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Autore: Adeia Di Elferas    11/11/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Caterina aveva perso la cognizione del tempo, quando, finalmente, sentì la carrozza fermarsi. Era stato un viaggio monotono e caratterizzato dagli scossoni e dalle imprecazioni del cocchiere che, dal suo posto di guida, sembrava convinto che bastasse prendere a male parole qualche santo per far smettere di nevicare o per rendere il cavallo più collaborativo.

Malgrado il freddo e l'andatura altalenante del mezzo, però, la Tigre aveva fatto tesoro di quella lunga parentesi. Pian piano, lungo la via, aveva proseguito ciò che aveva cominciato a fare nella cappella del convento delle Murate, e quando giunse alla villa era riuscita sia a smettere di piangere, sia ad asciugarsi a dovere il viso e gli occhi, raggiungendo se non una vera e propria serenità, almeno una parvenza di stabilità emotiva.

Mentre scendeva, aiutata dall'uomo che l'aveva scortata fin lì, ancora si chiedeva come mai avesse avuto quell'esplosione di pianto e di collera e perché, soprattutto, avesse provato a calmarla con il raccoglimento e la preghiera. Farlo le aveva solo portato alla mente altri motivi di rabbia e ricordi orribili, legati alle chiese che aveva visitato e vissuto nel corso della sua vita: quella da Santo Stefano, sulla cui soglia era stato assassinato suo padre, quella di San Pietro e tutte le chiese di Roma, in cui aveva visto coi propri occhi il più viscido dei mercimoni, quella di Mordano, in cui aveva inveito inutilmente contro un Dio cieco e sordo, e poi quelle di Forlì, dove aveva commemorato la morte del suo Giacomo e quella di Ottaviano Manfredi...

Ricordare ciascuna di quelle chiese era stato come ricevere mille stilettate, tutte diverse per intensità e qualità, ma alla fine, paradossalmente, mentre terminava quel pellegrinaggio silenzioso, era riuscita a calmarsi.

“Temevamo che per colpa della neve non riusciste a tornare...” disse Bianca, accogliendola assieme ai fratelli, quando Caterina varcò la soglia della villa: “Messer De Marzi voleva mandare qualcuno a cercarvi...”

La Sforza sollevò un sopracciglio, guardando la figlia e poi Sforzino, Bernardino e Galeazzo, che erano l'uno accanto all'altro, in attesa di una sua parola, e alla fine disse: “Dovreste averlo capito, ormai, che non è facile fermarmi... Non c'è riuscito un figlio di papa, figuriamoci una nevicata...”

Anche Troilo De Rossi e frate Lauro, che se ne stavano un po' in disparte, si permisero un sorriso divertito a quella battuta, ma l'espressione cupa che fece subito dopo la Leonessa e il rossore dei suoi occhi, ancora ben visibile, tolse a tutti la voglia di scherzare.

“Sono stanca...” sussurrò la milanese: “Tra quanto sarà pronta la cena? O avete già mangiato..?”

“Abbiamo aspettato.” assicurò Galeazzo, andandole al fianco, proponendosi, nel caso in cui la madre avesse avuto bisogno di sostenersi a lui per qualche ragione: “In fondo questa notte si farà tardi comunque... Abbiamo sperato che riusciste a tornare prima di domani, e così è stato.”

Caterina colse l'attesa pronta del figlio, ma non volle aggrapparsi a lui, sia per non dare l'impressione di essere davvero stremata – benché la fosse – sia per non impacciarlo. Il Riario quella sera le appariva così giovane e forte che, forse per la prima volta in assoluto, riusciva davvero a vedere in lui un uomo e non più un bambino.

“Vado un momento a cambiarmi.” riprese la donna, muovendo un paio di passi: “E poi ceneremo.”

“Dopo cena, se vorrete tutti, non potendo andare alla Santa Messa, vorrei fare qualche lettura dei passi più significativi del Vangelo...” propose frate Lauro, mentre Caterina già si allontanava.

“Altrimenti io potrei cantare per tutti...” azzardò Bianca, che tutto voleva fare, in quella notte di neve, tranne che sorbirsi la voce monotona di Bossi.

Tutti furono d'accordo con la giovane e anche la Tigre, ormai a distanza, sollevò una mano e concordò: “Bianca canterà per tutti noi: bisogna stare allegri, stanotte, è pur sempre la notte di Natale...”

 

Cesare si sentiva più leggero, ora che aveva dato definitivamente ordine di uccidere Ramiro de Lorca, facendolo trovare, la mattina di Santo Stefano, squartato in piazza, lì a Cesena.

L'importante, aveva sottolineato più volte, era che venisse rinvenuto dal popolo solo dopo che lui e la sua guarnigione avessero lasciato la città. Benché uccidere il suo luogotenente fosse un modo – a suo avviso anche molto scaltro – di far capire ai poveracci che lui, il Valentino, era dalla loro parte e che arrivato a Cesena aveva capito che il colpevole di tutto fosse Ramiro, andandolo quindi a punire, di contro il Borja non dimenticava affatto la natura mutevole e sciocca della folla. Magari, si era detto, nel vedere un intoccabile come il Lorca morto e fatto a pezzi, a qualcuno sarebbe venuta l'idea di far subire anche a un Duca la medesima sorte... E non era il caso di correre un simile rischio.

Così, per quella sera, Cesare aveva deciso di godersi un cenone natalizio in piena regola, e avrebbe presenziato anche il giorno seguente alla Messa e a tutte le cerimonie a cui l'avessero invitato, ma il 26 dicembre sarebbe già stato lontano, in direzione di Pesaro, mentre il cadavere di Ramiro sarebbe stato esposto all'odio della folla.

Si stava preparando per presentarsi al banchetto, ma tergiversava. Era già molto tardi, eppure era ancora in veste da camera. Era pensieroso e, più si sforzava di concentrarsi solo sulla festa cui stava per andare, più tutte le sue preoccupazioni tornavano a tormentarlo.

Prima di tutto, era in agitazione pensando a quanto sarebbe stato complicato far sì che il suo piano per liberarsi dei condottieri ribelli non fallisse. Tutto ruotava attorno all'inganno e Paolo Orsini ne era il perno inconsapevole. Da un lato la vanesia ingenuità di quell'uomo tornava a favore del Valentino, ma dall'altro lo rendeva una pedina molto fragile, capace di intralciare i suoi piano senza nemmeno accorgersene.

Usarlo come mezzo per riuscire a radunare tutti gli altri in un solo punto poteva dimostrarsi una scelta vittoriosa, così come un passo falso impossibile da riparare.

Inoltre il Borja ancora non aveva deciso come muoversi per rendere inoffensivi una volta e per tutte i Varano. Per ora si limitava a lasciare in vita gli eredi di Giulio Cesare, nel caso in cui potessero tornare utili o come merce di scambio, o come esca per qualcun altro. Si rendeva però conto che lasciarli in vita ancora a lungo avrebbe potuto dimostrarsi un problema. Benché le sue spie sostenessero che non fosse così, chi poteva essere sicuro che, nell'ombra, sapendo vivi Venanzio, Pirro e Annibale, non ci fosse qualcuno intento a organizzare una ribellione per liberare e riportare al loro posto i Varano?

Cesare si mordeva nervosamente l'unghia del pollice, gli occhi fissi al camino acceso e la mente che navigava nelle acqua torbide di tutti questi pensieri. Di quando in quando si chiedeva perfino se, a Roma, finalmente suo padre si fosse deciso ad arrestare il Cardinale Orsini, Rinaldo Orsini, che era Arcivescovo di Firenze, il protonotaro Orsini, l'abate Alviano e Iacopo Santacroce. Il Valentino aveva capito che il papa non aveva intenzione di fare quella mossa azzardata prima del tempo, e aveva ragione, perché se quel maneggio fosse giunto alle orecchie di Paolo Orsini prima che attirasse in trappola il Vitelli e tutti gli altri, di certo si sarebbe tirato indietro.

Eppure, contro ogni logica, il Duca si sarebbe sentito molto più tranquillo, nel saperli già nelle segrete di Castel Sant'Angelo...

“Gli ospiti stanno aspettando...” la voce di Michelotto arrivò così roca e lontana alle orecchie di Cesare, che, in un primo momento, quasi non la sentì.

Il Corella era l'unico ad avere libero accesso ai suoi appartamenti, eppure il Borja spesso e volentieri si dimenticava di avergli dato quel privilegio.

“Non usa più, bussare?” chiese, infatti, irritato.

L'amico, immobile vicino alla porta, lo fissava in silenzio. Fosse dipeso da lui, l'avrebbe incoraggiato a rimanere lì per tutta la notte, infischiandosene dei festeggiamenti costosi messi in piedi dai cesenati. Tuttavia sapeva anche che, se anche avesse ceduto volentieri alla proposta, il figlio del papa il giorno dopo si sarebbe arrabbiato con lui per avergli fatto perdere quell'occasione triviale di stringere amicizie e di farsi propaganda.

Perciò, impassibile, Miguel ribadì: “Credo sia tempo di andare a cena.”

“Aiutami a vestirmi, allora.” sbuffò Cesare, allargando le braccia, quasi si aspettasse che l'altro lo svestisse come un bambolotto, per poi agghindarlo per la festa.

In effetti il Corella si prestò molto a quella sorta di gioco, ma, a differenza di quel che si era atteso il Duca, non indugiò più del dovuto nemmeno una volta, né lasciò scivolare lo sguardo oltre i limiti del lecito.

“A volte sei proprio noioso...” sbuffò il Valentino, quando fu finalmente pronto: “Adesso andiamo, ci stanno aspettando...”

Michelotto non disse nulla, benché il tono sbrigativo di Cesare l'avesse indispettito. Era abituato al suo modo lunatico di atteggiarsi e anche alle sgarberie che a volte gli faceva. Quella sera, però, aveva bisogno di una rassicurazione in più.

Quando furono a metà strada, con la confusione della sala dei banchetti che già riempiva l'aria, il Corella chiese, appena udibile: “Dopo cena che faremo?”

Il Borja, che non aveva voglia di sforzarsi, quella sera, a cercare compagnia e che, in fondo, aveva a sua volta bisogno di qualcosa di rassicurante e conosciuto, lo guardò un lungo istante e poi rispose: “Il letto che c'è in camera mia è molto comodo.”

Sulle labbra sottili di Miguel si disegnò un lievissimo sorriso e tanto bastò a Cesare per capire di aver ottenuto ben due risultati con un'unica proposta: oltre a rasserenare il suo Michelotto, aveva rimediato una degna conclusione di giornata senza sforzo e senza spesa.

Incapace, però, di trattenersi dal mettere un po' di amarezza anche nelle cose più dolci, il Duca, proprio mentre entravano nel salone, sussurrò all'altro: “Ma domattina partirai all'alba: guiderai l'avanguardia e ti assicurerai che la strada per me sia sicura. Dopodiché proseguirai senza fermati fino a Senigallia.”

Uso a obbedir tacendo, Miguel strinse i denti e poi annuì: “Va bene, farò così.”

 

Alla villa di Castello la cena era stata semplice, ma ricca. Caterina si era detta molto soddisfatta delle portate a base di selvaggina – che ormai veniva fornita sempre più regolarmente da cacciatori di zona che non sembravano troppo infastiditi dalla costante richiesta di sconti sui prezzi – e anche del vino scelto da suo figlio Galeazzo. In realtà avrebbe preferito cacciagione di taglia più grossa, come del cervo o del cinghiale, ma aveva finto che lepri e maialini selvatici fossero il suo piatto preferito e parimenti anche il vino, che in realtà a suo modo di vedere troppo leggero e troppo poco profumato, era stato da lei decantato come uno dei migliori mai bevuti in vita sua.

Era bastato così poco, alla fine, per far sì che tutti intorno a lei fossero un po' più allegri del solito.

A volte, capì la Tigre, non si rendeva conto di quanto il suo giudizio potesse influenzare coloro che la circondavano, fatta forse eccezione solo per il De Marzi, frate Lauro e Troilo De Rossi, che per tutto il tempo non aveva avuto occhi che per Bianca.

Finito di mangiare, si erano spostati tutti nella sala delle letture, dove il camino era stato provvidenzialmente acceso da Creobola. Bossi, per onor di bandiera, volle leggere qualche riga del Vangelo, ma subito dopo, a furor di popolo, Bianca fu convinta a prendere in mano la situazione e a cominciare a cantare.

La Leonessa apprezzava molto la voce intonata della figlia che, a tratti, le ricordava quella della sua defunta sorella. La Riario era abile nell'interpretare con lo spirito giusto tutti i tipi di canzone, da quella più allegra a quella più triste, ma la era meno a dissimulare il suo costante interesse per il De Rossi. Per fortuna, però, sembrava che il loro continuo gioco di sguardi non interessasse a nessuno.

Quando la notte si fece inoltrata, tra qualche sbadiglio e qualche augurio di buon auspicio, pian piano tutti iniziarono ad annunciare il proprio ritiro per andare a riposare. Dapprima se ne andarono Bossi e il De Marzi, poi fu il turno di Sforzino, che si dichiarò molto stanco, ma anche molto sazio, il che per lui equivaleva a essere in Paradiso. Galeazzo, con un mezzo inchino, seguì a ruota il fratello e alla fine perfino Bernardino, che pur di sua natura era sempre più nottambulo, si stropicciò gli occhi e si congedò.

Rimasta sola con Bianca e Troilo, Caterina rimase immobile sulla poltrona su cui aveva fatto il nido per tutta sera e, sorridendo, disse loro: “Non badate a me... Adesso andrò a riposare a mia volta e, se non vi spiace, passerò a dare la buona notte al piccolo, anche se immagino stia dormendo già da ore...”

La Riario e il De Rossi, che essendo soli con la Leonessa sentivano di non dover più reggere nessun tipo di recita, si cercarono con lo sguardo e poi si presero per mano.

“Ovviamente non ci dispiace, anzi.” assicurò Bianca: “Pier Maria è fortunato ad averti come nonna.”

“Dovrà sopportarmi ancora un po', temo...” scherzò allora la Sforza: “Se lo lascerete a me finché non sarà sicuro portarlo con voi a San Secondo, si abituerà alla mia compagnia...”

“Solo sapendolo con voi ci sentiremmo sicuri.” fece Troilo, con deferenza.

Caterina lo osservò per qualche istante, con sguardo inquisitorio, quasi stesse cercando di capire fino a che punto le sue parole erano sincere e fino a che punto erano dettate dall'opportunismo.

Il bilancio finalmente del suo esame dovette essere positivo, perché quando parlò di nuovo, lo fece con leggerezza e con una certa allegria: “Avanti, adesso – disse, rivolta sia alla figlia, sia al futuro genero – io non vi trattengo oltre... Andate in camera, è da tutta sera che si vede che non desiderate altro... Solo, state attenti...”

“Non ci faremo vedere da nessuno che possa metterci nei guai.” annuì la Riario, che ormai si sentiva un'esperta nell'eludere la sorveglianza – scadente, ma comunque rischiosa – dei servi della villa.

Con un cenno benedicente, la Leonessa li salutò una volta per tutte e li guardò uscire dalla sala, le mani che si dividevano con riluttanza, ma gli occhi che continuavano a cercarsi, scambiandosi chissà quali messaggi silenziosi e segreti.

Una volta che rimase sola con il silenzio e la solitudine, Caterina si sentì tremendamente invidiosa di sua figlia e quel sentimento la fece sentire ancora peggio. Avrebbe voluto disperatamente che Fortunati fosse lì, in quella fredda notte di neve, e invece non le aveva mandato nemmeno un messaggio, anche solo per chiederle come stesse o per augurarle un buon Natale.

Le uniche lettere che erano state recapitate negli ultimi giorni erano tre lettere abbastanza inutili, secondo lei. La prima era una missiva stringatissima di Ottaviano, che le faceva gli auguri, le assicurava che stava 'lavorando' tantissimo per il bene della famiglia, e le chiedeva soldi, come sempre. La seconda era stata vergata dal pugno di Scipione Riario e preannunciava, per l'anno nuovo ormai, la possibilità di prendere di nuovo con sé Bernardino – e magari anche Galeazzo – per qualche giorno, se il ragazzino avesse voluto. E l'ultima, invece, arrivava da Cesare, ed era solo una cupissima lettera che ricordava alla madre quanto fosse importante passare il Natale 'in santità e castità'.

In quel momento, ripensare alle parole del suo secondogenito, innervosì ancor di più la Leonessa, che vi volle leggere quasi una maledizione che, a causa dell'assenza protratta del piovano di Cascina, si stava avverando in pieno.

Alla fine, già dimenticandosi della promessa fatta di passare da Pier Maria per un saluto, la donna si alzò dalla poltrona e lasciò la sala delle letture, diretta alla propria camera. Si sedette subito alla scrivania e cominciò a vergare un messaggio per Fortunati. Iniziò in modo un po' freddo, ma poi si rese conto che doveva assolutamente aggiungere qualcosa che lo ben disponesse a tornare da lei il prima possibile.

Così, controvoglia, ma non vedendo, al momento, altra via da percorrere, chiuse la lettera dicendo che si sentiva pronta, appropinquandosi la data della convocazione al Tribunale dei Pupilli, a incontrare di nuovo e il prima possibile 'li amici nostri', sottintendendo, ovviamente, i Salviati.

In realtà non aveva gran voglia di incontrare né Lucrezia né Jacopo, senza contare che ancora non aveva digerito del tutto le giravolte già fatte dal nuovo Gonfaloniere a vita, da loro tanto sponsorizzato. Quel giorno, però, aveva capito una volta di più quanto fosse sola e quanto fosse importante avere delle amicizie, lì a Firenze, malgrado faticasse molto a fidarsi di qualcuno, perfino dei suoi stessi familiari a volte.

Chiudendo in fretta la missiva con un paio di frasi di circostanza, la donna andò alla finestra e guardò fuori. Nell'oscurità mitigata dal riflesso biancastro della neve poteva ben vedere come la tempesta invernale fosse ben lungi dal dirsi conclusa. Sarebbe stata una pretesa folle, da parte sua, chiedere che qualcuno lasciasse la villa quella notte per recapitare il prima possibile la sua lettera.

Perciò, facendo del suo meglio per mettersi l'animo in pace, si andò a stendere nel letto, sopra le coperte, lo sguardo rivolto al soffitto e la mente che non riusciva a placarsi nemmeno un istante, mentre il resto del suo corpo, inutilmente, rimpiangeva Fortunati e lo malediceva per aver scelto di andarsene per occuparsi dei propri affari in un periodo particolare come quello di Natale che, per la Tigre, significava sempre rivangare l'antico dolore e l'atavica paura provati in una mattina di sole, a Santo Stefano, tanti anni prima...

 

“Davvero sai giocare ai dadi?” chiese Troilo, tra il divertito e il sorpreso.

Lui e Bianca, dopo essersi dedicati l'uno all'altra con devozione e senza fretta, si erano messi stesi comodi sotto le coperte, le mani che si cercavano, intrecciandosi, imbastendo un discorso che aveva già toccato molti punti, tra i più disparati. Senza che nessuno dei due lo dicesse apertamente, entrambi stavano cercando di conoscere il più possibile l'altro, mossi da una sete che somigliava molto a quella che li aveva spinti primariamente a conoscersi in senso biblico. In quel momento, raccontarsi era per entrambi un modo di mostrarsi nudi e lo scoprire l'altro portava più eccitazione e intimità di quanto si sarebbero attesi.

“Certo che so giocare ai dadi...” rise piano Bianca, guardando di traverso il De Rossi, il cui viso era ancor più interessante, alla luce tremula che arrivava dal camino acceso: “Ho imparato da bambina e devo dirti che sono anche brava.”

Senza che ci fosse bisogno di incitarla a farlo, la Riario cominciò a raccontare delle tante volte in cui, alla rocca di Ravaldino, si era trovata a giocare combattutissime partite coi soldati di sua madre e, senza un velo di modestia, ribadì la sua bravura in quel gioco d'azzardo.

L'uomo, che cercava di immaginarsela ragazzina, intenta a lanciare i dadi davanti agli sguardi curiosi degli armigeri della Tigre, sorrideva beato, convenendo di tanto in tanto e solo alla fine ci tenne a dire: “Credo sia un bene che tu abbia fortuna nei giochi di questo tipo: ce ne servirà molta, per mettere in sesto San Secondo...”

Trascinata dai ricordi, Bianca continuò a parlare della sua vita alla rocca, raccontando di come avesse imparato a cucire e a cucinare, di quanto le piacesse stare con le donne della servitù a chiacchierare fino a tardi, e si spinse anche a raccontare qualche aneddoto divertente riguardante le volte in cui lei e la sguattera sua amica si mettevano nella loro alcova nascosta a spiare i soldati che facevano il bagno. Il modo vivace in cui parlava, la naturalezza con cui descriveva tutte quelle memorie – non comuni alla maggior parte delle giovani donne della sua stessa estrazione sociale – e la spigliatezza con cui ricordava certi dettagli avevano su Troilo un effetto ammaliante.

Ancora una volta, l'emiliano si trovò a pensare che buona parte del fascino della Riario stava proprio in quel suo modo di essere. A una prima occhiata Bianca sembrava solo una delicata giovane, dai colori chiari, dalla voce dolce e dagli occhi sempre pronti ad abbassarsi in segno di rispetto. Bastava, però, conoscerla un po' meglio per vederne la fibra forte, lo spirito acceso e una dimestichezza con la vita che faceva invidia alla quasi totalità delle sue coetanee.

Dopo qualche risata salace, comunque, il discorso sul suo passato a Ravaldino si spense e la figlia della Tigre e il De Rossi tacquero.

Bianca, cullata dal calore dei ricordi e da quello del corpo solido del suo uomo, si sentiva calma e rilassata, tranquilla come non le succedeva da tanto tempo.

Troilo, invece, dopo un primo momento in cui si sentì in pace col mondo, cominciò a ragionare sulla natura in parte inafferrabile della sua donna. Valutò una volta di più i suoi pregi, ma poi, inesorabili, gli tornarono alla mente le parole di Galeazzo e, senza volerlo, cominciò ad agitarsi.

“A cosa pensi?” chiese la Riario, sentendo, contro l'orecchio, il battito del cuore dell'emiliano farsi più rapido.

“A niente.” mentì lui, non volendo per nessun motivo rompere quell'idillio con i suoi dubbi, che, per altro, ormai risultavano superflui, dato che niente e nessuno lo avrebbe mai diviso dalla sua amata.

I suoi propositi di tacere, però, non durarono troppo a lungo. Doveva essere passata quasi mezz'ora di silenzio, quando l'uomo sentì il bisogno di esprimere a voce alta il suo tormento.

“Bianca, è vero che avresti potuto impedire la morte del Barone Feo e non l'hai fatto?” le chiese, con un filo di voce, quasi spaventato dal suo stesso ardire.

“Chi te l'ha detto?” chiese subito di rimando lei, irrigidendosi.

“Questo non ha importanza.” minimizzò lui: “Dimmi solo se è vero.”

“Io...” la Riario, che mai e poi mai si sarebbe aspettata una simile richiesta in quel momento, aveva le vertigini e non sapeva cosa rispondere.

Quell'episodio del suo passato tornava a pugnalarla sempre quando meno lo avrebbe voluto e, anche quando credeva di non pensarci, era sempre lì a lavorare nell'ombra, a erodere poco per volta la sua anima, scavando un vuoto tanto buio e profondo che sarebbe stato impossibile colmarlo.

Così, senza riuscire a rispondere, semplicemente, Bianca si aggrappò al De Rossi e, non potendo frenarsi, scoppiò a piangere a dirotto, singhiozzando come se qualcosa le avesse appena squarciato il petto, come se il dolore fosse così vivo e presente da toglierle il fiato e avvelenarle il sangue.

L'uomo, che in quel pianto inconsolabile aveva già trovato una confessione in piena regola, attese comunque con pazienza, accarezzandole il capo e dandole, di quando in quando, un breve bacio sui capelli.

Era impossibile dire quanto tempo fosse passato, ma alla fine la Riario riuscì a smettere di lacrimare. Si schiarì la voce e si asciugò con il lenzuolo gli occhi e il naso e poi, cupa e atona, disse che gli avrebbe raccontato ogni cosa, perché era giusto che lui sapesse.

Con il cuore che batteva veloce, seguendo il ritmo sempre più frenetico del racconto della sua donna, Troilo l'ascoltò raccontare la sua insofferenza verso il giovane Giacomo, la sua incapacità di capire il perché sua madre lo amasse tanto. Ascoltò con attenzione di come Ottaviano e Cesare avessero cercato di portare dalla loro parte Bianca e di come lei se ne fosse tirata fuori, restandone, però, passiva complice.

Arrivò il momento del racconto diretto del giorno funesto in cui il Barone aveva perso la vita, e nel descriverlo minuziosamente, la Riario rimase immobile e glaciale. L'unica volta in cui la voce le tremò davvero, fu quando spiegò di come fosse stata proprio lei, quasi senza esitazione alcuna, a convincere la madre a smontare di sella per raggiungerla sul carro.

“A quel modo – spiegò la giovane, che pure era arrivata a quella conclusione solo dopo, solo quando ormai era stato davvero troppo tardi per i ripensamenti – non sarebbe mai riuscita a tornare a cavallo abbastanza in fretta da galoppare fino a lui per salvarlo... Anche se non l'ho fisicamente ucciso io, anche se non ho affondato io la lama nella sua carne, è come se l'avessi fatto, perché, come diceva Tito Livio: mentem peccare, non corpus...”

Il silenzio che seguì quell'ultima lapidaria considerazione sembrò impedire sia a Bianca, sia a Troilo di dire altro per qualche minuto.

Alla fine lei deglutì un paio di colte e poi sussurrò: “Adesso penserai che sono un mostro, che ti ho ingannato, che non sono la donna che mi facevo credere... Penserai che sia stato l'errore più grande della tua vita, fare di una donna come me la madre di tuo figlio...”

“No, non lo penso.” rispose lui, che, in effetti, non aveva pensato nessuna di quelle cose: “Quello che penso è che tutti abbiamo luci e ombre, e spesso le ombre sono più invadenti della luce. Io ti amo. Non voglio e non posso tornare indietro.”

“Ma se potessi, lo faresti.” soffiò la ragazza.

Lui la guardò, seriamente intento a pensarci, e poi scosse il capo: “No.” poi, anche a costo di poter essere frainteso, concluse: “Non posso prometterti una vita facile, questo lo sai. Saperti capace di quello che hai fatto, in parte mi rassicura riguardo al nostro futuro.”

Un po' confusa da quel discorso, la Riario si morse il labbro e poi si trovò a convenire: “Mia madre, tempo addietro, mi ha insegnato il modo più sicuro e semplice di uccidere un uomo con un pugnale. E mi ha anche insegnato la ricetta di alcuni veleni, e come impugnare un arco e una spada... Ha sempre provato a farmi capire quanto possa essere necessario sapere uccidere, nel mondo in cui viviamo.”

“Aveva ragione.” annuì Troilo e poi, benché fosse tentato di approfondire ulteriormente l'argomento Feo, chiedendo come mai la Sforza sembrasse non odiare la figlia, malgrado le sue colpe gravissime, la strinse a sé e sospirò: “Sarebbe bello se non fosse così...”

Dandogli un bacio lento e colmo di significati reconditi, Bianca si strinse al De Rossi e convenne, sospirando a sua volta: “Sarebbe davvero bello, se non fosse così...”

   
 
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