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Autore: Snehvide    02/04/2022    1 recensioni
“Moblit!”
Il giorno in cui morirà, impiegherà almeno un paio d’ore prima di capire di essere morto davvero.
Moblit se lo dice da sempre.
Qualcosa dentro di sé lo ha convinto che quando arriverà il suo turno, la morte avrà comunque il volto di Hange.
Non sa dire se sereno e sorridente come gli piace credere, oppure cupo e indispettito per averla abbandonata a sé stessa senza assolvere il suo compito (più una promessa, in realtà) di ritardare la sua, di dipartita. Davvero, non lo sa.
Ad ogni modo, la morte avrà il suo volto.
Di questo ne è sempre più sicuro. Ed è per questo che, in momenti come questi, è sempre così difficile capirci qualcosa.
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[Moblit/Hange] [Hurt/Comfort come non ci fosse un domani]
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hanji Zoe, Moblit Berner
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Grenzen | Same old limits

“Moblit!”

Il giorno in cui morirà, impiegherà almeno un paio d’ore prima di capire di essere morto davvero.

Moblit se lo dice da sempre.

Qualcosa dentro di sé lo ha convinto che quando arriverà il suo turno, la morte avrà comunque il volto di Hange.

Non sa dire se sereno e sorridente come gli piace credere, oppure cupo e indispettito per averla abbandonata a sé stessa senza assolvere il suo compito (più una promessa, in realtà) di ritardare la sua, di dipartita. Davvero, non lo sa.

Ad ogni modo, la morte avrà il suo volto.

Di questo ne è sempre più sicuro. Ed è per questo che, in momenti come questi, è sempre così difficile capirci qualcosa.

“Riesci a sentirmi?”

Oltre al suo cipiglio, c’è anche la pioggia che gli batte in viso.

È un aiutino fin troppo scontato, no?

“Moblit? Mi senti?”

Vorrebbe accennare un sì, ma non sa se effettivamente riesce a farlo.

Le mani di Hange chiudono le sue guance, interrogano la giugulare.

Tradiscono un fremito che Moblit sa che è lì solo perché è lui; solo perché quella è la sua pelle.

Si sente un po’ arrogante.

“Cos’è successo!?”

La sua voce si incrina più di quanto si addirebbe ai gradi sulle sue mostrine.

“Era sulla sponda orientale del lago, caposquadra. Su in collina il sentiero è franato. Il vice caposquadra Moblit è caduto giù insieme al suo cavallo—”

‘Lago’, ‘frana’, ‘cavallo’, ‘voce di Nifa che declina sciagure’ – sono tutte tessere di un mosaico che si incastrano tra loro creando immagini che prima della sua mente, sono i suoi arti a ricordare.

“Portatelo al riparo, forza!”

“Signorsì.”

Urla quando qualcuno che non è Hange gli accosta le braccia al torace.

Lo fa ancora di più quando quel qualcuno (che non è Hange) va a toccargli invece le gambe.

“Ehi, voi due! Muovetelo piano!”

“Hange—”

“Dannazione, voi due!”

“Ci perdoni, caposquadra.”

“Credete di avere a che fare con una bestia!?”

“Hange, stai indietro, vieni qui—”

Braccia forti e grosse lo sollevano dal carro, ed il dolore è lancinante.

È più di quanto la sua gola riesca a trattenere. Urla ancora.

“Abel! Piano, ho detto!”

“Hange, vieni con me.”

“E tu non toccarmi, Erwin! Abel, cazzo!

La lettiga non mitiga nulla del terreno roccioso sotto la sua schiena. Moblit ci prova anche ad aprire gli occhi, ma non ha una grande visuale.

Non importa quante volte sbatta le ciglia: le gocce di pioggia (e forse qualcos’altro) che lo bagnano saranno sempre più veloci di quanto ci metta il suo cervello a vedere qualcosa che non sia il volto allarmato di Hange gravitare sul suo; il volto allarmato di Hange andare contro tutto e tutti pur di restare lì, a confermare il dubbio sulla sua sorte.


**

“Moblit?”

Non sa quanto tempo sia passato.

A giudicare dai profili traballanti di Abel e Keiji in quel ritaglio di sfondo che gli è concesso scorgere oltre l’incavo del collo di Hange, non più di una manciata di minuti.

Il problema è che non sa dire con certezza neanche cosa sia accaduto, e ha passato fin troppi pomeriggi a studiare insieme ad Hange per non sapere che non è un buon segno.

Non ha più la pioggia scrosciante a battergli il petto, né la voglia irrefrenabile di urlare come non faceva da anni – il volto di Hange però è sempre lì, e a questo punto si domanda se davvero non sia la prova che è tutto finito. Se quei dolori che sente qua e là non siano in realtà parte della scenografia creata dalla sua mente per non fargli patire troppo il distacco dal suo corpo terreno, non subito almeno.

Non troppo in fretta.

“Ci penso io a lui, andate.”

“Signorsì.”

“Ne sei sicura, Hange?”

“Sì. Vai anche tu, Erwin.”

“Di solito sono io a dare gli ordini.”

Moblit apprezza il tentativo del comandante di allentare la smorfia con cui Hange ha storto il viso, perché anche se si sfalda e ricompone ad ogni colpo che gli rimbomba nelle tempie, lui comunque la riconosce; sa in che situazioni appare, e la consapevolezza di essere adesso una di quelle situazioni è più di quanto possa sopportare. Qualcosa di amaro schiocca nel suo palato.

“Mi dispiace, sai? Per prima, intendo. Ho esagerato.”

Erwin non è arrabbiato.

Le fessure dei suoi occhi sono larghe abbastanza per vedere il comandante stringere un’ultima volta la mano sulla spalla di Hange, e quella non è la stretta di un uomo arrabbiato, si racconta.

“Occupati del tuo vice, adesso. Se hai bisogno, non esitare a chiamare.”

“Signorsì.”

Segue la sua uscita con lo sguardo; è proprio questa a dirgli di più: gli racconta che è in una tenda, che il triangolo di luce che si leva dalla falda sollevata al passaggio di Erwin brucia gli occhi, che sono i fiati di Hange quei suoni che sente adesso montare ad un ritmo sempre più serrato, sempre più innaturale.

“Sto bene…” è una risposta codificata nei suoi geni. Di fronte a quei respiri, la direbbero anche se del suo corpo fossero rimaste solo delle labbra: sarebbero più che sufficienti. 

“C-caposqua-dra—” dice, ingoia un gemito. “Hange—” si corregge subito, perché Moblit sa cosa sono i limiti, e sa cosa sono quelle mani nervose che scorrono sul suo petto adesso nudo controllando ad una ad una le costole come fossero tasti di uno strumento macabro che produce suoni sconnessi: lamenti e sospiri che non sarebbero poi così male se non si miscelassero ad altri lamenti ed altri sospiri, e singhiozzi, e fiati anomali che fanno vibrare quelle dita in un tremito che si fa beffa di ogni grado e di ogni stelletta, di ogni dettame della scienza che Hange ha domato.

Questo vuole tornare indietro, indietro ad un tempo perduto. E fa male.

Ingoia qualsiasi altro dolore il suo corpo possa lamentare, fa veramente male.

“Hange—” è più facile rintracciare quella mano che adesso si è spostata sulle sue ossa pelviche, “Hange, st-sto bene—” Lottano un po’, ma poi le dita si calmano, frenano, si fermano quando le interseca di prepotenza alle sue.

L’altra mano è dolorante; sanguina, probabilmente – ma lui la solleva lo stesso, perché il bisogno di andare su quelle nocche è più forte.

“V-va…tutto bene, davvero…” dice ad occhi chiusi, prendendo un respiro come fosse il primo dopo tanto tempo. La tiene ancora stretta mentre sussurra qualcosa che i rintocchi nelle tempie gli camuffano. Qualcosa di dolce, quasi impronunciabile dalla Hange che conosce.  “Dico sul serio.”

Il suo pollice è scivolato lungo la linea del suo polso, legge.
Circa centosettanta battiti al minuto, in diminuzione.
Centocinquanta, i suoi capelli arruffati sotto al mento lo solleticano un po’.
Centotrenta, forse.

Hange allunga un braccio, le sue dita sfregano adesso la nuca; le lenti degli occhiali graffiano il suo sterno, sono terribilmente ingombranti. Più di quel singhiozzo umido che si lascia scappare sul suo petto, lì dove il battito gli fa perdere il conto del suo.

Nell'attimo in cui la sente fremere cala un silenzio che sembra inviolabile. Tace, Moblit.

Non si muove neppure. Resta come in attesa che qualcosa esploda.

“N-non farlo—” Hange si interrompe. Solleva la testa per rimodellare la voce.

Perché è talmente rotta che non va bene, sa che è così. Solo, si domanda se questo abbia o no a che fare con la mano che ad un certo punto le ha infilato tra i capelli, spettinandola ancora.

“Non farlo mai più, Moblit.” La sua bocca è storta mentre con i polsi porta via un altro paio di lacrime di quel pianto mutilato.

“Non piangere,” Stira le parole e gli angoli delle labbra. “Dai, non fare c-così, Hange.”

Ha battuto la testa.
Lo sa lui e lo sa Hange meglio di lui.

E qualunque cosa quella frase possa generare, non la genera.

“E tu non dormire.” Arriva dopo molto tempo. “Se non vuoi che io pianga, allora vedi di non dormire.”

Schietta, armeggia alla sua sinistra con qualcosa. Il miscuglio tra olio combustibile e disinfettante è disgustoso, gli pizzica un po’ il naso.

Moblit sorride, sa che dovrebbe restare vigile. Tutto intorno a lui è un continuo ripeterglielo: Hange, le fitte alle tempie. Hange più delle fitte alle tempie.

Ma è così stanco, e le mani di Hange ancora tremanti sono così leggere su quell’addome che palpa con un tocco che vuole essere freddo e clinico, ma di freddo e clinico non ha proprio niente, le direbbe.

“Ehi—” Dovrebbe scuoterlo per le spalle, quelle non sono rotte (almeno loro, non dovrebbero esserlo). E invece porta una mano sulla sua fronte, quasi dispiaciuta. “Non dormire,” insiste.

“Hai preso una bella botta in testa,” Ci tiene a ribadirlo. Forse perché vuole comunque guardare di nuovo quel che l’impatto del suo cranio contro chissà cosa ha combinato poco sopra l’orecchio.
Gli inclina il collo da un lato; fa male, ma lei fa piano. Ha già passato due, tre volte le dita su quelle ferite, continua a tornarci.

“Non fa male—” la aiuta.

Hange sospira, tampona con una garza che non sapeva neanche avesse tra le dita.
È sicuro che quelle carezze di contorno non siano menzionate in nessun tomo di medicina.

“Se non smetterà di sanguinare dovrò liberare questa parte dai capelli e dare qualche punto.”

Moblit solleva le spalle con disinteresse, ci ripensa un po’: forse qualcosa di rotto c’è anche da quelle parti.

“Hang—” dice, non fa in tempo a finire. Soffia, quasi urla quando le dita di Hange che-più-tanto-gentili-non sono, si aggregano pericolosamente sulle sue gambe. La destra, o forse la sinistra. O forse tutte e due.

Shhh, va tutto bene—”

“Sono rotte, vero?” prova a sollevare la testa, il collo non è d’accordo.

Il palmo che gli piazza sul fianco lo convince a dargli retta.

Shhh

“Sono—sono rotte?” insiste.

“Non mi sembrano rotte, no. Ma tu stai calmo, lasciami controllare meglio.” risponde, quasi spasmodica, “Lasciami controllare meglio, Moblit, eh?”

Moblit esala un sospiro, prova ad inghiottire la nausea.

Quando la lama di una forbice chirurgica gli libera le ginocchia dalla stoffa bagnata, un urlo non sarebbe fuori posto, ma si impone di non farlo. Hange gli solleva le gambe, le piega, le ispeziona meglio sotto la luce di un lume proprio come aveva chiesto, e lui si irrigidisce. Lui affonda gli incisivi nel labbro inferiore, si sforza di respirare con lo stomaco: se non sono le sue gambe ad essere rotte, allora lo saranno altri suoi arti che la concussione non gli permette di rintracciare.

Se non sono le sue gambe, è comunque fortunato.

Hange tocca ferite che non sapeva di avere, anche lì si impone di non emettere alcun fiato.

“Posso sorvolare sulle ferite della gamba sinistra. Con un po’ di attenzione guariranno da sole. Ma quelle della destra sono profonde, Moblit. Devo richiuderle. Non ho scelta.” annuncia, il tono sconfitto e incomprensibilmente colpevole.

“Non voglio essere anestetizzato…”

“Perché?”

Si è sempre detto che il dolore è qualcosa che deve imparare ad accettare.

Più permetterà ad Hange di nasconderlo per lui, più si troverà impreparato quando arriverà un dolore per il quale non esiste anestesia.

Hange attende che il suo silenzio si tramuti in qualcos’altro, poi rinuncia.

Scuote la testa, torna a rimestare in luoghi sbiaditi che la circondano.

“Io non suturo nessuno senza anestesia, lo sai.”

Bugiarda.

I soldati a cui ha riposizionato a mani nude l’intero apparato digerente tra il fango dei campi di battaglia potrebbero certamente testimoniare a suo favore.

“Non quando le condizioni me lo permettono, almeno.” aggiusta il tiro, come avesse intercettato il suo pensiero. Moblit sorride, anche se quell'ago che lo punge da sorridere gli dà poco.

“Coraggio, ne hai sopportate di peggiori in passato,” dice lei sullo spegnersi del suo grugnito, prima di pungerlo ancora, con gli occhi, poi di nuovo con la sua siringa, e sì – i quindici giorni di antinfettivo direttamente a casa del dottor Zoë sono stati ben peggiori, concorda.

Le altre due iniezioni tutt’intorno non le percepisce, né sente ciò che Hange combina dopo al suo polpaccio, e forse non è più neanche tanto importante.

“Senti niente?”

“Cosa dovrei sentire?”

Il crepitio della forbice chirurgica che viene abbandonata sul carrello è segno che la sua domanda di ritorno è stata più che sufficiente.

È pratica e veloce, finisce in meno tempo di quanto la sua mente riesca a tenere traccia.

“Non dormire, ehi—”

Se non fosse per questa frase, scoccata di tanto in tanto a metà tra una preghiera e un rimprovero, sembrerebbe quasi come se Hange fosse andata via. E Moblit è sorpreso di esserne sorpreso: quando sutura, Hange non parla, o per lo meno, non chiacchiera come al suo solito. La sua presenza si fa discreta, il suo respiro si fa leggero, quasi temesse di spezzare la sacralità del momento in cui riavvicinando lembi di carne, sugellare su un corpo nuovi contorni. A volte, nuovi confini.

Neanche lui emette fiato. Lascia che il suo udito acuito dal mal di testa insegua il limpido sibilo del filo che si libra nell’aria come il respiro di una nuova creatura.

 

**

 

“Moblit!”

Non sa quanto tempo sia passato. Neanche questa volta.

Non si è neanche reso conto di essersi addormentato, ma in verità, l’angoscia di averlo fatto non ha su di lui lo stesso ascendente di prima. Ora come ora, la priorità è riuscire a non soffocare nel magro contenuto che il suo stomaco gli riporta in gola sotto forma di conati così, per dispetto. Come se all’improvviso anche lui volesse la sua fetta di attenzioni.

‘Adesso bevi questo, coraggio—’

Il ricordo arriva alla mente tracciato da una delle sue matite: sente le mani di Hange (sono le sue: quelle dita lunghe e ossute possono essere solo le sue) toccarlo dove la sua pelle non ha ancora perso il calore lasciato da prima.

Non potrà mai saperlo con certezza (l’unica cosa certa, è che quella botta alla testa è riuscita ove tutti i boccali di birra di certe notti balorde hanno fallito) ma è abbastanza sicuro che se potesse controllare un lembo della sua guancia sotto uno di quei microscopi che tanto piacciono ad Hange, troverebbe le sue impronte sovrapposte una sull’altra, sempre sugli stessi punti, sempre più visibili.

Come se quelle dita (così lunghe e ossute, così solo-di-Hange) conoscessero ogni sua fibra talmente bene da sapere ove toccare per farlo stare meglio.

O peggio, a seconda dei casi.

Le sue papille ci avevano provato ad avvisarlo che non era solo acqua, quell’intruglio che Hange è riuscita a convincerlo a bere spacciandolo per tale, ma lui non aveva voluto dar loro retta.

Hange aveva raccolto la sua testa e se l’era adagiata contro il petto. Il suo cuore di nuovo calmo nelle orecchie, le sue dita (così sue) sotto al mento… che altro avrebbe potuto fare, se non bere, così come ordinato?

Dio, in quel momento avrebbe anche camminato a quattro zampe, se glielo avesse chiesto.

“Vieni qui, voltati,” lo aiuta a girarsi su di un fianco spingendolo dal collo e dal bacino. Punti strani, ma non casuali: se evita in quel modo le spalle, è perché hanno qualcosa che non va. Prova a muoverle, non è sorpreso di ritrovarle bloccate da bende.

Shhhh, non è successo niente,” bisbiglia. Il fatto che lo ripeta appena dopo e che soprattutto, lo faccia premendo i polpastrelli tra i capelli radi della sua nuca (bendata? Suturata?) fa capire che ‘niente’ non è esattamente il termine che descriverebbe meglio la realtà.

Moblit fa un nuovo tentativo di riaprire gli occhi, giusto perché non vederla in momenti simili gli fa proprio strano.

Ha i capelli asciutti sulle spalle, l’imbracatura allentata.

Gli occhi liberi dalle lenti ostentano uno di quei sorrisi forzati che di solito usa per salvare i suoi pazienti dalla disperazione, e lui non è da meno. Si fa salvare anche lui.

Perché è così bella.

“Han—” Il palmo tra le scapole Hange lo sfrega ancora prima che la sua bocca possa spalancarsi sotto la furia di nuovo conato.   “Non parlare, va tutto bene—”

Non rigetta niente, questa volta. Ma il suo stomaco è un vile, insiste ancora. Ed insistono anche le carezze di Hange su di esso come a dimostrargli che non è il caso di continuare fare la voce grossa e piegarsi in quel modo orrendo.

“Va tutto bene,” Il fazzoletto con cui gli tampona le labbra impiastrate è morbido, è lieve, così lieve da trovarlo quasi piacevole, perché diamine – solo il cielo sa quanto odi vomitare, ma solo una sua concussione è capace di tenere Hange lontana dai pericoli, per cui di tanto in tanto, è ben lieto di offrirgliene una, dice a sé stesso, prima di rendersi conto di star delirando.

Shhhh, non è successo niente, ti sei solo spaventato un po’…” cambia fazzoletto, ripulisce anche i suoi occhi e il fatto che abbia qualcosa da ripulire anche lì spiega perché ci tenga tanto a rassicurarlo.

“Come ti senti adesso? Va un po’ meglio?”

Moblit annuisce.

“Puoi dirlo a voce?”

“Sto meglio—”

Piegata sulle ginocchia, Hange sfiata. Moblit la sente così vicina da metterlo quasi in soggezione. Quasi.

“Sul serio?” è un’altra Hange quella che lo vuole sapere. “Sul serio stai meglio, Moblit?”

È la Hange che ha le dita sporche di fanghiglia e un retino rosso pieno di rospi. Quella che lo prendeva per mano e lo tirava su affinché anche lui, goffo e certamente meno agile di lei, riuscisse a raggiungere il ramo sulla quale si era arrampicata per confermare che sì, quel bugiardo di Joseph Rogge aveva mentito: non c’erano affatto uova blu in quel nido.

“Sì, sto meglio—"

Come potrebbe non stare meglio? Quelle nocche sulle guance e poi sulla fronte sono l’incarnazione stessa dello ‘stare meglio’.

“Il mal di testa?”

“Sta passando…” Più o meno.

“Per fortuna…” bisbiglia, “Per fortuna, Moblit—” e sospira di sollievo, e di amore, e di tutto quello per cui Hange dovrebbe sempre e solo sospirare, secondo lui.

“Vieni qui,” d’un tratto si sente coraggiosa. Moblit lo sente dai suoi polpastrelli, dal modo in cui la sua voce torna quella della caposquadra, o un miscuglio pericoloso e ambiguo tra le due; non è sicuro (qualunque cosa Hange gli abbia fatto bere, e qualunque cosa il suo corpo gli abbia saggiamente fatto eliminare, beh, ha comunque avuto il tempo di fare la sua parte).

“Vieni, mettiamoci seduti, forza—”

Geme, non lo fa di proposito; si maledice per averlo fatto.

Perché anche se Hange finge di non farci caso, Moblit sa che non è così. Le sue mani scivolano, cambiano posizione, cercano con difficoltà un nuovo punto dove poter premere senza fargli male, e si sente in colpa, perché è sempre la solita vecchia storia, soliti vecchi limiti.

Dimentica ogni cosa quando il mondo torna in verticale e la nausea torna a farlo suo.

“Ehi—” La mano di Hange sul fianco gli presta un equilibrio che scopre di non avere; ha più forza in quelle braccia di quanto tenda a credere. “Stai bene?” gli ripete.

Il capogiro è come un moscone che gli ronza in testa. Moblit ingoia saliva acidula. “Sì, sto bene—” mente di nuovo.

Hange inforca gli occhiali recuperati da un lato oscuro alla sua sinistra, lo osserva ancora un po’.

Ne osserva gli occhi che gli fanno la cortesia di restare aperti e incontrare i suoi, poi annuisce appena.

Osserva le bende, le sue lenzuola. Guarda in basso, poi ai lati.

Prende consapevolezza di quello che è un disastro annunciato.

“Mi dispiace,” dice Moblit.

“No, è stata colpa mia. Non avrei dovuto ingozzarti in quel modo.”

“È una tradizione.”

“Eh?” Hange solleva lo sguardo perplessa. Qualcosa si libra in aria, e lui quel qualcosa lo osserva come osserverebbe una monetina da cui attende un verdetto.

Cristo, ma cosa gli è saltato in mente?

“Ah—” Hange sorride, il suo sguardo si ammorbidisce, “La zuppa di grano di zio Ulrich…”

Riprende ad appallottolare tra le braccia le lenzuola sporche che ha rimosso dal suo letto.

L’impazienza è la stessa di chi ha osato indulgere in un bel ricordo troppo a lungo.

“Piagnucolavo come un vitellino al macello per l’iniezione che mi avrebbe atteso da lì a pochi minuti,” Si ferma. La dignità si allea alla nausea, tentano insieme di dirgli che forse ha già straparlato abbastanza, ma non basta. “—ma tu continuasti ad imboccarmi incurante—”

Il sorriso di Hange trema, si allarga sul suo viso più di quanto vorrebbe.

“Finché non vomitasti pure l’anima.” dice, scuote la testa, “Certe cose non cambiano mai—”

“Ed è un—una fortuna.” dice Moblit, trattenendo un sussulto quando i palmi appiattiti di questa vanno a sondare l’incolumità delle bende che gli tengono insieme il torace. Ci prova di nuovo.
“Ed è una fortuna che non cambino, Hange.”

“È una fortuna che io stia ancora qui a rimpinzarti di roba che poi vomiterai?” dice a labbra arrotondate, quasi divertita.

“È una fortuna che tu stia ancora qui—” Il braccio dolorante finito sotto le dita di Hange non c’entra, Moblit si arresta prima. Inspira, avvampa, “—a rimpinzarmi di roba che poi vomiterò,” e naturalmente, rovina tutto.

Hange tace, assorbe la sua frase per qualche secondo, per poi far finta che non sia mai esistita. 

“Questo braccio mi piace sempre meno, credo sia fratturato.”

Comincia a crederlo anche lui: tenere le labbra serrate mentre Hange lo libera dalla benda imbrattata di vomito è spaventosamente difficile.

“Bisognerà dargli una bella sistemata e tenerlo ingessato per almeno quindici giorni,”

“Lascia che sia Abel ad occuparsene. Torna a riposare, ti ho svegliata io, poco fa—”

“Non è necessario.”

Ha già avvicinato il carrello. Rane e ranocchi tratteggiati di gesso sgusciano fuori dalla borsa di tela scura dalla quale Hange estrae piccoli contenitori di latta. Moblit si strofina gli occhi con l’unico pugno che è in grado di muovere ancora, i ranocchi sfumano nelle zone d’ombra intorno.

“Lo farò io non appena troverò un sedativo che il tuo pancino suscettibile potrà tollerare.” Non lo guarda neanche, impegnata com’è a controllare a uno ad uno i flaconi estratti dalla latta.

“Lo farai tu?”

A quel punto sì che Hange solleva gli occhi.

Il contagocce che ha appena riempito di una sostanza scura perde tutta la sua attrattiva. Storce il naso.

“Certo che lo farò io.”

Risposta scontata. Non doveva neanche porla, una simile domanda.

“Solo perché in genere lascio che sia tu ad occuparti di queste cose non significa che io non sia in grado di farlo.” dice senza rimprovero recuperando una tazza dal carrello.

“Non volevo dire questo…”

Il peggioramento della sua emicrania se lo merita tutto.
Il riguardo che Hange gli riserva decidendo di spegnere lì la polemica, no.

Ma la verità è che non è mai stata davvero offesa da quelle parole, è troppo intelligente per farlo.

“È solo che…mi dispiace…”

“Di cosa?” il tintinnio del cucchiaino contro le pareti della tazza sono chiodi che vengono martellati nelle sue orecchie, lì, dove qualcosa sta per cedere.

“Di tutto—” solleva un po’ la spalla, prima che gli faccia troppo male.

Hange solleva un sopracciglio; rimane così per un po’. “Diamine, certo che le commozioni cerebrali ti fanno davvero uno strano effetto—” sussurra, non è seria come vuol far credere.

“Abel ti farebbe male—” aggiunge.

“È un’operazione che fa male…”

“Non con la giusta analgesia.”

Mescola sul fondo del bicchiere un impiastro denso e granuloso che di tanto in tanto solleva, ne valuta la consistenza, per poi agitarlo ancora e ancora.

Lo fa un paio di volte, prima di riuscire a prenderne una cucchiaiata che la soddisfi davvero.

Moblit non ha mai visto niente del genere.

“Vediamo di aprire questa bocca per qualcosa di utile, adesso.”

Calca le ultime parole con un tono da istitutrice. Moblit non oserebbe mai disobbedirle.

Affonda la schiena sul cuscino che ha posizionato per lui, perché la testiera della branda in ferro è, effettivamente, troppo dura.

“Voglio che tu mandi giù questo molto, molto lentamente.”

“Cos’è?”

“Qualcosa che Abel non ti darebbe.”
Non è una risposta che gli basta. Hange ruota gli occhi.

“Te l’ho detto, è un sedativo che dovresti riuscire a non vomitare. Adesso, apri.”

Nello stesso istante in cui il cucchiaio finisce in bocca, Moblit scopre che anche l’inferno può avere un sapore, ma è una scoperta che terrà per sé.

Lo sguardo severo e immobile di Hange ammette un solo, unico gesto da parte sua.

E lui lo fa: deglutisce. Perché sa cosa sono i limiti e sa anche che non c’è niente di cui Hange abbia più paura che il suo dolore.

“Bravo bambino.”

Anche questa è tradizione.

Le lenzuola di riserva che Hange ha recuperato dai vari bauli ancora imballati lì intorno non sono morbide come quelle di prima, ma a contatto con il suo corpo scricchiolano ancora di amido, ed è una bella cosa, dice a sé stesso abbandonandosi a quel tepore protettivo; è una bella cosa perché odorano dello stesso disinfettante che aleggiava nello studio del Dottor Zoë, e dal Dottor Zoë c’era Hange.
E la presenza di Hange non poteva che essere una bella cosa.

Come quella roba che Hange adesso gli ha fatto ingoiare, qualunque cosa essa sia stata.

“Come mai non mi hai ancora fatto una delle tue iniezioni?” La sua voce è già incrinata da qualcosa che lo sta già facendo suo; il modo con cui ricerca la sua figura con lo sguardo tradisce un certo timore.

“Perché come hai detto anche tu, certe cose non cambiano mai—" Hange risponde distratta, aggiungendo un’altra coperta a quella che gli ha già spiegato addosso. Poi abbassa il viso su di lui, lo guarda negli occhi: “Inclusi i tuoi piagnucolii di fronte ad una iniezione—”

Inclusi i suoi cinque giorni necessari affinché si convincesse a bucargli le chiappe al posto di suo zio, vorrà dire.

Ma Moblit non lo dice.

“Non sono più quel bambino di sette anni…” dice ad occhi chiusi, un sorriso gli si allarga sulle labbra, e Moblit lo immagina ebete come poche altre cose al mondo.

“No, non è vero. Sarebbe davvero terribile se fosse così…” una frase simile per essere efficace andrebbe distorta con un sogghigno, una nota di derisione, un pizzico di bonario sarcasmo, ma non ha niente di tutto ciò.

Moblit la sente vibrare nel buio delle sue palpebre come il frammento di un corpo celeste; la vede abbozzare immagini bianche su sfondo nero, ricordi che vanno di pari passo a quelle nocche che Hange fa scorrere sulle sue guance mentre attende che il sedativo faccia il suo dovere.

“Se quel bambino di sette anni smettesse di esistere, allora smetterebbe di esistere con lui anche una parte importante di me, e di certo me ne accorgerei…”

Non sa se lo abbia detto davvero. I suoi occhi sono talmente immoti sotto il cono d’ombra proiettato da Hange che potrebbe benissimo essere parte di un sogno, uno di quelli che subentrano nelle prime fasi del sonno, o della morte, già.

Potrebbe anche essere la morte.
Perché avrà il volto di Hange, Moblit ne è convinto.

“Tu sarai sempre ogni singolo Moblit che io abbia conosciuto. Tu sarai sempre il mio Moblit.”

Qualunque cosa sia, a Moblit va bene così.

 

Fine

 

***

Note:

·       Scritta per l’Advent Calendar del gruppo Hurt/Comfort Italia e betata a tempo di record da Eikomidori. Grazie infinite! <3

·       Segue il filone, condiviso da me e Joy, che vede Hange e Moblit innamorati sin dall’infanzia;

·       La vicenda di Moblit da bambino con la polmonite potete trovarlo nel mio Character Study dedicato ad Hange.

·       Grazie per aver letto! E’ sdolcinata, lo so, ma oh – è uscita così <3. In fondo, è un POV abbastanza inaffidabile.
Visto che il povero Moblit si è preso una bella botta in testa e straparla, ci può stare.

   
 
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