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Autore: Lady A    05/04/2022    0 recensioni
| What if? |
Dal primo capitolo:
"[…] Le catene stringono i polsi fino a sanguinare, le tiro con forza, con rabbia, cigolano ma non cedono. Non cederanno. Resterò per sempre qui, tra i monti verdi. Sola, imprigionata in una follia generata dalla mia mente affamata.
È dura essere soli. Straziante, avvilente, mortale.
Ho catene anche ai piedi. Arranco, cercando di divincolarmi. Serrano con dolore la mia carne, non mi lasceranno mai.
È la mia condanna, la mia punizione, quello che merita una fantasia fervida e ingenua, avida di un amore che non ha senso di esistere.
Non con lui."
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Chichi, Giumaho, Gohan, Goku, Nuovo personaggio | Coppie: Chichi/Goku
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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3

 

“[...] quanto a me, ho le braccia a pezzi
a forza di abbracciare le nuvole!”

Charles Baudelaire - “I lamenti di un Icaro”

 

“«Non devi piangere, mammina. Anche se non lo vediamo, papà resterà sempre insieme a noi, me lo ha promesso. Sai che posso sentire sempre la sua presenza? »” 1




L’occhio cieco di un gigante, brucia nei roghi del cielo. Sanguina, torbido e viscido, in un tramonto di fiamme. Piange e lacrima, orbo e straziato, lungo il bruno orizzonte. Grida e prega, senza voce, dilaniato dal fuoco, nell’indifferenza del mondo. Le ombre strisciano tetre, sul terreno umido e immerso nel silenzio, come ratti informi. Osservo il tutto con quiete distacco. Il sole, ormai ridotto ad un ammasso putrido e sanguinolento, tra i curvi rami di un salice. Più non vedrà. Mai più vedrà questa gabbia di terra e di dolore. Muore ogni sera, tra le ceneri del crepuscolo. Rinasce ogni maledettissimo giorno, cieco d’agonia. Raccolgo le braccia al petto, abbandonando la testa contro il divano; le tenebre strette attorno, come sentinelle spettrali. I capelli ricadono bagnati sulle spalle; gocciolano sottili, lungo il corpo e la seta della vestaglia. Piangono lacrime che non mi appartengono. Goku è stato distrutto nell’esplosione e ha rifiutato di essere riportato in vita 2.
Sorrido, come uno squarcio in una roccia. Stringo le ginocchia tra le braccia, scuotendo ostinatamente il capo. Muori pure e non tornare più in vita. Una lama perfora i miei polmoni, nell’oscurità della stanza. Stringo gli occhi con forza, concentrandomi solo sul respiro. Il cuore fermo e impassibile come acqua stagnante. Un ago, grande quanto una daga, entra a ricucire la mia carne. Richiude lo squarcio, affondando e riemergendo come zanne affilate, dalle frattaglie di un cadavere. Una mano di pietra serra e strattona la mia gola. Annaspo, senza fiato. Strappa e stritola la mia pelle, in un orrido mattatoio. Il suo pugno ferrato, si abbatte nel mio grembo. Riapro le palpebre di scatto, raddrizzando la testa. Mi alzo in piedi. La luna come un’orbita vuota, mi fissa gelida e cieca, nel cielo scuro. Il buio mi scorre tra le dita, immenso come un fiume; mi assedia come fumo di un incendio. Attacca alle mie spalle. È con me, in questa stanza; ha occhi come voragini. Muta il mio cuore in cenere annerita e sogghigna beffardo. Mi volto ad affrontarlo.

«Sei pronta, ragazzina? ».
«È un’ora che sto aspettando, bello»3.

Accendo le luci, il respiro corto e le viscere aggrovigliate come radici nel mare. Il suo volto, riaffiora di nuovo ai miei occhi, in una fotografia. Sposto lo sguardo, incapace di fissarlo ancora, giorno dopo giorno. Non lo rivedrò più, mai più. Andrò avanti. È quello che volevo. Lo volevo, certo, – a volte. Dimenticherò o fingerò che lui non sia mai stato reale. Solo una finzione, un’illusione sciocca, da me creata e da me distrutta. Lui continuerà ad esistere per Gohan. Suo padre, il suo adorato, amato padre, quasi un compagno, come un fratello o un migliore amico. Smetterà mai di pensarlo? Di darsi ogni colpa? Lui vivrà sempre tra queste mura e oltre; un ricordo silenzioso e in agguato, pronto a investire entrambi, ovunque andremo. Sospiro, reggendo il suo sguardo vuoto e il bel sorriso, avvertendo le spalle tremare incontrollate. Ritrovo le lacrime e una rabbia furiosa e irrefrenabile. Scaglio con forza la sua immagine contro il muro, in un crepitare di vetri e legno bianco come le ossa. Precipitano sul pavimento, disperdendosi in ogni angolo e direzione. Strappo il suo viso, fino a ridurlo in brandelli di carta. Spingo i pugni nei detriti affilati, il sangue sulla pelle e tra le dita. Le ferite aperte tra le mani, il corpo scosso da un pianto feroce e brutale. Chiudo gli occhi, chinando la testa, raggomitolata su me stessa, in ginocchio, continuando a pestare colpi, lacerando la carne e il silenzio. La pioggia cade dai miei capelli, bagnando il sangue e mischiandosi alle lacrime. La furia brucia nel ventre, viva e dilaniante come una bestia implacabile. Grido e lotto contro un’ombra morta, dissolta da questa terra. Confinata dal mondo e da me.

 

“Dunque, tanto tempo fa, Bulma mi disse una cosa che mi colpì. Secondo lei, era colpa mia se il nostro pianeta veniva minacciato in continuazione da strani mostri e a pensarci bene, non aveva torto.

Per questo mi sono convinto che laggiù starete meglio senza di me. Inoltre, ad essere sincero, a me non dispiace affatto questo posto. Ah, sapete, Re Kaioh ha promesso di farmi seguire un allenamento speciale come ricompensa per aver salvato il pianeta. E poi di solito, quando si viene nell’aldilà di noi resta solo l’aura. Io invece, possiedo ancora il mio corpo e rimarrò giovane per sempre. Inoltre, qui ci sono molti personaggi interessanti da conoscere, come i grandi maestri del passato. Mi divertirò un sacco.

Insomma, ciò che voglio dirvi è che apprezzo molto i sentimenti che nutrite per me, ma io preferisco rimanere dove sono.

Il mio Gohan è grande ormai, e non avrei più nulla da insegnargli.” 4
 

No, non è vero, ha ancora bisogno di te! 5
 

«Chichi?! Oh, piccola mia».

Avverto la voce accorata di mio padre, alle mie spalle. Mi raggiunge con passo affrettato. Mi stringe tra le sue braccia sicure, accarezzandomi la schiena. Rialzo il mento, piano, asciugando le lacrime con il dorso della mano; il sangue mi schizza sul viso e tra i capelli. Sussulto, nauseata. Vedo le sue labbra tremare, il volto impallidire come gesso, tra la fitta barba. Mi abbraccia forte, pervaso da un senso di impotenza, raccogliendo le mie dita tra le sue, affranto.

«mamma…?».
Sobbalzo, d’un tratto incapace di respirare. Mio figlio mi guarda, immobile e atterrito, le pupille dilatate, trattenendo un gemito.

«Gohan, la mamma si riprenderà tra un momento, perché nel frattempo non metti a bollire il tè?».
Annuisce docile al sorriso bonario di suo nonno, - le spalle rigide e il piccolo volto di un pallore spettrale, scambiando con lui un lungo sguardo, prima di andare.
Perdonami. Perdonami Gohan, ti prego.
Il rosso imbratta il mio corpo, gli indumenti e il pavimento freddo. Macchia le mani di mio padre, fino a corromperne il candore della camicia. «Andrà tutto bene. Tutto bene, ci sono io con te», sussurra calmo, socchiudendo le palpebre e tenendomi stretta. Un ricordo lontano mi precipita addosso, torbido e improvviso. Raschia la mente, si riversa impietoso nella memoria. Rabbrividisco, afferrandomi il petto e scuotendo il capo, incapace di soffocarne il richiamo. Sposto lo sguardo lungo il televisore spento e le tende alle finestre. Le lacrime si fermano tra le ciglia. Le asciugo bruscamente, con i gomiti e il sangue umido tra le dita. Stringo gli occhi con un sospiro, cercando di riprendere fiato. Rivedo me stessa, sporca e bagnata di un rosso intenso e viscido, tra le gambe. La sua ombra grumosa, ad allargarsi e avanzare fino ai miei piedi, infradiciando il tappeto, strappandomi dolorose fitte al grembo, e grida d’orrore e sconcerto. Mi sono rialzata, instabile e impietrita, afferrando disperatamente il telefono. Papà aiutami. La voce rotta dal pianto, il cuore fermo e una tempesta a infuriare nel cielo. Sono crollata in ginocchio, tremando, braccata da una scia di sangue e crampi laceranti al ventre. Capace solo di emettere versi strozzati di dolore - inghiottiti dai tuoni, e cercare la loro presenza in una fotografia.
Gohan, Goku.
Fuori, una pioggia spietata come una ghigliottina. Uno scalpiccio di passi tra l’acqua. La porta spalancata di colpo, con uno schianto. Braccia rassicuranti mi hanno trattenuto con forza e sollevato piano. Ho riaperto lo sguardo, raccolta tra le coperte di un letto d’ospedale. Ricordo ancora l’odore antisettico della stanza e il gocciolare lento della flebo. L’espressione tesa e smunta di mio padre. Il volto del medico, inespressivo come granito. I loro occhi piantati su di me. «Come si sente?». Le dita del Dottore che si contraggono lievi sulla cartella clinica. Non ha atteso la mia risposta. «Era alla settima settimana di gestazione, circa», ha continuato con voce perentoria, sfogliando il dossier. «L’aborto spontaneo che ha avuto, le ha causato una grave emorragia. La terremo sotto sedativi per alcuni giorni. L’utero risulta compromesso. È assai improbabile che possa tentare altre gravidanze in futuro». Un’ultima impassibile occhiata prima di lasciare la stanza, nel suo camice bianco. Piangevo, sperduta, spezzata come un cadavere nel fuoco, tormentandomi le mani, stringendo le spalle, afferrandomi il viso, cercando di rimettermi in piedi. «Gohan…», ho sussurrato, muovendo alcuni passi, quasi strisciando, trascinandomi dietro la flebo e un dolore impronunciabile. «Lo hanno portato via, il mio bambino… il mio unico bambino, lasciami papà, devo cercarlo», ho continuato con voce febbrile, divincolandomi dal suo abbraccio sgomentato. «Come farà a sopravvivere senza di me? Come farò a sopravvivere io senza di lui? Ti prego lasciami andare! Ha solo quattro anni...», gli occhi inquieti, arrossati dalle lacrime e le notti insonni, i pugni chiusi, deboli come sterpaglie. Sono crollata sulle ginocchia, sorretta dalla sua presa autorevole e gentile. Mi sono ritrovata nuovamente nel letto, senza più la forza di lottare, frastornata dagli antidolorifici. Mio padre seduto su una sedia, accanto a me. Le dita intrecciate alle mie e un pianto sommesso sulle labbra. «Gohan…», ho ripetuto sottovoce, sentendo accapponare la pelle nell’aria fredda e pungente, carica di neve. L’ho osservata calare dal cielo, ammassarsi lungo il davanzale della finestra, appannando i vetri, sfiorandomi inavvertitamente il grembo, con un sussulto. Ho perso mio figlio, l’ho lasciato morire, senza fare niente. È stata tutta colpa mia. Non lo sapevo. Non sapevo di essere incinta. Ho stretto i denti, trattenendo un grido, la mente devastata dalla sofferenza e dal pensiero incessante. Ricordo di aver follemente immaginato di raffigurarne i lineamenti. Una bambina. Una piccola, selvaggia creatura, sottile come un giunco, le guance arrossate e lunghi capelli arruffati, scuri come l’inchiostro, sempre pronta al sorriso. E per un solo istante, ho riso tra le lacrime.

 

Lavo le mani e il volto con acqua fresca, scivola torbida lungo la pelle e le dita insanguinate. Guardo con diffidenza il mio riflesso stravolto allo specchio, frizionando i capelli con un panno, le ferite ancora aperte disseminate tra i palmi, come fiori selvatici tra le crepe. Mio padre sospira apprensivo, sfregandosi il mento, battendo lievemente una mano sulla mia spalla. Dovevamo aspettarcelo da lui? 6 sembra chiedere costernato. Quasi dimentico di respirare. Muori pure e non tornare più in vita. Distolgo lo sguardo, sentendo la testa martellare. Le dita sommerse nella rossa pozzanghera del lavabo. Riapro il rubinetto, facendo scorrere dell’acqua pulita. Le stelle si specchiano e annegano nei miei occhi, asciutti e immoti. Spalanco la finestra, l’aria satura dell’odore di pini, more e legno della foresta. Un sentore di nausea mi coglie improvviso.

«Papà, lasciami sola», dico stancamente, voltando la testa verso di lui. Lo vedo sollevare le sopracciglia e aggrottare la fronte, ansioso. «Sto bene, non preoccuparti», sorrido brevemente, spingendo via i capelli dalla faccia, sforzandomi di non vomitare. «Va’ da Gohan, ha bisogno di te». Esita, con un’espressione rattristata. «Dammi solo qualche minuto… », aggiungo, sciacquandomi nuovamente il viso, con una stretta allo stomaco. Annuisce con un’occhiata, chiudendo la porta dietro di sé. Chino il capo, stringendo le palpebre, sfuggendo dal mio riflesso di vetro. Il petto scavato dal rancore e una tristezza profonda.
Rassegnati, ti ha abbandonata. Ha usato Gohan come una pedina. Vi ha lasciati indietro per non tornare. In fondo non lo volevi tra i piedi, perché restare?
Rialzo il mento, sfregando gli occhi. Il cuore in gola. Ritrovo me stessa allo specchio: tormentata, ostile e irrequieta, le memorie a sussurrare all’orecchio e sulle labbra. Le respingo e mi volto, la schiena alla finestra e al canto sottile del fiume. Un malessere a strisciare tra le tempie e le viscere.
Non l’ho mai amato. Mai. Perché doveva restare?
Per nostro figlio, dannazione!

Il suono della sua voce nella mente, avanza cieca e a tentoni nei ricordi. Il suo sorriso affabile e la risata piena di buonumore, come pugni invisibili contro il mio corpo. Infantile e ingenuo il più delle volte, tutt’altro che uno sprovveduto nelle sue orgogliose ambizioni. Sparisci, anche per sempre. Non m’importa niente di te. Niente! Serro i pugni, pestando i piedi sul pavimento. Piccole gocce di sangue vivo, precipitano sul parquet, come rosse perle. Le pulisco con uno straccio, tamponando le mani con della carta. Riorna nei miei pensieri come una rancorosa ossessione. Vorrei colpirlo, strattonarlo. Affrontare e ribellarmi alla sua natura ostinata ed egoista, da Saiyan, e a quel suo lato innocente e pacato. Rassegnati. È morto. La mente esita nel passato. Respiro profondamente, appoggiandomi con le spalle alla parete. Quella notte lontana, le tenebre avevano marciato su un mondo cieco come un pozzo, foderato di nubi cariche di pioggia. La falce di luna, simile ad un’impronta scheletrica nel cielo, oltre un oceano di erba scura. Ho sistemato Gohan nella sua culla, cantando sottovoce. Il suo pianto inconsolabile, a strapparmi dal sonno come ogni sera. Finalmente si è addormentato, ricordo di aver pensato con sollievo, continuando a guardarlo: la pelle rosata come l’alba, la coda distesa e abbandonata al fianco, la chioma e le ciglia nere come la mezzanotte. Ho chiuso le tende della finestra, lasciando la sua stanza in punta di piedi, con la mente e il corpo a reclamare il riposo. Con una smorfia di frustrazione, ho raccolto gli indumenti fradici di Goku, gettati tra le coperte del letto vuoto. Dove si sarà cacciato con questo tempo? Non potevo più tornare indietro, sottrarmi da quel matrimonio insensato, incompatibile per i nostri caratteri, frutto di una mia assurda e infantile fantasia. Ho sospirato con disappunto, costringendomi a fare l’ennesimo bucato. Il lontano ruggito di un tuono a risuonarmi nelle orecchie. Speriamo che Gohan non si svegli. Ho aperto la portafinestra, ritirando in una cesta, la biancheria stesa all’esterno, con le lucciole raccolte tra le ombre come stelle.

«Che meraviglia, non trovi anche tu?».
Ho voltato la testa, incontrando il suo viso, con una fredda brezza sulla mia pelle e i capelli a dimenarsi come spiriti dannati. Scorgendo il suo torace nudo e i muscoli ben definiti, solcati da lame di luce lunare, simili a pallide cicatrici.

«Oh, eccoti qui!». Ho sibilato piano, aggrottando le fronte e stringendo i pugni, sentendo montare una rabbia profonda. Non è colpa sua. Ho ripetuto a me stessa. Rassegnati, arrenditi. Non vedi che vorrebbe trovarsi altrove e non qui, con te?

«Non riesci a dormire?».
La sua voce quiete, sovrastata dall’ostile susseguirsi dei tuoni in cielo, sempre più vicini.

«Nostro figlio stava piangendo», ricordo di aver risposto, scostante, sfiancata da Gohan e dalle notti insonni; strangolata dai miei doveri in casa. Resterà figlio unico. È giusto e inevitabile. Non posso, né voglio mai più rivivere le sensazioni umilianti di quella sera. Sono già trascorsi più di due anni.

«Oh, non me ne ero accorto!».
La mano dietro al capo e l’espressione sorpresa. Ho sollevato le sopracciglia, fissandolo furibonda, le mie dita a chiudersi e ad aprirsi lungo i fianchi, irrequiete.

«Cosa ne dici di batterci, qui e ora?», ho ringhiato d’un tratto, caparbia, sollevando i pugni.

«Vorresti combattere con me? Urca! Dici sul serio?».
Il suo volto a illuminarsi di un disarmante entusiasmo.

«Certo. Ho proprio voglia di darti una lezione!» Ho annuito, fulminandolo con lo sguardo, ritrovandolo più vicino di un passo. La mia immagine riflessa nei suoi occhi, grandi e scuri come braci. «Sto aspettando», l’ho incalzato, fremente e accigliata. «Allora, hai intenzione di fare sul serio o no? Ti sei rammollito per caso?» ho ripreso, infiammata; stizzita dalla tranquillità del suo sorriso.

«Cominciamo!». Ha esclamato con cenno della testa, in posizione di guardia. Lo sguardo serio e determinato a sfidare il mio. Ho sferrato il primo attacco, scagliandomi contro di lui e colpendo il vuoto cieco, percependo la sua presenza improvvisa, alle mie spalle. Mi sono voltata prontamente, tentando colpi su colpi; al collo, all’addome e ai fianchi, inducendolo solo a scartare di lato, senza alcuno sforzo. Riconosco la sua incredibile abilità, ma sono troppo infuriata con me stessa e con lui, per arrendermi.

«Sai Chichi, sei proprio un tipo interessante!».

Ricordo la sua occhiata compiaciuta, la sensazione del suo stivale, a spingere nel mio costato, costringendomi a barcollare all’indietro per un istante, nel boato crescente dei tuoni, tutt’attorno. La sua rapidità nel prevenire ogni mio attacco. Il mio respiro rapido e affannoso, e il volto a infiammarsi di collera.

«Per caso sei arrabbiata per qualcosa?».
Ho ignorato la sua espressione perplessa, avventandomi contro di lui, parando il suo colpo alla caviglia, ricevendone un altro, forte, allo sterno, cadendo con un ginocchio sull’erba e contraendo il viso dal dolore. Accidenti!

«Ti ho fatto male? Non volevo colpirti così forte, scusami… tesoro».

Le sue mani a posarsi sulle mie spalle, piegandosi a cercare i miei occhi, sbattendo le palpebre, imbarazzato. L’ho guardando di traverso, balzando in piedi di scatto, colpendolo con un calcio alle parti basse e spingendolo a terra. È stato davvero sleale da parte mia, ma mi sono sfogata.

«È tutto a posto, tesoro mio?». Ho sorriso ironica, tendendogli la mano, sentendomi trascinare e cadere d’improvviso sull’erba, accanto a lui, con un fulmine a squarciare a giorno l’oscurità, dietro di noi.

«Sentiamo, cosa avrei fatto stavolta? Vuoi dirmelo?».

Ha avanzato a carponi, confuso, fino a circondarmi ai lati, con entrambe le braccia. Il suo petto nudo e i muscoli tesi, come in attesa, su di me. Ho deglutito a disagio, avvertendo un brivido alla schiena.

«Cosa accidenti vorresti fare, Goku?!», ho sbraitato, allontanandolo con uno spintone e vedendolo trasalire. Rialzandomi rapidamente e spolverandomi la camicia da notte.

«Io…», ha continuato a osservarmi, sfregandosi la testa, seduto a gambe incrociate. «Hai freddo?», ha chiesto innocentemente, rimettendosi in piedi. Ho scosso il capo, incrociando le braccia e voltandomi.

«Vado a dormire, buonanotte». Ho tagliato corto, allontanandomi da lui.

«Cosa ho fatto di sbagliato?», ha ripreso smarrito, raggiungendomi e afferrandomi il polso. Per un attimo, l’ho guardato infuriata, impaziente di prenderlo a schiaffi e vomitare tutta la mia frustrazione. Invece, mi sono ostinata al silenzio. Imponendomi di tenere a freno la mia ira, limitandomi a fissare le pallide lucciole svanire, inghiottite dal bagliore improvviso nel cielo.

«Chichi?!». Il disappunto a mordergli la voce, il volto vicino, quasi a sfiorare il mio. Ho sospirato, divincolandomi dalla sua stretta, respingendo la sua vicinanza, sentendo il sapore della bile in fondo alla gola. Non è colpa sua. Neanche sapeva in che guaio si sarebbe cacciato, tenendo fede a quella sciocca promessa. Hai rovinato la vita ad entrambi, brava Chichi! E pensare che la ricerca del ventaglio di Basho aveva quasi creato un legame tra voi. Ho baciato la sua guancia, sollevandomi in punta di piedi; stemperando debolmente la tensione creata tra noi.

«… continuo a non capirci niente», ha mormorato, con un’occhiata titubante.

«Mi dispiace». Ho sussurrato, chinando il capo.

«… i baci è una cosa che fanno solo le ragazze?», ha chiesto d’un tratto, pensoso, strofinandosi il mento. L’ho guardato incredula, sollevando le sopracciglia. Stai scherzando? Ho scosso il capo.

«Ah, allora posso baciarti anch’io!».

Ricordo di averlo fissato, inquieta; il cuore di colpo impazzito. Il suo viso ad andare incontro al mio, a smorzare il fiato e il mondo intero. Le sue labbra lievi sulla mia fronte e lungo la guancia. Il goffo accenno di un abbraccio sulla mia schiena. Ho trattenuto il respiro, reggendomi alle sue spalle larghe, nude e guizzanti. Afferrando d’impulso il suo mento tra le dite, baciandolo piano sulla bocca e socchiudendo lo sguardo. Lottando per un momento con le sue labbra e i suoi piccoli morsi impacciati, avvertendo le sue mani armeggiare con foga, con la chiusura laterale dei miei indumenti. Ho riaperto gli occhi di scatto, fermandomi d’improvviso, ritraendomi di un passo, spaventata. Mi ha guardato confuso, sbattendo le ciglia e attirandomi a sé con gentilezza. Esitando sulla mia bocca, abbracciandomi e strattonando con calma i miei abiti, per toccare la mia pelle esposta. Ho ricambiato il suo bacio, liberandolo lentamente dai pantaloni, scoprendo il suo corpo forte e bollente contro il mio. Ritrovandomi tra le sue braccia, su un nero letto d’erba, incapace di interrompere l’assalto delle sue labbra su di me. Le lucciole a scrutarci tra le fitte ombre, come mille occhi famelici e indiscreti. Le prime gocce a precipitare dall’alto, come lacrime di un gigante. Gli orli della mia tunica completamente aperta, a schioccare al vento, punti dalla pioggia battente, nera e accecante. Ho chiuso le palpebre, trattenendo la sua schiena. I miei seni a sollevarsi ad ogni suo movimento, le pelle d’oca a risalire lungo le gambe e l’interno coscia, sferzati dall’acqua.
È una tregua momentanea, un negoziato di pace illusoria. Effimero come un temporale estivo.
Un espediente, ricorrente negli anni a venire.


 

L’oscurità indugia sorda e immobile, con un volto di pietra, le fauci dilatate e i lunghi artigli scuri, conficcati nelle viscere della terra. Sposto i capelli sul cuscino, rigirandomi nel letto, raggomitolata tra le lenzuola fresche di bucato. Sottili tracce di sangue incrostato, agli angoli delle dita e sul palmo delle mani. Sfrego gli occhi, voltandomi all’altro lato; la testa pesante e un lieve capogiro. Mi sollevo con un sospiro, stringendo le ginocchia al petto, inquieta. Lo sguardo immerso nel buio feroce e assoluto. Il suo odore ancora nella stanza, persistente e fluttuante come uno spettro in catene. Scalcio le coperte, gli occhi asciutti, fissi alla finestra socchiusa. La notte avanza lenta e strascicante; una creatura viva e infida, tenebrosa. Affamata dei miei pensieri intrappolati nella mente, a impedirmi di dormire. Deglutisco, la luce del lume a lacerare le ombre, come un colpo di mannaia. Percorro la stanza a piedi nudi, avanti e indietro, ricamando a lungo, seduta sul pavimento in attesa del giorno, ascoltando il tetro canto di un gufo.
Se n’è andato davvero, stavolta, e ti ha mollata con un figlio. La farsa può dirsi conclusa. Dimenticalo. È stato solo un capriccio per te. Non pensare più a lui.

Mi rialzo, abbandonando il cucito, colpendo con un pugno, il muro dietro di me. Aprendo una crepa, sprezzante e frastagliata, simile ad un ghigno mostruoso. Giro la schiena, stringendo le palpebre, le dita scorticate e doloranti. Il tiepido abbraccio dell’aurora, giunge alle mie spalle. Il cielo coperto d’oro, rosa, cremisi e arancione. Lo osservo, muovendo stancamente la mano, con un formicolio, spegnendo la luce e riprendendo a cucire. Il mattino incontra un sole ruggente, con le montagne arrossate, in un verde mare erboso. Mi vesto allo specchio, spazzolando e raccogliendo i capelli dietro la nuca. Scendo le scale, con uno sbadiglio, distinguendo un odore di uova fritte e pancetta croccante. Raggiungo Gohan e mio padre in cucina, entrambi attorno ai fornelli, con un grembiule colorato e l’espressione allegra.

«Buongiorno». Dico con un breve sorriso, lanciando un’occhiata distratta al televisore accesso su un programma di cucina francese.

«Buongiorno figliola, la colazione è pronta».

«… sì, buon appetito, mamma!».

Annuisco, scompigliando affettuosamente i capelli del mio bambino. Mi siedo, bevendo del succo d’arancia, cogliendo un sapore acido e amaro a strattonare lo stomaco e il palato. Mangiamo, accompagnati dalle parole del conduttore televisivo, alle prese con l’impasto della torta Saint Honoré. Un’ombra al mio fianco a rivangare l’assenza di Goku, come un secco colpo di frusta. Sposto lo sguardo, alzandomi, cominciando a sparecchiare e a lavare le stoviglie.

«Io continuo i compiti».

Mi volto, accennando un pallido sorriso in direzione di Gohan, contraendo il pugno dolorante con una smorfia.
Non fa niente per oggi. Non fa niente, resta pure qui, con me. Vorrei dirgli, la voce d’un tratto impigliata in gola.
Continuerà a pensarlo, trafitto dai ricordi come chiodi nella carne, rincorrendo un esile filo di fumo, dalle sue fattezze e la risata spensierata.
Non soffrire amore mio, vorrei gridare. Non soffrire per lui, non più. Ci sono io e c’è il nonno, non sei affatto solo. Non soffrire e non sentirti in colpa, neanche per un istante, neanche lui lo vorrebbe.
Perdonami se cercherò di dimenticarlo, di ignorare il suo volto nelle fotografie, il giorno del suo compleanno, e se getterò i suoi vestiti in un baule, per non doverli più vedere.
Perdonami per non essere riuscita a farmi amare e per non averlo mai amato abbastanza.
Perdonami per aver desiderato che sparisse, senza dar peso ai tuoi sentimenti.
Perdonami e continua pure ad amarlo se vuoi, ad avvertire la sua presenza sempre accanto a noi, a pensare che trovi il tempo di guardarci dall’alto, per veder crescere te e invecchiare me. Sappiamo entrambi che non lo farà, non si volterà mai indietro, ma tu continua pure ad amarlo con il tuo cuore di bambino e di figlio. Noi due andremo avanti, insieme. Un giorno questo fardello sarà più leggero, quasi impercettibile. Io cercherò non pensarlo e di non odiarlo troppo. E di dimenticarlo davvero; perché solo allora, sarò libera.

 

«Chichi, figlia mia, hai voglia di parlarne?».

La presenza di mio padre mi riscuote d’improvviso, dopo un lungo momento. Respiro a fondo, sfilando i guanti di gomma, riponendo gli ultimi piatti nella credenza. Spegne il televisore, scrutandomi preoccupato.

«Non c’è nulla da dire…», scrollo le spalle, girandomi verso di lui e incrociando le braccia, fissando il parquet battuto dal sole. «Dico davvero. È morto e ha preferito restare dov'è, va bene così. È una sua scelta», sollevo gli occhi.

«No che non va bene. Il suo posto è qui, con voi, sulla Terra», sospira, corrugando la fronte e agitando il capo, amareggiato. «Come può non capire questo? Accettare che Gohan cresca senza di lui e rinunciare a te…», sussurra contrito, posando affettuosamente una mano sul mio braccio.

«Oh papà…», stringo la sua grande mano nella mia, con il cuore in subbuglio. «il nostro è stato un matrimonio insensato, senza amore», mi ritrovo a dire in tono incredibilmente quiete. «Lui non mi ha mai amata, né tantomeno l’ho fatto io» rivelo, senza distogliere lo sguardo da lui.

«… Chichi, tesoro, sei solo sconvolta, lo sai anche tu…». Solleva il mento, incredulo, i lineamenti scavati dall’esitazione, le pupille dilatate e il volto cereo.

«Invece è la verità», annuisco, chinando leggermente la testa. «… mi conosci come nessun altro. Sono stata io a volermi sposare, a volere un bambino e a muovere i fili di questa farsa assurda. Ho fatto tutto da sola, la colpa è soltanto mia. Ho approfittato del suo buon cuore», ammetto, stringendo le palpebre con stanchezza. Ferita da me stessa.

«Figliola, non sai quello che dici. Lui ti ama, ne sono convinto» si ostina, stringendomi le spalle, imponente come un gigante. «E lo stesso vale per te. Siete affini, adatti l’uno all’altra, anche se diversi e spesso in disaccordo. L’amore è anche questo. Accettare i difetti dell’altro senza sentire la necessità di cambiarlo, rispettare i suoi punti di vista anche se diversi dai tuoi, lasciarlo andare, sapendo che alla fine tornerà…», la sua voce si spegne di colpo. Deglutisco, arretrando di un passo, senza fiato, le unghie ad affondare nel palmo.

«Ha scelto di non tornare. Non m’importa assolutamente nulla di lui. Non lo amo e non l’ho mai amato!».

Grido feroce, a denti stretti. Il furore represso e aggrovigliato come serpi nel petto. Giro la schiena, scorgendo con sgomento la figura di Gohan, in fondo al corridoio. Avanza oltre la porta, l’espressione cupa, le mani intrecciate al grembo e lo sguardo basso.

«… ho terminato gli esercizi».

Una nota aspra nella sua voce appena udibile. Un lampo di irritazione sui suoi lineamenti pallidi, innocenti e gentili, gli occhi fissi sul pavimento.
Oh, no. No. No. Mi dispiace, mi dispiace tanto, tesoro mio.
Rabbrividisco nauseata, scuotendo il capo, piena di sconcerto ed esitazione. Il suo ostinato distacco come uno schiaffo in piena faccia.
Perdonami per tutto questo. Sei la mia unica ragione di vita. Il mio unico e grande amore.

«Perfetto, figliolo! Vieni, andiamo a prendere una boccata d’aria. Potremmo andare a pesca, cosa ne dici?».

Sussulta, annuendo e affiancando suo nonno, senza mai guardarmi.













1, 2, 3, 4, 5, 6: citazioni tratte dall’anime.

  
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