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Autore: Angel TR    14/10/2022    2 recensioni
I've had some trauma, did things I didn't wanna, was too afraid to tell ya, but now I think it's time
Billie Eilish - Getting Older
Long fic che segue la vita di Jin Kazama dai quindici anni fino al Terzo Torneo.
Genere: Angst, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jin Kazama
Note: Missing Moments, Otherverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ashes denote that Fire was'
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Capitolo I parte II: Happier than ever


Dopo due ore, finalmente il libro di matematica fu chiuso con uno schiocco. A furia di passarci le dita, la folta zazzera di Jin si era così arruffata da farlo assomigliare a un pulcino spennato. Aveva gli occhi stralunati e le guance incendiate, nemmeno avesse affrontato una temibile prova. Sollevò lo sguardo sulla mamma – che non aveva nemmeno un capello fuori posto e appariva tranquilla come sempre –, implorando pietà.
«Concedimi un'ora di allenamento prima di inglese, si fa troppo tardi altrimenti!» supplicò.
Doveva avere un'aria veramente comica perché alla mamma scappò una risata. «E va bene, te lo concedo» lo prese bonariamente in giro prima di scompigliargli i capelli.
Quelle semplici parole riuscirono a rinvigorirlo: scattò dalla sedia e volò a infilarsi le scarpe all'ingresso. Il robusto verde del cielo di chiome erbose lo accolse come sempre; qua e là, tiepidi raggi di sole sgaiattolavano tra il groviglio di rami e foglie per accarezzargli il viso. Jin inspirò profondamente prima di inchinarsi alla mamma e assumere la pozione di combattimento. Lei ricambiò l'inchino, il caschetto lungo e sfilato di capelli le scivolò lungo le spalle. Quando raddrizzò la schiena, piantò i piedi ben a terra e sollevò i pugni; il suo sguardo amorevole era scomparso, sostituito dalla fermezza di un'esperta di arti marziali. Non era solamente la madre di Jin, era la sua sensei e da tale si sarebbe comportata.
«Quando combatti, combatti contro te stesso. Devi essere in grado di gestire le tue emozioni se vuoi vincere. Solo quando avrai conquistato l'equilibrio, potrai concentrarti sulla forma ed eseguire i kata» spiegò.
Jin annuì e la lezione cominciò. Mosse un passo verso sua madre e tese il braccio per sferrare un pugno ma, prima ancora che il suo avambraccio si fosse piegato, la mano affusolata della donna si era già fermata a un centimetro dal suo viso. Battuto ancor prima di cominciare. Jin ammirava profondamente sua madre.
«Non avere fretta» gli ricordò lei. «Ricominciamo.»
Ripeterono la sequenza di tecniche in quella che somigliava a una danza: precisa, fluida, intervallata da pause per respirare. Il karate dei Kazama si basava sullo stile Ensshin e Kyokushin, con incursioni nel Daito-ryu Aiki-jujutsu. Jin aveva chiesto più volte alla mamma perché non aprisse un dojo per tramandare quell'arte marziale così particolare ma lei aveva risposto che non era il caso.
«Adesso osserva bene» lo richiamò la mamma. Con grazia e precisione, si diede lo slancio con la gamba sinistra e si esibì in un'incredibile ruota a mezz'aria. Senza mai staccare gli occhi dal punto che aveva intenzione di colpire – il mio naso, capì Jin, sbarrando gli occhi –, la mamma tese la gamba destra e l'avrebbe centrato perfettamente se non avesse piegato il ginocchio per fermare l'attacco. Atterrò con una lieve flessione delle ginocchia. Non aveva mai avuto intenzione di colpirlo sul serio, ovviamente.
«Questa tecnica si chiama Ryu-Un-Tsui. Che te ne pare?» chiese, sorridente.
«Wow» fu tutto quello che riuscì a sussurrare il ragazzo.
Come aveva fatto!? Come si era data la spinta senza perdere la linea immaginaria che doveva seguire per centrare l'avversario? Come aveva girato l'anca a mezz'aria? Come!? Aveva così tante domande ma l'unico modo per approfondire quella tecnica era eseguirla lui stesso, a costo di spezzarsi la schiena.
Lei dovette leggergli nel pensiero perché giunse le mani dietro la schiena. «Con calma, Jin. Non devi certamente romperti l'osso del collo! Prova e poi vediamo» disse.
Ovviamente, Jin non ci riuscì né al primo né al secondo tentativo. La mamma lo consolò prontamente: «Sei già riuscito a eseguire la prima parte della tecnica. Ti ci vorrà solo un poco di pratica per completarla e, poi, potrai dedicarti a perfezionarla. Ottimo lavoro, continueremo domani.»
Se fosse stato per lui, però, avrebbe continuato fino al giorno seguente. «Non posso riprovare solo un'altra volta?» domandò, quasi saltellando per bloccarle il rientro a casa.
Lei strinse le labbra per non farsi sfuggire nessun sorriso. «No, Jin. Adesso devi fare i compiti di inglese. Guarda che ho visto dei turisti occidentali oggi al parco. Servirà personale in futuro con la conoscenza dell'inglese!» gli ricordò, irremovibile.
«D'accordo ma domani ci riprovo!» acconsentì Jin, impaziente, pieno di adrenalina, correndole dietro.
Improvvisamente, la mamma si fermò; un'aria seria si era dipinta sul suo volto. Vedendola così, Jin arrestò i suoi saltelli e l'osservò, incuriosito.
«Cosa succede?» chiese.
«Prima dei compiti, c'è un altro avversario da affrontare» esordì lei.
Il ragazzo sbarrò gli occhi: interessante! «Davvero? Chi è?»
A quel punto, la mamma gli scompigliò i capelli. «La fame!»
L'aria dolce di giugno trasportò il suono allegro delle loro risate.


Com’è gradevole il tiglio nelle sere di giugno!
L’aria è sì dolce che a palpebre chiuse annusi il vento che risuona
Arthur Rimbaud, "Romanzo"

In a deep breath caressing the mosses,
the Spirit of the Tree invites to listen
the praises of a lost love,
that sacred link he shared with the human,
humming in a silent song
the hope of a newfound osmosis

Frédéric Leyre, "Kodama Poem, Yakushima"

**



But there's a voice in the distance quiet and clear
Saying something that I never ever wanted to hear
Sisters of Mercy - Lights


A Jin sarebbe piaciuto cenare fuori qualche sera ma arrivava così stanco a fine giornata che alle dieci era già crollato nel letto. Si consolava pensando che così faceva risparmiare denaro e benzina, materiale che a Yakushima era particolarmente costoso nonostante fosse fondamentale per spostarsi sull'isola, visto che i mezzi di trasporto scarseggiavano. La strada che correva tutto intorno all'isola era costellata da hotel, sorgenti termali e altre infrastrutture dedicate al turismo. Le zone più commerciali erano localizzate attorno al porto e all'aeroporto, mentre le famose foreste meta dei turisti si trovavano nell'entroterra. Soltanto due compagnie di autobus collegavano l'entroterra alle zone costiere ma vederli era un miracolo. Magnifico paese, quello. Jin credeva che in tutto il Giappone non avrebbe potuto trovare un luogo così discosto da ogni rumore mondano.²
«Ma', perché ti sei trasferita a Yakushima?» chiese, la mattina seguente, mentre facevano colazione. «Chissà come sarebbe stato crescere a Tokyo!»
La mamma finì di bere il succo di arancia e posò il bicchiere lentamente. Siccome lei andava a lavoro e lui a scuola, durante la settimana preparavano una colazione veloce e dolce con tè con latte, spremuta, pane a marmellata. Era solo la domenica che si concedevano una colazione tradizionale: entrambi si svegliavano abbastanza presto e iniziavano a trafficare vicino ai fornelli: cucinavano riso bianco cotto al vapore, pesce, alghe, verdure miste, tamagoyaki e l'immancabile zuppa di miso.
«Perché nel mondo ci sono cose belle e cose brutte e, venendo a Yakushima, speravo che tu sperimentassi il bene innanzitutto» spiegò la mamma.
Jin soppesò quelle parole. Certo, Yakushima era un luogo protetto, per così dire, ma non accadevano comunque tragedie o eventi tristi? Non c'erano comunque persone cattive? Il suo pensiero corse subito ai bulli e alle malelingue.
La mamma dovette aver colto quei pensieri perché gli posò una mano sulla spalla. «Già il fatto che ci stai riflettendo su significa che, fortunatamente, sono riuscita a proteggerti fino ad adesso» disse. «Ora sbrighiamoci, su, ti do uno strappo a scuola visto che devo andare al Centro» tagliò corto.
Il Centro Culturale distava circa mezz'ora a piedi dalla scuola. Era uno degli organi che facevano parte della Fondazione per la Cultura e l'Ambiente, creata appositamente per promuovere la cultura e la salvaguardia dell'ambiente a Yakushima. Il Centro era la base dove si riunivano i team per creare i progetti di ricerca. La mamma si era continuamente distinta per cui la sua collaborazione era specialmente gradita ogni volta.
Il viaggio a scuola fu rapido e sereno. Dalla radio provenivano le note nostalgiche di una canzone city pop – "Last Summer Whisper" – e, appena giunse il ritornello, la mamma lo intonò e invitò con un cenno della testa il figlio ad accompagnarla.
Un po' imbarazzato e molto a bassa voce, Jin la seguì.
«Baby love again, semete waratte kono yoru owarasu wa»³ canticchiarono, stonati ma divertiti, i finestrini abbassati per sentire il vento fra i capelli e l'odore dell'erba fresca.
Ogni tanto, interrompevano la canzone per nominare la specie di uccellini alla quale apparteneva il cinguettio che udivano; la mamma vinse di gran lunga.
Dopo un po', giunsero a destinazione. Lei parcheggiò fuori il grande complesso di edifici che formavano la scuola e lo salutò con un bacio. Una volta che la macchina si fu allontanata, Jin si accorse del solito gruppetto di ragazzini che aveva osservato la scena.
«Mammina ti deve dare il bacetto, Kazama?» lo schernirono, facendogli il verso.
Jin li degnò appena di un'occhiata, strinse lo spallaccio dello zaino e si incamminò verso il cortile.
«Mammina! Mammina!» giungevano alle sue orecchie i cori dei bulletti, intervallati da risate sguaiate.
Continuando a ignorarli, Jin entrò in classe.
Il primo anno era uguale per tutti; dal secondo in poi, gli studenti sarebbero stati divisi tra il corso Business e quello Environmental. Lui aveva già scelto di seguire la strada della mamma e quindi era orientato verso il corso ambientale, il cui curriculum si basava sulla natura e sulla cultura locale e prevedeva materie specifiche come scienze applicate, scienze ambientali, geologia, e progetti di ricerca autonomi. Gli sembrava un ottimo programma.
Dopo la scuola, Jin si diresse verso il minimarket che si trovava a sud della scuola, sulla 594, di fronte al fiume Miyanoura. Sul vecchio telefono, con lo schermo ancora bianco e nero, spuntò un messaggio della mamma che l'avvisava di essere già tornata dal Centro e che le dispiaceva di non essere riuscita a passare a prenderlo. Ripose il cellulare nella tasca e pescò la scarna lista della spesa: latte, uova, del salmone, tutte cose che avrebbe trovato da A-Coop. Mentre camminava verso la 594, controllò di avere con sé la busta ecologica per non pagare la differenza. La zona del minimarket era leggermente in pendenza e Jin aiutò una signora anziana in difficoltà con le buste. Oltrepassò la porta principale, le ruote del carrellino scivolarono allegramente lungo il pavimento in grès porcellanato. Mentre si dirigeva sicuro verso i reparti che gli interessavano, sentì delle voci che aveva tristemente imparato a riconoscere.
«Guardate lì chi c'è solo soletto! Il cocco di mammina!»
Per non dare nell'occhio, i bulli si accostarono a lui. Il più grosso, la faccia taurina butterata da uno sfogo di acne giovanile, gli circondò le spalle con un braccio, fingendosi suo amico.
«Ehi, Kazama, che ci fai qui? Quelli come te dovrebbero stare tra i boschetti, in mezzo alle scimmie. Nel centro città ci siamo noi di buona famiglia, non te l'ha detto la mamma?» gli sussurrò all'orecchio, la voce resa minacciosa dal tono più adulto rispetto a qualche anno addietro. Visti da dietro, sarebbero parsi due grandi amici ma l'espressione di Jin tradiva il suo fastidio.
«Lasciami in pace. Sto facendo la spesa» tagliò corto. Gettò un'occhiata alle porte scorrevoli: grosse nuvole scure rotolavano lungo il cielo, annerendolo. Stava per venire a piovere, doveva darsi una mossa.
«Oh, la spesa per mammina! Perché lei lavora e non ha tempo di occuparsi della casa. Lei è l'uomo e tu la femminuccia, Kazama!» lo schernì, scatenando le risate del branco.
Jin velocizzò la sua andatura. «Non ci sono ruoli prestabiliti, tutti dobbiamo saper fare tutto» corresse, annoiato dall'ignoranza del ragazzino.
Lui gli corse dietro e lo strinse più forte a sé. «Si crede meglio di noi, ragazzi!» esclamò, sgranando gli occhi per sottolineare l'assurdità della sua scoperta.
«Non mi considero migliore di nessuno» ribatté.
Una vocina dentro di lui si risvegliò. E qui ti sbagli. Tu sei migliore di loro, migliore di tutti quanti. Jin arrestò di botto la sua camminata veloce e il bullo finì per sbattere contro uno scaffale; qualche barattolo gli cadde sui piedi.
«Che fai, stronzo? Oggi vuoi proprio le botte, eh?» gli ringhiò addosso, assestandogli un forte spintone.
Era palese che stava semplicemente cercando un pretesto per litigare; quella giornata l'avevano preso di mira più del solito e vederlo nel centro, fuori dall'unico luogo consentito, ossia la scuola, era stata la ciliegina sulla torta. Jin colse l'antifona e cercò di evitare il peggio.
«Non l'ho fatto apposta, mi dispiace» si scusò.
Faccia Taurina gli assestò un altro spintone. «Ti dispiace? Allora perché non sparisci? O forse ti devo cacciare io una volta per tutte?» minacciò, sovrastandolo.
Jin comprese che quella volta non avrebbe potuto evitare lo scontro con le parole, così afferrò il carrello e iniziò a correre. Sapeva che l'avrebbero ripreso ma cos'altro poteva fare? Chiedere aiuto? Nessuno l'avrebbe creduto, era la sua voce contro il branco. Corse tra i corridoi del reparto dei succhi di frutta, in fondo fino a quello del pesce; si precipitò oltre quello dei salumi e svoltò a destra, striando il pavimento lucido, verso l'uscita. Qualche cliente gli lanciò un'occhiataccia e un addetto alla vendita li richiamò ma nessuno di loro si fermò. Infatti, i bulli stavano guadagnando terreno e l'avrebbero raggiunto presto. Allora, in una mossa disperata, lanciò il carrello verso di loro per bloccarli e centrò in pieno la pancia di Faccia Taurina. La scena non avrebbe dovuto rallegrarlo ma non seppe trattenere un ghigno alla vista dell'espressione accartocciata del bullo.
Corse con tutto il fiato che aveva in gola verso la Cucina Izakaya, l'oltrepassò e si affrettò fino allo svincolo che portava nella foresta. Da lì, la strada si stringeva, inerpicandosi tra le collinette fino a dividersi. Jin non svoltò né a destra e né a sinistra ma si inoltrò nella foresta, nella speranza che il trio perdesse le sue tracce o decidesse di non proseguire oltre visto che era pomeriggio inoltrato. Fu per questo che si sorprese quando sentì le urla di incitamento di Faccia Taurina.
«L'abbiamo quasi preso!» gridava a squarciagola. Un piccolo stormo di uccelli si levò dai rami a quello strepitare.
Jin si voltò per calcolare la distanza tra loro e quella mossa gli fu fatale: inciampò e perse l'equilibrio, cadendo rovinosamente a terra, tra l'erba fresca. I bulli lo raggiunsero subito e si avventarono su di lui come cacciatori di contrabbando su un cucciolo di yakushika.
«Ti abbiamo preso, razza di bastardo! Adesso non corri più da mammina?» lo insultarono, sollevandolo da terra per il bavero della divisa e mollandogli un destro proprio sullo zigomo. E poi un altro e un altro ancora. Jin tentò inutilmente di parare i colpi prima di essere scaraventato di nuovo a terra. Il branco gli assestò dei potenti calci allo stomaco, rovesciando la rabbia accumulata – chissà per chi, chissà per cosa – su di lui. Probabilmente davvero lo ritenevano un essere umano di serie B, una specie inferiore, immeritevole di girare tra la brava gente, indegno della loro presenza. Probabilmente davvero ritenevano che avrebbe dovuto essere grato del fatto che lo lasciavano gironzolare per la scuola.
Faccia Taurina lo sollevò di nuovo per il bavero, avvicinando il muso al suo viso. «Non farti vedere mai più in centro, capito?» ringhiò, soddisfatto di quella carneficina. Aveva sfogato su di lui il suo stress e adesso si sentiva più rilassato; fu per quello, forse, che lo scaraventò a terra come fosse un sacco di patate.
Jin sentiva il sangue scorrere dal naso e il labbro spaccato, gli bruciava il ginocchio perché si era sicuramente sbucciato e si era graffiato le mani per attutire la caduta. Sperò con tutto se stesso che fosse finita, così da essere lasciato in pace e poter tornare a casa a leccarsi le ferite. Ma poi il bullo si chinò su di lui per sussurrargli una frase all'orecchio e qualcosa dentro di sé ribollì.
«Tu non appartieni a questo posto. Te ne devi andare.»
Mostragli che tutto ti appartiene, invece. Mostragli che questa è casa tua. Puniscilo per aver osato dubitarne. Puniscilo! La voce risuonò potente all'interno della sua scatola cranica e, per tutta risposta, il sangue ribollì ardentemente nelle sue vene.
Jin si rialzò in piedi e si pulì la ferita al naso con il dorso della mano. I cacciatori di contrabbando smisero di ridere e osservarono il cerbiatto barcollare sulle zampe slanciate come se fosse una creatura particolarmente disgustosa. Non potevano immaginare che presto sarebbero diventati vittime della loro stessa preda.
Il primo calcio colpì Faccia Taurina dritto sulla mascella, facendogli volare un dente. Jin ne fu piuttosto soddisfatto. I suoi due scagnozzi gli furono addosso ma questa volta si scontrarono con un esperto di arti marziali invece di un ragazzino impaurito. Li atterrò entrambi con un pugno dritto al ventre – per concludere presto la faccenda – che li fece piegare in due. Dalle loro teste sepolte nell'erba si levavano lamenti striduli. Jin li superò per dirigersi da Faccia Taurina. Lo prese per il bavero con una mano, replicando il suo stesso gesto, e sollevò l'altro braccio per mollargli un bel ceffone, così l'avrebbe fatta finita una volta per tutte – esatto, proprio quello che si merita!, incitò la voce che, si rese conto attonito Jin, somigliava a una versione distorta della sua. Ma, proprio quando stava per calare il poderoso schiaffo, una mano ferma come acciaio gli afferrò il polso per bloccarlo.
«Basta così» disse una voce che avrebbe riconosciuto tra mille.
Jin sbarrò gli occhi e un brivido gli corse lungo la schiena; la voce nella testa si dileguò così com'era arrivata – quasi spaventata, scocciata da quell'intrusione –, portando con sé la febbre e la rabbia e la nube di oscurità.
«Mamma!» esclamò.
«Va bene così, Jin, hai esagerato. Non era necessario ridurli in questo stato. Ti alleni da anni nell'arte del karate stile Kazama, hai abbastanza conoscenza e controllo del tuo corpo per fermarli senza ferirli» lo riprese lei, dura. I suoi occhi si agganciarono a quelli del figlio e bastò questo per farlo tremare. L'aveva delusa e non c'era niente che odiasse di più che deludere sua madre.
«Hanno cominciato per primi, mi hanno aggredito!» cercò di giustificarsi, per ottenere un minimo di benevolenza da parte sua.
Ma lei non si ammorbidì, rimase arroccata sulla sua posizione. «Non importa. Potevi agire diversamente. Hai sbagliato. Andiamo a casa.»
Tenendolo per il polso, lo trascinò verso la casetta nascosta tra gli alberi di cedro. Appena varcata la soglia e chiusa la porta, la mamma gli ordinò di sedersi e lui obbedì prontamente.
«Hai capito perché hai sbagliato?» gli chiese.
Jin si agitò sulla sedia. «Sì, ma…»
Un lampo passò negli occhi della mamma. «Niente "ma", Jin. Potevi difenderti senza fargli male. Invece volevi rendere pan per focaccia. Addirittura uno schiaffo in pieno viso?» ribatté.
Jin si sporse in avanti, arrabbiato per quella situazione assurda. «Mi hanno aggredito! Hanno detto che non appartengo a questo posto!» esplose, digrignando i denti. Non riusciva a digerire quell'accusa, gli rimestolava tutto quello che aveva nello stomaco.
Eppure, la mamma non sembrò per nulla colpita da quelle parole. E poi, disse una cosa che lo colpì più forte di uno schiaffo in faccia e gli fece decisamente più male, un dolore che gli punse il cuore.
«E non hai pensato che hanno ragione?»
«Wow, grazie tante, mamma! Adesso sto decisamente meglio. Non è vero, comunque» borbottò Jin, cercando di pescare confusamente le parole dal cervello per costruire la migliore difesa possibile.
«Jin, ascoltami bene. Quelli come loro nascono e muoiono su quest'isola. Tu, invece, sei diverso, sei speciale, tu sei destinato a grandi cose e loro lo sanno bene, ne sono coscienti, e ti respingono perché si sentono inferiori. Tu lascerai quest'isola, viaggerai e visiterai il mondo intero, scoprirai nuovi orizzonti e raggiungerai qualunque obiettivo ti porrai» affermò la mamma con una tale convinzione che Jin non poté fare altro che arrossire. Gli prese le mani tra le sue, che adesso sembravano così piccole al confronto, e le strinse forte. «Tu hai un grande dono, Jin: sei un Kazama. Devi usare tutto ciò che è in tuo potere per fare del bene» gli rivelò.
Lui l'osservava rapito e vagamente imbarazzato. «Ma'...» boccheggiò.
«Oggi hai perso la battaglia» concluse.
Jin si sentì punto dal vivo, ferito nell'orgoglio. «Non è vero, ho vinto!» replicò.
La mamma tese le labbra in una linea dura e strinse più forte le sue mani. «Hai perso la battaglia contro te stesso. Hai ceduto alla tua rabbia. È stata lei a controllare te e non il contrario. So che puoi fare molto meglio di così» insistette, determinata. Era un'altra lezione di vita che gli stava impartendo; ognuna di esse sembrava più importante della precedente.
Jin sgranò gli occhi, grandi come due piattini. Boccheggiò per trovare le parole giuste e, visto che non le trovò, restò zitto, lo sguardo attonito.
«Hai ancora tanto da imparare, Kazama Jin» concluse la mamma e questa volta il suo tono tradì una certa dolcezza.
Jin abbassò la testa, le guance in fiamme. La mamma l'osservò per un po', lasciandolo a riflettere su ciò che aveva detto e sul suo comportamento. Quando fu soddisfatta, ruppe il silenzio: «Che ne dici di riprovare la Ryu-Un-Tsui
Il ragazzo sollevò il capo. «Sì!» acconsentì, concedendosi un sorriso.
«Ricordati: domina le tue emozioni e solo allora potrai eseguire qualsiasi tecnica» ammonì la mamma mentre Jin misurava il perimetro, scegliendo la linea della corteccia di un albero di fronte a sé come punto immaginario.
Tentò di liberare la mente da ogni pensiero negativo, poi da ogni pensiero positivo fino a svuotarla del tutto per focalizzarsi esclusivamente sulla forma. Inspirò profondamente e solo quando si diede lo slancio espirò. Non riuscì a stendere la gamba destra per sferrare il colpo ma completò la ruota e atterrò lungo la stessa linea immaginaria dalla quale era partito. Finalmente era stato piuttosto preciso. Guardò automaticamente la mamma per condividere con lei quella piccola vittoria e lei annuì soddisfatta.
«Ottimo!» si complimentò. «Adesso che hai riguadagnato l'equilibrio possiamo concentrarci sui compiti!»
Davanti all'espressione non esattamente entusiasta del ragazzo, si concesse una risata.


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² Emily Bronte, "Cime Tempestose"
³ "Baby, love again, at least I'm smiling and that's how I'll end this night."
Anri - Last Summer Whisper
⁴Razza di cerbiatto locale


N/D/ La canzone city pop dal titolo perfetto un presagio funesto: Jun concluderà davvero la sua ultima notte con un sorriso mesto pensando al figlio. La poesia su Yakushima è scritta da Frédéric Lyer, un fotografo e scrittore francese che vive tra Kyoto e Yakushima, lascio qui il link del suo sito: https://www.leyre.photo/%E5%B1%8B%E4%B9%85%E5%B3%B6-yakushima-kodama-poem
Due mesi di taekwondo saranno serviti per calarmi nei panni di un esperto di arti marziali che si allena? XD ai posteri l'ardua sentenza!
Il secondo capitolo mi sta spompando più del primo e sarà molto più lungo quindi non lo so ahahhaha aiuto ahahahha
Baci baci
Angel

  
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