesse sfaldando il mondo davanti agli occhi.
“Dove sei stata?” Ruppe il silenzio la voce dura di suo padre, il tono stranamente paziente.
Lo guardò in viso, anche se fu difficile distogliere l’attenzione dall’oggetto sul ripiano tra loro. Perché era unicamente quello il fulcro di tutti i suoi guai.
Neanche a dirlo, non avrebbe dovuto trovarsi lì, sul tavolo, proprio difronte a Stephen Royce.
Il nero del metallo sembrava risucchiare tutta la luce della stanza, e Charlie conosceva perfettamente quale fosse la sensazione di toccarne il freddo acciaio.
Eccola lì. In tutto il suo splendore, faceva sfoggiò di sé la sua Glock 17.
La pistola di Charlie.
   
 
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