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Autore: elfin emrys    16/08/2022    4 recensioni
{Merthur, reincarnazioni, forse un po' OOC?}
Quando Arthur nacque, lo fece come tutti gli altri.
Si faceva chiamare Gwen, perché Guinevere era troppo lungo.
Gwaine era forte. O almeno desiderava ardentemente esserlo.
Leon era un ragazzino particolare, o così diceva sempre sua madre.
Lancelot era un tipo tranquillo con una sfortuna in amore che lo perseguitava fin dalla tenera età.
Percival aveva sempre sentito il bisogno di consolare chiunque.
Elyan si era sentito fin da bambino come se avesse viaggiato abbastanza.
Genere: Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Gwen, I Cavalieri della Tavola Rotonda, Merlino, Principe Artù | Coppie: Gwen/Lancillotto, Merlino/Artù
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nel futuro
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Reminiscenze

 

Quando Arthur nacque, lo fece come tutti gli altri. Non ci fu nessun evento sconvolgente o particolare: sua madre l’aveva portato in grembo per nove mesi, suo padre l’aveva atteso ardentemente aiutando la propria moglie, i parenti avevano aspettato, il mondo aveva continuato come se nulla fosse.

Arthur non credeva di essere speciale, no, non l’aveva mai fatto.

Tuttavia, credeva di essere solo.

Presto erano iniziati i primi incubi, le prime sensazioni sgradevoli di déjà-vu e, prima che se ne rendesse davvero conto, i suoi avevano iniziato a farlo seguire da dei professionisti per tentare di venire a capo dei suoi malesseri, delle sue piccole strane manie.

A metà delle scuole elementari, si mise a disegnare degli occhi. Erano sempre lo stesso paio, a volte dorati e molto più spesso blu, e li sognava, sebbene Arthur non riuscisse a ricordarsi l’intero viso, né il nome della persona cui appartenevano.

Durante l’estate prima che iniziasse le medie, scoprì di avere paura dell’acqua, senza alcuna ragione. Suo padre si mise di impegno per aiutarlo a superare quella sua fobia, ma non ce la fece e decise, insieme a sua madre, che forse non era il caso di andare per laghi in vacanza.

A tredici anni decise di lasciar perdere, che avrebbe dovuto ignorare i propri sogni, le proprie stranezze, e che non avrebbe lasciato che quelle cose prendessero il sopravvento sulla sua personalità.

A quindici, dopo intense riflessioni, scoprì che preferiva i ragazzi. Aveva un tipo in particolare: gli piacevano esili, alti, e lo attiravano gli occhi chiari, come quelli che, in tutto quel tempo, aveva continuato a rappresentare su carta. I suoi non diedero problemi. Qualcun altro, purtroppo, sì.

Quando Arthur raggiunse i vent’anni, quindi, sapeva tante cose: che era bisessuale con una forte predilezione per il genere maschile, che fin da piccolo aveva avuto delle ossessioni che non sapeva spiegarsi, che, grazie al suo continuo disegnare i suoi sogni, era diventato discretamente bravo. Sapeva anche un’altra cosa e quella, forse, era, misteriosamente, la più chiara di tutte.

Gli mancava qualcuno.

E anche se non capiva come si potesse sentire nostalgia per una persona mai incontrata, sapeva anche che la doveva trovare.

 

Si faceva chiamare Gwen, perché Guinevere era troppo lungo e la sua omonima dell’asilo aveva già prenotato Ginny come diminutivo, e, per motivi a lei quasi del tutto ignoti, non piaceva a tante persone. Era una ragazza graziosa, sebbene non straordinaria, i suoi voti erano sempre stati piuttosto nella media e non aveva un talento particolare. Sì, si poteva dire che era la tipica ragazza ordinaria, in una maniera così cliché che per molto tempo si era sentita impietosita da se stessa. Insomma, Gwen era normale in maniera estrema e perciò non capiva come facesse ad attirarsi tanti nemici, ma era riuscita a sopravviverci.

Da piccola voleva diventare una sarta, ma non aveva mai seguito il suo sogno e si era concentrata su cose più “fattibili”… In realtà, quest’ultima affermazione non era vera, poiché era finita, dopo il liceo, a ingegneria meccanica, che era tutto fuorché facile. Ciò non toglieva, tuttavia, che probabilmente non avrebbe mai realizzato il suo sogno infantile: aveva scelto altro nella vita. Tuttavia, segretamente, ci pensava ancora spesso, nella metro mentre andava in università.

Durante le sue fantasie, spesso vagava con la mente fino ad arrivare nel Medioevo, epoca di cui adorava gli abiti, e si divertiva a pensare come sarebbe stata vestita da serva o da regina. Era un ottimo passatempo, a dire il vero, e Gwen era perdutamente innamorata di quel meraviglioso abito rosso con cui, ogni tanto, si immaginava.

Poi, appena arrivava alla fermata, tornava alla realtà e, presa la borsa e i libri, si immergeva nel caos cittadino, tentando di arrivare a lezione.

 

Gwaine era forte. O almeno desiderava ardentemente esserlo.

Fin da bambino aveva avuto una sorta di fissazione con quell’aggettivo e tutto ciò che a esso era collegato.

“Forte” voleva dire audace.

“Forte” voleva dire intrepido.

“Forte” voleva dire anche libero.

E quell’ultima definizione che lui stesso aveva dato era quella che gli premeva di più al mondo.

Spesso gli era capitato di ripetersi che la prima indipendenza che doveva avere era verso se stesso: non doveva essere schiavo delle proprie paure, dei propri limiti, ma al massimo compagno, se proprio doveva. Voleva essere come gli animali selvatici, senza padrone alcuno; come le piante, che si occupavano di sé senza curarsi del resto; come un vero uomo adulto doveva essere.

Appena finita la scuola superiore, Gwaine fuggì di casa. Suo padre era molto ricco e non gli aveva fatto mai mancare nulla e il ragazzo sentiva il desiderio di provvedere a se stesso senza quell’uomo assillante a coprirgli necessariamente le spalle. Lasciò una lettera piuttosto lunga, spiegando che non era sparito nel nulla, che era maggiorenne ormai e che avrebbe seguito la sua strada e che forse, un giorno, sarebbe tornato.

Non aveva la minima intenzione di fare quell’ultima cosa, ma pur di non avere parenti alle calcagna avrebbe detto qualunque cretinata.

Gwaine era quindi in giro per il Regno Unito, a esplorarlo e viverlo, come aveva sempre desiderato.

A vent’anni passati ancora si sentiva di non aver finito: doveva starci ancora, doveva andare più a fondo, perché non si sarebbe permesso di fallire quella promessa verso se stesso.

Si era giurato di non fallire mai nulla in vita sua.

E non avrebbe iniziato in quel momento.

 

Leon era un ragazzino particolare, o così diceva sempre sua madre. Quando da bambino aveva visto “La Spada nella Roccia”, ne era stato così tanto affascinato da dire una mattina a colazione con la famiglia che da grande avrebbe voluto fare il cavaliere.

I suoi genitori non avevano avuto il coraggio di dirgli che era assurdo e, anzi, avevano alimentato quella sua passione iscrivendolo a un corso di scherma storica e chiudendo un occhio su tante altre piccole cose.

Col tempo, la sua passione non era affatto cambiata e si era messo addirittura a studiare il ciclo arturiano e a ricamarci sopra con le proprie idee, le proprie teorie. Non si annoiava mai, di quello era più che certo, tuttavia, un giorno, si era reso conto di un piccolo particolare.

Non esisteva bambino che era stato appassionato della storia di Re Artù ed Excalibur e Mago Merlino e i cavalieri che non avesse mai provato a estrarre una spada dalla roccia quando gli si presentava l’occasione (come quando era andato a Disneyland a Parigi, per esempio); Leon, invece, aveva sempre avuto una specie di timore sacro verso quell’atto, non importava sapere che era finto. Si decise a pensare più attentamente a quel dettaglio e, quando scoprì un pub a Londra dove c’era un’attrazione del genere, non poté mancare. Per questo si era ritrovato per diverse sere al The Rising Sun, un locale di antichissima origine che aveva le sue radici in Galles e le cui sedi erano sparse in tutto il Regno Unito.

In realtà, Leon non riusciva proprio a compiere quel gesto, ma continuava a tornare.

E tornare.

E tornare.

 

Lancelot era un tipo tranquillo con una sfortuna in amore che lo perseguitava fin dalla tenera età. Persino all’asilo non era riuscito a trovarsi una fidanzatina in maniera tranquilla – il classico bigliettino “Vuoi metterti con me? Sì o no” non aveva funzionato granché. Crescendo, aveva iniziato a supporre che forse andava bene così, che ormai stava diventando talmente dipendente dalla propria solitudine che non sarebbe mai stato in grado di avere una relazione seria e duratura.

Per un breve periodo, era riuscito a dimenticare quella sua convinzione. Aveva incontrato una ragazza poco più grande di lui e si era innamorato perdutamente. Le scriveva il buongiorno e la buonanotte, la invitava fuori a cena quando poteva, la accompagnava a fare shopping, la portava nei posti più belli della città, tutti quei luoghi che aveva scoperto nelle sue peregrinazioni e che avevano colpito il suo animo. Lei gli diceva spesso che era un vero cavaliere e premiava tutto il suo impegno con una dolcezza che Lancelot trovava quasi disarmante.

Col senno di poi, il giovane pensava che avrebbe comunque dovuto notare i segnali che qualcosa non andava. Lei non voleva mai farlo avvicinare a casa sua, aveva due cellulare diversi, non voleva presentarlo ai suoi amici, aveva mentito sul fatto di non avere profili social – perché Lancelot li aveva trovati, anche se erano tutti privati. Non avrebbe dovuto sorprendersi quando aveva scoperto che lei aveva quasi dieci anni in più di quello che gli aveva detto e che, soprattutto, era sposata.

C’era stato male, molto male. E la cosa che più lo divertiva (se “divertimento” si poteva chiamare) era, tuttavia, che se lo aspettava. Non sapeva perché, forse per il nome che lo legava a un personaggio la cui storia d’amore aveva avuto un destino decisamente infausto, ma sapeva che era troppo bello per essere vero. Quella consapevolezza non lo aveva salvato dal dolore, però.

Quindi Lancelot ad appena vent’anni si era allontanato dalla sua città e si era trovato un lavoro in un locale a Londra. La paga era ridicola, ma lui non aveva bisogno di tanto e gli andava bene così. Era riuscito a farsi degli amici, ma non aveva avuto altrettanto successo nel trovare una ragazza che gli interessasse a livello sentimentale, per quanto in realtà lo desiderasse.

Decise che forse aveva sbagliato tutto, che forse avrebbe dovuto pensare attentamente al genere di donna che gli sarebbe piaciuto avere accanto e trovare specificatamente qualcuno di simile. Se non avesse funzionato neanche così, ebbene, si sarebbe leccato le ferite nella propria camera in affitto e avrebbe cercato di capire cosa fare.

In fondo, era ancora giovane. Ne aveva di tempo davanti a sé.

Inoltre, era un’ottima compagnia per se stesso.

Poteva farcela.

 

Percival aveva sempre sentito il bisogno di consolare chiunque. Aveva sempre avuto il pensiero che non voleva vedere nessuno morire pensando di essere un fallimento per se stesso e per gli altri. La sua vocazione, quindi, era stata chiara fin dal principio.

Sapeva bene che chi lo guardava immaginava fosse un personal trainer, uno sportivo o un atleta di qualche genere, ma in realtà era un semplice consulente scolastico.

Amava quel lavoro, nonostante fosse faticoso e ancor più spesso doloroso.

La sua fidanzata – ex ormai – era solita dirgli che lui era troppo emotivo per un mestiere del genere, che avrebbe dovuto imparare a costruire un muro tra sé e gli altri, che avrebbe dovuto iniziare a pensare alle persone con cui parlava come qualcosa di carino, ma di lontano.

Percival pensava che, in parte, la ragazza avesse ragione, ma lui semplicemente non ci riusciva.

Non poteva lasciare che accadesse di nuovo.

A cosa precisamente si riferisse quel pensiero, non gli era chiaro. Non era mai riuscito a capire da dove gli provenisse. Forse voleva salvare se stesso? Ma da cosa, poi?

Percival ci aveva rimuginato spesso durante il suo tempo libero per gran parte della sua vita, mentre si allenava, ma non ne era mai venuto a capo.

Forse, non l’avrebbe saputo mai.

 

Elyan si era sentito fin da bambino come se avesse viaggiato abbastanza. Aveva sempre avuto addosso una sorta di stanchezza e di timore di perdersi, di non riuscire più a ritrovare la strada di casa. Per questo si era sempre mantenuto vicino alla sua famiglia, al suo luogo d’origine, anche quando aveva cominciato a essere una situazione difficile e stretta, anche quando aveva iniziato a sentirsi come se stesse crescendo dentro una scatola troppo piccola per lui.

Sapeva che doveva andarsene, lo sapeva.

Tuttavia non ci riusciva.

E perciò aspettava e aspettava e aspettava il momento in cui si sarebbe sentito pronto.

Ma quando si ritrovò finalmente a Londra, lontano dalla cittadina dove era nato, non fu perché era pronto e non fu perché aveva deciso di farlo nonostante tutto. Fu perché “a casa” non era rimasto più nessuno.

Tutti i suoi amici se n’erano andati e la sua piccola famiglia si era disgregata nel nulla. Non gli piaceva parlarne. Non gli piaceva neanche pensarci.

Londra era cupa e spenta, eppure troppo rumorosa, troppo grande. Non invitava all’avventura, né gli sembrava che promettesse novità. Era solo un grande buco nero al centro della nazione, attorno cui ogni cosa gravitava prima di essere inghiottita e annientata.

Elyan aveva sempre saputo qual era casa sua. E improvvisamente si era ritrovato a peregrinare; la sua camera in affitto era semplicemente quello che era e non vi aveva messo niente di suo in particolare, niente che facesse capire che lì ci viveva qualcuno. La maggior parte delle sue cose, il giovane le aveva lasciate in una scatola, come se da un giorno all’altro avesse potuto ritrovarsi nel posto dove aveva sempre vissuto e potesse rimettere tutto a posto.

Come se quei giorni fossero una parentesi.

Non lo erano.

 

I primi a incontrarsi furono Lancelot e Leon.

Il primo aveva iniziato a lavorare nel The Rising Sun e aveva conosciuto il secondo poiché quest’ultimo era un cliente abituale. Dire che erano diventati subito amici sarebbe stato falso, ma di sicuro provavano l’uno verso l’altro una sorta di stima. Una collega di Leon aveva detto una volta che erano due uomini d’onore che si erano riconosciuti come tali; scherzava, ovviamente, eppure c’era qualcosa di vero in quell’affermazione poiché entrambi avevano l’illogica certezza che l’altro fosse una persona non semplicemente onesta, bensì nobile, sotto molti punti di vista.

Avevano in seguito avuto il piacere di conoscere Gwaine, il quale aveva deciso di farsi buttare fuori dai locali di tutta Londra, eppure anche allora nulla scattò nella loro mente.

Poi arrivò Gwen. Lancelot la aveva incontrata sulla metro, in una giornata che era iniziata male, in una carrozza affollata, calda, che puzzava di sudore e di alito cattivo. Non era il più romantico dei luoghi, anzi, eppure non appena i loro occhi si erano incontrati avevano sentito entrambi una spinta profonda, un senso di riconoscimento istantaneo. Lancelot non poteva permettersi di lasciarsi sfuggire una ragazza che, per una volta, lo aveva colpito così tanto, e aveva cercato una scusa qualunque per parlarle senza sembrare un pervertito. Alla fine, era stata lei a prendere l’iniziativa con la più banale delle scuse, cioè che le sembrava di averlo già visto da qualche parte.

Conoscerla fu un sollievo, fu come imparare di nuovo a respirare. Scoprire che era single fu un sorriso, per quanto debole, in mezzo a un mondo cupo – perché lui era sempre stato un ragazzo romantico, sebbene il fato non gli fosse venuto incontro fino a quel momento – e quando lei gli parlò a cuore aperto, esplicitando il proprio interesse, fu come ritrovare qualcosa che era andato perso.

All’inizio Lancelot si era sentito nervoso, perché temeva che qualcuno avrebbe potuto togliergli nuovamente quel piccolo barlume di… Ecco, non sapeva neanche lui cosa, precisamente. Sapeva solo che, lentamente, qualcosa dentro di lui stava tornando a posto. E, forse, gli andava più che bene rischiare.

Fu durante un appuntamento che trovarono Elyan.

In seguito, Gwen si sarebbe sentita in colpa per non averlo trovato prima, quando davvero aveva avuto bisogno di lei. Elyan, infatti, aveva fatto tutto il possibile per riprendere in mano la propria vita, per non rimanere schiavo di una situazione che detestava, che non sentiva sua. Con la determinazione e lo spirito forte che lo aveva sempre contraddistinto, era andato avanti, nonostante tutto – nonostante tutti – e anche se non si sentiva ancora a proprio agio in quella nuova situazione, anche se si sentiva ancora perso e lasciato indietro, le cose stavano migliorando.

Gwen e Lancelot per lui divennero come una nuova sorella e un nuovo fratello, persino quando ancora non sapevano nulla di ciò che avevano condiviso un tempo. Iniziarono a uscire spesso insieme, con Leon e Gwaine, e Londra era diventata per tutti una casa, improvvisamente, un luogo dove rimanere.

Quando il cugino piccolo di Leon si era ritrovato nei guai con la scuola, avevano conosciuto anche Percival. In realtà non era chiaro a nessuno come, precisamente, quel ragazzone grande e grosso fosse finito nella loro comitiva, ma in breve era persino entrato nel loro gruppo whatsapp The knigths e si era ritrovato a uscire con loro ogni sera.

Poi incontrarono Arthur a una festa e tutto cambiò.

Fu dura per ognuno di loro. Gwaine fu il primo ad avere visioni della loro vita a Camelot, poi Percival, poi Leon, poi Gwen, Elyan e, infine, anche Lancelot. All’inizio non erano state altro che ricordi fumosi e sbiaditi, a malapena sogni inspiegabili di cui spariva la memoria la mattina successiva, ma poco a poco i dettagli si erano fatti più vividi e accesi e alle immagini si erano uniti i suoni, i sapori, persino gli odori.

Si resero conto che non erano semplici invenzioni della loro mente quando si accorsero che i loro racconti si incastravano perfettamente, che combaciavano fino al più piccolo dettaglio. E fu allora che iniziarono i problemi.

Gwaine in particolare faceva fatica a dimenticare quanto era stata dolorosa la propria morte. Era stato complesso per lui anche solo condividere quel momento, perché ne aveva recuperato la memoria ben prima di Percival e, non volendo pesare sull’altro, aveva tentato in ogni modo di nascondere il problema. Alla fine, però, aveva ceduto.

Ed era stato ancora più complesso spiegargli che la condivisione di quella morte tanto penosa era un passo necessario.

La situazione con Gwen e Lancelot si era fatta rapidamente imbarazzante. Inizialmente, il ragazzo aveva pensato di farsi da parte, ma poi qualcosa dentro di lui si era ribellato a questa scelta – una scelta che già una volta aveva compiuto. Si era ripromesso che non avrebbe più rifiutato la felicità che aveva a portata di mano e, anche se avrebbe lasciato a Gwen la decisione, poteva dire che non avrebbe ceduto facilmente.

Arthur, tuttavia, non si oppose. Quei due stavano insieme ormai e lui, del resto, non poteva fare niente. Era “finché Morte non ci separi” e la morte lo aveva già separato da sua moglie secoli addietro. In realtà, il biondo si sentiva, più che geloso di lei, geloso della situazione, di quella completezza che la coppia sembrava aver trovato. Si ritrovò a essere spesso di cattivo umore e involontariamente, in alcune rare occasioni, si rese conto di aver persino trattato male gli altri due senza che questi gli avessero fatto alcun torto.

La realtà era che qualcosa gli mancava, mancava a tutti loro, e Arthur cercava e cercava nella propria memoria, raschiando il muro che separava la persona che era da quella che era stata, cercando un modo per oltrepassarlo.

Quando si ricordò definitivamente di Merlin, era una giornata di sole e la sua mente impigrita ci mise qualche istante per capire che l’aveva trovato, che aveva capito cosa gli era sempre stato negato.

Non riuscì a trattenersi dal piangere di sollievo, nel silenzio della propria solitudine.

Iniziò allora a essere impaziente. Erano riusciti a ritrovarsi tutti, non doveva mancare molto all’arrivo anche di Merlin.

I suoi disegni si fecero ancora più espressivi, se possibile, e più precisi. Riuscì a venderne qualcuno e con quei soldi Arthur iniziò a fare il giro di tutti i laghi del Regno Unito, affrontando con una certa aggressività il proprio timore per l’acqua – finalmente spiegabile. Non sperava davvero di ritrovarlo in uno di quei posti, ma forse anche Merlin sentiva la sua mancanza come lui, forse si ricordava qualcosa.

Se c’era anche solo una possibilità di ritrovarlo in quel modo, Arthur l’avrebbe afferrata al volo.

Cercò di non slegarsi troppo dagli altri, di accompagnarli in quella riscoperta di sé senza che nessuno di loro si perdesse; voleva stare vicino a quella che era stata la sua famiglia secoli prima, ma il suo nome – Merlin, Merlin, Merlin, Merlin – era come una preghiera sempre sussurrata nella sua mente, indivisibile dalla sua stessa essenza, e non c’era modo di non dare a questo la priorità.

Gwaine gli diede una mano. Avendo girato per tutta la nazione conosceva molti posti adatti a chi aveva un budget basso se non quasi nullo, quindi finiva spesso per passare i giorni ad aiutare Arthur a organizzare i suoi viaggi.

Il biondo sospettava che lo facesse più per rivedere Merlin, in realtà, perché si ricordava che i due erano stati molto amici e in più di un’occasione l’altro aveva espresso la propria nostalgia, dal momento stesso in cui anche lui aveva recuperato quel pezzo di memoria, ma accettava molto volentieri il suo aiuto. Quindi, mentre Leon stava rimettendo insieme tutti i loro ricordi per ricostruire la vita che avevano avuto insieme ed Elyan cercava di capire come fosse possibile una cosa come quella, una tale reincarnazione di massa, Arthur continuava a cercare e cercare.

Nessuno lo fermò. Nessuno osò dire nulla al riguardo.

Il biondo li teneva aggiornati, anche se non costantemente, per placare il loro desiderio quasi morboso di stare uniti e per non fare crescere la loro ansia, ma ogni volta le sue risposte erano negative.

Ogni volta, inevitabilmente, Arthur tornava da solo.

E la nostalgia si faceva sempre più pesante.

 

Lancelot

Come sta andando?    6:33 P.M.

Per ora niente.    6:35 P.M.

Gwen

Facci sapere    6:35 P.M.

Leon

Ragazzi, è stato trovato un manoscritto sulla figura di Merlin che forse potrebbe interessarci. Vi mando il link, un attimo    6:40 P.M.

Elyan

Bristol quanto è lontano da dove sei? @Arthur    6:41 P.M.

Il biondo sospirò e silenziò il gruppo per otto ore, poi rimise il telefono in tasca. Lanciò l’ennesimo stupido sassolino sull’ennesima stupida superficie piatta dell’ennesimo stupido lago. Il cielo plumbeo si rifletteva sull’acqua, facendola sembrare quasi argentea.

Arthur respirò a fondo e alzò la testa, come se mandarla indietro potesse impedire alle lacrime che si stavano affacciando nei suoi occhi di scendere.

Gli sarebbe piaciuto dire che quella volta non ci aveva creduto davvero, che ormai aveva più o meno perso la speranza che gli faceva pensare che l’avrebbe ritrovato a ogni singolo viaggio, ma non era così. Ogni volta si emozionava a salire sul treno o in macchina, ogni volta gli sembrava che il percorso durasse secoli, ogni volta si fermava per ore e ore e ore vicino al lago di turno in attesa. Girava, sì, camminava, poi si bloccava, poi ricominciava a passeggiare ancora, senza fare niente dalla mattina alla sera se non guardarsi intorno e sussultare a ogni testa mora che vedeva.

Sorrise amaramente: stava davvero diventando uno di quegli svenevoli personaggi dei film romantici. Cosa si aspettava, anche se lo avesse trovato? Era possibile che Merlin neanche si ricordasse la loro vita insieme, esattamente come lui non ne aveva avuto memoria per anni e anni.

Che idiota che era.

Arthur scosse la testa e diede un calcio a un altro sassolino, poi, a testa bassa, si voltò. Avrebbe fatto un ultimo giro, o forse altri due, poi sarebbe tornato in albergo.

Ma poi sentì qualcuno sussultare.

Alzò il capo. Un uomo anziano, dalla lunga barba bianca e vestito totalmente di nero, lo stava guardando con la faccia pallida e disfatta, tra le sue dita una bottiglia di birra bevuta solo a metà.

Arthur fece per allontanarsi, ma poi i loro sguardi si incontrarono e il biondo si paralizzò.

-Merlin…

Gli occhi del vecchio si spostavano da una parte all’altra del suo viso, come se non ci credesse, come se cercasse di capire se era davvero lì, se non si stava sbagliando. Quelle iridi erano così blu e profonde, così brillanti, così piene di devozione, e Arthur le aveva trovate, finalmente.

Il biondo cercò di tornare a respirare e pensò di abbracciare l’uomo che aveva di fronte, invece portò le mani ai lati di quel volto pallido e ne accarezzò gli zigomi pronunciati, prima di fare l’unica cosa che aveva sempre, sempre desiderato fare.

Posò piano le proprie labbra su quelle dell’altro.

Fu appena un istante, quasi solo il tempo di sfiorarle, ma Arthur sapeva che sarebbe stato abbastanza se l’altro non avesse provato le stesse cose che provava lui.

Il corpo di Merlin non si irrigidì, né il biondo lo sentì allontanarsi, anzi, si ammorbidì, come se ogni tensione fosse scivolata via. Aprendo gli occhi, Arthur non vide il vecchio in cui tuttavia aveva riconosciuto l’uomo che stava cercando da sempre: vide un volto più giovane e che ben conosceva, che lentamente stava riempiendo le proprie stesse rughe.

Merlin da ragazzo era un pochino più alto del sé anziano, che era curvo per il peso degli anni, i suoi occhi erano più vividi, non velati dalla stanchezza, le sue labbra più piene e meno secche. Sentirlo cambiare sotto le sue mani fu una delle cose più belle che fossero mai accadute ad Arthur.

Il biondo scoppiò a ridere e lo chiamò ancora per nome una, due volte, prima di baciarlo ancora. La sua bocca sapeva un pochino di alcol, ma l’altro non ci fece caso, troppo preso dal toccarlo e farsi toccare.

Arthur non pensò a spiegargli come lo aveva trovato, né gli chiese come stava, e del resto neanche Merlin lo fece; si limitarono a mormorare il nome dell’altro, ad accarezzarsi le guance, finché le gambe non cedettero. Si lasciarono cadere sulla terra e persino il moro rise, un pochino, col suo vecchio giovane viso che gli doleva.

Fecero l’amore lentamente, lì, sul prato, e non sarebbe dovuto essere romantico, eppure lo era, lo era terribilmente con la pioggia che iniziava a cadere e l’erba che si appiccicava sui loro corpi e il fango che sporcava la loro pelle nuda e i loro vestiti.

Arthur non aveva mai desiderato nessuno così tanto.

Era imbarazzante, sudicio, umido, freddo ed era anche perfetto.

Era il suo cuore che scoppiava, lo stomaco che si attorcigliava, l’avere quegli occhi finalmente su di sé, quegli occhi che lo guardavano come se fosse tutto un sogno, offuscati eppure così tremendamente vivi.

Forse, nessuno dei due era in quel momento in grado di fare qualsiasi altra cosa che non fosse stringersi forte all’altro, come se potesse svanire da un momento all’altro.

Arthur non si rese neanche bene conto di come si ritrovò a casa di Merlin. Un appartamento piccolo e non curato, sporco qui e lì: non era la dimora di una persona felice, ma non avevano il desiderio di iniziare quella conversazione. La prima cosa che fecero fu andare a farsi una doccia e si lavarono l’un l’altro lentamente, poi, una volta asciutti, si addormentarono in un sonno per entrambi sereno e riposante come mai ne avevano avuti.

Rimasero insieme tutto il fine settimana, chiusi in quel monolocale così piccolo, e Arthur sarebbe dovuto arrossire al pensiero che l’avevano passato perlopiù a letto, parlando davvero ben poco.

Al quarto giorno il biondo si decise finalmente a rispondere ai messaggi preoccupati e insistenti degli altri, e lui e Merlin uscirono dalla loro alcova per prendersi qualcosa insieme in un qualche pub. Avevano troppe cose da raccontare, rivelare e discutere, troppo da ammettere l’uno all’altro.

Occuparono lo stesso tavolo dalla mattina alla sera (i proprietari probabilmente avevano capito che era qualcosa di importante e di intenso e li avevano lasciati fare) e decisero di tornare anche il giorno dopo e fare lo stesso. Quella notte,  attorcigliati tra le lenzuola, finalmente si dissero ciò che avrebbero voluto dire secoli e secoli prima, e alla mattina, finalmente, avevano iniziato a pulire quella casa.

Col tempo avrebbero iniziato a separarsi ancora, almeno fisicamente. Avrebbero smesso di cercare di toccarsi in ogni istante e avrebbero placato quella fame che li divorava dall’interno ogni volta che l’altro si allontanava anche solo di poco. Ma non era ancora il momento.

Solo a una settimana dal loro primo incontro riuscirono a trovare la voglia di vedere anche gli altri. Arthur si sarebbe ricordato per sempre quando si erano ritrovati insieme sotto casa di Leon, quando esitarono a suonare e si guardarono negli occhi, cercando una silenziosa rassicurazione.

Merlin aveva posato la mano sulla sua guancia. La sua pelle era calda, come sempre, ed era soffice, non ruvida dal lavoro come lo era stata tanto tempo prima. Arthur aveva chiuso gli occhi, sperando di riuscire a non piangere, mentre quelle dita accarezzavano piano il suo viso.

Gli era mancato il modo in cui lo toccava.

Perciò aveva portato la propria mano su quella di Merlin e l’aveva seguita teneramente, come mai aveva potuto fare prima.

Non l’avrebbe dimenticato mai più.


Note di Elfin
Avevo questa one-shot iniziata da davvero una vita (stavo ancora scrivendo Revolution Roots, tanto per dirvi XD). Ultimamente, tra un viaggio in treno e l'altro, l'ho terminata e ho pensato di proporvela, anche se è un po' inconcludente. È stato interessante scegliere per me cosa precisamente i personaggi si erano portati dietro dopo la reincarnazione e spero sia chiaro ogni accenno :)
Ringrazio tantissimo chiunque sia arrivato fin qui, tutti coloro che recensiranno (se ci saranno) e chi ha recensito le mie scorse storie! <3 Davvero grazie, penso vi farà felice sapere che sto andando avanti con la long che avevo in programma, anche se purtroppo è ancora molto lontana dal vedere la luce :P Ultimamente però sono andata davvero tanto avanti, quindi incrocio le dita.
Grazie ancora, alla prossima!
Kiss

   
 
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