Non che la cosa importasse molto.
Aveva fatto di tutto per essere lì, in quel posto, in quel porto.
Jack, nome troppo americano per un cinese, era un vero genio.
Aveva percorso la strada per lo spazio nel più breve tempo possibile.
Elementari, medie, superiori se le era mangiate come le ciliegie: una
via l’altra.
A quattordici anni era il più giovane universitario, insieme ad altri
duemila in tutta la Cina, ad avere accesso al corso di astrofisica base: il
numero di studenti si ridusse, per il corso di astrofisica avanzato, a
cinquecento, Jack compreso.
Tutti gli altri corsi gli servirono da coronamento alla sua carriera
universitaria.
A diciotto anni era già pronto per fare l’astronauta, ma il suo fisico
non si era ancora del tutto sviluppato, per cui poteva fare solo molta
ginnastica e allenamenti in palestra.
Il suo fisico si sviluppò bene e, a ventidue anni, era pronto per la
centrifuga e i voli in assenza di gravità.
Nel frattempo, aveva studiato di tutto e di più.
Geologia, biologia, metallurgia e altri studi di contorno, riuscendo
sempre a superare gli esami con voti eccezionali.
E ora, dopo tutta quella fatica, era lì, a Nushahr.
Vi era arrivato dopo l’esplosione nucleare del bunker, al seguito dei
diplomatici cinesi che, dopo un viaggio allucinante, erano atterrati
nell’aeroporto di Nushahr.
Aveva visto il filmato della nave spaziale, che era esplosa e si era abissata
nel Mar Caspio.
Ma lui, a quel video, non ci aveva creduto.
Da lì a svignarsela dall’ambasciata, a cercare delle risposte alle sue
domande, la strada fu breve.
Ora lì vedeva quei due tipi, con un dromedario al seguito, bardati
come beduini, con gli occhiali da sole che distorcevano, anche se non molto, il
viso, coperto dal tagelmust.
I due, circospetti, presero in affitto un battello.
Non erano iraniani, poco ma sicuro.
Una era troppo alto per essere di quei posti.
Decise di abbandonare la sua postazione, lungo il pontile del porto, e
si diresse verso qui tipi, che lasciarono la corda, che teneva il muso del dromedario,
all’uomo della barca, che tutto felice se ne andò.
I due continuavano a guardarsi in giro e notarono lui, con il viso
nascosto come loro, con enormi occhiali scuri.
Sulla manica lo strano marchingegno vibrò mentre si avvicinava a loro.
Jack si avvicinò e i due si presentarono.
«Kimiko!» Disse la ragazza.
«Douglas!» Gli fece eco l’altro.
«Jack!» Nome per nome, pensò.
I tre continuarono a guardarsi in giro in modo furtivo.
«Se continuiamo a stare qui sulla banchina attiriamo l’attenzione di
troppo gente. Come non detto: arrivano due militari!» Disse Douglas.
Douglas si voltò e guardò i due militari, che stavano passeggiando sulla
banchina, fumando sigarette, distratti improvvisamente da una ragazza che,
senza veli e a piedi nudi, con un vestito bianco molto leggero, portava una
cesta piena di pesci verso un bancone da pescivendolo lì vicino.
I due si girarono e la ragazza, divertita, sorrise a loro, mentre
Douglas, cogliendo l’occasione, spinse leggermente Kimiko verso la barca,
seguendola su di essa, con Jack alle calcagna.
«Scioglie le gomene di poppa!» Ordinò Douglas a Jack.
Kimiko prese in mano il timone e accese il motore.
Douglas continuò a controllare i due militari che, sentito il motore
di una barca funzionare, si girarono di colpo, imbracciando i loro AK-47 e
corsero verso la barca, che si allontana velocemente dalla banchina.
Le loro urla e i colpi del mitra, sparati per aria, non diedero il
risultato da loro sperato.
Uno di loro prese la radio da campo e urlò a qualcuno, facendo cenni
con la mano verso la barca che si dirigeva fuori dal porto.
Jack e Douglas li guardarono sorridendo.
Dopo aver passato la bocca del porto, la barca, con il motore che, a
tutta velocità, sbofonchiava e sputava fumo dal fumaiolo e dalla carena, si
diressero al largo verso il punto presunto dell’affondamento della nave
spaziale.
All’improvviso, in lontananza, una sirena ululò contro di loro.
Un cacciatorpediniere militare stava arrivando a tutto vapore,
vomitando fumo nero dal suo enorme fumaiolo.
Forse faceva i trenta o quaranta nodi, ma non li avrebbe presi.
Douglas tirò fuori la sua arma, la posizionò sulla poppa della nave e
l’accese.
Il contraccolpo per poco non fece cadere Kimiko e Jack.
Kimoko spense il motore e la barca, velocemente, si allontanò dal loro
inseguitore.
Il cacciatorpediniere, vista la presa sfuggirgli, fece fuoco con il
cannoncino che era posizionato sulla prua, ma l’imprecisa mira degli occupanti
rese la vita facile ai tre fuggitivi.
Il presunto punto in cui il veicolo spaziale era affondato fu
raggiunto, dopo più di due ore di navigazione, con sempre il cacciatorpediniere
alle calcagna.
Douglas spense la sua arma, tutti si tolsero i mantelli e il tagelmust, misero in funziona il
casco e si buttarono nel mare, leggermente mosso per un temporale che stava
arrivando da sud.
Nell’acqua, scendendo in profondità, i tre misero in funzione gli
interfoni e si scambiarono le idee su cosa fare.
«Controllate i vostri bracciali! Forse qualche strumento acceso della
nave ci consentirà di prendere contatto con lei!» Disse Douglas, mentre abilitava
il suo bracciale.
Jack aveva qualche dubbio sull’uso della tuta in quel punto, dove il
mare era molto profondo.
Kimiko gli si avvicinò e lo aiutò a regolare la tuta dal bracciale.
«Ma fino a che profondità possiamo spingerci?» Chiese Jack, molto
preoccupato.
«Non ci sono limiti! La tuta compensa in automatico la pressione
esterna con quella interna!» Disse Kimiko.
Douglas si avviò verso un punto imprecisato, seguendo un segnale che
arriva da un punto davanti a lui e sotto di lui alcuni metri.
Gli altri due lo seguirono.
Il cacciatorpediniere si stava avvicinando velocemente, svuotando, velocemente,
anche se capienti, i serbatoi di combustibile.
I tre videro una strana sagoma sotto di loro e, seguendo il segnale,
si avvicinarono ad un boccaporto.
La nave spaziale, di forma indefinita, a prima vista, pareva non aver
subito alcun danno.
Douglas armeggiò con il bracciale e il boccaporto si aprì.
Scivolarono dentro il locale e il boccaporto, automaticamente, come si
era aperto, si richiuse e l’acqua fu subito espulsa.
Da dentro la nave pareva reclinata di parecchi gradi a babordo.
I tre si tolsero i caschi, che si nascosero nella tuta.
L’aria era pulita e fresca.
«Ottimo!» Disse Douglas, tentando di mettersi in piedi, con le parteti
del locale ancora scivolose per la presenza dell’acqua.
«Se lo dici tu!» Disse Kimiko che, nel tentativo di alzarsi in piedi,
scivolò e si rimise seduta.
«Già!» Disse Jack, che, seduto, si guardava intorno.
Il locale aveva pareti lisce e un boccaporto, speculare a quello in
cui erano entrati.
Jack, camminando a carponi, gli si avvicinò, mentre anche Kimiko e
Douglas, che si era rimesso seduto, lo seguivano a gattoni.
Il bracciale, che Jack portava, avvicinato ad un quadro di comando
vicino al boccaporto, lo fece aprire, introducendoli in un locale ampio.
Entrati, le luci si accesero automaticamente, dando ancora di più l’idea
dell’inclinazione del veicolo alieno.
«Dividiamoci e cerchiamo la cabina di comando!» Ordinò perentorio
Douglas.
Douglas andò a sinistra, Kimiko diritta e Jack a sinistra.
Dopo dieci minuti, un urlò femminile nell’interfono fece trasalire
Jack.
«Correte! Correte! Correte! Correte qui!» Urlò Kimiko.
Essendo qui un posto indefinito in quella enorme nave spaziale, come
avevano potuto constatare Douglas e Jack, questi ultimi ritornarono sui loro
passi e, incontratisi, si diressero dalla parte in cui era andata Kimiko.
La stanza in cui entrarono era enorme.
Era lunga più di dieci metri e larga cinque, di forma ovale, con console
e video lungo le pareti, frammezzate da porte o pilastri portanti della
struttura, che aveva la forma di un uovo.
In mezzo al locale altre console con video incassati, distanziate, coprivano
l’intera area del locale.
Ma, alzando gli occhi, Jack si rese conto che il locale aveva una zona
rialzata, proprio sopra l’ingresso, lunga circa due metri.
Kimiko stava guardando, in mezzo alla stanza, proprio sopra a quel
soppalco.
Jack e Douglas gli si avvicinarono e seguirono lo sguardo di Kimiko.
Sul soppalco vi erano degli scranni, uno di essi era dorato.
I tre rimasero senza fiato: gli altri scranni erano di un bianco
marmoreo impressionante.
All’improvviso un rumore sordo li fece trasalire.
Le luci, accese al minimo, improvvisamente aumentarono di intensità ed
una voce parlò a loro.
« Tervetuloa intergalaktiseen tuntevien olentojen siirtojärjestelmään nimeltä Hujko III, Series Jourge, aurinkokunnan Kutrea, Ghitre-planeetalta.»
Dopo un loro momento di panico, Kimiko fu la prima a riprendersi.
«Parlasse almeno la nostra lingua!» Esclamò Kimiko all’invisibile
interlocutore.
«Scusate!» Riprese la voce.
«Benvenuti nel sistema di trasferimento esseri senzienti
intergalattico chiamato Hujko III, Series Jourge, del sistema solare Kutrea,
proveniente dal pianeta Ghitre.»
«Così va bene!» Esclamò Douglas, ripresosi dalla choc iniziale.
«Sistema di trasferimento... cosa? E poi intendi per esseri
senzienti?» Jack faceva troppo il pignolo per gli altri due, che lo guardarono
stupefatti.
«I miei fabbricatori» Riprese la voce «mi hanno dato queste
definizione di loro e di qualsiasi essere che potesse usarmi per spostarsi
nello spazio infinito o, come meglio lo definite voi, galattico.»
«Ma hai un nome con cui possiamo chiamarti?» Chiese Kimiko.
La voce rimase un attimo in silenzio, forse cercando nei suoi chip una
risposta ideale per quei nuovi occupanti dei suoi spazi vitali.
«Computer!» Disse
la voce con un tono leggermente femminile.
«Mi sa che questo
ha visto troppi film di fantascienza!» Affermò, deciso, Douglas, alzando gli
occhi verso l’alto.
La nave risultava
ancora inclinata e, a tutti, sembrò naturale chiedere alla macchina di
livellarla, ma un rumore di motori passò sopra di loro.
«Era meglio
affondarla quella dannata barca!» Esclamò Douglas.
«Se volete la
posso…» Incominciò il Computer.
«No, zitta! Non
fare niente!» Disse imperiosa Kimiko. «Dobbiamo prima evitare che la nave si riempi
di acqua! Abbiamo visto delle perdite in giro! In che modo possiamo chiudere le
paratie tra i vari comparti?»
Una console si
illuminò, mostrando la pianta della enorme nave su di un video, con il veicolo
evidenziato in color bianco su sfondo nero.
Le paratie
vennero evidenziate in verde.
I numeri indicavano
ogni singola paratia presente sulla nave.
Sul video, in
basso a destra, veniva indicato, in verde, il livello dei ponti della nave
spaziale.
Jack tocco quella
zona del video, e apparve un livello più alto della nave.
Jack notò che a
sinistra, in basso, vi era un simbolo in rosso.
Lo tocco e
riapparve il ponte precedente.
Jack toccò una
paratia, che da verde divenne rossa, mettendo la linea a chiudere il locale.
Incominciò a
chiudere tutte le paratie esterne, facendo il giro tutto interno del veicolo.
Passò da un
livello all’altro, finché tutte le paratie, che davano verso l’esterno, non
furono tutte chiuse.
Jack guardò il
suo lavoro soddisfatto, ma quel maledetto rumore di eliche ripassò sopra di
loro.
«Ci vedranno?»
Chiese Douglas.
«La nave è mimetizzata,
genio! Chi vuoi che ci veda?» Ribatté Jack.
«Ma se urlate ci
sentono! Abbassate il tono della voce!» Li rimproverò Kimiko, sottovoce.
«Non c’è
problema!» Disse il Computer. «La nave è insonorizzata internamente ed
esternamente! È praticamente impossibile che ci sentano. E l’occultamento è
talmente fantastico, che difficilmente ci vedranno!»
La voce del
Computer era più che soddisfatta.
«Sì. Ma le bolle dell’aria che fuoriescono dal veicolo possono essere
viste! E per produrre energia devi far funzionare batterie o altro, che producono
calore e possono essere rilevati! Per non parlare del fatto che siamo inclinati
e che, se scivoliamo di lato, il rumore delle rocce smosse possono essere
rilevate dai loro fonografi! Computer, intanto diminuisce la luce e cerca di
mettere al minimo il supporto vitale. Anzi, lascialo acceso solo per questa
zona del veicolo. Jack, chiudi le paratie di questo locale!»
Jack andò al
monitor, chiuse le paratie della zona in cui erano, e il Computer diminuì la
potenza dei motori e tolse il supporto vitale alle zone non occupate.
Il sommesso
ronzio dei motori si attenuò di colpo, rendendo la cabina silenziosa.
Anche all’esterno
sembrò che il rumore del veicolo non fosse più udibile.
Ma lo
scivolamento dello scafo non si era fermato.
Erano vicino al
punto più profondo e non sapevano se il veicolo avesse supportato tale
profondità.
«Computer!» Disse
Kimiko. «Fino a che profondità può resistere questa nave?»
Il Computer
tacque: i suoi chip stavano calcolando cosa?
«Ho rilevato che
se continuiamo a scivolare, finiremo nel punto più profondo del mare, a circa
mille ottocento venticinque metri di profondità. Il veicolo, con gli scudi
alzati, può tranquillamente giungere a quella profondità. Ma la messa in
funzione di tale sistema di difesa richiede che il motore sia al cinque per
cento di attività, che può far salire il tono del sistema di circa 40 decibel.
Ci sentiranno.»
«E senza l’accensione
del motore?» Chiese Jack.
«Cinquecento
metri circa.» Rispose in modo flemmatico il Computer.
«Sì. Ma se
scivolassero planando lontano dalla nave che continua a girarci sopra?» Chiese
Kimiko.
Il Computer
tacque.
Ci vollero circa
dieci secondi prima che il Computer parlasse.
«Potremmo
allontanarci di circa un chilometro, prima di arrivare a cinquecento metri, e
poi accendere i motori e alzare gli scudi, finendo nelle profondità di questo
mare. Non ci sentiranno!» Disse soddisfatto il Computer.
«Bene! Procedi!»
Comandò Douglas.
Gli altri due lo
guardarono con una faccia che voleva spiegazioni, ma lui fece spallucce.
Kimiko scosse la
testa e Jack si avvicinò al vetro, in fondo al locale, che dava all’esterno.
Un improvviso
scossone fece scivolare la nave verso il basso.
Il Computer fece
planare il veicolo, nel mare nero come il petrolio, verso il fondo, allontanandosi
dal cacciatorpediniere.
Arrivato ai
cinquecento metri, il Computer accese il motore al minimo e alzò gli scudi.
Il rumore del
motore si sentì subito, ma su un pannello, a cui Douglas si era avvicinato, intorno
non vi era nessuno.
Un improvviso
clinch attirò l’attenzione di Douglas.
«Cosa diavolo è?»
Urlò ad alta voce Douglas.
«Un veicolo,
lungo circa settanta metri, alto cica nove metri, di forma cilindrica. È ad una
profondità di circa duecento metri. Dai miei dati può scendere ad un massimo di
trecentocinquanta metri. Non può darci fastidio.» Disse il Computer,
soddisfatto di sé stesso.
«Sì. Ma i loro
sistemi di individuazione, anche se siamo mimetizzati, ci possono sentire.
Meglio fermarsi sul fondo per un po’!» Disse Kimiko.
«E se potessimo
mangiare e bere non sarebbe una brutta cosa!» Disse Douglas, con il suo stomaco
che rumoreggiava.
Una console,
verso l’ingresso della stanza, si illuminò e apparve del cibo e da bere.
L’acqua, nei bicchieri
di plastica dura, o qualcosa di simile, era limpida e il cibo (una bistecca di
carne alta un centimetro, con patatine fritte, insalata e altre verdure) avevano
una faccia molto invitante.
Douglas prese un
piatto, un bicchiere, delle posate bianche, anch’esse forse di plastica, e si
diresse verso un tavolo circolare, vicino alla finestra che dava all’esterno, con
intorno tre sedie.
Gli altri due
fecero lo stesso e si sedettero al tavolo.
Il Computer continuò
a far scendere il veicolo sul fondo del mare, con alle calcagna il sottomarino.
Raggiunto il
fondo, i tre avevano letteralmente ripulito i piatti e stavano ancora
guardandosi in giro in quella strana stanza.
Il sottomarino
continuò a girare sopra a quel fondale.
Il livello del rumore del motore, a quella profondità, non consentiva
il rilevamento da parte degli inseguitori, che continuavano, comunque, a
cercarli.
«Computer! Quanto
tempo possiamo stare qui sotto?» Chiese Jack, preoccupato.
«Con il motore a
questa potenza, con solo voi tre, possiamo stare qui dai cinque ai sei mesi.»
Rispose il Computer.
«Bene. A questo
punto direi che un pisolino non ci farebbe male!» Decretò Douglas.
«Ma pensi solo ai
tuoi bisogni fisiologici! Magari vorresti anche un cesso?» Lo rimbeccò Kimiko.
«Bhe, in effetti,
se ci fosse…» Ma Douglas non finì la frase: gli altri due si misero a ridere e
il Computer fece apparire dei letti, verso l’ingresso del locale, spostando
alcune console, e da una porta usci il rumore di uno sciacquone.
Douglas di infilò
nel locale, mentre gli altri due si diressero verso i letti.
Kimiko disse
qualcosa al Computer, che Jack non capì.
Ma l’improvvisa
apparizione di un armadio a muro, con vestiti più comodi della tuta, gli fece
comprendere la richiesta della ragazza.
Si cambiarono,
senza troppe formalità sul fatto che erano completamente nudi, senza la tuta, e
si misero delle tute da ginnastica, molto più comode.
Quando Douglas,
finalmente, uscì dal bagno, Kimiko vi andò, senza chiedere il permesso a Jack.
All’apertura
della porta, Kimiko fu raggiunto da un odore sgradevole.
«Computer!
Ricambio d’aria immediato nel locale bagno!» Urlò la ragazza.
La porta si
richiuse e un improvviso vento rumoreggiò nel locale.
Quando la porta
si riaprì, l’odore se ne era andato.
Douglas vide che
Jack aveva un vestito diverso dalla tuta: non fece a tempo a chiedere che
l’altro gli indicò l’armadio, con dentro i vestiti.
Jack si sdraiò sul
letto, mentre il computer diminuiva la luminosità dal locale.
Anche Douglas,
dopo essersi cambiato, si sdraiò sul letto.
Il sonno
raggiunse i due velocemente.
Quando Kimiko
uscì dal bagno, i due russavano tranquillamente.
Kimiko si
avvicinò al vetro e guardò fuori.
Il sottomarino
continuava a ruotare, ottocento metri su, cercando la nave spaziale sotto di
lui.
Kimiko si
allontanò dal vetro e si diresse verso il letto libero.
Vi si distese,
stanca morta, addormentandosi tra il dolce rumore del russare dei suoi compagni
di avventura e del ronzio del motore che li proteggeva dai nemici.