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Autore: Cladzky    08/03/2022    1 recensioni
Quanti mesi avrà passato Cladzky nel suo isolamento auto-imposto nello spazio? Molti, ma quando sembra che gli altri autori di EFP l'abbiano dimenticato, organizzando un party a cui parteciperanno tutti i personaggi del Multiverso, ha un'improvvisa voglia di tornare a casa.
Un po' per malinconia.
Ed un po' per vendetta.
[Storia non canonica e piena di citazioni]
Questa è una storia dedicata a voi ragazzi. Yep. I'm back guys!
E spero di farvi fare due risate, va'!
Genere: Commedia, Introspettivo, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO QUATTORDICESIMO,

OVVERO

QUANDO HO SMESSO DI PRETENDERE DI STARE A SCRIVERE UNA BUONA STORIA E MI SONO DIVERTITO


***


Si trovò dinanzi un muro, o meglio, un terrapieno di pietre levigate e disposte nello stesso stile del castello di Osaka. Questo era positivo, perché voleva dire che aveva attraversato l’intero cimitero e gli sarebbe bastato proseguire lungo di esso per trovare un’uscita e, a quanto ne sapeva, ce n’erano almeno trentasette in cui poteva imbattersi. Alzando un poco la testa, poteva vedere la sommità della struttura, scevro di nebbia alcuna, dal cielo privo di stelle, eclissate da luci ben più vicine, che ne tingevano talvolta di bianco, talvolta di ciano, a discrezione del tecnico alla consolle, il cielo ben poco oscuro, mentre una musica, ben più tranquilla di quella che aveva sentito suonare quando era atterrato qualche ora fa, sovrastava le voci di invitati invisibili, una decina di metri più in alto. Dunque Gyber aveva fatto letteralmente alzare l’intera villa su una collinetta artificiale pur di incastrare tutti quei settori nel suo terreno, il pazzo. E una volta che la festa fosse finita, cosa avrebbe fatto con tutti quei chilometri quadrati allestiti appositamente per la serata? Bah, perché interrogarsi tanto su problemi che non gli competevano? Appoggiò i vestiti su un ceppo di legno tagliato di netto, forse perché le fronde andavano a finire nella terrazza poco più sopra e spiegò il chitone. Cacciò una mano nella tasca umidiccia e tirò fuori troppo velocemente la mappa, che si strappò in due. Forse avrebbe dovuto approfittare ancora del giaciglio offertogli da quel verdolino, contemplò con il pezzo stracciato ai suoi piedi. Fortunatamente non gli serviva più intera ormai e si limitò a ripassare la sezione appiccicata alle dita. C’era un’unica scalinata che correva lungo il terrapieno che l’avrebbe portato in cima, sconfinando per un momento nel settore videoludico, ora doveva solo scegliere se andare a destra o sinistra e sperare di beccarla e di non beccare invece l’ennesimo squinternato.

–Ehi, tu.

Ecco, aveva parlato troppo presto. Non osò voltarsi del tutto, spiando con la coda dell’occhio oltre la spalla chi gli stesse rivolgendo la parola. L’età media di quel posto doveva essere inversamente proporzionale a quella italiana, perché si trovava di fronte all’ennesimo minorenne, stavolta una bambina dai capelli rossi, vestitino uguale e una stellinina cucita sul petto, giusto per trasmettere un’ulteriore idea di innocenza, qualora quei grossi occhioni, dalle folte ciglia, non fossero abbastanza espliciti.

–Perché vai in giro così?– Proseguì lei, sbirciando da dietro le dita, rossa in viso.

–Diciamo che– Iniziò Cladzky, per poi ripensarci, trovando troppo complesso spiegarle la faccenda –È uno stile di vita.

–Quindi non è perché i tuoi vestiti sono bagnati?– Indicò la pila di abiti con quella che pareva un bastone da twirling, sormontata da un tulipano tinto come il suo abbigliamento.

–Allora diciamo che ho appena fatto il bucato e volevo stenderlo– Trimbulò Cladzky, appollottolando la poltiglia di carta, per poi piegarsi a raccogliere i suoi panni e allontanandosi con portamento da pavone, non intenzionato a sottostare a un terzo incontro architettato dal dio degli stracciacazzi –Quindi se potessi farti gli affari tuoi te ne sarei grato.

–Posso farlo– Sorrise la ragazza, volteggiando l’asta da parata –Ma posso renderti grato in altri modi!

–Oh no, ti prego, non aiutarmi!– Si voltò, congestionato di orrore, paonazzo, coprendosi il basso ventre con gli abiti piegati –Ne ho abbastanza per stamattina.

–Non è quella la parola magica– Inclinò il viso la ragazza, mentre piegava l’asta come il braccio d’un trabucco. Con uno scatto, gli puntò il vertice fiorito del bastone, chiudendo un occhio e tirando fuori la lingua al margine della bocca dall’apparente sforzo –Abura Mahariku Maharita Kabura!

–Salute– Gli fece Cladzky, non notando alcun cambiamento e, nonostante ciò, lei rimaneva nella sua posa da spadaccina in affondo, col braccio brandente che tremava. Quasi sul di lì per continuare più tranquillo la ritirata, sentì il carico delle sue mani alleggerirsi. Guardò in basso e vide i vestiti scivolare via dalla sua presa, trasportati da una forza invisibile. Fortunatamente, le sue mani chiuse a conchiglia, caddero a coprirgli l’inguine, prima che anche l’ultimo panno fosse rimosso, e rimase a guardarli svolazzare via lentamente –Ehi, piano con gli scherzi!

Questi si muovevano non in maniera disorganizzata, bensì si schiudevano dai loro origami, fino a pendere stesi nel vuoto, disponendosi in una fila ordinata secondo i movimenti graziosi della bacchetta della nuova arrivata, che aveva assunto un aspetto più rilassato. Ad occhi chiusi e fischiettando, diede un ultimo semicerchio nell’aria e i costumi presero spessore, gonfiati d’un corpo che non c’era.

–A-attenti!– Impartì la maghetta, abbassando con decisione lo scettro petaloso, agitando anche il fiorellino tra i capelli nel movimento. I quattro capi d’abbigliamento batterono i talloni, chi con stivaletti, chi con sandali, e alzarono le maniche, almeno chi le aveva, a una fronte che si poteva solo immaginare. Stranito, Cladzky si avvicinò a uno dei quattro, toccandogli il petto con un dito, che sprofondò nel tessuto, solo per ritornare al suo gonfiore originario una volta rimosso. Passò poi una mano avanti e indietro un palmo al livello del collo, aspettandosi di toccare un pezzo di carne, radendo invece la solita aria fredda.

–Bello spettacolino– Ammise, voltandosi scoloriccio verso la bambina che si batteva il bastone sul palmo.

–Chappy– Riaprì gli occhi lei, facendo una piccola cortesia –Per servirti.

–E a che è servito?– Aggiunse subito dopo. Chappy quasi scivolò dal suo inchino e si grattò la nuca.

–Dimenticavo l’ultimo passaggio– Rise nervosamente, prima di ricomporsi, chiudendo i pugni –Esci dalla traiettoria, per favore.

–Così basta?– Chiese, facendo un passettino indietro. Chappy si piantò sulle punte delle sue scarpette rosse e allargò le braccia per incanalare chissà quale energia. Alzò la bacchetta verso il cielo e giù di nuovo in una rotazione da discobolo. Senza alcuna causa visibile, l’erba cominciò a piegarsi sotto un vento caldo. Presto sibilò una piccola, specifica bora in direzione del quartetto in formazione che ne agitò le fibre senza sperderli ai quattro venti, come invece fu per l’imbucato, che si dovette tenere al ceppo di legno adoperato poc'anzi, pur di non essere trascinato via, mentre la pelle gli veniva arrostita da quell’asciugacapelli di folata. Infine si placò, così com’era arrivata, avendo dipanato il poco di nebbia che c’era e lasciandolo scivolare di nuovo a terra come uno straccio –Bastava un “no”.

–Ecco fatto, secchi come katsuobushi in bancarella!– Si complimentò con sè stessa la bambina di rosso vestito, tramutando la bacchetta in uno spolverino e lustrando le spalle dei quattro tessuti, ora non più sgocciolanti. Inavvertitamente, passò anche a spolverare sotto il naso del confuso pilota, che le starnutì sdegnosamente in faccia.

–Fa sentire… orcaloca, è asciutto sì– Dovette ricredersi dopo lo sbigottimento iniziale, passando un dito sulla salopette da giardiniere, sporgendosi dal ripiano del ceppo a cui si era tenuto aggrappato per salvarsi la vita. Per giove, anche l’orologio da polso, sospeso nel vuoto come un quinto membro, aveva ripreso a funzionare, anche se in ritardo ora.

–Non faccio mai promesse che non posso mantenere– Si passò, contrita in volto, lo spolverino su sé stessa, dopo la reazione istintiva del sistema respiratorio altrui –Questi sono tutti abiti tuoi, no?

–Ma certo che sì– Cladzky si portò una mano al volto per assicurarsi non gli stesse crescendo il naso. Era assurdo, ma, dopo tutta la magia degna dell’apprendista stregone avvenutagli davanti le orbite, e data la sua coda di paglia più che giustificata, non poteva accantonare l’ipotesi che anche l’assurdo potesse verificarsi.

–Te li sei portati dietro per tutta la serata?

–Ho delle tasche molto grandi.

–Da quale vorresti cominciare, allora?– Chappy camminò davanti la fila di costumi, passando un dito sulla superficie lavata e centrifugata a dovere di ognuno. Terminò sulla sua consueta tuta bianca –Da questa forse?

–Beh, quella è la mia uniforme da viaggio, ma in verità…– Non fece in tempo a discutere che, con un mulinello di bacchetta, il suo stesso vestiario gli si avventò contro come posseduto da un giocatore di rugby.

–Ho sempre adorato vestire le bambole– Si prese le guance tra i palmi la bambina, mentre la zuffa tra un uomo e il poltergeist dei suoi abiti trasandati imperversava. Cladzky stava ancora lottando con l’aria che, in una serie di cerniere lampo e strappi, l’uniforme gli si era saldata addosso in maniera impeccabile, rimettendolo in piedi prima di perdere volontà e tornare un normale tessuto sintetico.

–Potevo benissimo farlo da solo– Girò la testa al ragazzo. Scosse il capo per riprendere coscienza della situazione e si tirò il fronte dell’uniforme fra i pugni –In verità, come ti stavo dicendo, non posso circolare con questa roba indosso, sarei troppo riconoscibile.

–Ah, certo– Assottigliò gli occhi Chappy, prima di abbassare con eleganza la bacchetta, in un gesto furtivo, contro di lui, facendo partire alla carica il completo da giardiniere, mentre già si sfilava di dosso al ragazzo l’abito di prima. Un’altra colluttazione impari e Cladzky si ritrovò in piedi, stravolto e vestito di camicia e salopette, tenuto dritto solo per la stessa gruccia telecinetica che reggeva la mise verde. La bambina si avvicinò speranzosa, sbattendo forte le palpebre –Ora va meglio?

–No, maledizione!– Gli si avventò addosso, saltando giù dal ceppo, solo per essere riportato indietro dallo strattone dello stesso completo, che lo costrinse a sedersi mansueto –Un giardiniere non ha accesso al cuore della villa!

–Oh, scusa– Si coprì la bocca con una mano, mortificata, mentre l’altra già agitava la bacchetta dietro la schiena per ripetere l’operazione di spogliamento forzato, ma rimase, sulla base di legno, nudo per poco, perché fu presto di turno della tenuta da DJ bicromatica di appiccicarglisi addosso –Questo ti dona proprio!

–I DJ non possono lasciare le loro postazioni– Sibilò inferocito nell’animo, senza neppure guardarla, alzando il petto sotto la giacca e spremendo gli occhi sotto gli occhiali da sole –E, prima che tu prosegua con il chitone della malora, ti avviso già che anche quello non va bene, perché troppo riconoscibile.

–Mi spiace– Si strofinò un piede contro l’altro la bambina, guardando in basso e osservandolo a malapena con uno sguardo dalle sopracciglia a mezzaluna, gli occhi di un azzurro un po’ opaco, mentre le mani si chiudevano alle sue spalle dalla mortificazione –Mi sono lasciata prendere così tanto dal mio spettacolo che mi sono dimenticata di sincerarmi dei tuoi reali bisogni. Se vuoi levo il disturbo.

–Aspetta un momento– Cladzky la trattenne con un richiamo, mentre si grattava uno zigomo con l’indice, ponderando. Pronunciò la seguente frase con una lingua titubante dall’uscire –Quindi ti piace vestire le bambole.

–M-mh– Annuì lei con vigore, nuovamente gioconda in viso, agitando i due grandi boccoli rossi di capelli e con la bacchetta stretta con ambo le mani al livello della vita, guardandolo con occhi brillanti da sarta che studiava la misura del manichino –È sempre stata una mia passione creare abiti!

–Allora puoi comunque aiutami– Si morse il dorso dell’indice per cercare di trovare le parole giuste –Diciamo che voglio passare inosservato alla festa. Sai, sono una tale celebrità che è dura avere quindici minuti per me stesso. Che ne diresti di ideare un completo che mi renda irriconoscibile?

–Oh, che sogno, aiutare qualcuno facendo ciò che più mi diverte– Unì i palmi, in un applauso d’eccitazione, Chappy. Poi si grattò la fronte con la bacchetta, storcendo la bocca –Però creare qualcosa dal niente è molto più complicato che manipolare la natura come ho fatto finora: Sarà molto dispendioso.

–Insomma, vuoi fare il tuo bibidi bodobi buu e renderti utile o ci hai ripensato?– Sbatté il mocassino di pelle sul legno, in un ticchettio che infranse la concentrazione della maghetta. Questa digrignò i denti dalla sfida.

–E va bene!– Si rimboccò le maniche bianche la bambina, per poi inspirare e muovere la bacchetta, più radiante che mai, come una direttrice d’orchestra, canticchiando una notte sul monte calvo con la bocca. Le luci alla terrazza superiore sfasarono un momento, mentre il vento riprendeva a soffiare in una tromba d’aria di fronte ai due che alzava il fogliame da terra. Nell’atto di tirare una lenza per cavare fuori qualcosa dal niente, Chappy portò a sé la bacchetta –Abura Mahariku Maharita Kabura!

Un fulmine cadde lì in mezzo e, come per magia, una volta riacquistata la vista e spostate le braccia, alzate a scudo del volto, Caldzky vide un nuovo abito sospeso davanti a sè. Il suo stupore si trasformò presto in disappunto nel constatare che si trattava di un vestitino rosso similare nel disegno e dimensioni a quello indossato da Chappy stessa, poi in orrore, quando si rese conto di quello che gli aspettava ora.

–Non di nuovo!– Si tuffò giù dal tronco non appena il completo precedente si era rimosso da solo, ma non abbastanza in fretta da evitare la picchiata a ricerca dell’abito, con il risultato di finire indossato alla rovescia.

–Aspetta, quella non va sulla faccia– Cercò di guardare da un’altra parte la ragazza, mentre sbrogliava la situazione. A lavoro concluso tirò un sospiro di sollievo nel non vederlo più penzolare sotto la crinolina con la testa, ma quest’ultima aveva conservato l’espressione arcigna e un arrossamento delle gote che si abbinava bene al vestitino di egual colore. Le gambe, coperte in mary jane da scolaretta e calzettoni bianchi fino alle ginocchia, si chiudevano per nascondere degli slip, con bordi in pizzo, fin troppo visibili da quella posizione sopraelevata.

–Ti rendi conto che “vestire le bambole” era una metafora?– Chiuse i pugni a stringere i bordi della gonna, sentendosi più nudo di prima.

–Scusa– Si asciugò la fronte pezzata dalla fatica e l’aspettativa –Alla mia amica Sally stava benissimo.

–Non lo metto in dubbio– Sbuffò, voltandosi dalla vergogna, con il risultato, però, di alzare ben troppo il bordo nella rotazione –Ma che ne dici di provare con qualcosa dall’aspetto più virile?

–Beh, posso provare con il campione della virilità– Ragionò Chappy e si rimise subito al lavoro. Cladzky chiuse gli occhi per buon auspicio e sperò bene. Si sentì nuovamente un tuono,  strappare di dosso il vecchio vestito e uno nuovo gli si formò sopra, decisamente più modesto, ma non sobrio. Quando riaprì gli occhi fu come se non l’avesse fatto. Si tastò il corpo e si trovò ricoperto di un’armatura da motociclista a placche o qualcosa di simile, con tanto di casco, privo però di visiera, all’infuori di due buchi, unici filtri per l’ossigeno. Toccando meglio, si rese conto di avere due bozzi in viso e un paio di antenne, oltre che una bocca laminata. Aveva indosso l’uniforme del primo Kamen Rider. La voce della maghetta gli giunse lontana, dato l’udito ovattato –Ora sì che sembri un vero eroe, ti manca solo la moto!

–Non ci vedo una sega!– Giunse fuori la voce cavernosa dell’imbucato, che prese la sciarpa cremisi della giustizia e la pestò a terra, sotto lo sguardo sconcertato della ragazzina a quel sacrilegio, essendo cresciuta a favole della buona notte e motociclisti combattenti in prima serata su NET TV –E non ho manco la patente per un’apecar!

–D’accordo, vediamo con qualcosa di meno ingombrante– Si morse le dita Chappy, mentre, con l’altra mano, la bacchetta spazzava via le placche dell’armatura e generava un nuovo lampo. Cladzky venne di nuovo accecato e, più rapidamente del solito, i vestiti gli piombarono addosso. Alzando le palpebre scoprì perché. Gli era stato applicato il minimo indispensabile, giusto un paio di stivaletti rossi belli imbottiti e quello che aveva tutta l’aria di essere un costumino da bagno in spandex nero con fibbia verde. In testa gli si avvitò, come ciliegina sulla torta, una parrucca composta di due sole punte di capelli tirate a lucido. L’attire di Tetsuwan Atom aveva un aspetto a dir poco ridicolo su uno come lui.

–Ah, questo deve essere stato davvero dispendioso da creare, vero?– Sputò acido nell'allungarsi il cinturino elastico e farlo schioccare a posto sul fianco.

–Beh, onestamente sì– Si accasciò ad un albero la ragazzina per riprendere fiato –Devi scusarmi se non sei contento, sto facendo del mio meglio, ma non sono abituata a trattare dei modelli adulti.

–Eccallà!– Chiuse le mani in preghiera, sfregandosi uno stivaletto contro l’altro e generando uno stridore di morbida gomma –Proprio non ti viene in mente un singolo abito che dia un senso di maturità e, perché no, si adatti al mio spirito guerriero?

–Maturità e spirito guerriero…– Ripetè, toccandosi il labbro con la bacchetta, Chappy. Infine schioccò le dita, scattò in piedi e saltellò intorno un punto specifico, agitando lo strumento come un incensiere, recitando a pieni polmoni –Abura Mahariku Maharita Kabura!

Un altro lampo all’interno del cerchio della sua danza sfrenata ed ecco apparire l’ultimo abito, dritto come già indossato da un fantasma, dal contorno decisamente maturo e guerriero, ma non come Cladzky si aspettava. L’uniforme di Sailor Mercury se ne stava in piedi nel prato. Chappy si lasciò cadere a terra per riposare, mentre il pilota balzò giù dal ceppo per correre il più lontano possibile, sperando che, svenuta la padrona, la magia non proseguisse. Speranza vana. Alle sue spalle sentì calpestare il terreno e, voltandosi un attimo, vide il completo alla marinara tallonarlo con passo da centometrista. Aumentò i giri del motore, solo per rendersi conto di star muovendosi sul posto. L’uniforme aveva lanciato uno dei suoi guanti come un pungo a razzo che manco Mazinga e lo aveva trattenuto per il costume in spandex, prima di tirare un poco più forte e trascinarlo indietro per il prato fino a ricongiungersi a un braccio che non c’era, tirandosi dietro, nella posizione più scomoda possibile, la preda. Presolo, tornò indietro alla padroncina, issandoselo sulla spalla, riverso sulla sua schiena di faccia, tenendolo con una mano per le gambe, mentre con l’altra gli abbassava il costumino e deliberava un’innocua sculacciata col palmo di raso, come premio per aver tentato la fuga. Arrivati al ceppo, riprese il consueto cambiamento. Quando la maghetta rinsavì, vide il ragazzo in cima al fusto reciso, decorato dell’uniforme della guardiana azzurra di Mercurio, livido in viso e con le guance che trattenevano il fiato per non urlare. Vari cosmetici, inclusi nell’incantesimo del cosplay perfetto, si agitavano di vita propria, lavorandolo per rendere il viso meno un pugno nei denti.

–Lo dicevo che era la scelta giusta– Saltellò gioiosa come il piumino che gli incipriava il viso –Stai così bene, sei il modello perfetto!

–Sto proprio una favola– Mormorò, non volendo più rischiare la sorte, mentre un nebulizzatore a pompetta lo cospargeva di essenza di lavanda, costretto ad abbassarsi in avanti sotto un pettine troppo insistente, esponendo così, dall’altro capo, un timido sederino arrossato, come il blush che gli veniva applicato sulle guance.


***


Si allontanò senza calorosi ringraziamenti, dopo essersi infilato comodamente tutti gli altri capi d’abbigliamento in tasca. Fu tentato di togliersi quell’uniforme di dosso, ma aveva la necessità di mutare il proprio aspetto in continuazione per rendersi irrintracciabile, così come era tentato di struccarsi a furia di spellarsi la faccia con le unghie, ma quantomeno doveva ammettere che quello strato di cosmetici era un così solido lavoro che quasi sembrava un’altra persona. Inoltre, l’unica cosa peggiore del lucidalabbra azzurro era un lucidalabbra azzurro rovinato. Continuò a seguire il perimetro del muro, ma senza trovare la suddetta scala. Lo sapeva che sarebbe dovuto andare a sinistra invece che destra. Ma perché tornare indietro a questo punto? La villa si trovava giusto a dieci metri da lui, perché fare chilometri per una stupida scala? Si sfregò le mani e indietreggiò dal muro per prendere la rincorsa, si spinse in avanti e si attaccò alle scanalature delle pietre come un geco. Scalare il terrapieno conciato così non era proprio l’ideale e cominciò a pentirsi di non aver accettato quell’armatura pesante da Kamen Rider, piuttosto che arrendersi dopo quattro tentativi falliti, ma ora era tardi per tornare indietro e dire che ci aveva ripensato, no? Dunque proseguì la salita, una rientranza a zoccolo di gnu alla volta e imprimendo tutta la forza che poteva nei polpastrelli.

–Sembri in difficoltà– Attirò la sua attenzione una voce femminile a metà strada e relativo picchiettio sulla spalla.

–Ah, dite così perché non mi avete visto prima– Replicò senza pensare, per poi voltarsi. Un viso d’angelo lo fiancheggiava, corniciato di capelli bruni. Occhi neri ma brillanti si riflettevano nei suoi. Cladzky trasalì, perdendo la presa sulla pietra umida e pronto a farsi cinque metri in caduta libera. Invece, rapida a spostarsi, la figura si portò sotto di lui, prendendolo fra le braccia e accompagnandolo nella discesa. Il ragazzo sbatté le palpebre, mani cinte al petto, mentre la donna atterrava dolcemente. Incrociarono lo sguardo –Voli?

–Sono un robot– Inclinò il capo, coronato di un berretto bianco da crocerossina.

–Ah beh, stupido io che l’ho chiesto, immagino– La squadrò il pilota dalla testa ai piedi, prima nel suo vestito rosato da infermiera fuori moda e poi nell’altezza considerevole –Che ne dici di mettermi giù?

–Ma sei tutta un livido, povera piccola– Strofinò la fronte contro la sua, stringendoselo più vicino.

–Ho visto giorni migliori, ma posso sopravvivere– Sospirò, più a constatare la sua miseria che a risponderle, per poi voltare la faccia, disturbato –E non chiamarmi “piccola”.

–Oh, vogliamo fare i grandi– Gli pizzicò la guancia con una mano guantata di bianco, tenendolo con un braccio solo, cinto ad anello su schiena e cosce –Ma non vuol dire che io possa permetterti di andare in giro così malconcia.

–Guarda, non è quello il problema, razza di stereotipo misogino dell’era atomica…– Cercò di gridargli contro, prima di ritrovarsi con le labbra tinte di azzurro chiuse delicatamente fra un pollice e un indice, costringendolo a mugugnare il resto degli insulti.

–A-ah, non fare i capricci– Schioccò la lingua e scosse la testa, guardandolo con riprovazione. Tornò a sorridere e lo solleticò sotto il mento con il mignolo della mano stessa –Io non sono uno stereotipo misogino, sono l’unità di supporto Lili, del Reparto Rainbow Robin.

“Uno più intelligente dell’altro in questo cimitero” Cladzky schiaffeggiò via quella mano invasiva, piantando un proprio dito in mezzo agli occhi di Lili, parlandole a versi scanditi a tre centimetri dal visino affilato dell’automa.

–Molto piacere, ma non ho bisogno di supporto, tantomeno del tuo. Ho impegni a cui attendere– E gli bussò sulla cima del capo, che risuonò di plastica rigida, a dimostrare di star parlando a una testa vuota. Disincastrò il bacino dalla cinta del suo braccio destro con un rumore di stappo e saltò giù dall’alta figura materna, solo per essere ripreso al volo e penzolare a testa in giù, trattenuto per l’orlo della gonna con poco sforzo, con il collare da marinaretta cadente sulla nuca e il fiocco, legatogli davanti, che lo seguiva, coprendo l’espressione del ragazzo nei nastrini –Lasciami andare o ti denuncio per operare senza consenso del paziente!

–Il consenso informato non si applica se le condizioni del paziente sono reputate gravi– Puntualizzò lei, tenendo il braccio disteso, di modo da tenerlo abbastanza lontano che il suo prevedibile pugno andasse a vuoto, trascinandolo per inerzia a girare sull’asse come un kebab. Questo offrì a Lili la possibilità di studiarlo superficialmente da ogni angolazione. Con il cervello ancora a soqquadro per la scatola cranica, Cladzky fu di nuovo preso in braccio e date leggere pacche sulla schiena –Su, ora vediamo di farti star meglio.

–Tanto peggio di così non puoi ridurmi– Bofonchiò ignaro.

Lili si sedette sugli scalini di una fontana dalle acque violette, illuminate sul fondo da un circolo di luci. Lì, si poggiò il paziente sulle ginocchia, tenendo dritto il suo busto smorto stringendolo a sé con il braccio destro, mentre la mano sinistra andava a prenderlo per il mento e girargli il viso sotto le sue fotocellule preoccupate –Puoi stendere tutto il fondotinta che vuoi, ma quell’ematoma sotto lo zigomo non può sfuggire ai miei sensori.

–Ah, quello– Borbottò distrattamente il ragazzo, con il volto reclinato nel palmo di lei –Credo sia stato un minotauro a farmelo, per una questione di pantaloni. Dio, come mi piacerebbe indossare dei pantaloni.

–E questa tumefazione sopra il ciglio destro?– Il palmo di lei si spostò dalla sua funzione di cuscinetto, portando le dita sulla cima dei capelli tinti d’azzurro, ruotando il cranio come desiderava.

–Il bernoccolo?– Sospirò, guardando altrove –Quello era il suo collega grifone come ringraziamento per aver pregato insieme.

–E questa gengiva gonfia?– Gli alzò il labbro senza troppi complimenti.

–Sarà successo quando mi sono spaccato i denti sul volante del mio TFO, schiantandomi in una serra gestita da un vecchio poco “neo” ma molto “fascista”– Cercò di divincolarsi da quella stretta che gli bloccava le braccia lungo i fianchi, ma non c’era nulla da fare contro una macchina se non continuare a lamentarsi –E smettila di smanacciare dappertutto, mi rovini il trucco.

–Per quanto ne so devono averti passato con la resina alchidica, perché questa roba non si toglie neanche a prenderti a schiaffi– Ritirò lei la mano, mostrando il tessuto bianco neve, immacolato come prima.

–Qualcuno me li dia per davvero, voglio svegliarmi– Roteò le pupille dietro le palpebre dall’esasperazione. Non ebbe il tempo di autocommiserarsi che, la delicata appendice di lei, costrinse con due digiti a schiudere l’iride dal velo carnoso, costringendolo a fissarla dritto negli occhi d’inchiostro di lei, curvatasi sopra. Una luce da lampada scialitica nascose tutto alla vista, e gli ci volle un po’ per capire che quella torcia elettrica altro non era che una funzione del circuito ottico di Lili, dalle cornee trasformate in fanali. Se era sveglio questa visione era più perturbante di ogni incubo.

–Reazione della pupilla lenta, sclera arrossata, per non parlare delle occhiaie che ti ritrovi– Lo analizzò in ogni capillare irritato, per poi ripetere con l’altro organo fratello. Spense i riflettori proprio quando stava per farlo lacrimare –Devi stare più attenta a rispettare le ore di sonno che il tuo corpo richiede.

–Vedo solo puntini– Piagnucolò lui, strizzando gli occhi –Morte, se sei tu, coglimi.

–Oh, non dire così, ora facciamo un gioco– Gli divaricò le dita davanti al viso, fino a che non fu in grado di distinguerle nitidamente –Ho qualcosa in mano?

–N-no?– Alzò il sopracciglio sormontato dalla tumefazione.

–E invece…– Con un rapido gesto, gli apparve un tampone di cotone nel palmo.

–No!– Forzò contro il braccio destro di lei, disperato.

–Ti sbagli, c’è– Lo corresse ridendo, pronta a imboccarlo, ma lui serrò le labbra. Tiratasi indietro un momento ritentò, quasi stesse facendo l’aeroplanino con un cucchiaio –Avanti, dii “Ah”.

–Non ti azzardare a ficcarmi oggetti nell’esofago– Digrignò sotto i denti, stringendo le sue futili nocche –Esigo, per la seconda legge della robotica, che tu mi lasci andare, recalcitrante residuo retrofuturistico, altrimenti…

Ma non disse oltre che si sentì afferrare per il naso, tagliandogli ogni via di respirazione. Non era la mano sinistra, ancora che stringeva il tampone, né la destra, che ancora stringeva lui come una spira; un terzo arto si era aggiunto, scivolando da uno scompartimento del suo fianco. Costretto ad aprire la bocca, lesta, scattò la sinistra a puntellare il cotone sulla sua lingua.

–Non hai un’ulcera, è l’unica cosa positiva che posso dirti– Aggrottò lei la fronte, avvicinando gli occhi al muscolo, inchiodato dallo strumento, che si arricciava come un animale in trappola, sostanzialmente riflettendo l’emozione del ragazzo –Guarda com’è secca. Sei completamente disidratata, poverina. Non avrai bevuto nulla da ore.

“Proprio nulla non direi” Considerò lui nel contare le volte che era caduto in acqua, ma in effetti non era ancora riuscito ad approfittare del buffet da quando era atterrato ore fa. L’ultimo sorso decente era stata quella leggera tisana al narcotico, ma non bastava certo per una serata tanto movimentata che l’aveva bruciato.

–A giudicare dalla ruvidezza del tessuto sei in deficit di vitamine– Si batté il palato in ammonimento maternalistico, scuotendo il capo –Qua bisogna correggere l’alimentazione d’ora in avanti.

Non gliel’aveva detto anche Mark, da un sacco di tempo anche? E lui si era sempre ripromesso di farlo quando si sarebbe sentito meno depresso. Sorprendentemente non lo fece mai. Sembrava di aver a che fare nuovamente con lui, con la differenza che non aveva scelta ora.

–Sembra che qualcuna si sia dimenticata di lavarsi i denti di recente– Sollevò un paio di volte le sopracciglia con un sorriso da volpe.

Incredibile, ci aveva scherzato su per anni, ma doveva ricredersi: Altro che Mark, ora sì che poteva dire di avere a che fare con un robot che si comportava come una mamma nei suoi riguardi. Ogni suo pensiero fu interrotto dalla testolina in cotone che gli grattava contro la parete della gola, dandogli un sentore di soffocamento, facendogli impazzire l’epiglottide. Lili rimosse il tampone giusto quando Cladzky sentiva di ingoiarlo, tossendo di liberazione.

–Vacci piano con…– Tentò di dire, ora che la terza mano gli aveva mollato il setto nasale, ma il tempo di far sparire il bastoncino chissà dove, che subito la sinistra gli portò alle labbra un bicchiere d’acqua minerale, forzandolo a buttare giù tutto, pastiglie di integratori comprese.

–Vacci piano tu, è una fortuna che ti reggi ancora in piedi– Lo rimbrottò Lili, aumentando gradualmente l’inclinazione del cristallo, fino a far sparire l’ultima goccia. Muovendolo un poco per assicurarsi che fosse vuoto, lo ripose dove lo aveva preso, mentre lui si accasciò contro di lei, più gonfio di prima, ma quantomeno con le tonsille non più desertificate.

–Questa situazione è ridicola, io non sono…– Fu interrotto da un singhiozzo, seguito da un attimo di interdizione. Riprovò, solo per lasciarsene scappare un altro più acuto. Sentì presto degli amorevoli colpetti sulla schiena.

–Da brava, respira, non bere così in fretta– Gli istruì lei, sussurrandogli nell’orecchio.

–Stavo dicendo…– Ripetè quanto voleva dire, ma neppure concluse la frase che bastò l’improvviso inserimento della punta ferrosa di un termometro a fargli capire l’andazzo.

–Ricorda di tenerlo sotto la lingua– Gli agitò l’indice della sinistra con fare perentorio, mentre il terzo arto poggiava il palmo vellutato sopra la sua fronte –Anche se non ci vuole molto a capire che hai la febbre.

–Che ci vuoi fare, sono sempre stato una testa calda– Si lasciò sfuggire, sovrappensiero, lo strumento di bocca nel pronunciare la freddura, colto al volo e rinfilatogli a posto da Lili.

–Non ti sforzare a fare battute– Gli diede dei buffetti, seguiti da una carezza –Ora stai buona e aspettiamo che suoni.

“Tempo di aggiungere il sostantivo ‘pediatra’ alla lista delle mie professioni disprezzate” Meditò, scurendo il viso sotto i muscoli contratti delle sopracciglia. Lili cinse anche il braccio sinistro intorno a lui per tenerlo più stretto e lo cullò, canticchiando una ninna-nanna tradizionale di Edo. Non potendo sgusciare via, si lasciò andare a peso morto, con il mento di Lili poggiato sulla cima della sua testa, ad annusare la pelle sintetica del suo collo da bambola.

Nen, nen korori yo, Okorori yo.

Bōya wa yoi koda, Nenneshina~

In effetti poco ci mancava che si addormentasse davvero, con il petto di lei come cuscino e le sue braccia, guantate di bianco, avvolte a guisa di coperta, seduto sulle sue soffici cosce, velate dal vestito di morbida fattura. L’articolazione destra ausiliaria andava a passargli, leggera, i capelli, mentre un quarto arto, sinistro per questioni di simmetria, apparve a reggergli il termometro, ch’era di lì dallo scivolargli ancora di bocca. Era sempre più difficile staccare le ciglia fra un battito e l’altro.

Bōya no omori wa, Doko e itta?

Ano yama koete, sato e itta.

Le palpebre cominciarono a farsi pesanti e abbassò le spalle, così tese fino ad allora, esalando un sospiro che gli rimbalzò contro, premuto com’era contro quel seno, su cui strusciò la guancia. Le nocche sciolsero i loro pugni, mentre le gambe si fecero meno rigide, con le punte dei piedi volte al basso. Il suo corpo, ch’era tutto un broglio di nervi elettrici, si distese e gli occhi gli si chiusero del tutto. Era questo caldo buio il sonno? Non lo provava da molto tempo. Prima era stato drogato da Mark0 e un’altra volta aveva sbattuto troppo forte contro la superficie piatta di un lago, ma adesso stava provando un riposo del tutto volontario e piacevole. Anche quella voce, che lo assillava dicendogli che non poteva permettersi di dormire quella notte, si era spenta. Dopotutto, che senso aveva ora la sua aspra vendetta quando era così bello restare abbarbicati in sì caloroso nido? Dimenticò in breve di essere un adulto e ogni responsabilità a cui il mondo si aspettava adempisse, rimanendosene lì a farsi carezzare la testolina e a succhiare lo strumento disinfettato come un ciuccio.

Sato no miyagē ni, nani morōta

Denden taiko ni, shō no fue.

–Oh, abbiamo finito!

Cladzky riaprì gli occhi ancora con mezzo emisfero addormentato. L’abbraccio si fece meno restrittivo e gli venne estratto il termometro da sotto la lingua. Lili rimuginò, osservandone il risultato, reggendolo nella prima mano sinistra, mentre la seconda aveva ritirato fuori il tampone.

–Davvero?– Chiese poco attento.

–Non risultano infezioni batteriche nella faringe, nè noto sintomi di altre malattie al momento, ma questo non toglie il fatto che scotti. Se giocassi a tirare un'ipotesi, direi che si tratta di una febbre psicogena.

–Quindi è un no– Fece una smorfia il ragazzo, quasi divertito a quella perdita di tempo, poi odorò aria di insulto –Aspetta, stai dicendo che sono uno psicolabile o cosa?

–No, stupidina– Gli premette un dito sulla punta del naso, facendogli incrociare lo sguardo, per poi alzarlo di colpo, in un’adorabile schicchera, per indurlo a stare attento –Significa che ti sei talmente stressata da indurre il tuo corpo a credere che il dolore sia fisico e attivare il sistema immunitario per nulla.

–Cioè, sto male ma per finta?– S’imbronciò –E tutte le botte che ho preso, allora?

–Quello è un altro discorso, che approfondiremo adesso– E senza complimenti gli sollevò il vestito da guardiana fino al petto, mostrando un corpo irrigidito dal terrore, nudo sotto il costume, eccezion fatta per un paio di mutandine, con fiocchetto azzurrino frontale, fin troppo strette.

–Ehi, che vuoi fare, non è roba tua!– Tutta la stanchezza gli passò di colpo e tornò a scuotersi, ma senza riuscire a fare altro che stringere il podice e fremere come una foglia, spiegazzando la rosea divisa di Lili, sopra cui era costretto a sedere –Lo sapevo che ci scappava un’altra molestia.

–Calma, non c’è ragione di allarmarsi– Gli lisciò il dito, di una mano di troppo, lungo il petto, con movimento erratico. Alla leggerezza del raso, gli venne la pelle d’oca e si morse le labbra, ma, quando il tocco giunse sotto le reni, non poté fare a meno che lasciarsi scappare un pigolio in falsetto. Lili si coprì un risolino con la quarta e unica mano disimpegnata. –Il tuo cuoricino batte così forte pure da seduta.

–E vorrei ben vedere– Tentò di abbandonare il tono da voce bianca –Sono stato rapito da un folle, feticistico frigorifero, figlio di…

Ma  la quarta mano venne impegnata presto, tappandogli la bocca, aderendo come carta moschicida, e tirandogli dietro il collo, costringendolo ad allungare la schiena.

–Su, stai dritta, più sciolta– Lo manovrava lei, con ambo le braccia destre, fino a ottenere la postura desiderata, nonostante ogni suo divincolo; poi, la stessa che lo solleticava sfiorandolo, si poggiò decisa sul suo petto palpitante –Ora, per favore, fai un bel respiro.

“Favore” lo chiamava lei, come se potesse rifiutarsi. Ma che stava facendo poi, auscultava senza stetoscopio? Dopotutto aveva già dimostrato di essere un robot fuori dal normale, figurarsi se non ce l’aveva incorporato sotto il palmo. Decise allora, vista la situazione, di collaborare e buttare fuori ogni suo senso di impotenza in un’espirazione profonda e amareggiata. Ripeterono l’operazione un altro paio di volte in punti diversi, prima che Lili rimuovesse quell’aria pensosa dalla faccia e la mano dalla bocca di lui, congiungendola, in un piccolo plauso di soddisfazione, con la sua ausiliaria specchiata.

–Bravissima, abbiamo quasi finito– Cinguettò lei, ma lui si fidò poco, non vedendole mollare il vestito. Le calò un occhio, dilatato dalla sorpresa, sotto il diaframma, dove portò due dita a massaggiare la zona, scurita da un altro livido. Cladzky fu percosso da scosse di conato, estinte in fretta, per fortuna. Alla reazione, subito le ritrasse –Perdonami, ti fa ancora molto male?

–Eh, i calci di tacco si fanno sentire a lungo– Sbuffò, ripensando a Kishin ancora sulle sue tracce e più ferale di prima.

–Anche questo lo è?– Gli giunse la domanda e anche una scossa dei nervi dal costato.

–Ahia!– Trasalì, nel sentirsi toccare il segno lasciato da Aswin –Da cosa lo intuisci?

–C’è la serigrafia della marca sulla pelle– Si sbigottì lei stessa del bassorilievo a caratteri rossi, per poi poggiare un pugno sul proprio fianco e un altro ad agitargli l’indice davanti il naso, a mo’ di metronomo –Insomma, possibile che una bambina carina come te debba sempre giocare a fare la lotta? Che razza di amici frequenti?

–Vuoi capirlo, per una buona volta, che io non sono una maledetta…– Si sentì cadere all’indietro, non più retto dalla stretta dell’androide alle spalle, finendo con le gambe all’aria, pronto a cadere di testa dal suo grembo, solo per fermarsi di nuovo, appoggiando la nuca nell’interno gomito di Lili, dove il guanto bianco neve bordava nella morbida pelle artificiale. Le gambe, alzate per la sorpresa nella compressione dell’addome, scesero di nuovo, o meglio, solo una lo fece. L’altra poggiò i polpacci sopra un palmo aperto ad accoglierla. Lili se ne stava lì, a soppesare l’arto inferiore e sistemandosi il berretto da infermiera, scivolato fra un cenno analitico e l’altro, mentre mirava, mugugnando, un taglio poco sopra lo stivaletto.

–E questo?– Andò a scoprire la ferita, abbassando il bordo della calzatura, rivelando del sangue rappreso che era calato fino al piede.

–Quello?– Stralunò un momento nel constatare come la ferita, mezza cicatrizzata, fosse più grande di quanto non pensasse. Quando aveva sbattuto sulla lanterna era troppo buio e dopo aveva trascurato di controllare come stesse la gamba, considerandola una cosa da poco, ma in effetti era un bello sbrego –Sono inciampato.

–Inciampata?– Si pose l’indice alla guancia –Sicura di non esserti azzuffata ancora?

–Certo, ignora pure quello che dico come hai fatto dall’inizio di questo sequestro– Incrociò le braccia.

–Come sei drammatica– Gli rise in faccia, letteralmente, perché se lo ravvicinò abbastanza da strofinare il proprio naso con quello di lui, congelandolo in un istante di imbarazzo e, prima che potesse reagire, lei si alzò in piedi, sempre con lui in braccio. Si voltò dall’altra parte, a fronteggiare la fontana, e lo poggiò dolcemente sul bordo di pietra, riuscendo finalmente ad essere sullo stesso livello degli occhi neri e stellati di lei –Ma so io cosa ti ci vuole.

–Barbiturici se andiamo avanti così– Le sue mani mollarono la presa, ma lui non provò neppure a scappare, già sapendo che non sarebbe servito, ma non potè fare a meno di pentirsene un poco quando tornarono a ghermire il suo costume, lasciandole fare inizialmente, pur di farla finita in fretta, ma stavolta non si limitarono ad alzarlo, bensì, due ne sciolsero il collare mentre l’altro paio glielo sfilava di netto. Rimasto con solo indosso slip e accessori, si coprì il petto con le braccia, mettendo più peso su una gamba che l’altra, torcendo il busto via da lei e, osservandola da dietro la spalla, piegare per bene l’uniforme in un quadrato e poggiarla. Finito, tornò a lui, che azzardò ad arretrare di un passo, non realizzando quanto vicino fosse al bordo e quasi cascando all’indietro, se non fosse stato trattenuto per i polsi. Rimasto a guardare la superficie dell’acqua troppo piatta per essere rovinata, si girò giusto per vedere quel ginoide esapoda che, prese le mani nelle sue, con le altre due gli sfilava la tiara dorata dal capo, premurosa quasi fosse una bambina di vetro –Anche questo fa parte dei tuoi esami?

–Beh, non posso certo operare una paziente sporca– Rispose Lili, poggiando la tiara sul quadrato e già con le dita a slegare la fascetta sul collo

–Operare?– Sgranò gli occhi, sentendo la pressione sulla gola andarsene insieme al girocollo –Sporco?

–Oh, un’operazione da nulla, non ti spaventare– Posò la fascetta, piegando anch’essa con rigore, e passò a sfilargli gli stivaletti lucidi, senza mai mollare le sue mani al contempo.

–Sì, ma– Si genuflesse un poco nel togliersi il primo per il contraccolpo e poggiare di nuovo la pianta nuda su un terreno così duro com’era quel marmo –Cosa intendi con sporco?

–Che hai bisogno di un bagnetto– Il suo contatto visivo era magnetico, oltre che d’argento, quasi elettrico, che neppure si rese conto di avere perso anche il secondo, poggiato più in là insieme al mucchio, e già con i pollici di Lili infilati fra la carne dei fianchi e l’orlo delle mutandine, presto calate a sfregare lungo le gambe tremanti.

–Avanti, non dirai sul serio, io non posso…– Perdette un momento l’equilibrio quando gli furono portate via dalle caviglie. Riprese, livido nelle gote –Non può essere vero.

–E perché no?– Chiese candidamente Lili, mostrandogliele mentre piegava quella biancheria infiocchettata davanti a lei e la metteva da parte.

–Ci sono dei limiti a quello che puoi fare.

–Io sono l’unità di supporto Lili– Si chiuse le mani ausiliarie a conchiglia e vi coricò sopra con lo zigomo, sbattendo le ciglia –Posso fare di tutto pur di farti star bene

–Intendo dire a quello che posso permetterti di fare– Biascicò lui, incapace di spicciarsi da quella doppia stretta di mano. Si piantò sui talloni e alzò il mento –Posso farlo da solo, non è un problema.

–Oh, piccola bugiarda– Gli prese il naso e lo agitò come un sonaglino –Perché non lo hai fatto prima di ridurti in queste condizioni allora?

Gli passò un dito su per lo stomaco fino ad alzarglielo davanti gli occhi e mostrare uno strato terroso coprire quel bianco neve della sua appendice. Certo, era tutta roba che aveva accumulato, insieme al sangue rappreso, nei suoi capitomboli. Sfregò indice e pollice per rimuovere la polvere e gli afferrò le braccia, poco sotto la spalla, mentre l’altro paio mollava la stretta.

–Non puoi farmi questo– Cominciò a singhiozzare nella voce, arrossendo non di semplice imbarazzo ormai, con il collo venato –Non è più divertente.

–Divertente?– Acuì il tono, con fare da moina e iniziando a sfilare ogni dito dei suoi guanti, dall’esterno all’interno –Alle volte è la cura a sembrare più amara, ma vedrai che alla fine del processo ti sentirai rinato.

–Lo sai che non intendo questo– Cercò di trovare una scintilla di sincerità negli occhi di Lili, così maliziosi nell’espressione contratta, ma del tutto vaga nei pensieri –Non di nuovo… Non puoi umiliarmi così.

–”Umiliarti”– Si ritrasse lei, mentre le sue mani gli risalivano i gomiti, sfiorando le pieghe bianche dell’unico tessuto rimasto –Non dire sciocchezze, zuccherino, non devi vergognarti di te stessa.

–Ma…– Borbottò lui, col groppo in gola, il respiro affannato e già una lacrima salata di polvere che scivolava dalle ciglia –Loro…

–Loro chi? Chi vuoi che ti veda a parte me? Non c’è nessuno ad umiliarti qui.

–Tutti– Fu l’unica cosa che riuscì a dire prima di scoppiare a piangere senza ritegno, in piedi sul posto, ginocchia deboli che si toccavano e le braccia, ora nude come il resto, a penzolare sui fianchi, dita appena scattanti di tendini confusi, un torace che si scavava da quanta aria usciva dal corpo, il viso contratto in una maschera dagli occhi arrossati e la bocca semiaperta in iperventilazione, in cui scivolavano torrenti di sale; ma tutto sommato più quieto di quello scorso.

–Quindi li vedi anche tu– Si poggiò il mento sul polso di un pugno chiuso, palpebre leggermente abbassate, meditabonda. Lili strizzò gli occhi e concentrò l’udito fino a escludere tutto per sentire solo l’ansimante singulto del ragazzo. Li riaprì, più convinta di prima, e gli poggiò appena le mani sulle spalle –Piangi pure, ora puliamo il tuo bel faccino.

Non ebbe risposta e neppure uno sguardo, dunque se lo avvicinò, senza forza, appena tirandolo, in un abbraccio che lui ricambiò istintivamente, gettandole le braccia al collo e cadendo in avanti su di lei, unica cosa a reggerlo, bagnandole la spalla nello stropicciarle gli occhi addosso per nascondere il viso rigato. Era il secondo cedimento di nervi che ebbe quella notte, tanto disperato da accettare conforto anche da un così ameno simulacro di consolazione umana. Lili ricambiò, passandogli una mano a giocherellare coi suoi capelli e un’altra a reggerlo sotto il bacino, per allievare il peso dalle gambe ingracilite, solcando avanti e indietro, con il pollice, lungo la curva del gluteo. Intanto, lei già sbirciava oltre i ciuffi azzurri di quella testolina, sopra cui poggiava il naso quasi ad annusarli, per sommergere, con un’ausiliaria mancina, un dito nell’acqua. Dal campionamento sembrava essere ben filtrata. Sorridendo, lo sollevò, retto con il solo palmo sinistro, a fargli da sedile sotto le natiche, e il destro sulle scapole.

–Forse l’acqua è ancora troppo fredda per te– Considerò Lili, prima di alzare le dita di una terza mano e chiudere gli occhi in un’espressione divertita, mentre gli mostrava quei digiti smontarsi per meccanismi interni e ricomporsi come piccole canne di fucile. Un vampo da fiamma ossidrica esplose bianca, prima di stabilizzarsi verso l’alto a punteruolo e cambiare colore, scendendo dal blu al rosso. Il ragazzo smise di piangere per un momento. Con naturalezza mondana, Lili abbassò la lancia termica fino a radere l’acqua e sommergerla del tutto, alzando una forte condensa, ma incapace di mutare la fiamma che brillava violetta sotto quell’ebollizione, deformata dal vetro smerigliato che era diventata la superficie in continuo rigurgito –Quarantadue gradi precisi dovrebbero bastare.

Concluso il lavoro nel piccolo bacino della fontana, estinse le dita e si limitò a mulinare l’acqua con il braccio, per poi ritirarlo fuori, non zuppo, ma coperto di perline trasparenti che si scrollò di dosso con un solo gesto, mostrando un arto che non sembrava neppure essere stato immerso, con il tessuto dei vestiti non appesantito, né incollato alla pelle.

–Non preoccuparti– Si sedette, in ginocchio, sul bordo della fontana –Sono fatta di materiale idrofobo

“E chi si preoccupa?” Pensò il ragazzo mentre veniva calato in quello che fino a pochi secondi fa era un pentolone bollente. Immaginando, già dalla condensa che saliva a lui, una temperatura eccessiva, tentò di sollevarsi, ma non aveva terreno solido e riuscì solo a ritardare il primo contatto fra la superficie e il piccolo, rotondo principio delle sue gambe. Al bruciore improvviso e pungente, sollevò il bacino con colpo di reni, stringendo i denti –S-scotta, maledizione!

–Non scotta, sei solo sorpresa da quanto sia calda– Lili se lo rigirò di colpo, passandogli sotto il petto con un braccio, a pancia in giù sulle sue ginocchia, massaggiandogli la zona interessata con un palmo che, per contrasto, appariva gelido. Per la sensazione spiacevole, lui non potè fare altro che stringere la gonna di Lili fra le dita. Con un giocoso schiaffetto finale sulla superficie ammortizzata, che riattivò, più forte, la circolazione, ripetè quanto prima, tenendolo da sotto le braccia stavolta –Proviamo con una discesa più graduale stavolta, va meglio?

Non certo più propenso, temendo ancora la superficie, il giovane si chiuse al petto le ginocchia e s’intrecciò le braccia dietro di esse, ma così facendo finì solo per ripetere il contatto precedente nel medesimo punto offeso. Stavolta venne immerso senz’alcuna recalcitranza, finché fu seduto sul fondo piastrellato e l’acqua gli lambiva la base del collo. Se Lili aveva ragione, la sensazione di ustione alla cute doveva solo essere la sorpresa per lo sbalzo di temperatura, ma non diminuì il fastidio iniziale.

–Cerca di rilassarti, non pensare a nulla, ci sei solo tu ora– Lo lasciò poggiare con la schiena al bordo smaltato della fontana, andando con le mani a inciotolare un’oncia d’acqua e zampillandola sulla cima della testa, ammutolendo ogni suo lamento. Quando finì di versare, lui boccheggiò per un momento, prima di scivolare giù, immergendosi fino al naso e stringendosi a riccio sott’acqua, chiudendo gli occhi, senza strizzarli, nel tentativo di seguire il suo consiglio. Lacrime, non più calde comparate a dove si trovava ora, si confondevano nel liquido clorizzato, così come il suo singulto affannoso veniva soffocato in bollicine. I pollici di Lili si posero davanti le sue orecchie e il resto delle dita sulla nuca, staccandogli il retro del cranio dalla parete interna e lasciandololo scivolare in avanti, quasi sdraiato, finendo con tutto il volto appena sotto il pelo dell’acqua che infrangeva prima col mento per poi invadergli le narici e le orbite. La spinta s’interruppe, trattenuto da quelle mani che si intrecciavano sul suo occipite, e cadde dalla sua posizione orizzontale. In quegli attimi senza respiro, con i padiglioni auricolari invasi dall’acqua e la mente che galleggiava come il corpo, notò qualcosa. Non sentiva più il tocco del raso in quelle dita che gli premevano le ossa parietali, ma un materiale, sintetico certo, eppure sembrava pelle, liscia come ceramica. Atterrò non più sopra le piastrelle, ma in mezzo a un paio di cosce familiari per l’impressione che si era fatto di esse sotto una gonna rosa, ora assente. Le mani gli mollarono le tempie, di modo che potesse riaffiorare con il viso fuori dall’acqua, sputacchiò un poco e si adagiò con la schiena contro di lei, non più stirando un vestito, ma affondando in un petto carnoso. Le gambe giacquero su quelle di Lili, già mezze piegate e dalle caviglie in nodo, stringendo quelle di lui nel mezzo, leggermente sollevate. Coricato com’era, chiuse una mano sull’altra e le infilò sotto il proprio inguine, stringendo le cosce sui polsi, affossando la testa fra le spalle, in un atteggiamento di piccolezza, acuito dal calare di quelle lunghe braccia su di lui, sovrapposte sul suo petto e a stringendogli le spalle, saldandolo a sé. Sbirciò con la coda dell’occhio, senza osare girare il capo, che venne subito fiancheggiato dalla faccia di Lili, poggiata con la la fronte al suo sopracciglio. Gli sussurrò nuovamente all’orecchio, con voce più languida –Non lasciarti impensierire dagli dei esterni, fintanto che sarai felice. Non possono fare altro che guardare e allora cosa ti importa della loro opinione? Se gli piaci resteranno, altrimenti ti ignoreranno, ma non possono farti nulla in ogni caso, è come se non esistessero.

Smise di piangere e rimasero così per un po’. Prima che l’acqua potesse raffreddarsi, due flussi caldi s’immisero da due lati, frutto del paio ausiliario degli arti di Lili, trasformati in due lance termiche e ritirate a lavoro finito. Guancia a guancia con lei, chiuse nuovamente gli occhi, mento sul petto. Non si sentiva male, era vero che bastava abituarsi alla temperatura. Stava tornando quella strana sensazione di prima, di affondare, non solo nel grembo di Lili, ma anche mentalmente. Quel calore che sentiva non era solo l’acqua e quell’abbraccio non era solo una stretta, ma era la soddisfazione di un bisogno. Quale?

–Sei un po’ pallida– Notò Lili.

–Con tutte quelle radiazioni solari, nello spazio è sconsigliato abbronzarsi– Ripetette a memoria un consiglio letto in qualche guida galattica per autostoppisti. Spazio, ovvero la dimostrazione della rarità della vita, dell’appiattimento della prospettiva, un manto nero di perle vicine che, srotolato, mostra un acquario e come tutti questi è composto in buona parte da vuoto. Quanti lunghi viaggi fatti di consegne, spedizioni, avanscoperte per conto di terzi, fra un pianeta e l’altro, fatti di giorni neri fuori dalla carlinga e grigi dentro, intermezzati da visite su abbandonate isole che, per quanto lunghe, sempre sarebbero state ricordate in pochi attimi, durante il prossimo, nero viaggio. Sarebbe impazzito se non ci fosse stato anche Mark con lui, benedetto computer, ma sempre un computer rimaneva, essenziale per il TFO, quindi per lui, ma rimanendo una voce incorporea che usciva dalle casse audio, un fantasma che spremeva le meningi facendo vibrare le ventole di raffreddamento, che si mostrava servizievole espellendo una tazzina di tè ben zuccherata dallo sportello del bollitore elettrico, un socio con cui faceva a turni per guidare dietro la cloche, qualcuno che conosceva i suoi gusti musicali azzeccando sempre il pezzo giusto per l’occasione dalla libreria scaricata dentro di lui, al massimo un braccio articolato che si calava dal tettuccio per pulire il disco di tanto in tanto e aiutarlo a indossare la tuta spaziale, ma finiva lì. Mark era sempre stato l’unico compagno che aveva avuto durante quelle infinite traversate, l’unico disposto a farlo, perché pre-istallato nel disco che non aveva mai finito di pagare, non per sua volontà. Aveva provato a ingaggiare qualcuno come dipendente in qualche bettola ai bordi della Via Lattea, ma quando agli interessati era mostrato il mezzo di trasporto, l’idea di passare una settimana, stretti come sardine e nessuno con cui interagire fuorché un matto e un’intelligenza artificiale matta quanto lui, prima di mettere piede su pianeti sconosciuti, l’interesse veniva meno. Di amici se n’era fatti, ma sempre volatili. Ovunque giungesse, chiunque avesse conosciuto, sarebbe comunque dovuto ripartire per un altro impiego dall’altra faccia del cosmo. Aveva avuto il piacere di conoscere i Lithiani, salvarli nel momento più alto della sua vita e poi abbandonarli, senza più far ritorno. Così era stato per molti. Nessuno sarebbe mai stato disposto ad abbandonare ogni suo conoscente, il suo mondo, per seguirlo in un vagabondare di posti mai visti che potevano benissimo essere l’inferno. Allora perché non si fermava lui? Perché fermarsi avrebbe voluto significare sottostare alle leggi, l’economia e le abitudini di un posto, tutte cose che lo avevano indotto a scappare dalla Terra ormai tre anni fa, non rischiare la propria incolumità in avventure assurde e, soprattutto, non far a pieno uso della sua vita per vedere tutto quello che l’universo aveva da offrire in un così breve lasso di tempo, Seppur tutto questo giungeva al pesante prezzo della solitudine più assoluta nella sua incapacità di mantenere un rapporto stabile. Mark poteva distrarlo forse ma non aveva un corpo che lo abbracciava come stava facendo Lili in quel momento. Ma non era vero, interruppe il suo flusso di pensieri notando l’errore, Mark aveva un corpo perché Mark era il TFO stesso. Tutte le volte che il tettuccio era chiuso, l’aria condizionata attiva, il sedile imbottito riscaldato, reclinato, la musica suonava e una coperta gli veniva calata addosso, mentre si sentiva all’opera un profumatore per ambienti al miele e tozze dita in gommpiuma scendevano a massaggiargli le spalle sfibrate dall’ultimo combattimento, Mark lo stava abbracciando. Ecco cosa gli stava tornando in mente. Possibile che non se ne fosse reso conto sino ad ora della presenza di quella macchina? Povero Mark, lo aveva accudito fedele per tanti anni e lui gli aveva sempre gridato contro per una battuta irriverente o un consiglio brutalmente spassionato. Era una sorpresa che non lo avesse buttato fuori dal suo ventre alla prima occasione. Ventre? Aveva usato la parola giusta? Sì, dopotutto era così che si sentiva ora, in posizione fetale nel grembo di Lili, un feto a mollo nel caldo liquido embrionale. E la piega di questo discorso gli faceva venire alla mente un’altra persona, che non era Lili, né Mark, ma una il cui ruolo, quest’ultimo, aveva praticamente ricoperto negli ultimi tre anni, dopo averla abbandonata per via di screzi ma soprattutto per non vederne più negli occhi la delusione riflessa.

–Mamma– Borbottò con la bocca mezza sommersa.

–Chiamami così, se preferisci– Rise Lili –Ti sei calmata adesso?

–Mamma, io…– Si voltò, specchiandosi in quegli occhi neri, con la mente annebbiata che sovrapponeva la memoria alla realtà, vedendole l’anima di un’altra –Mi spiace per come mi sono comportato.

–Oh, non ci pensare– Gli tenne bassa la testa, ormai che si era quasi levato con le clavicole fuori dall'acqua per l’emozione –Devi riposarti, ne hai passate tante.

–Vero, ma non voglio aspettare ancora di dirtelo– Premette il viso sulla base del suo collo, dando fiato alla voce con fatica –Mamma, perdonami, non avrei mai dovuto ridere delle tue parole, della tua esperienza. Ho alzato troppo la cresta per non sentirmi un peso, dimostrare che potevo farcela nonostante tutto, che non ero più un bambino a cui badare, e guardami ora.

–Sai cosa vedo?– Se lo scollò per guardarlo negli occhi, passandogli una mano idrofoba fra i capelli bagnati –Vedo una bambina sincera, pentita e volenterosa di fare meglio.

–Mamma…– Continuò Cladzky, poggiandole le mani sul cuore –Non avrei dovuto abbandonarti, mamma.

In quell’istante, sia lui che Lili, capirono l’uno di non star parlando con chi si illudevano e l’altra di non essere la diretta interessata, sbirciando una storia assai grama dietro quella bocca semichiusa in angoscia al dissolversi dell’allucinazione. Non potendolo vedere in quello stato, Lili si alzò in piedi, aiutandolo sulle sue deboli gambe, esponendolo così all’aria della sera dalla cintola in sù. Per riflesso incondizionato si premette contro le gambe drizzate di lei, che, aspettandoselo, aveva attivato il circuito di riscaldamento, rendendo la superficie della sua pelle preferibile al vento crudo della notte.

–Va tutto bene ora, non preoccuparti– Lo tranquillizzò. Fuori dall’acqua, la sua figura si presentava spoglia come il ragazzo aveva sentito, mettendo a nudo una più evidente meccanicità nella suddivisione delle articolazioni e la mancanza di dettagli anatomici, nonostante la faccia indistinguibile da una donna respirante, facendola assomigliare a un manichino molto alto. Invece che cingerlo come al solito, lasciò che fosse lui a stringerla, mentre lei nascondeva le mani dietro la schiena. Ci fu il rumore di una serratura sbloccata e tirò fuori una spazzola nella sinistra e sapone nella destra. Immergendo la prima nell’acqua, la ritirò fuori inzuppata per strofinarla contro la barretta bianca, formando, nel celere attrito, uno strato schiumoso sulle setole, con le quali prese a lavorare la schiena del ragazzo.

–Mamm…– Pronunciò d’istinto, per poi fermarsi –Volevo dire…

–”Mamma” va bene, te l’ho detto– Sorrise senza mostrare i denti, inclinando una coda di labbra verso l'alto, piegandosi a lavarlo sotto le scapole –Cosa ti serve?

Cladzky inghiottì il suo orgoglio, perché ormai non gliene era rimasto e tanto valeva lasciarsi andare se era tutto perduto, era la sua filosofia.

–Mi piace come canti– Si morse le guance –Potresti farlo ancora?

–Tutto pur di farti felice, – E così fece, canticchiando una nenia per l’infanzia giapponese, mentre sciacquava la spazzola e la insaponava di nuovo. Lo prese sotto braccio intorno al collo, forzandolo a piegarsi, e passò avanti e indietro le setole sul fondo della schiena, facendolo risentire un poco per quello sfregamento vigoroso. Poi lo drizzò e gli scese dalle spalle al petto, di lì ai fianchi, portandolo al riso contenuto appena, fino al basso ventre e l’interno coscia, dove gli dovette serrare i polsi con gli arti ausiliari e tenerli sollevati per evitare che si coprisse. Seguirono le braccia, tenute dalle ausiliarie, dove il riso non riuscì a contenerlo sentendosi violare le cavità ascellari. Sempre tenendolo per i polsi, gli fece poggiare i palmi sul bordo, dove lo lasciò per sollevargli una gamba, lavorarla e fare lo stesso con l’altra. Un’ultima sfregata di buona fortuna su ambo i principi delle gambe e gli assestò un colpetto secco con il retro piatto della spazzola, facendolo scattare in piedi, dacché era in posizione chinata. Giudicando il lavoro ben finito, prese a sciacquarlo a mani nude, fino a togliere ogni traccia di schiuma e tirò fuori un panno da uno dei suoi scompartimenti, lo spiegò e lo stese lungo il bordo della fontana, per poi sollevare lui e stenderlo a sua volta sul telo. Lili saltò fuori con grazia, si scosse come una barboncina e neppure una perla le era rimasta addosso. Voltandosi verso il ragazzo, messosi a sedere gocciolante sul panno, lo approcciò con il suo corpo nudo, solo per rivestirsi di colpo. Il berretto le saltò fuori dai capelli bruni; le spalline si gonfiarono dall’articolazione della glena; il vestito calò come una tenda dalle clavicole, connettendosi con fibbia che si chiuse ad anello intorno la vita; la gonna si aprì come un ventaglio dal bacino, a coprire della biancheria apparsa, per puro completismo estetico, sopra organi del tutto assenti nel suo modello; i segmenti dei lunghi guanti bianchi si srotolarono dai polsi, venendo magneticamente cuciti al loro posto e così fu per le calze al ginocchio, completando il tutto con un paio di ballerine rosate, in tinta con il vestito, che si formarono dal ribaltamento di pannelli nel perimetro dei piedi. Un piccolo fiocco esplose sul retro a legare l’abito e, in un battibaleno, Lili si era rivestita, finendo anche di canticchiare. Le sue parvenze da bambola meccanica erano ora quasi del tutto nascoste. Lo infagottò nel panno per asciugarlo e gli passò un lembo sotto l’occhio, dove il sale si era mescolato al cloro.

–Piaciuta la canzone?

Lui annuì appena, ma con un sorriso nascosto dietro il disagio.

Lili tirò fuori un pettine, ma non era per lui, cominciando ad acconciare la sua stessa chioma sintetica e specchiandosi nel portacipria, mentre un’ausiliaria appariva come un arto che terminava nella lama di una ventola, messa subito in moto ad investire il ragazzo fino a levargli ogni umidità di dosso. Secco, lei gli prestò nuovamente attenzione, facendosi scappare uno sguardo sgranato e un risolino, prima di piantargli davanti il portacipria e invitarlo a guardare, nella cornice rotonda, quella palla cotonata azzurra che aveva ora in testa. Doveva ammettere che era una visione buffa anche per lui. Notò anche che il trucco, per magia, era rimasto intonso, letteralmente, perché non c’era altra spiegazione su come non si fosse rovinato. Lili  gli abbassò i capelli fra uno sghignazzo e l’altro, fino a riportarglieli in una forma definita.

–Ora, da brava, apri la bocca– Chiuse le mani dietro la schiena e si sporse in avanti verso di lui.

–Cominciamo l’operazione?– Chiese titubante, incrociando le gambe e le dita.

–No, manca solo di lavarti i denti.

–È proprio necessario farmi anche questo?– Corrugò il viso, ora liscio quasi quanto quello del ginoide.

–No, ma ci tengo a fare un servizio completo.

Lui ubbidì, tanto ormai ci aveva quasi preso gusto e in fondo era bello essere accuditi in ogni singola cosa dopo un’intera nottata passata a prendere randellate sulle gengive, che ora le mostrava. Gli venne inserito qualcosa, ma non era uno spazzolino e sentì sul palato un sapore, ma non era dentifricio, era amaro, pizzicava e aveva un vago sentore metallico. Aprì gli occhi, trovandosi la stessa spazzola, adoperata pocanzi, strofinargli i molari. Lili se ne stava con lo stesso sguardo disteso e sereno, quasi distaccato, girandosi, su un dito libero, una barretta bianca. Lui fece per sputarle addosso, ma ratta, un’ausiliaria destra gli afferrò la testa per voltarla di scatto e centrare l’interno della fontana.

–Ma sei impazzita?– Si passò un braccio sul labbro schiumoso –Mi lavi la bocca col sapone?

–Essendo un medico, spazzolino e relativa pasta non sono qualcosa che fa parte della mia strumentazione dello stretto indispensabile– Evitò accuratamente di scusarsi, girando la cima della spazzola per aria nel gesticolare –E poi ho due fonti a sostegno di questo impiego. Prima di tutto, è scientificamente dimostrato come il sapone sia un ottimo sostituto della crema dentifricia, al di là del pessimo sapore.

–E la seconda?– Cercò di parlare, nonostante il senso di intorpidimento e la fatica che faceva a ingoiare la saliva, bruciante com’era.

–Da un punto di vista pedagogico è una innocua e creativa punizione corporale che dovrebbe insegnarti a non offendere le persone– Sciacquò nella fontana la spazzola. Al primo passaggio l’aveva colto di sorpresa, ma per il secondo dovette immobilizzargli le braccia per mezzo delle proprie in esubero.

–Ovvero quando ti ho detto che sei una…– La frase fu mozzata da un paio di dita che lo presero per il naso, forzandogli la bocca aperta.

–Proprio quello– Sospirò lei, passandogli le setole con energia sulle due file di smalto serrate. 

Quando Lili lo lasciò andare, lui rimase a gambe e braccia incrociate, con uno sguardo capricciosamente offeso. Non era certo peggio di quanto gli fosse stato fatto da altri e sentiva anche di esserselo meritato, ma si sentiva in vena di recitare la parte Provò a lamentarsi, ma doveva essere stata usata una soluzione eccessiva, perché, dando aria alla bocca, generò solo una bolla che gli scoppiò sul muso. Un singhiozzo d’indigestione e gliene scapparono una decina più piccola nell’aria, che guardò sbigottito ascendere. Una gli finì quasi sulla punta del naso, prima di finire trapassata da un dito in raso bianco che terminò la corsa al suo posto. Il viso di lei appariva sfumato da come aveva incrociato gli occhi su quell’indice. Lo ritrasse, alzandolo al cielo.

–Ora cominciamo, sei pronta?

–Non è un altro scherzo?– Cercò di nascondere un altro paio di bollicine, dopo un singhiozzo a fine frase.

–Figurati– E lo prese di nuovo in braccio, per poi sedersi a sua volta –Brucerà un po’, ma presto ti sentirai meglio.

Drizzò la propria mano come una lama, la stessa che aveva visto essere impiegata come fiamma ossidrica sott’acqua. Certo che avrebbe bruciato un po’. 

–Rilassati e stai ferma– Fu l’ultimo ordine che gli diede. Lui chiuse gli occhi, lasciandola fare e sperando per il meglio, stringendo i pugni. Il rumore di un motore che si scaldava, un frullio e infine un sibilo elettrico riempirono l’aria, accompagnando una luce giallastra che percepiva da sotto le palpebre strizzate. In effetti sentì sfrigolare un poco la tumefazione sul sopracciglio, ma non di calore, come piuttosto di sale sulle ferite. Abbassò il muscolo interessato, per rilassarlo e alleviare il dolore, ma passò in fretta. Lo stesso fu per l’ematoma dello zigomo, che gli contrasse il viso in una smorfia, prima di sparire e fu la volta della gengiva, che prese pizzicargli  insopportabilmente, ma  terminò. Cladzky riaprì gli occhi. La mano di lei scendeva lungo il suo corpo, sostandosi sopra qualunque ferita, ed emanando come un’irradiazione visiva di spettro giallo. Arrivò alle impronte di calci nel petto –Vediamo come riassemblare queste costole.

–Costole?– Fece fatica a deglutire dopo il passaggio della spazzola di poco fa, ma fece del suo meglio.

–Nulla di grave– Mulinò la mano, interrompendo il processo –La radiografia che ti ho fatto non riporta alcuna emorragia interna.

–Tu mi hai fatto cosa?– Tentò di alzarsi, solo per sentirsi una mano in fronte spingerlo a restare sdraiato.

–Per cosa ho gli occhi se non per vedere?– Fischiettò, toccandosi la sclera che brillava, prima di rimettersi al lavoro. Un ronzio da defibrillatore, il passaggio di quel cono di luce sul calcio di Kishin e si attenuò il livido fino a sfumare e cancellarsi. Così fu per il resto delle contusioni. Non gli diede il tempo di meravigliarsene che gli venne sollevata la gamba, appena pulita del sangue rappreso, ma Lili tolse il palmo senza emanare alcuna luce, portandolo piuttosto all’altezza del berretto, davanti l’insigne crociata. Questa si aprì di scatto, rivelando l’ennesimo scompartimento, frugò un momento e tirò fuori una bustina. Spellò strato dopo strato, fino a rivelare un cerottino con stelle su sfondo azzurro, che applicò con delicatezza e spianò per bene sul taglio. Per puro vezzo, saldò l’affissione con un bacio appena sfiorato Battè le mani. –Per una piccola sbucciatura dovrebbe bastare. Abbiamo finito.

–Davvero?– Si rimise a sedere sulle sue ginocchia dacché si lasciava cadere.

–Oh, hai ragione, quasi mi dimenticavo– Il palmo irradiante gli passò sopra la spalla e si piegò sulla sua schiena, fino a porgersi al centro delle scapole. Un altro sfrigolio, una sensazione di bruciore e un altro -fino ad allora ignorato- livido fu cancellato. Lo prese per i fianchi, affondando le dita gentili nella cute chiara e passata a lustro, per sistemarselo di fronte, accennando a una cavallina con le gambe –Ora abbiamo finito davvero, sei contenta?

–Tutto qui?– Replicò, con la voce spezzata tra un sobbalzo e l’altro.

–Beh– Si fermò lei nel constatare il suo sguardo allibito –Se vuoi possiamo anche provare a sbloccare la schiena.

Se lo rigirò a fronteggiare nella sua stessa direzione, gli saldò le ausiliarie intorno la vita, unendole sul piccolo ombelico di una pancia che appena sporgeva, e con le due braccia principali gli manipolò le spalle, prima torcendolo in alto, sinistra e poi destra, con tutti gli scrocchi del caso.

–L’effetto sarà placebo, ma è piacevole, no?– Sottolineò, schioccandogli il collo. Avvertì, a giudicare dai rapidi movimenti del ventre piatto, un respiro che si faceva via via più corto.

–Tu…– Trasalì al rumore delle vertebre cervicali –Tu mi hai guarito in meno di un minuto.

–Modestamente sono l’esemplare più avanzato in circolazione, almeno da dove provengo– Si strofinò un pugno sul petto.

–Avresti potuto farlo sin da subito.

Lili sbattè le ciglia un paio di volte.

–Beh, sì ma…– Il paziente si rivoltò verso il suo viso con uno sguardo contratto in un digrigno rabbioso.

–A cosa sono serviti tutti quei preamboli?– Si scurì in viso il ragazzo nonostante la cipria.

–Non potevo lasciarti in quelle condizioni– Tentò di spiegarsi, ma lui già gli saltò addosso con le mani serrate su quel collo di pelle quasi vera.

–A cosa è servito umiliarmi in quel modo?– Sollevò le guance a spingere contro la base degli occhi da quanta forza stava imprimendo e il dorso delle mani gli si fece venoso, ma non in maniera impressionante, solo disgustosa.

–Non ne ho mai avuto intenzione, credimi– Il suo fiato non si cioncò sotto la pressione sulla trachea, perché in fondo, l’ossigeno, non era una priorità per lei –Ti ho solo dato ciò di cui avevi bisogno.

–Di una cosa avevo bisogno e tu l’hai rimandata il più possibile, trattenendomi qui con te contro la mia volontà– Tentò di scuoterla, nella speranza di avere una forma di reazione più atterrita da parte sua –Come se poi ne avessi avuto davvero bisogno di farmi rimettere insieme quelle costole. Il mio corpo ha avuto traumi ben peggiori e si è sempre ripreso, te l’ho anche detto mi sembra, ma a te importava solo di giocare a fare la balia. Sappi che attualmente avrei cose più importanti a cui pensare, invece di starmene qui a pretendere di essere un moccioso a cui badare.

–Non è mai stato un gioco– Cercò di tranquillizzarlo con voce suadente, posando leggermente le dita su quelle che la strozzavano –Non mi occupo solo dello stato fisico dei miei pazienti, tu avevi il bisogno psicologico di fermare il tuo viaggio, toglierti tutti i pesi dalle spalle e lasciare che qualcuno pensasse solo a te per un momento.

–Innanzitutto, gira alla larga dalla mia psiche. Sei solo una macchina e pure una completa sconosciuta, cosa vuoi saperne tu se ho bisogno del tuo intervento? Pensi che solo perché ho avuto una brutta giornata io esca di testa se qualcuno non si occupa di me? Pensi che io non sia capace di occuparmi di me stesso? Che non sia abbastanza grande per affrontare una vita infame come quella che mi sono scelto? È questo il significato dietro quella toeletta infantile?

–Tutti hanno i tuoi timori, ma non devi dimostrare nulla a nessuno adesso, non c’è bisogno di comportarsi così, calmati, piccola mia.

–Piantala una buona volta, vuoi farmi diventare pazzo sul serio? Sono anche nudo di fronte a te in questo momento, cos’altro ti serve per convincerti che non sono una bambina? Ti si sono sfasate le lenti o lo hai fatto solo per rendere il processo ancora più degradante?

–Se tu mi lasciassi spiegare…

–Non osare interrompermi! Ne ho abbastanza di spiegazioni da parte di tutti che mi fanno capire ancora meno, io non voglio sapere nulla, sono venuto qui solo per distruggere. Quindi, visto che ci tieni tanto a fare favori alla gente, fammi quello di alzare i tacchi sulle tue gambe finché puoi. Solo vederti mi fa sentire sporco, con quei tuoi atteggiamenti da troia travestita da tutrice. Non hai fatto altro che provocarmi per tutto il tempo, ricordarmi di lei, di lui, del mio rapporto fallito con entrambi, di quanto solo io mi senta, di quanto bramo una dimostrazione di affetto fisico e a darmela sei stata tu, solo per divertimento di quel dio infame, tu, una donna all’apparenza come lei, un’altra maledetta macchina come lui. Voi dimenticati, molestatori, tu come gli altri. Ti sei divertita a tenermi in braccio come una sposina, vero? No, mi correggo, tu mi hai cullato tra le braccia come un neonato, poi ti sei improvvisata pediatra, mi hai toccato ogni parte del corpo, mi hai violato in ogni maniera possibile coi tuoi “esami” pur di rendermi docile, mi hai cantato una ninna-nanna come se andasse tutto bene, mi hai spogliato senza pudore e ti sei fatta un bagno con me, dicendomi di chiamarti “mamma” mentre mi strofinavi dalla testa ai piedi, zone erogene comprese e ora, solo ora, vengo a sapere che ti sarebbe bastato sparare due luci per rimettermi a posto le ossa mischiate sin dall’inizio. Tutto questo dietro la giustificazione che lo facevi per il mio bene. Dimmelo che non è una presa in giro, prova a dirmelo, dopo tutto quello che mi hai fatto, o non ti basta ancora? Hai altre idee? È tardi, potresti mettermi a dormire con una copertina e un’altra delle tue nenie. Meglio ancora, tira fuori del talco e un panno assorbente che terminiamo il costume. Se preferisci potresti allattarmi, tanto sono sicuro che hai un’appendice supplementare anche per quello, perverso feticcio del complesso di Edipo.

Gli occhi di Lili smisero di riflettere i suoi per un momento, e le sue sopracciglia non diedero più un’aria contristata. Le dita di lei, prima appena appoggiate, si saldarono sui suoi polsi, stringendo abbastanza da fermare la circolazione per un momento e staccarli a forza dal suo collo, dove il materiale malleabile della sua pelle si ricompose dall’orma lasciatagli. Con le dita che neanche si chiudevano da quanto gli stavano divenendo insensibili le mani, Cladzky osservò la boccuccia di lei, fino ad allora così moderata nell’aprirsi, muoversi fino a scoprire la base dei denti.

–Non faremo nessuna di queste cose– In retrospettiva, attaccare briga con un robot, non fu una buona idea. Con uno scatto, lo tirò giù per i polsi, fino a trovarselo, sdraiato di stomaco, perpendicolarmente sul suo grembo, per poi muoverli ancora, bloccandoglieli dietro la schiena con una mano sola a unirli. Provò a resistere, ma, la mano che gli serrava le braccia sulla schiena, spingeva anche contro quest’ultima, inchiodandogli il petto sulla coscia sinistra di lei. Le gambe, slanciate diritte per la mossa improvvisa, si ripiegarono per toccare terra, non trovandola, ma trovando piuttosto la gamba destra di Lili muoversi dietro le sue e schiacciargliele in mezzo le proprie. Tutto quello che poteva fare ora era scuotere il capo in tutte le direzioni necessarie ad esprimere il suo disprezzo, artigliare il nulla con le mani sbiancate, smuovere un poco le gambe dalle ginocchia in giù e agitare, disperatamente, quello che sapeva essere il bersaglio del successivo brutto quarto d’ora –Una bambina come te ha bisogno di ben altro al momento.

Il primo schiaffo lo lasciò senza fiato più per la sorpresa, drizzandogli il collo.

–Quando ti ho trovata eri sporca, infreddolita, disidratata, piena di lividi, tagli e tre costole fratturate.

Il secondo fece più male, perché indugiava il calore del primo sulla pelle ancora chiara e sperava non ne seguissero altri.

–Per quanto ti piaccia crederti indistruttibile, andavi avanti solo grazie a un miscuglio di adrenalina e autodeterminazione.

Il terzo fu pure peggio, forse perché ci mise più forza, forse perché si rese davvero conto di quanto stesse succedendo. Perché si sorprendeva, non era già avvenuto qualcosa di simile prima? Forse era l’incredulità di esserci finito due volte di fila o forse quella di farselo somministrare da una figura che si era mostrata così ben disposta sin ora ed era riuscita a far perdere le staffe anche a lei. Aveva proprio un dono per far perdere la pazienza alle intelligenze artificiali.

–Ho dovuto fermarti, anche con la forza, perché non potevo permettere che ti capitasse di peggio, nelle condizioni in cui ti trovavi. Senza sapere di avere non una, ma ben tre costole fratturate, sai quanto è facile perforarsi un polmone? E tu già, ignara, stavi a scalare un muro da tre piani.

Il quarto gli fece alzare la testa, perché si era già morso la lingua, le guance, il labbro e non sapeva più come disperdere il dolore.

–Posso assicurarti che i miei esami non sono stati inutili. Non avrebbe avuto senso irradiarti senza sapere di cosa soffrissi.

Il quinto gli fece scappare un verso da fringuello. Tentò di alzare il bacino, ma, stretto com’era alla schiena e le cosce, poté solo scuoterlo lateralmente per dissipare l’alone scottante impresso da una mano aperta, a dita chiuse, che non  atterrava semplicemente sulle forme per poi tornare indietro, sarebbe stato troppo barbaro per Lili. Bensì, data la posizione rialzata dei glutei rispetto la testa della vittima, scendeva, colpiva e procedeva avanti, posizionandosi a prendere la rincorsa e ricominciava in un cerchio, elegante nell’esecuzione, come tutto in lei d’altronde.

–Perdonami se la prendo sul personale, ma non gioco a fare l’infermiera. La mia leggerezza nelle interazioni era mirata a mettere a proprio agio il paziente, non dare un’idea di incompetenza.

Il sesto gli drizzò tutte e venti le dita. Poteva giurare che stesse cominciando a pulsare.

–Perdonami poi se mi sono prodigata a farti un bagno, ma immaginavo di farti un favore. Davvero preferivi continuare ad andare in giro per una festa d’alto profilo come se ti fossi rotolata in una discarica?

Il settimo giunse a interrompergli il bel ricordo di quando finì inconsapevolmente rapito da dei netturbini. Il respiro si riduceva a spifferi, schiacciato com’era, con tutto il peso sul petto. Ma ciò che gli bloccava la voce in gola era un magone che si scioglieva giusto ora, in un verso flebile.

–Aspetta, io…– La voce gli morì in gola, perché si rese conto che, al di fuori di implorare di smetterla, non poteva dire altro. Anche se avesse continuato non avrebbe potuto, perché una mano sinistra, un’ausiliaria senza dubbio, gli si parò davanti gli occhi e gli forzò qualcosa nella bocca aperta in boccheggi d’indecisione. A giudicare dal sapore che ancora permeava nel palato da prima, si trattava della barretta di sapone precedente.

–Non osare interrompermi!

E deliberò un ottavo, più forte degli altri, stavolta dritto al centro, senza schizzare via di nuovo, facendo riposare la mano sul corpo appena frustato. Sotto il raso, Lili poteva sentire una pelle che fremeva di convulsioni da pianto, così come l’area colpita andava ad intonarsi con il viso arrossato del fanciullo, ma senza che questi si lasciasse sfuggire una lacrima, tirando furiosamente su con il naso e gonfiando i polmoni prima ancora di svuotarli. Prese a carezzare le forme rotonde, lisce, era il caso di dirlo, come il culetto di un bambino.

–Mi spiace se ti ho umiliato con quella che tu chiami toeletta infantile, ma ho considerato molto più efficiente e veloce lasciare ch’io mi occupassi di tutto e lasciarti ripartire il prima possibile.

Un nono lo folgorò senza preavviso, facendogli stringere il morso sul pezzo di sapone. Procedette a chiudere gli occhi, sperando che finisse in fretta, allontanandosi con la mente, ma gli riecheggiavano in testa solo quelle due figure cardini della propria vita, quasi quei colpi fossero da parte loro.

–Mi hai chiesto se quelle carezze, quei giochi, quel solletico, quegli abbracci, quei baci, quelle canzoni, quegli strusciamenti fossero necessari.

Il decimo credeva di non sentirlo neppure, invece era impossibile farci l’abitudine. Lanciò un ululato che si spense in un gemito sommesso. Non poteva proprio fare a meno di peggiorare le situazioni nelle quali si trovava, vero? Se ne fosse stato zitto, a quest’ora lo avrebbe già lasciato andare con qualche pacca sulla spalla in più, invece le stava ricevendo dal verso sbagliato.

–La risposta è quella di prima. Io non mi occupo solo delle condizioni fisiche dei miei pazienti, ma anche di assicurarmi del loro stato psichico.

L’undicesimo stampò un segno su una circonferenza già del tutto lavorata, lasciandone per poco uno bianco. Il ragazzo annuì freneticamente per darle ragione, intrecciando i piedi.

–E quando ti ho vista, con quella luce negli occhi, io ho capito di cosa avessi bisogno.

Il dodicesimo seguì subito dopo. Sudava freddo. Le mani non gli rispondevano.

–Ho visto una bambina, così disperatamente sola, da essersi convinta di essere giustificata nella sua cattiveria. Ho visto qualcuna che implorava, in ogni modo, meno che la voce, una dimostrazione d'affetto disinteressato, ma era troppo orgogliosa per dirlo. Ho visto qualcuna che ha paura degli altri per via di brutte esperienze passate. Ho visto qualcuna troppo stanca per continuare a reggere il proprio mondo sulle spalle. Ho visto qualcuna che non ha alcun posto da chiamare casa in cui tornare a riposare. Ho visto qualcuna che aveva bisogno di fermarsi, farsi stringere forte e sentirsi dire che va tutto bene, che non deve pensare a tutto da sola, che non deve dimostrare niente, che va bene mostrarsi vulnerabili, che nessuno le salterà addosso per cinque minuti, che per una volta sarà qualcun altro a venirle incontro.

Il tredicesimo gli fece inarcare schiena e gambe, spingendo, senza riuscirci, contro chi lo bloccava, sforzando il proprio addome sfibrato.

–E per questo io non chiedo di essere ringraziata, ma quantomeno non di essere trattata come se fossi un mostro per essere confinata in questo cimitero.

Un quattordicesimo lo finì, facendogli cedere i muscoli e crollare come uno straccio sulle gambe di Lili. Si alzava appena per il respiro, irregolare nei brividi che lo ghermivano. Anche quando gli lasciò andare i polsi, le braccia gli cadettero ai lati del corpo, immobili. Tentò di alzare ancora il palmo, ma non ce la fece a batterlo ancora. Si guardò la mano, dal palmo tutto spiegazzato. Si guardò poi l’ausiliaria sinistra, che reggeva solo un pezzo dell’originale barra di sapone. La punta, constatò, era stata inavvertitamente ingoiata dal ragazzo nella foga. Doveva appena aver infranto mezzo giuramento di Ippocrate. Volle dirgli qualcos’altro, ma non se la sentì. Sarebbe stato bello separarsi su una nota positiva, come sembrava stessero cominciando a fare, ma era tardi per altre conversazioni. Quantomeno, qualunque cosa avrebbe pensato di lei, non si poteva negare che non l’avesse rimesso a nuovo. Mancava giusto una cosa da sistemare, quella che aveva appena causato lei stessa. Su un corpo ora del tutto sano e schiarito, risaltava particolarmente  il rosso ardente in cui era tinto il fondo della schiena. Sarebbe stato imbarazzante lasciarlo andare in giro con una codina del genere, specie con un vestito come quello che aveva indosso, ma non poteva neppure sprecare altra energia preziosa adoperando i suoi raggi per qualcosa che sarebbe sparito da solo col tempo, o non ne avrebbe avuta per una vera necessità. Inoltre doveva pur rimanergli il ricordo di quella discussione. Ripensò alle parole del ragazzo. In tutta quella cattiveria gratuita, c’era un’idea buona, anche se non poté fare a meno che trovarla ironica. Aprì un’altra volta lo scompartimento nel copricapo e ne tirò fuori il necessario. Nevicò la prima dose di talco dalla confezione e prese a spargerla col piumino sulla superficie interessata, avvertendo trasalire il giovane, ancora sensibile in quella zona infiammata. Proseguì il lavoro, fischiettando e seguendo il ritmo coi movimenti, applicando la polvere bianca e stendendola omogeneamente. Fu difficile, per lui, abituarsi al fatto che il castigo fosse finito e quei dolci colpetti non fossero sculacciate, A fine lavoro, Lili si tirò indietro per mettere via tutto e mirare l’opera. Si vedeva che fosse passato molto tempo da quando cambiava il pannolino a Robin, perché si era fatta prendere la mano e aveva sparso più talco del necessario, coprendo un rosso innaturale con un pallore da neve. Certo un miglioramento, ma le venne quasi da ridere, pur sembrandole sbagliato farlo alle sue spalle. Tirò fuori il portacipria.

–Ehi– Questa esclamazione, e uno schiocco di dita, fecero riaprire gli occhi all’infiltrato. Si voltò a vedere la mano ausiliaria destra dell'interlocutore, che indicava alle sue spalle. Si voltò un po’ di più e vide, oltre la sua stessa schiena distesa sulle cosce di lei, un’altra mano reggere uno specchio compatto. Nella cornice, scorse il termine del suo bacino, fresco come una rosa, una rosa bianca in questo caso, quasi fosse stato passato con la cipria come la sua faccia. Come prima, dovette riconoscere di essere una visione particolarmente buffa. Lili tentò di rimuovere il cosmetico in eccesso soffiandoci sopra, alzando segatura di minerale per aria e finendo per starnutire. Che fosse incapace di starnutire e lo facesse solo tirargli su il morale non era poi importante, perché riuscì a strappargli un sorriso. Quando poi, scuotendo il capo, Lili tirò fuori una boccetta di profumo per completare il lavoro con un paio di spruzzi rosati, non potè fare a meno che ridere di sé stesso, seppur sommessamente, muovendo un poco le spalle smunte. Ottenuto ciò che voleva, l’androide scese dal bordo, mettendo lui in piedi sul telo. Cominciò a rivestirlo, chiedendogli, senza aprir bocca, di alzare una gamba, poi l’altra, ad infilare il primo pezzo, che risalì le gambe, fino a coprire quel tenero sederino innevato con un altrettanto tenero e bianco paio di mutandine infiocchettate particolarmente strette. A coprire il resto ci pensò il vestito, sperando che la gonna plissettata non si alzasse anche di poco. Seguirono l’inforcazione degli stivaletti, lo srotolamento dei guanti fino al gomito e la tiara sulla fronte. Venne fatto girare verso l’acqua e Lili gli legò il fiocco sotto il collare da marinaretta, seguito da una fascetta intorno il collo, ben stretta. Ancora girato, si sentì preso e poggiato a terra. Alzò il capo verso la ginoide e questa gli sorrise con sguardo placido e nero, giocherellando con i suoi capelli azzurri, arrotolandoseli in un dito –Mi spiace per tutto. Ora va, qualunque cosa tu debba fare.

Cladzky annuì, tentò un passo, poi un altro, solo per girarne la traiettoria all’ultimo e piombarle sulla gonna, stringendola in un abbraccio volontario, nascondendo il viso tra le pieghe rosa del tessuto. D’apprima stranita, Lili ricambiò, piegandosi su di lui leggera come un velo, mani di raso a carezzargli la nuca e le spalle.

–Grazie, mamma– Fu tutto quello che riuscì a dire, prima di staccarsi lentamente e allontanarsi con sguardo basso, ancora con il guanto di lei fra i ciuffi fino all’ultimo. Sapeva che non poteva voltarsi o non sarebbe più partito. Aveva una storia da finire. Sparì nella nebbia.

Lili si chiuse le mani bianche su sé stessa dopo esserselo visto sfumare fra le dita e si coccolò da sola al pensiero di quelle parole. Neppure Robin l’aveva mai chiamata così. Una lacrima rigò quella guancia in silicone. Cominciò a passeggiare intorno la fontana, fino a perdersi anche lei, danzando fra un passo e l’altro, canticchiando per sè.


Lili, Lili, osyarena Lili,

Lili, Lili, osenchi Lili,

Lili, Lili, machiwo i keba,

Minnhasasayakuyo sutekina Lili

   
 
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