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Autore: chykopon    09/03/2022    2 recensioni
[ Dal COWT#12: W2, M1 - "Punto di non ritorno" ]
Sanji nella vita - non che abbia mai avuto modo di rifletterci a fondo - crede di aver avuto molti momenti in cui, valicato un dato confine, s’è reso conto di aver superato il punto di non ritorno.
Spezzando, però, una lancia a suo favore, il tempo, che è galantuomo, ha sempre finito con lo smentirlo, dandogli una via d’uscita che prima non avrebbe mai altrimenti calcolato.
[ ZoSan | SPOILER: dal cap. 1031 in avanti | CW: suicidal thoughts ] [ wordcount: 8062 ]
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Roronoa Zoro, Sanji | Coppie: Sanji/Zoro
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Tematiche delicate
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Note di apertura: mi scuso, perché questa storia è molto self-indulgent e sublima un po' tutto quello che vorrei da Oda e dalla conclusione dell'arco di Wano, per dare una chiosa definitiva a qualsiasi demone Sanji tenga in capa.

Dall'altra, mi scuso un po' meno perché affondare a piene mani nella caratterizzazione di Sanji era ciò di cui avevo realmente bisogno.

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epitàffio (o epitàfio; ant. pitàffio) s. m. [dal lat. tardo epitaphium, neutro sostantivato dell’agg. (già class.) epitaphius, dal gr. ἐπιτάϕιος «sepolcrale» e come s. m. «discorso funebre», comp. di ἐπί «sopra» e τάϕος «tomba»].

 


 

Sanji nella vita - non che abbia mai avuto modo di rifletterci a fondo - crede di aver avuto molti momenti in cui, valicato un dato confine, s’è reso conto di aver superato il punto di non ritorno.

Spezzando, però, una lancia a suo favore, il tempo, che è galantuomo, ha sempre finito con lo smentirlo, dandogli una via d’uscita che prima non avrebbe mai altrimenti calcolato.

Bizzarro a dirsi, sicché a voler essere completamente onesti con sé stessi, gamba nera non ha mai creduto al karma. Meglio, non ha mai pensato che a quest’invisibile mano capace di spostare, ricalibrare e valutare il peso delle buone azioni su di un’ipotetica bilancia, avrebbe mai potuto in qualche modo fornirgli un dazio di egual misura per tutti gli affamati a cui ha dato un pasto caldo nel corso della sua lunga - breve - vita.

Tuttavia, se Sanji dovesse pensare a ritroso, alla ricerca di una qualche ragione che giustifichi la sua, ancora una volta, presenza su questa terra, così come tutte le occasioni in cui è letteralmente riemerso dal regno dei morti come un redivivo salvatore, allora non può far altro che convincersi di aver pagato un qualche obolo inconsapevole, perché il Tristo Mietitore non lo annoverasse anzitempo nelle sue schiere.

Questa, almeno, è una convinzione rimasta sedimentata sul fondo della nuca fino a che non ha dovuto fronteggiare ancora una volta un passato da cui era certo - menzogna - di essere fuggito.

Arlong Park, Alabasta, Skypiea, Water Seven.

Thriller Bark.

Qualsiasi situazione in cui Sanji ricorda di essere stato coinvolto, ha memoria, con la stessa vivida consapevolezza, di essere stato respinto dalla Morte in persona, perché evidentemente neanche Lei lo vuole con sé.

E se questo lo ha spinto a valutare l’ipotesi che forse non meritasse neanche il regalo di potersene andare da questo mondo in silenzio, presto si è dovuto ricredere, quando atterrente e paralizzante, all’orizzonte ha iniziato a palesarsi una paura ben più radicata e difficile da sconfiggere.

Se Sanji non può morire - perché, fisicamente, non può o è comunque estremamente difficile che questo accada - c’è qualcosa di molto peggio che lo attende, esattamente come il cappio di un condannato al patibolo.

Si tratta di quel confine che divide l’umanità di un individuo dalla sua mancanza.

E quando le energie lasciano i suoi muscoli, mentre Queen viene sconfitto e lui è decretato vincitore di uno scontro che ha messo più a dura prova la sua coscienza, di quanto non abbia fatto con il suo fisico, Sanji lo sa.

Il suo punto di non ritorno è questo. Il suo personale pozzo dell’Inferno, imbocco di Malebolge, oblio senza fondo.

Sviene con la paura che gli si cementifica nel cuore, che quando riaprirà le palpebre, sarà solo lo spettro di sé stesso.

 


 

Dei tanti insegnamenti che Zeff potrebbe mai avergli impartito in un’infanzia, ce n’è uno di cui Sanji non parla mai, ma rispetto agli altri è una memoria dai contorni incredibilmente netti e le tinte ancora più sature di colore.

Sembra una domanda anche troppo perspicace per un bambino che avrà dieci anni per puzza e che ancora non sa maneggiare i coltelli come dovrebbe, ma quando Sanji gli chiede se le persone nascano “buone” o “cattive”, Zeff non immagina neanche lontanamente cosa possa spingerlo a porre un simile quesito.

Lo intuisce, forse. Perché è un pirata e perché ha navigato abbastanza da conoscere ogni angolo più buio di un mondo come questo. Ma non lo sa davvero, almeno finché non gli risponde.

E se poche sono le cose che Zeff, dall’alto della sua esperienza ignora, forse dovrebbe annoverare anche la consapevolezza di quanto, quella semplice risposta, sia per Sanji una salvezza.

Ma gli basta il sorriso di quel bambino, brillante come il sole, per capire che non c’è altro su cui debba interrogarsi, perché quel tanto è sufficiente.

 


 

« Onigashima è caduta! »

È con questo suono nelle orecchie, che Sanji si ritrova a schiudere gli occhi ancora pesanti come macigni, e senza neanche essersi reso conto che, di fatto, ad Onigashima non ci sono più. Dove siano esattamente, dove lo - li - abbiano trasportati, non lo sa neanche lui, perché non ha la più pallida idea di quanto sia rimasto svenuto.

Onigashima è caduta, e lui neanche per un secondo ha dubitato di sentire queste stesse parole nel momento in cui avrebbe ripreso conoscenza.

Quindi, debole, perché le forze torneranno presto, ma non stanno ancora battendo all’uscio del suo cervello, prima ancora di porre una qualsiasi domanda, sorride, con la virgola che gli piega appena le labbra, creando quelle piccole fossette che gli incorniciano la bocca.

O vorrebbe farlo, almeno, perché gli sembra che i nervi non rispondano alle richieste della mente.

Ha tante cose che si chiede in uno stesso battere di ciglia, ma l’ultima che mai gli sfiorerebbe il cervello è domandarsi se Luffy abbia o meno vinto, perché che ne sia uscito trionfante è una certezza monolitica e salda, che in nessun momento - in nessun secondo - ha vacillato.

Resta da domandarsi quanto gravi siano le sue condizioni, ma anche per questo, Sanji si concede tutto il tempo di preoccuparsene poi; non che Luffy gliene abbia mai dato motivo. Se può lamentarsi dell’indolenzimento degli arti è perché l’infinita fiducia che ripone nel Capitano gli permette di fare all-in ad ogni giro di giostra senza temere le conseguenze.

Come è certo che la morte non voglia concedergli l’ultima grazia, per quante volte ci ha provato, Sanji è altrettanto certo che la Signora non voglia in alcun modo reclamare la vita dell’uomo-di-gomma. Neanche Luffy può morire, inalienabile sicurezza.

Ma non può farlo in un’accezione completamente differente dalla sua.

Sanji, in fondo, ha un’infinità di diverse maniere per lasciare questo mondo e farlo scusandosi una volta di più per essere nato.

Sono pochi i momenti che Sanji si è potuto concedere nella cambusa della Sunny, dopo aver lasciato Whole Cake Island. Così risicati da poterli contare sulle dita delle mani ed avere comunque un numero di falangi in esubero.

Eppure, gli sembra di avere la voce martellante di Reiju nelle orecchie da una vita intera.

Per quanto l’abbia nascosta sottopelle e talmente a fondo da illudersi di dimenticarla, la verità è che è ancora lì, intonsa e perfetta come l’ha lasciata tredici anni prima, e riflette sul fatto che, se ancora non c’è riuscito a crepare come vorrebbe in tutte le occasioni in cui gli è sembrato opportuno, è perché le parole di sua sorella lo tengono ben ancorato alla vita.

Sanji non vorrebbe.

Per quanto il suo orgoglio spesso e volentieri paia dire il contrario, c’è qualcosa di estremamente sprezzante nel modo in cui sembra aver profuso la sua intera esistenza al servizio ed al sacrificio. Agli altri.

E così come non ha imparato a sprecare il cibo, ha imparato anche a non sprecare quei due grammi di attenzione ed affetto che le persone attorno a lui gli hanno concesso. Pensa, anche un po’ stupidamente, che morire sarebbe come fare loro un grande torto.

A Zeff. A Reiju. A Luffy. Alla ciurma.

Forse anche a lui, ma non ci metterebbe la mano sul fuoco.

Non la maniera più salubre per affrontare un redivivo desiderio di libertà, ma a voler essere completamente sinceri, non è che nessuno gliel’abbia mai insegnato prima di adesso. Quindi, se questo pensiero può essergli utile per apprenderlo come si apprende per la prima volta a respirare, appena venuti al mondo, Sanji se lo fa bastare.

Perché fosse per lui, camperebbe di briciole per tutti gli anni che gli rimangono.

Sfarfalla le ciglia con la coscienza che va e che viene ad intermittenza. Gli sembra di non poter rimanere sveglio per più di due secondi netti senza perdere di nuovo i sensi.

C’è altro, piuttosto, che arriva a solleticargli la mente, quando riesce effettivamente ad aggrapparsi a quel briciolo di lucidità che gli si palesa sul fondo degli occhi e Sanji sente la formicolante necessità di assicurarsene, prima ancora che i tendini ed i legamenti inizino a rispondere agli impulsi dei neuroni.

Onigashima è caduta. La battaglia è finita.

Volta la testa con fatica, stropiccia le palpebre e per quanto le silhouette gli appaiano sbiadite, le vede quelle di Nami e Robin, poco più in là, gli occhi pieni di lacrime mentre alzano le braccia al cielo. E poi c’è Chopper sulle spalle di Usopp, già rattoppato alla bell’e meglio con le bende che penzolano da ogni parte.

Sanji è certo che di lì a poco il piccolo medico di bordo inizierà a prenderlo a maleparole, perché si sta agitando troppo.

Brook lo riconosce dal sempiterno “Yohohoho!” che lo accompagna, e Franky, beh- da quello che gli riesce meglio, disperandosi come una fontana di commozione com’è sempre. Sa che è inutile provare a dissimulare, asciugarsi gli occhi con la manica del vestito ridotto a brandelli, ormai è una reazione a cui l’intera ciurma ha fatto il callo da un po’.

Jinbe se ne sta a braccia conserte, come se i colpi che ha subito non avessero avuto realmente alcun effetto, stoico, padrone di sé. E gamba nera è convinto che stia lì, tutto tronfio ed orgoglioso, solo perché tra poco vedranno anche Luffy piovere dal cielo, probabilmente senza sensi, ed almeno uno tra di loro dovrà essere sufficientemente in forze per afferrarlo prima che si schianti a terra.

C’è una tranquillità che ha del disarmante nella maniera in cui Sanji si ritrova a realizzare che ogni aspettativa è stata, come sempre, incontrata. Non che imparerà mai ad abituarsi davvero ai miracoli che riescono a creare, quando sono assieme, ma confessa di riconoscere un certo conforto nel modo in cui le cose, alla fine, trovano sempre un proprio perché.

Lui, però, è vivo.

E non sa come sentirsi al riguardo.

È una percezione straniante d’altronde, quella di chi può ancora percepire il formicolio sulla punta delle dita, avvisaglia che le forze stiano tornando, quando è pronto ad ogni giro di giostra a buttare nel cesso quella vita di cui non sa cosa farsene.

La sua ambizione non è come quella degli altri. Il suo sogno è quasi ridicolo al confronto, scheggiato, limato e ridimensionato dal perenne senso di inadeguatezza che lo accompagna.

E se anche, in ultimo, ha scelto di rinunciare a diventare l’arma perfetta, per essere almeno una volta utile, ora che non è nel mezzo di una battaglia, si concede due istanti di tempo per riflettere che forse, ma solo forse, non l’ha fatto per sé, ma per sua madre.

Quanto è deprecabile un figlio che butta via la propria vita, dopo che chi l’ha messo al mondo s’è sacrificato per garantirgliela?

C’è un confine, fitto come una grossa linea nera in un mare di vuoto, che Sanji ha paura di oltrepassare. È il perimetro e la definizione senza sbavatura alcuna che lo divide da quella famiglia che ripudia e che gli dà il voltastomaco; ma se la vita gli è così poco cara, dov’è la linea di demarcazione che lo distingue da loro?

Quand’è che il passo è più lungo della gamba, e quel precipizio che fin’adesso ha solo scorto nell’illusione di buttarcisi a capofitto, alla fine diviene semplice ed infinita oscurità che lo inghiotte?

Se la morte è sollievo, sceglierla non è anche la realizzazione definitiva di quella paralizzante e viscerale paura che gli si è attecchita al cranio nel momento in cui ha realizzato di valicare i limiti conosciuti all’uomo?

 


 

Sanji ha collezionato un’infinita serie di momenti bizzarri della propria vita; una parabola in crescita geometrica da quando sono salpati per la Rotta Maggiore, tra le altre cose.

Ma se dovesse fare una classifica precisa di quali tra tutti gli abbia lasciato la sensazione assurda di vivere un’esistenza alienante, Thriller Bark è in cima alla lista.

« Imbecille ».

Zoro ha esordito così nella penombra del castello di Moria, le bende ancora a penzolargli dagli arti e dall’addome e l’odore acre del disinfettante a mescolarsi con quello che è invece il suo. Gamba nera può vantare un olfatto sviluppato dagli anni spesi ai fornelli, ma ha sempre avuto l’impressione che l’odore - il profumo - dello spadaccino fosse perennemente lordato di sangue.

Non necessariamente il suo, ma anche quando quello dei suoi nemici.

Magari è per questo che tanto spesso lo hanno chiamato “Il demone dell’East Blue”.

E questo fatto lo ha erroneamente convinto che lui e Zoro fossero uguali. Simili, almeno. Affondando a piene mani in quella stessa condizione, che mai avrebbero potuto allontanare da sé stessi, di essere mostri.

« Ah?! » gli ha risposto Sanji, prodigo di sistemare tutte le scorte, prima di caricarle sulla stiva della Sunny e senza degnarlo di uno sguardo.

Gli occhi di Zoro, però, ormai prossimi a divenire di quell’ambra ferale che tanto meglio lo fanno sembrare una belva selvaggia, si sono assottigliati fissandolo.

« Non, » ha cominciato, incespicando nelle parole per la prima volta in cui gamba nera ne abbia mai avuto memoria, « essere così pronto a gettar via la tua vita per niente ».

E Sanji ha pensato - stupido - che quel “niente” a cui l’altro ha fatto riferimento, fosse Zoro stesso. Con un po’ di sorpresa anche, visibile dal modo in cui il singolo occhio sgombro si è sgranato e per un battere di ciglia e ha scelto di posarsi sulla silhouette dello spadaccino senza timore o vergogna.

Quindi sei davvero come me?

Non gli ha chiesto.

Però poi l’ha guardato meglio, e sul fondo delle iridi di Zoro non c’era né rammarico, né compassione. Solo l’ombra della seria ed importante reprimenda che ha cercato di impartirgli.

E Sanji ha capito. Che quel “niente” non era riferito a Zoro, né al suo sogno, né a qualsiasi cosa della vita di quello spadaccino lo abbia mai reso tale; “niente” è la consapevolezza di una persona che è padrone di sé e sa di poter resistere al colpo, perché nulla dentro di lui vacilla.

“Niente” è come dire che Sanji è debole, e Zoro no.

Non posso morire.

Non gli ha detto. Per quanto la mancanza di qualsiasi segno lungo la sua pelle abbia già parlato prima che lo potesse enunciare a voce.

Allora, Sanji ha capito che lui e Zoro non sono uguali.

Perché dai mostri nascono solo altri mostri, e che sua madre lo perdoni se quel briciolo di gentilezza che gamba nera conserva in sé non è sufficiente ad annientare il sonno della sua ragione.

Qui Sanji traccia il suo inizio e la sua fine.

Per quel che gli riserva il futuro, non ha interesse a conoscerlo. Questo è l’ingresso del suo limbo personale, la via senza uscita.

Non crede nel karma e non c’ha mai creduto e quell’obolo che aveva pensato di rigirarsi tra le dita per avere sempre una merce di scambio con il traghettatore che impenitente l’avrebbe condotto dall’altra parte, viene gettato via.

 


 

E Zoro?

Sanji sgrana lo sguardo, perché si rende conto di starlo cercando soltanto adesso. Ed un po’ si maledice per aver ceduto alla stanchezza che porta la sua mente a delirare fino a questo punto.

Dov’è Zoro? Perché non è lì in piedi, assieme a tutti gli altri?

Il cuoco ha il timore concreto di conoscere già la risposta. Perché ci sono tante cose che può fingere di aver dimenticato, altrettanti ricordi che può aver chiuso, facendosi violenza per questo, nei meandri più remoti della memoria, ma è consapevole di non poterlo chiudere a doppia mandata, perché non si palesino mai più come una vecchia pellicola logora davanti ai suoi occhi.

Cerca di alzarsi, ma non ci riesce subito. Quella sensazione fastidiosamente straniante che l’utilizzo della Raid Suit gli ha lasciato addosso è ancora lì a pizzicargli su ogni nervo scoperto, e se anche sa che non dovrà aspettare più di una mezz’ora - a dir tanto - senza bisogno di alcuna medicazione per riuscire a muoversi come vorrebbe, adesso pure una manciata di minuti sembra lunga quanto l’eternità.

Allora volta la testa, c’è una concitazione quasi febbricitante nella maniera in cui il suo occhio cerca disperato finché, a quei risicati metri di distanza, non lo vede.

E gli sembra di essere tornato a due anni prima, quando a Thriller Bark le parole gli sono morte in gola.

Zoro è steso, esanime quasi, il corpo inzaccherato di sangue che, a questo giro, Sanji non è così sicuro di dover attribuire ai nemici. È avvolto in bende e garze, ancora più serrate e sicuramente più metodiche di quelle in cui l’ha stretto per portarselo in spalla, e per un secondo che gli sembra continuare per secoli interi, gamba nera fissa il torace altrui per capire se si stia alzando o abbassando.

Si ritrova a trattenere il fiato a propria volta, nel lucido terrore che le lacrime che riempiono gli sguardi dei suoi nakama non siano per il trionfo.

Poi vede i polmoni dello spadaccino riempirsi d’ossigeno, anche se flebili e quasi scusandosi di essere ancora vivi e funzionanti, e con la sua Haki - per quanto gli risulti faticoso utilizzarla - riesce quasi ad udire il fiato che gli esce dalla bocca, silenzioso come il battito d’ali di una farfalla.

 


 

Salpati da Fishmen Island, Sanji ha potuto percepire distintamente il cuore più leggero.

Che fosse una qualche menzogna che ha raccontato a sé stesso per proseguire in quel viaggio o che fosse la verità non è qualcosa su cui ha riflettuto più del dovuto. Non si percepisce, d’altronde, la necessità di porsi domande, quando si è abituati a considerare ogni alba a cui si assiste come una concessione.

Zoro l’ha redarguito davanti alla sua ennesima pantomima da imperituro estimatore delle gonnelle, e Sanji non si è esattamente sentito di biasimarlo, pur imbastendo solo che l’ennesimo alterco, sale e sostanza delle loro perenni zuffe.

« Che sogno stupido, » gli ha detto lo spadaccino. E se anche gamba nera s’è messo d’impegno per contraddirlo, non nega a sé stesso di avergli dato ragione sul fondo - neanche troppo fondo - dei propri pensieri.

Zoro ha ragione. L’All Blue, o qualsiasi altra immaginifica realizzazione Sanji possa mai tracciare davanti a sé, sa che è forse solo un divertissement con cui ha provato a riempirsi le pareti del cranio fino a questo momento e tanto gli è bastato per convincersi che andasse bene.

Poi le cose si sono fatte serie, tutto d’un tratto - come se prima non lo fossero mai state - ed il tempo per continuare a prendersi in giro si è rosicchiato tutto d’un colpo.

Ci ha mai pensato davvero?

Probabilmente no. Non ne ha mai sentito il bisogno, arreso all’evidenza che un giorno la Morte sarebbe arrivata a bussare alla sua porta e lui l’avrebbe accolta con lo stesso sollievo con cui si saluta una vecchia amica.

Per chi non crede di meritare nulla, probabilmente, che i giorni - gli anni - siano pochi o tanti, non fa differenza. Ogni attimo del presente è, come suggerisce il nome, un regalo, per il quale non si ha altrettanto con cui ricambiare. E se è vero che ogni individuo venendo al mondo contrae un debito, ripagabile solo con la parola “fine”, Sanji è sempre cresciuto sapendo di non poter mai raggiungere un numero sufficiente di ragioni per andare in contro a quel prezzo.

Eppure.

Quando Zoro gli dice che è “scemo”, al pensiero che gli stia bene crepare per l’epistassi più fragorosa che abbia mai avuto, o che non batterebbe ciglio al pensiero di morire tra le braccia di una bella donna, c’è un piccolo, flebile, baluginio di orgoglio che si avviluppa al cuore di gamba nera.

E lo stritola fino a fargli provare dolore fisico.

 


 

È il sospiro di sollievo che sembra seguire un mancato annegamento, per quanto è profondo e per come arriva a scuotergli le spalle con un dolore intenso.

Ma Sanji non se ne preoccupa, sa che guarirà presto. Sa che anche quel pizzicore che bruciante gli sta corrodendo la pelle adesso, scomparirà così come è arrivato, e se anche non ha modo di potersene compiacere davvero, perché ne conosce l’origine - e la odia, la odia e la odia - si concede almeno di crogiolarcisi, fintanto che gli permette di tenere quel singolo occhio sgombro fisso su Zoro.

È vivo e tanto basta.

Non crede di aver davvero bisogno di nient’altro a questo punto.

L’incoscienza potrebbe sopraggiungere di nuovo, ma lo troverebbe con un debole sorriso a piegargli la bocca e la tranquillità di chi non crede di avere ulteriori cose in sospeso.

« Oi, testa d’alga- » la voce gli esce più strozzata di quanto vorrebbe, non è neanche sicuro che sia udibile sotto le urla - se di gioia o di dolore non l’ha ancora capito, ma propende per la prima - che li attorniano, mentre Onigashima crolla, pezzo dopo pezzo, e con essa l’ombra dell’ennesimo titanico avversario che si sono trovati ad affrontare.

Zoro non risponde, per quanto ne sa è completamente svenuto. E forse, logicamente parlando, Sanji gli dovrebbe anche concedere di rimanerlo per le prossime ore ed i prossimi giorni; non può immaginare il dolore, la fatica, la stanchezza ed il tempo, lungo o corto che sia, che gli richiederà il fisico per riprendersi. Non può immaginarlo, perché, fisicamente, sono tutte cose su cui Sanji non ha mai dovuto realmente fare i conti.

Non ha mai dovuto considerare l’ipotesi di avere il corpo segnato di cicatrici.

Non ha mai dovuto prendere in esame l’ipotesi di non guarire da un osso rotto, da una trauma cranico o da qualsiasi cosa sia effettivamente riuscito nel corso della sua lunga, ma breve vita a scalfirlo.

Zoro, invece, sì.

E se anche gamba nera non dubita che lo spirito dello spadaccino sia sufficiente a farlo riprendere anche da quest’ennesimo colpo e da qualsiasi effetto collaterale la medicina somministratagli da Chopper porterà con sé, teme dall’altra che il suo fisico, la sua resistenza, abbia da tempo tracciato una linea ben definita, oltre la quale neanche quello zuccone può andare.

Perché Zoro è umano e lui no.

 


 

Sanji pensa di aver provato vera invidia in poche risicatissime occasioni della sua vita.

E non si tratta di quella superficiale e plateale che dimostra nei confronti di qualsiasi altro uomo riesca nel sedurre irrimediabilmente qualche fanciulla, ma di qualcosa di più profondo che attecchisce radici fin nell’animo e lì cresce come un seme annaffiato quotidianamente.

Si ricorda un’occasione, in particolare, per la quale deve essersi maledetto poi un’altra infinità di volte. Guardando Robin, alle soglie dei Cancelli della Giustizia di Enies Lobby, un tarlo ha iniziato a rosicchiargli il cervello senza mai dargli pace.

Quanto avrebbe voluto avere abbastanza coraggio da alzarsi in piedi a propria volta, tronfio, vero ed urlare al mondo di voler vivere?

Non per sé. Ma magari per sua madre.

Per Zeff.

Per chiunque, almeno una volta, abbia avuto la premura di dargli una misera mollica della propria esistenza in cambio.

Tornando indietro, vorrebbe dire a tutti che non ne vale la pena. Non ne è mai valsa la pena, perché lui non ha mai imparato, né ad amarsi, né ad amare la vita. Può fingere per il quieto vivere, può dissimulare, perché con il ricordo ancora vivido di quello straziante senso di fame, riesce quasi a ricordarsi cosa significhi essere disposti a tutto per non morire…

Ma la verità è che contrariamente al germe che suo padre, tanto prodigo, ha instillato in lui, null’altro è mai fiorito al centro di quel petto.

E se ancora volesse ripercorrere a ritroso ogni singola esperienza, allora direbbe anche a Zoro che non ne vale la pena, di tenere il calcio di Wado rinfoderato, perché un mostro in meno al mondo non mancherà a nessuno ed il pensiero di essere stato utile - davvero - almeno una volta gli sarà lieve come lo potrà essere la terra - o il mare - sopra di lui.

Sanji è lì, in bilico, in una rincorsa perenne atta a superare il filo spinato che lo tiene ben saldo nel regno dei vivi; e corre e corre e corre ancora, a perdifiato, cercando in ogni modo di saltare e gettarsi a peso morto nel mezzo di quel campo minato.

 


 

Se Sanji si prendesse il tempo, poi, di pensare al peso, via via crescente, che inizia a salirgli all’altezza del cuore, si renderebbe conto anche di sbagliarsi. Ma ora la sua attenzione è totale ed assoluta e completamente devota a Zoro.

Lo fissa con tale insistenza, che i suoi occhi potrebbero farsi coltelli e passargli da parte a parte.

« Oi… » lo richiama di nuovo, e di nuovo, Zoro tace.

Ma Sanji non è capace di non preoccuparsi. Meglio: è perfettamente in grado di non curarsi di sé stesso, troppi anni spesi ad inculcarsi nella testa che non ce ne fosse bisogno per imparare adesso a farlo; di rimando, è anche troppo prodigo a premurarsi degli altri.

 Quindi, se la sua voce non può raggiungere Zoro, adesso, ci provano le sue dita ed il suo braccio che si stira fino a scricchiolare verso quello spadaccino di merda, che se non sapesse quanto è malconcio, giurerebbe che stia solo dormendo come suo solito.

Ma non basta, l’estensione della destra non è sufficiente a colmare uno spazio che in qualsiasi altra situazione avrebbe rosicchiato in meno di due falcate, frettolose e concitate.

Sanji deve rotolare su di un fianco, probabilmente tutte le ossa sbriciolate e tenute insieme solo dalla pelle non sono completamente rimarginate; anche la scienza di Germa ha un confine ben definito che non può ancora valicare la realtà.

Eppure, quel briciolo di energia che minaccia di andare alla deriva un po’ troppo presto, lo prende tutto e a palmi pieni, con quelle sue mani - preziose - e ancora guantate. Non permetterebbe mai al sangue dei nemici di lordarle, ma per toccare Zoro e provare anche solo a smuoverlo, riesce anche a trovare la forza per snudarle dalla stoffa che gli copre le falangi.

Deve arrancare, strisciare pure ad un certo punto, prima di riuscire a mettersi quasi seduto, perché la testa d’alga sia lì, alle sue ginocchia, e ringrazia sul fondo della coscienza che tutti siano distratti da altro, da uno spettacolo che sceglie deliberatamente di perdersi perché altre sono le sue impellenze.

Il polso gli trema appena, e giura che questa volta non è il dolore, ma il timore che, solo toccandolo, potrebbe infrangerlo. Eppure Zoro è forte, grande, grosso e pieno di muscoli. Un gorilla che pensa solo all’alcool ed alle spade.

Ma certe volte sa farsi piccolo in un mondo che lo inghiotte, come quando è disposto a gettar via anche il proprio sogno per proteggere gli altri. Magari, e a questo Sanji ci ha pensato a lungo, è proprio questo che lo ha attratto, come un magnete a cui nessun’altra forza di gravità - neanche quella della logica o dell’orgoglio - avrebbe potuto rispondere.

Lo sfiora.

Meglio, gli sfiora il pettorale, sotto al quale sa esserci un cuore che ancora batte, per quanto affievolito ed appena udibile. E Sanji si crogiola nella sensazione di quel tepore, che per quanto solo vagamente percettibile c’è ed è vivo, e pensa anche che qualcosa debba essergli entrato negli occhi, nonostante il ciuffo biondo che gli penzola davanti alla faccia, mentre se ne sta lì con il capo chino, perché li sente pizzicare.

 


 

Dovrebbe maledirsi una volta di più, perché l’ultima cosa che avrebbe mai voluto è dare un dispiacere a qualcuno.

E gli spiace, davvero, con un rammarico che è quasi straziante, che troppa gente gli si sia legata a doppio filo, con l’intenzione di non volerlo lasciar andare. E che Luffy lo perdoni, se potrà, dopo il tempo, l’energia ed il cuore che ha speso per riportarlo indietro, perché a Sanji basta una sola volta, un solo assaggio di quello Stealth Black che suo padre avrebbe voluto che fosse per capire che via di fuga non ne ha.

Forse è per questo che non ha mai creduto al karma.

Darvi retta implicherebbe in qualche modo che qualsiasi cosa abbia nell’universo - vasto ed infinito - un suo proprio contrappeso, o meglio ancora, un contrappasso.

Ma non c’è cosa che Sanji possa fare, pensare, dire, o affamato che sfami o persona che soccorra per estinguere il peccato di essere venuto al mondo.

Pensa, quando finalmente decide di distruggere la Raid Suit tra le proprie dita, che almeno una piccola rivincita se l’è presa su questo mondo, mandando a fanculo un padre che di padre non ha mai avuto niente, e ribadendo una volta di più di chi è veramente figlio.

Non bastano le parole di Reiju, non è sufficiente la convinzione del suo Capitano. Nulla può smuovere quella che ormai per Sanji è una certezza inalienabile: è qui che cala il sipario.

Questo il suo ultimo atto.

Nessun “encore”, nessun bis. E va bene così, perché inizia ad essere stanco. Di tutto e di sé stesso e delle ombre che lo seguono, senza mai farsi palesi o darsi definizione, ma che non liberano mai la sua testa.

È troppo tardi, anche adesso che nell’ultima infinitesimale briciola di validazione che ritaglia per sé stesso, rinnega qualsiasi cosa di sbagliato di cui l’abbiano mai convinto. È una macchina da guerra, un arma, rotta ed imperfetta, ma nulla che possa più definirsi un essere umano.

Questo lo sa da un po’.

Gli altri lo scuseranno di aver mentito, quando hanno salpato verso Wano.

Forse Luffy capirà. Forse Zoro ha già capito senza neanche bisogno che glielo spiegasse, perché di tempo materiale ed ancor meno di voglia per raccontarglielo non ne ha avuto, e ha preferito così, perché l’ultima cosa che desidera è ricevere di rimando la sua compassione.

Ancora una volta.

Gliel’ha chiesto, d’altronde.

Gli ha chiesto di ucciderlo, perché se proprio deve buttarcisi a capofitto in questo strapiombo senza fine, vuole farlo da uomo libero e finché ha ancora ben in mente la differenza tra “giusto” e “sbagliato”, tra “bene” e “male” e tra “odio” e “amore.”

« Se quando tutto questo sarà finito, non sarò più me stesso… uccidimi ».

E Sanji sa che poi avrà tutto il tempo - eterno - per riposare. Perché le voci nella sua testa smettano di tampinarlo. Perché la sofferenza cessi.

E perché non debba più chiedere scusa.

 


 

Stringe forte gli occhi. Così tanto da vedere mille petardi scoppiettargli dietro il buio delle palpebre.

« …c-cuoco… »

Forse è uno scherzo della sua testa, uno di quelli di cui si è trovato vittima in tante altre occasioni prima di questa, chiedendo alla sua memoria di sentire una volta di più quella voce a rimbombargli nei timpani con lo stesso fragore di una gran cassa.

Ma quando sente un paio di polpastrelli ruvidi sfiorargli il dorso della mano nuda, Sanji capisce che più di tanto quella testa rotta che si ritrova non può ingannarlo.

Quindi spalanca gli occhi e c’è l’immagine sbiadita di un paio di iridi, ferali e dorate, come il più prezioso dei tesori, che lo squadra. Lo sguardo di Zoro è tagliente come la punta di Wado, ma non lo ferisce, anzi, lo blandisce come la più premurosa delle carezze.

Sanji sente il palato impastato. Stringe la bocca, si morde il labbro, perché gli occhi gli si stanno facendo umidi e confondono ulteriormente la silhouette dell’altro nell’occhiata che gli lancia.

Poi Zoro sgrana le palpebre, in un riflesso condizionato che gamba nera non si spiega.

Ci vede la paura sul fondo.

E quello stesso precipizio che tanto anela.

È quindi questo, finalmente, il momento di catarsi che stava aspettando?

Il confine che ha tanto atteso di valicare con un unico e semplice passo?

Sanji ha creduto fino a questo momento di non vedere l’ora di compierlo; ha agognato, anzi, la libertà di poterlo macinare, come se scegliere come e per mano di chi morire fosse l’ultimo glorioso desiderio di chi ha lottato con le unghie e con i denti per ottenere questa libertà.

Eppure, tutto quello che riesce a fare adesso è riempirsi gli occhi di lacrime che non riescono a scendere, raggruppandosi tutte agli angoli del suo sguardo.

Ed è confuso e stordito e non capisce, e teme che Zoro lo fissi perché ormai è solo che l’ombra di sé stesso.

Non è Sanji, ma è di nuovo il principe di Germa. Non ha mai lasciato Whole Cake Island, Luffy non l’ha mai salvato, e la storia si ripete daccapo con conseguenze ancor più tragiche della prima in costume.

Ma se per un attimo lucido ed intenso, Sanji ha paura di non poter rispondere di sé, li vede gli occhi furenti e vivi di Zoro, e c’è sollievo al pensiero che la lama delle sue spade tra poco affonderà nel suo addome fino all’elsa e non ne lascerà che polvere.

Un po’ egoisticamente, pensa anche che se questa è l’unica maniera per divenirne tutt’uno, essergli più vicino di quanto non gli sia mai stato, perché sono diversi - irrimediabilmente diversi - allora va bene, ed anzi, se potesse esserne in grado, il cuore gli scoppierebbe di gioia.

Zoro trema con i muscoli che urlano di dolore, mentre cerca Kitetsu ed Enma vicino a sé.

Ovvio, si dice Sanji, non merita neanche di essere trafitto da quella splendida e bellissima lama bianca. Ma la cosa non lo infastidisce così tanto come avrebbe immaginato.

 La mano di gamba nera scivola via dal torace dell’altro, si tasta i capelli, come se con le dita potesse vederli e scoprire che improvvisamente si sono tinti di nero; e si tasta la faccia, poi, come se potesse scoprire di non essere più in grado di sorridere.

E Zoro che lentamente si rialza, redivivo e scampato ancora una volta alle fiamme dell’inferno come il demone - salvatore - che è, alla fine…

…fa quello che deve.

 


 

« Ehi, vecchio… » la voce di Sanji è piccola, stridula quasi, lamentosa come suona sempre alle orecchie dello chef. E Zeff sbuffa, costretto per forza di cose a distogliere l’attenzione dal tagliere su cui sta affettando le verdure, « …come fanno le persone- voglio dire- »

Zeff rotea gli occhi, li solleva al soffitto quasi esasperato, perché è difficile cercare di capire cosa intenda Sanji ogni volta. Fosse che ha problemi nel parlare, lo capirebbe meglio, ma quel ragazzino sembra invece avere tutte le possibili difficoltà nel comunicare, il che è diverso, e lui non c’è abituato.

« Non farfugliare, melanzanina, » lo redarguisce come fa sempre, con un tono che pare perennemente burbero e che forse è più deformazione personale, che professionale.

Sanji - un bambino - abbassa la nuca, così come lo sguardo, le labbra attorcigliate tanto quanto l’espressione, e se Zeff sa, perché ormai l’ha imparato, che è tutto frutto di quella testardaggine che caratterizza l’altro, ci vede anche qualcosa di più a questo giro.

Il coltello viene posato sul bacone, e lo chef si volta, dandogli la sua completa attenzione.

« …se una persona nasce cattiva, » riprova Sanji, l’occhio azzurro che diverge dal volto dell’adulto, andandosi ad insaccare in un punto imprecisato del muro, « …resta cattiva? »

L’eterno dubbio, il quesito amletico che porta sempre le persone a chiedersi se nascendo quadrati, si possa morire tondi.

Ovviamente, non c’è una risposta universale. È un quesito retorico, in fondo, il cui ago della bilancia propende sempre per la convinzione più forte o più debole che ognuno serba in sé circa quanta forza richieda il desiderio di cambiare.

Eppure, Zeff mentre lo guarda serio, non si concentra tanto su quale grande rivelazione dovrebbe mai dare a quel bambino cocciuto, quanto invece si sofferma sul perché gli venga posta la domanda.

Potrebbe chiederglielo, ma non lo fa.

Sceglie di non farlo, anzi, assottigliando appena la linea degli occhi: « …nessuno nasce buono o cattivo, zuccone, » la sua voce è una linea diritta, mononòta e semplice un po’ come lo chef parla sempre; solo che, a differenza di tutte le altre volte, l’ultima sillaba non cade su quell’ennesimo timbro arrabbiato che tanto bene lo contraddistingue.

« Dipende cosa si sceglie di fare con gli strumenti che si ha a disposizione ».

Sanji rialza la nuca e lo guarda confuso. Pare quasi alienato da un discorso simile.

E se anche Zeff potrebbe dirsi neanche troppo stupito dal fatto che un bambino non riesca veramente a cogliere tutte le sfumature di un simile discorso, sente che c’è qualcos’altro, che lui non vuole chiedere e che Sanji non vuole dire.

Ma va bene così. Zeff, in fondo, non ha bisogno di sapere per impartirgli solo che l’ennesima lezione di vita.

Sbuffa, si sistema il cappello in testa, e seduto sul proprio sgabello, incrocia le braccia al petto con fare serioso.

« Senti melanzanina, » riprende lo chef, chinando la nuca con fare serioso, quel cipiglio perennemente contrariato che non abbandona le sopracciglia neanche adesso, « non è importante la contingenza in cui si viene al mondo… è importante cosa si sceglie di fare del dono della vita ».

E se anche detto da un pirata - un ex pirata - un simile discorso potrebbe avere il tempo che trova, tra quei ciuffi biondi che tanto spesso Sanji usa come una tenda che lo recluda fuori dal mondo, vede un baluginio nuovo a brillargli sul fondo dell’unica iride sgombra.

Ci mette un po’ ad assorbire l’informazione, Zeff d’altronde non è realmente capace di esprimersi in maniera diversa da questa, ancor meno in una forma che sia un po’ più prona alla comprensione di un moccioso, ma alla fine, sbuffando dalle narici, Sanji annuisce più convinto.

« Quindi, anche una persona cattiva… se sfamasse le persone che lo chiedono, diventerebbe buona? »

Sanji non è uno stupido, questo lo chef lo sa e l’ha capito dal momento in cui ha volutamente e scientemente deciso di trarlo in salvo; non l’avrebbe fatto, altrimenti. Ma proprio perché c’è troppo acume, certe volte, in un marmocchio che avrà dieci-undici anni a dir tanto, si scorda di avere effettivamente a che fare con un… bambino.

Un bambino che non sa per quale motivo abbia quell’ombra nello sguardo. Che non capisce perché la notte si agiti convulsamente tra le lenzuola. Che non sa perché sia così difficile da gestire, cocciuto, impertinente e… caparbio. E resiliente. E forte.

Zeff vorrebbe dirgli altro a quel punto, spiegargli che la vita non è così edulcorata come potrebbe mai sembrare agli occhi di un marmocchio, ma ha l’inquietante sensazione che non ce ne sia davvero bisogno.

Quindi, semplicemente, lascia perdere.

Sospira, e per la prima volta da troppo tempo, sotto quei folti baffi biondi che sono il suo orgoglio c’è qualcosa che potrebbe quasi rassomigliare un sorriso.

« Sì, » mormora, « immagino di sì ».

E che sia una menzogna, non gli importa. Quali che siano i demoni che albergano sottopelle in Sanji, se è questo che un bambino deve sentirsi dire per esorcizzarli, allora Zeff può mentire una volta di più. Forse, a dirla tutta, neanche lui ha una risposta definitiva, unica e precisa per un interrogativo del genere.

Ma è sufficiente vedere Sanji annuire una volta di più, prima di recuperare un secondo sgabello, ed afferrare con una primigenia e concitata fretta il coltello per sfilettare la carne; c’è un entusiasmo nuovo che lo fa agitare trafelato, ma poi si ferma, come se si ricordasse solo ora di quante altre volte lo chef gli abbia detto di maneggiare con calma gli utensili della cucina, prima di farsi saltare via qualche dito. Ed anche se quando riprende qualsiasi cosa abbia in mente di fare ora, lo fa con più tranquillità, quel brillio che inghiotte l’intera oscurità della sua pupilla, è ancora lì negli occhi di Sanji.

Zeff pensa che lui, di figli, non ne ha mai voluti.

Glie n’è capitato uno tra capo e collo, o meglio, lui ha scelto di sobbarcarsi le spalle di questo gravoso impegno in un moto di impulso.

E non c’è giorno in cui non ringrazi per averlo fatto.

« Melanzanina? »

« Mh? »

« …se scegli di fare qualcosa, però, fallo per te stesso, non per gli altri ».

E Sanji annuisce.

Poi, la routine ricomincia, ed il lungo cappello da chef di Zeff arriva ad insaccarsi sulla capoccia dell’altro: « Quante volte ti ho detto che non sei ancora pronto a maneggiare la carne?! »

 


 

Sanji è convinto di non sentirlo più il dolore.

Non solo di non essere più fisicamente in grado di percepirlo, ma di non poterlo proprio provare. Quindi è quasi normale che la prima reazione che gli si dipinge in volto, tra lacrime che alla fine sono rovinosamente crollate lungo un viso meno ammaccato di prima, sia la straniante confusione di chi non capisce cosa sia accaduto.

E proprio in questo momento, quando arriva un tepore nuovo e mai provato prima ad avvolgerlo, gli torna in mente quell’unico e singolo ricordo di suo padre che pensava di aver dimenticato.

Si chiede perché proprio adesso.

Di tutti i momenti in cui avrebbe potuto crogiolarcisi per trovare il conforto dalle infinite notti di insonnia che l’hanno tormentato, perché solo ora.

Zoro fa quel che deve e forse, anche quello di cui Sanji ha bisogno, quando le sue mani, le sue braccia, come un peso morto ancora troppo affaticato, arrivano ad avviluppare le spalle di gamba nera e le dita si stringono convulse ai suoi vestiti, polpastrelli che scivolano e grattano il cotone.

Sanji è paralizzato, perché non capisce.

Viene inghiottito dall’entropia del momento, tra voci che li sommergono tutt’attorno, eppure la vivida sensazione che lui e Zoro si trovino in una bolla completamente avulsa dalla realtà.

« …c-cuoco, » Zoro lo chiama di nuovo, con un filo di voce e con la nuca che finita verso il basso si rialza a fatica, scivolandogli lungo il colletto del completo.

Non c’è nessuna spada a trafiggere Sanji.

Nessuna lama a sancire quel biglietto di sola andata che gamba nera sembrava non veder l’ora di staccare.

C’è la mano di Zoro, invece, che scivolata via dalla schiena, schiaccia a palmo pieno contro il suo torace coperto dalla camicia, come se non gli bastasse quello che percepisce sulla pelle. Pare voler sentire quel battito - del cuore - che a Sanji rintocca nelle tempie come una grancassa ora, riverberargli in ogni nervo scoperto e non.

E Sanji non se lo spiega perché è, forse erroneamente, l’ultima cosa che da Zoro si sarebbe mai aspettato.

E basta questo, questa piccola stilla fattasi lacrima come quelle che gli piovono dagli occhi, a fargli improvvisamente apparire la morte meno appetibile di quanto non fosse poc’anzi.

Le dita di Zoro si sollevano, sono ruvide come la carta vetrata, abrasive e lo graffiano quasi, ma Sanji non ha ragione di preoccuparsene completamente ammutolito e senza nulla di sensato da dire o da fare adesso. Si inerpicano lungo la sua faccia, con i pollici che gli scavano le guance, mentre lo allontana da sé, in una altrimenti convulsione indistinta di corpi.

« …Sanji? »

Ah.

Non l’aveva mai detto prima.

Il suo nome sulle labbra dello spadaccino suona così bene, che potrebbe venirgli addirittura nostalgia di questa vita tanto odiata, proprio adesso che ormai sembrava veramente pronto ad abbandonarla e che quel tanto gli era stato concesso.

Zoro lo fissa, quell’occhio ambrato che si riflette nell’azzurro dei suoi, disperato quasi, mentre cerca qualcosa e cerca di nuovo, con una crescente agitazione che gamba nera non riesce ancora a comprendere, finché… finché semplicemente non lo chiama.

Con la stessa aria spaurita di un bambino che non ha ancora compreso cosa stia accadendo davvero: « …Zoro? »

E ci legge sollievo nella sua espressione a questo punto.

Sollievo che Zoro scarica in ogni muscolo rovinato o indolenzito con un lento e lunghissimo sospiro; gli scuote le spalle, gliele fa piovere verso il basso, gli intirizzisce i nervi e lo rende quasi esanime. Senza soffrirne.

Allora, lo spadaccino lo abbraccia di nuovo, con tutta la forza di cui le sue braccia sono ancora capaci e con la stessa completa abnegazione di chi teme di sentirselo sfuggire da sotto le dita come, forse - ma solo forse - Zoro ha effettivamente temuto fino a qualche istante prima.

I palmi gli scivolano via dalle guance di Sanji, gli accarezzano il collo, trovano di nuovo le sue spalle con cui si fa forte a propria volta e lo stringe con talmente tanta presenza, che le ossa di gamba nera rinsaldatesi nel frattempo potrebbero spezzarsi di nuovo.

« Sei ancora tu… » esala lo spadaccino con un soffio di voce e tutta l’aria che forse gli resta nei polmoni.

Non è una domanda. È un’affermazione.

La più forte che qualcuno abbia mai sussurrato all’orecchio di Sanji. E che adesso, silenziosa, scivola oltre il limite del timpano, si insinua nel cervello e vi mette radici.

Batte come batte la stecca di un tamburo sulla pelle tesa.

Batte all’unisono col suo cuore che c’è ancora ed è lì ben saldo nel petto, e lo fa in sincrono con quello di Zoro direttamente contro il suo torace.

È una sensazione assurda per Sanji, alienante al punto da fargli credere di essere già morto e star vivendo quello che tutti definiscono “il sogno prima dell’ultimo salto”. E c’è qualcosa di ironicamente amaro, perché se solo ne avesse avuto la possibilità, probabilmente, prima di gettarsi davvero nel vuoto, forse - ma solo forse - avrebbe chiesto a Pudding di fargli vivere esattamente questo.

È bizzarro come, nel momento in cui si crede di dover dare l’ultimo addio, molte cose tornino ad essere incredibilmente chiare.

E dire che Sanji avrebbe voluto andarsene in silenzio, al riparo dagli occhi di chiunque potesse vederlo. A parte Zoro.

« Non farlo mai più! » gli abbaia lo spadaccino, la tempia che preme contro la sua ed il mento appoggiato alla spalla di Sanji per tenerlo su a fatica.

Gamba nera non può vederlo da quella posizione, perché la nuca di Zoro è nascosta dall’incavo del suo stesso collo. Ma può guardare nitidamente la sua schiena, il profilo del suo corpo addosso al proprio e quelle mani tremanti ed ancora pulite che sembrano aver quasi paura di toccarlo di nuovo.

« …mai più, » biascica di nuovo Zoro, la voce impastata e rotta, « cuoco di merda… »

Gli si incrina sull’ultima sillaba e Sanji giurerebbe di star sentendo la stoffa del completo inumidirsi ora.

Sanji torna alla realtà così. Con la stessa violenza di un pugno, senza che Zoro un pugno gliel’abbia dato davvero.

Ma mentre vede i singhiozzi scuoterlo in piccoli fremiti convulsi, completamente avviluppato a lui, capisce che per quanto surreale è tutto vero. Gli ci vuole un attimo di più per decidersi, ancora colto dagli spasmi, a serrare a propria volta la stretta delle braccia. A tenerlo lì.

Ad aggrapparvicisi come se all’improvviso, quel vuoto infinito che tutto sembra pronto ad inghiottire gli facesse un timore tremendo.

« Non chiedermi mai più… una cosa del genere… »

Le labbra di Sanji tremano.

Tutto Sanji trema, perché non se ne capacita.

E sarà anche egoista da parte sua, ora, voler rimanere solo perché questo, perché le lacrime di Zoro lo straziano più di qualsiasi arma gli abbia mai trafitto l’addome, spaccato la pelle e rotto le ossa, ma Sanji non può farci niente.

Sanji non capisce, perché tra tutti, mai si sarebbe aspettato da lui questa reazione.

Eppure eccola lì.

E vorrebbe darsi dello stupido per avergli fatto passare tutto questo.

Si dice, però, che avrà tempo per farlo, perché Zoro respira, è tra le sue braccia e piange. E Sanji è ancora capace di commuoversi.

« Non te lo permetto, » annaspa di nuovo lo spadaccino, con le dita che si serrano su gamba nera neanche volessero scivolare oltre la carne che ne racchiude l’anima e diventarne tutt’uno, « …non ti permetto di morire ».

E la vita attecchisce in Sanji come una malattia.

Come un morbo silente che scivola sotto i vestiti, dentro ogni organo ed ogni sinapsi, e cresce e si moltiplica. Lo ammala completamente, lo trasmuta e lo trasforma.

« Scusami… » riesce solo a bisbigliare, con la voce che gli viene meno, il pianto che lo strozza ed il bisogno di sentire Zoro ancora ed ancora.

Per tutti gli anni a venire.

Per tutta la vita che gli resta e che vuole riprendersi.

E che Luffy e Zeff e Reiju lo perdonino se non sono riusciti, dove invece riesce quello stupido.

« …va bene, » esala ancora.

E poi c’è solo il silenzio e i loro respiri e della morte, Sanji non ricorda neanche la forma.

Tra le braccia di Zoro, varca finalmente quel confine. Ma non dalla parte che si sarebbe aspettato inizialmente.

E da lì, non c’è più ritorno.

 


 

 

catarsi s. f. [dal gr. κάϑαρσις «purificazione», der. di καϑαίρω «purificare»]. – n psicanalisi, processo di totale o parziale liberazione da gravi e persistenti conflitti o da uno stato di ansia, ottenuto attraverso la completa rievocazione degli eventi responsabili, che vengono rivissuti, a livello cosciente, sia sul piano razionale sia su quello emotivo.

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Note di chiusura: spero che Oda dia una gioia a Sanji nella vita.
Se la merita, dai.

   
 
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