Capitolo
16: 30 aprile 1988. Maia
Ricordatevi
di me, ricordatevi di me,
dimenticate
il mio destino.
Alessandro
Baricco
Volgi
gli
occhi lucenti su di noi,
o
Atena Glaucopide:
noi
che
viviamo con cuore saldo e pietoso,
nell’attesa
del
Tuo ritorno.
Era
la prima preghiera che i devoti ad Atena insegnavano ai bambini: la
più semplice, la più conosciuta e, come spesso accade, anche la più
amata.
All’inizio
della sua esperienza al Santuario Maia l’aveva sentita recitare
innumerevoli volte, non di rado accompagnata da canti e altri inni che
parlavano di fede e speranza; a quel tempo il Grande Tempio si stava
preparando ad accogliere la reincarnazione della Dea, ed era quindi
divenuto meta di pellegrinaggi da ogni parte del Mondo Segreto.
Nei
mesi immediatamente antecedenti l’evento l’eccitazione e la letizia
dei credenti erano state tali che neppure la strana scia di omicidi e
sparizioni dipanatasi nell’arco delle settimane aveva avuto il potere
di scalfirle: cavalieri di basso grado trovati senza vita negli
avamposti, cadaveri di soldati semplici gettati in fondo alle rupi…
eventi di scarsa rilevanza, dinanzi alla resurrezione della Divina.
Dopo
la Notte degli Inganni, però, l’ombra scura della morte e del
tradimento si era definitivamente allungata sul tanto atteso ritorno.
“A
causa
delle empie azioni di Aiolos di Sagitter, Atena bello sguardo non
benedirà proprio nessuno”:
questo il messaggio intrinseco racchiuso nelle parole del nuovo Gran
Sacerdote, assiso sul Trono di Grecia a seguito della dipartita del
vecchio Shion di Aries.
Durante
il suo pontificato, poi, Arles aveva progressivamente trasformato il
culto della Dea in una questione prettamente elitaria, riservata a lui
e a pochi accoliti scelti.
L’iniziale
divieto di presenziare ai riti, dapprima rivolto soltanto alla gente
comune, in seguito era stato esteso anche alla maggioranza dei saints;
un numero sempre più folto di editti aveva via via proibito ogni
attività riguardante il pubblico esercizio della preghiera al di fuori
delle festività stabilite, sino ad arrivare a rendere illecita
qualsiasi invocazione fatta ad alta voce.
Lo
scopo di una tale strategia era stato infine raggiunto: col passare
del tempo, infatti, la benevola immagine di Pallade occhi lucenti
radicata nel cuore dei fedeli aveva finito per lasciare il posto a
quella di una divinità distante e inaccessibile – un theós
di cui non era saggio attirare l’attenzione.
Ancora
troppo piccola per curarsi del timore reverenziale che stava montando
attorno alla figura di Atena, da bambina Maia si era divertita spesso
ad immaginarne le sembianze: prendendo a modello l’enorme statua che
sovrastava il Santuario e le scarne descrizioni dei testi antichi,
soleva figurarsela bellissima e misericordiosa, con gli occhi grandi
come quelli di certi rapaci notturni.
Neppure
più tardi le subdole macchinazioni di Arles avevano attecchito troppo,
nella sua mente: a minarne la fede era bastata e avanzata la cruda
realtà a cui per anni aveva assistito, che sembrava prendersi gioco
degli sforzi di chiunque – compresi quelli di coloro da lei amati.
I
suoi genitori e i loro interminabili viaggi, che spesso li tenevano
lontani da casa per mesi interi; nonna Frandra e le preghiere che si
ostinava a bisbigliare nel silenzio della sera; il Dottor Savasta,
impegnato a salvare vite votate alla Morte; quei suoi amici pieni di
solitudine, cicatrici e ossa rotte da rattoppare.
Non
aveva mai compreso cosa spingesse tutti loro a lottare per un qualcuno
nel cui nome si commetteva ogni sorta di ingiustizia, così si
era limitata a voltare la testa dall’altra parte e tentare di rendersi
utile come meglio poteva: imparare a usare un bisturi, ricucire
ferite, riparare fratture, sistemare denti saltati era diventato il
suo modo di combattere, la religione alla quale dedicare la propria
fatica.
Non
aveva più dato importanza alle fattezze di Atena… fino a che Ella non
le era sfilata dinanzi.
Era
successo qualche giorno dopo la cerimonia funebre, durante una visita
della Dea all’ospedale da campo.
Maia
vi si trovava contro ogni ragionevolezza, i nervi sovraeccitati in
netto contrasto col corpo ancora sfibrato dalla recente malattia;
stava dando istruzioni agli apprendisti, quando delle voci concitate
avevano iniziato a serpeggiare tra il personale.
«Atena
e i cavalieri di bronzo stanno venendo qui!»
«Durante
il funerale l’ho vista soltanto in lontananza: quale onore poterLa
ammirare così da vicino!»
«Datevi
una sistemata: mica vorrete stare al Suo cospetto in condizioni
così indecenti?!»
«Maia,
hai sentito? Sta per arrivare la Dea!» aveva
esclamato
Clio estasiata, tirandola per la manica del camice «Cosa
dobbiamo
fare?»
In
principio, Maia non le aveva risposto. Aveva la gola troppo secca, e
le dita impegnate a stringere le forbici con una foga tale da
sbiancarsi le nocche.
«Non
voglio
incontrarla. Non voglio incontrare nessuno di loro» aveva pensato, preda di un terrore del tutto irrazionale.
«Maia?»
Poi,
facendosi forza, si era costretta a prestare attenzione ai ragazzi che
la fissavano incerti.
«Maia,
ti senti bene?»
«Sì.
Dunque, voi…»
«Eccola
lassù!»
Dopo
tali parole, gli sguardi di tutti si erano sollevati all’unisono.
Sei
persone stavano percorrendo la strada che, costeggiando la scalinata
principale, conduceva sin lì: cinque uomini, tutti un po’ zoppicanti e
malconci, circondavano una donna vestita di bianco.
Persino
da quella distanza a Maia erano sembrati soltanto degli adolescenti
fuori posto, stranieri in terra straniera: soprattutto colei che
chiamavano Atena la Grande le era apparsa piccola e fragile. Insignificante.
Non
aveva avuto il tempo di incontrare i suoi occhi, né di scoprire se
essi fossero davvero lucenti come se li era immaginati durante
l’infanzia; aveva lasciato cadere le forbici ed era corsa via,
nell’indifferenza generale.
*
La
Tredicesima era la più imponente e superba di tutte le Case dello
Zodiaco.
Essa
sorgeva all’ombra della Collina delle Stelle, proprio accanto
all’effige della Dea: da quella posizione dominava l’intera Valle
Sacra come un sovrano che si lasci ammirare dalla folla esponendosi
sul balcone del palazzo reale.
All’infuori
dei Gold saints, Maia non conosceva nessun altro che si fosse
addentrato fra i suoi colonnati – eccettuati coloro che, chiamati a
comparire al cospetto di Arles, non avevano più fatto ritorno.
Neppure
lei vi si era mai recata personalmente; quella era la prima volta che
ne varcava l’ampia arcata, oltre la quale si distinguevano soltanto
mura e penombra.
La
ragazza diresse i suoi passi lungo i pavimenti di marmo con guardinga
soggezione, stringendosi nella stola da viaggio che non metteva da
anni. L’aveva rispolverata appositamente per l’occasione: indossare il
mantello era il modo più sicuro che conoscesse per attraversare il
Santuario con discrezione.
Tuttavia,
giunta dinanzi a un alto portone, dovette abbassare il cappuccio e
palesare la propria identità ai soldati di guardia lì presenti. Erano
due, un ragazzo e un uomo in età matura.
«Dichiarate
chi siete e cosa vi porta all’ingresso della Sala del Trono».
«Sono
Maia Ninis, nipote della custode Frandra Ninis. Sono stata convocata
da Lady Saori con l’intermediazione del cavaliere d’oro di Leo»
rispose lei, porgendo al più anziano dei due una pergamena siglata da
Aiolia.
L’uomo
ruppe la ceralacca ed esaminò il documento con espressione incolore,
poi lo passò al compagno; questi si chinò a sussurrargli qualcosa
all’orecchio, coprendosi la bocca con la mano.
Maia
assistette alla scena senza muovere un muscolo, troppo occupata a
pensare a cosa avrebbe fatto e detto una volta dentro
per lasciarsi infastidire da tutto quel rigorismo. Era così tesa che
il lieve cigolio prodotto degli enormi cardini placcati d’oro la fece
sobbalzare.
«Potete
passare» esclamò infine il soldato, mentre si scostava leggermente per
lasciarla entrare.
Non
appena ebbe attraversato la
soglia, la porta si richiuse dietro di lei con uno schiocco repentino.
«C-c’è
qualcuno?» chiese quindi, intimorita dal silenzio sacrale che le era
improvvisamente piombato addosso.
La
sala era vasta e spoglia, decorata soltanto da un tappeto di velluto
rosso che attraversava gli spazi come un simmetrico rivolo di sangue
rappreso; nessun lume rischiarava l’ambiente, fatta eccezione per il
fioco chiarore che filtrava dai pesanti drappeggi collocati sul lato
opposto della stanza.
Maia
si avviò svelta in quella direzione, gli occhi puntati sulle tende.
Era inspiegabilmente attratta da ciò che doveva esserci al di là di
esse, tanto da dimenticare per un attimo che la sua domanda non aveva
ancora ricevuto risposta.
Quando
ne tirò una a sé, venne inondata da un brillante fascio di luce
pomeridiana.
La
vetrata affacciava sul lato destro del Grande Tempio, il meno
scosceso; oltre i profili delle Case dispari era possibile osservare
il resto del Santuario digradare dolcemente fino alle scogliere che
calavano a picco sul mare.
Pur
non volendo, la sua attenzione fu ben presto catturata dai contorni
dell’Undicesimo Tempio. Sembrava strano guardarlo da quella posizione,
perché contemplarlo dall’alto sottintendeva che aveva avuto il
coraggio di attraversarlo.
Nei
suoi incubi, invece, non ci riusciva mai.
Aveva
sognato la sua personale “scalata” per innumerevoli notti,
ripercorrendo la stessa scena – quella, già vissuta, dell’11 settembre
1986 – sino a svegliarsi tremante.
Il
Tempio
scintillante, il respiro condensato in nuvolette di vapore acqueo, i
contorni azzurrati delle cose; Camus a terra, perfetto nella sua
stasi ormai immutabile, coi capelli intessuti di ghiaccio e lo
sguardo vuoto.
«Camus.
Camus.
Camus!»
Maia
lo
chiama, lo scuote come se quel corpo
potesse ancora destarsi e
parlarle; poi, vinta dal freddo e dall’inutilità dei suoi sforzi, si
accascia sopra il cadavere.
Non
si
rialza più.
«È
bellissimo, non trovi?»
La
voce, limpida e soffice, si era levata da qualche parte alle sue
spalle.
«Sì,
Camus
era davvero bellissimo».
«Bellissimo...»
Maia
aveva risposto automaticamente, senza riflettere; quando se ne rese
conto, si affrettò a voltarsi.
«…
il Santuario».
«Certo:
il Santuario. Sai, mio nonno era un appassionato di storia e cultura
antiche. Soprattutto l’Ellenismo lo affascinava: non si stancava mai
di parlare della civiltà greca, dei suoi personaggi illustri e dei
suoi miti. Poter vivere in un luogo come il Grande Tempio l’avrebbe
reso immensamente felice».
La
sua interlocutrice era una ragazza dalle spalle minute e le guance
rosee come petali; aveva meravigliosi capelli castani e grandi occhi
di un blu così scuro che si sarebbe potuto confondere col nero.
«Perdonami:
ti sto trattenendo con inutili chiacchiere senza nemmeno essermi
presentata. Sono Saori Kido» disse poi, eseguendo un inchino appena
accennato.
Maia,
che aveva una conoscenza assai superficiale delle usanze giapponesi,
ricambiò il gesto in modo goffo: «Maia Ninis».
«Sei
stata gentile a rispondere al mio invito così rapidamente, Maia. Ma
adesso vieni, ti prego: sediamoci un po’».
Saori
si mosse leggera verso il centro della sala, per poi fermarsi ai piedi
di una piccola scalinata che Maia, entrando, non aveva notato; sulla
cima di questa si ergeva una specie di altare marmoreo, basso e
disadorno. L’effetto finale restituiva all’osservatore un senso di
incompiuto, quasi che ci fosse uno spazio vuoto da riempire.
La
greca fissò per un attimo la sommità dei gradini, immaginando Arles
assiso su un enorme trono intarsiato e tutti i Gold saints chini al
suo cospetto; se lo figurò in maniera sorprendentemente nitida, l’ex
Gran Sacerdote, mentre osservava ghignando quelli che avrebbero dovuto
essere i suoi parigrado porgergli degli onori del tutto indebiti.
«Manca
il Trono» constatò allora, sottovoce «questa viene chiamata la “Sala
del Trono”, però qui non c’è nessuno scranno».
«Hai
ragione» asserì l’altra con un cenno della testa «A quanto pare il
Seggio pontificale è andato distrutto durante lo scontro tra Ikki di
Phoenix e Saga, ma io non ho ritenuto necessario sostituirlo».
La
frase fu pronunciata con un’autorevolezza e, al contempo, un’umiltà
tali da far accapponare la pelle di Maia.
Non
ho
ritenuto necessario sostituirlo equivaleva
a dire Non ne ho bisogno,
eppure le due espressioni non suonavano affatto alla stessa maniera.
«Perché
una
Dea dovrebbe dissimulare la propria potenza, specialmente di fronte
a qualcuno che non è neppure un saint? Si tratta forse di falsa
modestia?» pensò,
mentre si appoggiava cautamente al bordo dell’altare su cui Saori si
era seduta nel frattempo.
Quest’ultima,
se anche fece caso alla sua diffidenza, non lo diede ad intendere.
Rimase anzi in silenzio per qualche secondo, lisciandosi le pieghe di
un abito rosso dall’aria antica e piuttosto costosa; poi, tutto a un
tratto, il suo sguardo insondabile si alzò a cercare quello di Maia.
«È
curioso: nonostante tu sia poco più di una semplice civile, qui al
Santuario il tuo nome è più noto di quello della maggior parte dei
saints minori. Ho sentito molte cose su di te, Maia Ninis: so che sei
la nipote di Frandra Ninis, custode fedele da più di mezzo secolo; so
che i tuoi genitori, Eleni Ninis e Federico Spadaro, sono morti in
missione per conto del Grande Tempio; so della tua vocazione per la
medicina e del prezioso contributo che da anni fornisci al personale
sanitario interno».
Saori
si interruppe un istante, le mani poggiate in grembo e un sorriso
discreto sulle labbra: «Ma queste sono informazioni che ho reperito
soltanto dopo qualche tempo, in virtù della frequenza con cui i
cavalieri d’oro sono soliti rammentarti – spesso inconsciamente. Mi ha
colpito non poco il fatto che tu sia presente in quasi tutti i loro
ricordi… esclusi quelli più recenti».
A
quelle parole, Maia sentì il corpo farsi pesante.
«Ecco,
ci
siamo».
Benché
fino ad allora si fosse mantenuta sul vago, era spaventosamente ovvio
che la sua interlocutrice non l’aveva convocata solo per fare
conversazione.
Cosa
sapeva, Saori? I cavalieri di bronzo le avevano sicuramente riferito
quanto accaduto subito dopo il rito di restaurazione delle armature,
ma poi?
Se
davvero ella aveva parlato con tutti i Gold saints, allora era molto
probabile che fosse a conoscenza anche del resto; non poteva neppure
escludere l’eventualità che sapesse tutto a
prescindere.
Le
stava forse per chiedere di dare conto delle proprie azioni? In fondo,
secondo le leggi penali vigenti al momento del fatto, ciò che Maia
aveva detto contro il Grande Tempio e la Dea stessa costituiva
un’eresia passibile di condanna a morte…
«Leggo
la paura sul tuo viso, Maia. Ma se pensi che io ti abbia fatto venire
fin qui per metterti sotto processo, stai sbagliando».
Le
si era rivolta con un’espressione serissima, quasi che dalle
convinzioni di Maia dipendessero le sorti del mondo intero.
«Non
ho alcun diritto di giudicarti, e neppure ho mai avuto l’intenzione di
farlo; piuttosto, volevo… ringraziarti».
«Ri…
ringraziarmi? E per cosa?»
«Per
il tempo che hai trascorso con Aldebaran, Mu, Aiolia, Shaka e Milo
mentre io non… potevo esserci. Seppur in diversa misura, ognuno di essi nutre
sincero affetto nei tuoi riguardi. Ti sono grata per esserti presa
cura di loro – e non soltanto
di loro – come se fossero parte integrante della tua famiglia».
“Quella
stessa
famiglia di cui TU li hai privati”:
in un passato non troppo remoto, Maia avrebbe senza dubbio risposto
così.
Avrebbe
accusato Saori di quella e mille altre cose, dando finalmente voce a
una lista di recriminazioni allungatasi per anni, ma adesso le pareva
un gesto stupido e inutile.
Gettò
un’occhiata in tralice alla ragazza che le sedeva accanto, silenziosa
e composta in maniera impeccabile: aveva l’aspetto di un’adolescente,
eppure la sua presenza incuteva indubbio rispetto.
Non
avrebbe saputo dire se ciò dipendeva più dalle consapevolezze che
aveva faticosamente raggiunto o dalla dignità che trasudava da lei;
tuttavia, c’erano delle responsabilità che non potevano non
esserle addossate.
Stava
ancora cercando qualcosa con cui ribattere, quando l’altra prese
nuovamente la parola: «Non aver timore di esprimere ciò che senti: so
che imputi a me la colpa di quanto è accaduto. Parla pure
liberamente».
«Atena
propugna la pace, è vero, ma è stato Arles a volere la guerra:
senza il suo imbroglio, la battaglia delle Dodici Case non avrebbe
avuto ragion d’essere».
«Io
non… non riesco a capire!» esclamò allora Maia, le palpebre serrate
nello sforzo di non esagerare «Gli dei sono esseri primigeni. Creature
immortali, onniscienti, onnipotenti: è questo che insegnano tutti, dai maestri laici sui
banchi di scuola ai rappresentanti dei culti più svariati. È questo
che proclamano i sacerdoti del Mondo Segreto ad aspiranti e fedeli. Ma
se così è, che senso ha servirsi di braccia armate umane?
Perché mandare a morire i propri adepti, quando basterebbe schioccare
le dita?»
La
sua voce, resa più acuta dalla concitazione, rimbombò fra le pareti
della sala vuota come un grido di sdegno mai del tutto represso:
«Quando iniziò la sua ascesa al potere, Saga di Gemini aveva appena
diciassette anni: un ragazzino prodigio che ha saputo ingannare il
mondo intero, costruendosi un alter ego attraverso cui distribuire
vita e morte ad esclusivo piacimento della sua mente malata. Un
semplice uomo che ha finto
di agire in nome e per conto della divinità a cui si era votato, la
quale, una volta accortasi della frode, avrebbe dovuto polverizzarlo
seduta stante. Invece, a combatterlo, sono stati mandati altri umani:
saints poco più che bambini, che hanno ucciso per non essere uccisi.
Arles è stato sconfitto, sì, ma a quale prezzo? Vincitori con le mani
intrise di sangue, superstiti devastati da senso di colpa, soccombenti
ammazzati senza possibilità di redenzione… mi risulta davvero
difficile credere che non esistesse altro modo per giungere al
medesimo risultato».
Poi
tacque di botto, il respiro incastrato tra i denti per l’affanno.
Aveva
la sensazione di aver detto troppo e, insieme, di non aver detto
abbastanza.
La
sua mente tornò alla notte precedente l’attacco al Santuario, alla
figura di Camus avvolta dalla luce bianca della luna.
«Per
la
gloria. Perché l’essere saint
mi ha dato la possibilità di far sì che, alla mia dipartita, il
mio nome non divenga una semplice incisione su una tomba bianca.
Troppo spesso ci si scorda dei deceduti e delle loro gesta:
desidero andarmene sapendo di aver lasciato una traccia del mio
passaggio su questa Terra. Solo così sarà valsa la pena di aver
sofferto tanto».
Aveva
pronunciato quelle parole con tono ed espressione ferrei, addirittura
feroci, quasi che già conoscesse cosa sarebbe accaduto a neppure 24
ore di distanza.
Ma
che traccia aveva lasciato Aquarius, in fondo, se non quella
dell’avversario battuto?
L’essersi
opposto senza riserve a Hyoga del Cigno aveva del tutto oscurato la
persona eccezionale che era stato, consegnandolo alla storia e agli
occhi della sua Dea quale traditore; era morto così, senza grazia né
gloria. Invano.
Il
solo pensiero le provocava la nausea – anche se Aiolia aveva detto che
dare un senso alla morte spesso non serve a nulla.
«…»
Per
la prima volta da quando le si era palesata, Saori non la stava
guardando; anzi, il suo accorato discorso sembrava averla messa a
disagio. Adesso teneva la schiena leggermente incurvata e il viso
nascosto tra i capelli.
«I
tuoi sono dubbi legittimi,» sussurrò dopo un po’, le braccia rigide
«ma ricorda ciò che sto per dirti: non c’è nulla
di davvero onnipotente. Esiste un equilibrio di forze a cui niente e
nessuno può sottrarsi».
Poi
si alzò in piedi e fece qualche passo in avanti, dando le spalle a
Maia: «Nel settembre del 1986, quando giunsi al Santuario coi
cavalieri di bronzo, non era mia intenzione ingaggiare una guerra
aperta contro Arles. Avrei voluto percorrere le Dodici Case in maniera
pacifica, parlare con ogni Gold saint disposto ad ascoltarmi e
arrivare alle stanze del Gran Sacerdote senza versare una sola goccia
di sangue. Purtroppo, però, la ferita inferta al mio corpo mortale
dalla Phantom Arrow non me l’ha permesso; così, per salvarmi, Pegasus
e gli altri non hanno avuto altra scelta che quella di combattere».
Il
suo tono precedentemente gentile aveva lasciato il posto a un’amarezza
che ella non fingeva neppure di nascondere; persino il piccolo corpo
le si era trasfigurato, dandole un’aria quasi senza tempo.
«Sono
rimasta per dodici ore sulla scalinata della Prima Casa, impotente,
ma ho condiviso con tutti i
miei cavalieri più di quanto fossi capace di sopportare. Non c’è stato
un solo spasmo di dolore che non abbia morso anche le mie carni, non
un turbamento che non abbia adombrato anche il mio cuore. Tempio dopo
Tempio, ho sentito agitarsi dentro di me i timori di Mu, i dubbi di
Aldebaran, la paura di Death Mask, la rabbia di Aiolia, la confusione
di Shaka, il dissidio di Milo, il rimorso di Shura, la disillusione di
Aphrodite… lo sdegno di Camus».
Al
nome del fu Undicesimo Custode, Saori finalmente si voltò; i suoi
occhi, dapprima blu cupo, ora brillavano di un’incredibile luce celeste.
Maia
prese a fissarli senza alcun pudore, ammaliata e sconvolta. Quella
luce…
«Maia,
guarda quella luce… c’est si belle, n’est-ce pas?»
Non
era paragonabile al crepuscolo azzurro e impregnato d’addio che
affollava ogni suo ricordo alla Casa dell’Acquario; piuttosto, le
rammentava certe immagini indistinte, forse provenienti da un qualche
sogno pieno di pace. Di punto in bianco ebbe la certezza che sarebbe
potuta rimanere a guardarla per ore intere.
La
voce dell’altra, però, attirò nuovamente la sua attenzione.
«Cancer,
Capricorn, Aquarius, Pisces… sono riuscita a raggiungerli soltanto in
punto di morte, quando erano ormai disposti a lasciarsi toccare, ma il
Dio dell’oltretomba ha risucchiato le loro anime prima che io potessi
chiamarle a me. Non sono stata abbastanza forte da impedirglielo».
«Contrariamente
a quanto credi, Atena ha tentato con ogni mezzo di salvare – anche
– i nostri caduti. Ma essi Le erano troppo distanti: quando la Sua
luce li ha raggiunti, le loro anime stavano già rispondendo al
richiamo dell’Ade. Non è stato possibile riportarli indietro».
Maia
si lasciò sfuggire un gemito: non si era trattato di un’impressione
falsata dalla devozione del Quinto Custode, era tutto vero. Era sempre
stato vero, nonostante avesse passato l’ultimo anno e mezzo a
consumarsi per l’opposto.
«A
dispetto
della loro miscredenza, Atena non ha rinnegato i suoi cavalieri.
Nessuno di essi, neppure Camus».
Con
gli occhi di nuovo aggrappati a quelli di Saori, stavolta
convincersene le venne facile e naturale come respirare. L’aria stessa
pareva entrare e uscire dai suoi polmoni in maniera più fluida, quasi
che si fosse dissolto un qualche residuo di brina ancora nascosto.
Assurdo:
sapere che Aquarius non era spirato da reietto non gliel’avrebbe
affatto restituito, ma per la prima volta da moltissimo tempo si
sentiva, per dirla alla maniera di Aiolia…
sollevata.
Si
chiese se anche Camus, nello spegnersi, avesse provato lo stesso; se,
una volta al cospetto della luce celeste, non avesse compreso tutto
ciò che c’era da comprendere nell’arco di un solo minuto.
«C’è
un’altra cosa che vorrei sapere. Una soltanto, l’ultima. Giuro che non
domanderò di più».
«Mi
auguro di poterti rispondere».
«Lui…
se n’è andato in pace?»
Dinanzi
a quella richiesta, l’espressione della sua controparte tornò
nuovamente ad addolcirsi: «Durante gli scontri al Settimo e
all’Undicesimo Tempio ho tentato in più occasioni di lambire il cosmo
di Aquarius, trovandomi sempre davanti un granitico muro di ghiaccio –
che, date le mie condizioni, non avrei avuto la forza di penetrare».
Saori
fece una breve pausa, forse per darle modo di interiorizzare ciò che
stava dicendo un poco alla volta; a dispetto di qualunque logica, la
cosa fece sentire Maia stranamente protetta –
come quando, da bambina, sua madre la consolava dopo un
brutto episodio.
«Tuttavia,
al termine della battaglia alla Sacra Anfora, ciò che ho avvertito è
stato completamente diverso. Il cosmo può rivelare molte cose sul
proprio portatore, nel momento in cui questi acconsente a farsi
toccare: dietro quel muro, l’aura del saint dell’Acquario era bianca e
morbida come la neve appena caduta. Nulla ne turbava il candore… a
parte una lieve ombra di malinconia. È stato così fino alla fine».
Lo
sguardo della Dea, fisso su di lei, ora brillava più che mai. Lo
vedeva perfettamente, nonostante i contorni delle cose le si fossero
fatti appannati e tremuli.
«La
prima: quelle che vedo dovranno essere le ultime lacrime che
verserai per me».
Quante
lacrime avesse effettivamente versato sulla memoria di Camus, Maia non
avrebbe potuto contarle; sapeva, però, che quelle che adesso
scorrevano lungo le sue guance avevano un sapore diverso
dalle precedenti. Decisamente meno acre e, forse, anche un po’
liberatorio.
Furono
davvero le ultime.
Note
dell’autore
Buonsalve,
brava gente. Spero stiate tutti bene.
Circa due anni fa, quando decisi di dare una seconda chance a questa storia, giurai a me stessa che non avrei mai più fatto passare troppo tempo da un aggiornamento all’altro: promesse da
marinaio – un po’ come quelle di Maia, in fondo.
A mia discolpa posso solo dire che questo capitolo aveva un focus particolarmente ostico da sviluppare: non ho mai fatto mistero di quanto poco apprezzi la figura di Saori, che io trovo
vergognosamente priva di spessore (nonché di credibilità logica, ma ciò risente del mio essere irrimediabilmente atea).
Ho dunque provato a “correggere” un poco il tiro, motivando il personaggio e il suo agire nel modo che mi pareva più plausibile. In tale contesto, grande rilevanza assume la scissione
Saori/Atena, ove la seconda, quando si manifesta, è comunque soggetta ai limiti del corpo mortale della prima; quest’ultima, di contro, possiede un’autorevolezza e un’attrattiva che io immagino irresistibili – o, se preferite, straordinarie.
Per ciò che invece concerne il ruolo della suddetta negli eventi legati alla battaglia delle Dodici Case, torno a ribadire la centralità dell’avvertimento “What If”: non ho nessunissima
pretesa circa l’esattezza canonica della ricostruzione da me operata, che ho modellato a esclusivo uso e consumo di questa storia. Stesso dicasi per il cambio di colore degli occhi; giocando un po’ con le differenze fra le prime serie (dove gli occhi di Saori sembrano quasi neri) e quella di Hades, mi sono divertita a ipotizzare che le iridi celesti siano il segnale più evidente del momentaneo prevalere della divinità sulla donna.
Del resto, quest’ultimo dettaglio si appalesa fondamentale soprattutto per l’altra protagonista del presente capitolo, il quale rappresenta l’apice di un percorso emotivo iniziato grazie a Shaka, consolidatosi per merito di Aiolia e terminato proprio con Saori.
Confrontarsi col motivo principale della morte di Camus – ossia, Atena – ha dato a Maia la forza di perdonare Aquarius, così come a suo tempo l’intervento di Hyoga e Atena medesima fu
fondamentale per consentire a Milo di assolvere se stesso.
Adesso c’è solo da andare avanti, un passo alla volta. A voi di indovinare quale sarà il prossimo.
Prima di lasciarvi definitivamente in pace, qualche precisazione più tecnica:
-theós: termine con cui nella lingua greca antica si indica genericamente un dio. Ho scelto questa parola perché rimandasse a un qualcosa di impersonale, quasi di estraneo;
-«Atena propugna la pace, è vero, ma è stato Arles a volere la guerra: senza il suo imbroglio, la battaglia delle Dodici Case non avrebbe avuto ragion d’essere» : frase tratta dal capitolo 14;
-«Per la gloria. Perché l’essere saint mi ha dato la possibilità di far sì che, alla mia dipartita, il mio nome non divenga una semplice incisione su una tomba bianca. Troppo spesso ci si scorda dei deceduti e delle loro gesta: desidero andarmene sapendo di aver lasciato una traccia del mio passaggio su questa Terra. Solo così sarà valsa la pena di aver sofferto tanto» : frase tratta dal capitolo 9;
-«Maia, guarda quella luce… c’est si belle, n’est-ce pas?» : frase tratta dal capitolo 10, parte II;
-«Contrariamente a quanto credi, Atena ha tentato con ogni mezzo di salvare – anche – i nostri caduti. Ma essi Le erano troppo distanti: quando la Sua luce li ha raggiunti, le loro anime stavano già rispondendo al richiamo dell’Ade. Non è stato possibile riportarli indietro» : frase tratta dal capitolo 15;
-«La prima: quelle che vedo dovranno essere le ultime lacrime che verserai per me» : frase tratta dal capitolo 10, parte II.
Ringrazio a cuore aperto chi ancora ha la pazienza di seguire – e magari commentare – “Sorella Morte”: abbiate fede, il traguardo potrebbe essere più vicino di quanto non sembri ;)
Un abbraccio a tutti, (spero) a presto!
Irene