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Autore: Violet Sparks    04/12/2022    9 recensioni
Ushijima Wakatoshi pensa di sapere tutto.
Pensa che la sua vita sia una strada dritta, precisa, incontrovertibile. Un percorso duro, forse, ma perfettamente definito, un segmento geometrico con un punto di partenza e un'unica meta, da tenere sempre a mente.
Ma Ushijima Wakatoshi ha dimenticato che, sopra alla strada, esiste il cielo, con un sole bollente che brucia e illumina e non vuole essere ignorato.
La domanda è: lui sarà pronto ad alzare lo sguardo?
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Una notte come tante, dopo la sorprendente sconfitta della Shiratorizawa, Wakatoshi incontra Hinata Shoyo in circostante bizzarre ed è costretto a trascorrere con lui la notte più assurda della sua vita.
Wakatoshi prova una ostilità viscerale nei confronti del piccolo corvo e non vede l'ora di dividere nuovamente le loro strade.
Peccato però, che il mocciosetto non sia del suo stesso avviso.
E stia per stravolgere completamente la sua vita.
[USHIHINA - Ushijima Wakatoshi x Hinata Shoyo]
Genere: Erotico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Shouyou Hinata, Tendo Satori, Wakatoshi Ushijima
Note: Lemon, What if? | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO XX
Cronache familiari
(Parte I)
 
 
Puoi costruire una casa con qualunque cosa,
renderla solida quanto vuoi.
Ma una casa, una casa vera,
è più fragile di quattro mura.
Una casa vera è fatta dalle persone con cui la riempi.
E le persone posso spezzarsi.
Grey’s Anatomy
 
 
 
Hinata conosceva il quartiere Aoba-Ju, ma soltanto di fama.
Il motivo era semplice: si trattava in assoluto della zona residenziale più ricca e snob dell’intera prefettura di Miyagi e per sua sfortuna - o fortuna- non aveva mai conosciuto nessuno che abitasse lì.
I suoi coetanei, quali figli di banchieri, avvocati, manager e politici di spicco, non frequentavano certo le stesse scuole di Hinata, studiavano all’estero, prediligevano quello o quell’altro istituto internazionale di Tokyo oppure, come Ushijima, sceglievano la famosa Accademia Shiratorizawa. I ragazzi di Aoba-Ju erano abituati a chiedere e a ottenere, a vedere esaudito ogni loro desiderio; si incontravano in caffè del centro, dove una fetta di torta costava quanto un intero pasto, facevano shopping soltanto in boutique italiane di lusso, passavano le loro vacanze in Provenza o in Grecia.
Era per questo che, mentre saliva sul sedile posteriore della Porsche Macan che li era venuti a prendere, Shoyo si era preparato psicologicamente alla prospettiva di sentirsi del tutto inadeguato.
E, purtroppo per lui, quando l’autista aprì per loro la portiera dell’autovettura di fronte alla casa privata più bella e lussuosa che avesse mai visto in tutta la sua vita, seppe che i suoi timori erano assolutamente fondati.
La casa degli Ushijima era un complesso in stile orientale sviluppato su tre piani, antico nelle fondamenta, nel suo animo più profondo, eppure estremamente moderno nella scelta delle linee, dei dettagli, dei colori, due mondi che convivevano, armonizzandosi tra di loro senza alcuno sforzo, in un equilibrio perfetto che trasmetteva immediatamente un senso di rigore e di ricercatezza.
Shoyo rimase incantato dal meraviglioso giardino che circondava la struttura, fatto di siepi curatissime, fiori dai colori sgargianti e alberi rigogliosi, i quali si dipanavano lungo tutto il perimetro del cortile, come a volerlo proteggere dal mondo circostante. Le gradinate di pietra, che congiungevano il cancello principale all’ingresso, erano accompagnate da un gioco di cascate e specchi d’acqua alquanto scenografico, reso ancora più affascinante dalla presenza di una miriade di carpe bianche e rosse che nuotavano pacifiche e da bonsai di tasso ritagliati in forme artistiche, sapientemente curate, mentre di tanto in tanto, nascoste tra le edere rampicanti, facevano capolino delle statue dai musi un po' buffi, raffiguranti divinità ancestrali.
Quando giunsero nel porticato, Hinata non poté fare a meno di ammirare il legno scuro e levigato che rifiniva le mura dell’intera abitazione, le ampie vetrate che si intervallavano ai pannelli tradizionali, da cui era possibile scorgere la finezza degli interni.
All’improvviso, la porta si aprì innanzi a loro rivelando la morbida figura di Nana.
“Entrate, piccoli, avanti!” affermò la domestica con un piccolo inchino, prima di scostarsi quel tanto che bastava affinché potessero entrare “Benvenuto, Hinata, spero che il viaggio in macchina sia stato comodo.”
“G-grazie, Nana! Certo, comodissimo, il più comodo della mia v-vita!”
La risposta della donna fu una leggera risata.
C’era qualcosa di diverso in lei, Hinata lo percepiva a pelle, eppure non avrebbe saputo spiegare esattamente cosa. Forse era la rigida uniforme grigia che indossava, così diversa dal vestito allegro e variopinto con cui si era presentata alla porta di Wakatoshi appena qualche ora prima, oppure erano i lunghi cappelli striati, ora impietosamente raccolti in una crocchia bassa, fatto stava che tutto il suo aspetto appariva molto più disciplinato e monotono di quanto non fosse sembrato in precedenza, e perfino il sorriso materno con cui si rivolgeva sempre a Wakatoshi, si era trasformato in una specie di corda tesa.
“Vado ad informare la signora che siete qui.” li avvisò comunque, in tono pratico, mentre lui e Wakatoshi toglievano le scarpe per infilare le comode ciabatte che erano state messe loro a disposizioni in dei sacchi di iuta “Cariño, ¿te importaría llevar a Hinata al salón tú mismo? ¿Conoces el camino, verdad? Tesoro, ti dispiacerebbe portare tu stesso Hinata in soggiorno? Conosci la strada, giusto?
“Certo, Nana.” rispose l’interpellato “Hinata, seguimi, per favore.”
Si incamminarono lungo un dedalo di corridoi stretti, piuttosto cupi, in cui Shoyo avvertì quasi subito il bisogno di fissare la propria attenzione sulla schiena del giovane asso di fronte a sé per alleviare l’agitazione che gli stava montando dentro, complice il silenzio tombale che pareva albergare nella dimora; superarono delle porte chiuse rifinite in argento, una serie di quadri di caccia e di natura morta dall’aspetto piuttosto angoscioso e diversi suppellettili decisamente preziosi, infine, arrivarono in quella che doveva essere la sala principale della struttura.
L’ambiente che li accolse era eclettico, sofisticato.
Per certi versi, Hinata pensò che somigliasse molto a quello presente in casa del campione della Shiratorizawa, complici gli spazi ampi e il medesimo design spiccatamente moderno, eppure l’aura che emanava era del tutto differente – e no, non gli piaceva.
Se l’abitazione di Wakatoshi trasmetteva ordine, eleganza, ma anche confort e accessibilità, il luogo in cui si trovava adesso puzzava di privilegio, come un santuario destinato ad una piccolissima cerchia di adepti, dove sentirsi inadeguati era praticamente inevitabile. Le luci soffuse, il susseguirsi di toni scuri, il taglio netto del mobilio, gli oggetti in stile orientale dai tratti all’avanguardia, tanto armonici quanto fatalmente nudi ed essenziali, rendevano l’aria satura, quasi asfissiante, greve al punto da risultare intimidatoria.
Né le enormi finestre che affacciavano sul giardino né l’ampio tavolo di mogano riuscivano a donare alla stanza un seppur vago senso di familiarità, così come i pregiati tappeti in terra o i grandi dipinti appesi alle pareti erano in grado di smorzarne l’alterigia: era come se ogni singolo dettaglio della dimora degli Ushijima fosse stato pensato per rimarcare la netta superiorità di coloro che risiedevano al suo interno, vessillo di un malcelato senso di superbia.
Sopraffatto, Shoyo prese a torturarsi i polsini della camicia, tirandoli e ritirandoli giù fino alle nocche con scatti nervosi della mano.
Quello non era il suo posto, era evidente.
Lui non aveva nulla a che vedere con tanta ricchezza, tanto prestigio.
Si sentiva come se da un momento all’altro, gli arabeschi dorati di quegli ornamenti potessero agguantargli le caviglie e trascinarlo fuori dal cancello, come se il marmo lucidissimo del pavimento di colpo potesse inghiottirlo per poi sputarlo via, lontano da quel mondo di ricchezze.
Sospirando, sollevò gli occhi verso Wakatoshi, ritto immobile al suo fianco.
“Tu hai vissuto qui?” chiese quindi, in un misto di curiosità e apprensione.
Avrebbe mentito, Shoyo, se avesse detto di non aver mai provato una curiosità quasi morbosa verso la storia famigliare di Ushijima Wakatoshi. Racimolando qualche briciola qua e là, aveva intuito che i suoi genitori dovevano essersi separati quando lui era molto piccolo, tuttavia non aveva mai compreso il tenore del rapporto che il campione intratteneva con i suoi congiunti, soprattutto perché egli mostrava una palese reticenza persino a menzionare i loro nomi.
In effetti, anche di fronte a quella semplice domanda, l’asso scrollò le spalle, in segno di disagio e “Sì, quando i miei genitori hanno divorziato, ho vissuto qui per un periodo.” si limitò a rispondere, freddo e conciso.
Hinata deglutì, rammaricato: quella casa sembrava tutto fuorché un luogo adatto a crescere un bambino.
Di sottecchi, prese a studiare il volto di Wakatoshi.
Quando lo aveva visto uscire dalla sua stanza, pronto per uscire, si era vergognato per le immagini assolutamente indecenti che la sua mente aveva partorito alla vista del ragazzo. A sua discolpa, tuttavia, andava ammesso che Ushijima non era mai stato così elegante, così bello. Il suo corpo scultoreo era perfettamente fasciato in un paio di pantaloni grigio scuro dal taglio classico, stretti in vita da tre fibbie metalliche che rendevano superfluo l’uso di una cintura, mentre sopra portava una camicia bianca, scollata alla coreana, lasciata aperta quel tanto che bastava ad intravedere la pelle olivastra del petto.
Hinata aveva sentito il desiderio vibrargli nel sangue, scaldargli le viscere del bassoventre, salvo poi essere attraversato da un brivido freddo nell’istante in cui aveva incontrato il suo sguardo.
Nel corso di quelle settimane, Shoyo aveva conosciuto tante sfumature di Ushijima Wakatoshi.
Lo aveva visto arrabbiato, frustrato, esaltato, confuso. Aveva imparato a memoria ognuna delle minuscole, impercettibili increspature del suo volto, aveva capito come interpretarle, come riconoscerle, le aveva catalogate una ad una per custodirle dentro di sé come un tesoro prezioso, eppure quella era stata la prima volta che aveva scorto su di lui i tratti inconfondibili dell’angoscia, e la cosa lo aveva lasciato frastornato.
Anche il ragazzo dei miracoli poteva provare paura, dunque?
Ma di cosa, poi?
Erano a casa sua, dopotutto, in un luogo a lui famigliare…
All’improvviso, il giovane asso ruotò il capo verso di lui, facendolo trasalire.
In fondo ai suoi occhi verdi, Shoyo scorse un’ombra.
“Hinata, per quanto riguarda mia nonna, c’è una cosa che…”
“Wakatoshi, sei tu?”
Entrambi si voltarono contemporaneamente verso il fondo della sala.
La proprietaria di quella voce flebile, musicale, era una donna slanciata dai lunghi capelli castani, la pelle talmente diafana da lasciare intravedere le venature blu dei polsi. Portava un vestito di raso bianco, il quale non faceva altro che accentuare la natura magra e nodosa del suo corpo, i suoi occhi smeraldo erano lucidi di emozione e la sua bocca rosa era aperta in un sorriso fragile, incrinato.
Sembrava sul punto di disfarsi, di cadere in pezzi lì, sul pavimento, come un vaso di cristallo.
Hinata pensò fosse bellissima.
“Mamma…”
Doveva aver sentito male.
La donna che aveva di fronte era troppo, troppo giovane per essere la madre di un ragazzo di diciassette anni, e poi era così diversa da Ushijima – solido, dorato, potente.
No, non era possibile.
Non poteva essere vero.
Eppure, i dubbi di Hinata si sgretolarono rapidamente nel momento in cui ella si mosse verso di loro senza emettere alcun suono, posò entrambe le mani ai lati della faccia del giovane asso, dopodiché congiunse le loro fronti, emettendo un sospiro rotto, di commozione.
Si era sbagliato.
Della madre, Wakatoshi aveva la forma fine del naso, il taglio degli occhi, le spigolature nette del viso, la curva più pronunciata del labbro superiore. Da lei aveva preso il modo incerto di sorridere, la tendenza a scandire ogni sillaba delle parole sulla lingua, quella sottile prepotenza nel toccare le cose del mondo a palmi aperti, in pienezza.
“Sono così felice di vederti.” disse la donna debolmente, chiudendo le palpebre.
“Ciao, mamma.” sussurrò soltanto Wakatoshi, prima di poggiare le dita sulle sue e ricoprirle completamente. 
Shoyo non ricordava di avergli mai visto quella tenerezza nello sguardo, quella delicatezza nei gesti.
D’un tratto si sentì di troppo, spettatore indiscreto di un momento assolutamente intimo in cui non vi era posto per nessun’altro al di fuori delle persone agli estremi del cordone ombelicale che si era appena manifestato nella stanza, per cui istintivamente fece un passo indietro, desiderando confondersi con lo spazio circostante.
“Come stai? Dimmi che stai bene, dimmi che sei felice!”
“Mamma, sto bene, tranquilla.”
“Sei così bello… sei un uomo, oramai…”
“È solo che non mi vedi da tempo.”
“Mi manchi così tanto… così tanto…” tremò, una lacrima trasparente le solcò una guancia “Ti penso sempre, tutti i giorni… voglio solo che tu stia bene, Wakatoshi, è l’unica cosa importante… l’unica cosa che conta per me…”
“Oh Akiko, basta con queste stupide smancerie, ci metti tutti in imbarazzo.” 
Quelle parole trapassarono l’aria simili ad una freccia scagliata verso il bersaglio, risucchiando tutta l’atmosfera di calore che si era creata tra madre e figlio, e mutando perfino la temperatura della stanza, facendola rarefatta, gelida.
La madre di Wakatoshi, Akiko, si ritrasse di scatto per poi cingersi il busto tra le sue stesse braccia come una bambina piccola, mentre il capitano della Shiratorizawa parve tendere ogni muscolo del proprio corpo, serrando la mascella talmente forte da creare un solco nei suoi lineamenti già granitici.
Vi era una donna anziana dall’altra parte della sala principale degli Ushijima.
Se ne stava dritta e imperscrutabile, appoggiata ad un bastone di legno scuro con la testa d’argento; guardava verso di loro immobile, senza dire una parola, eppure la sua sola presenza sembrava strabordare dalle pareti, riempire l’ambiente fino al soffitto, premendo perfino contro le vetrate altissime, oltre le quali stava cominciando a calare la sera.
Quando si mosse, prendendo a camminare nella loro direzione, i suoi passi e il suono cadenzato del bastone che toccava il pavimento, risuonarono nel silenzio – toc toc toc – e così anche l’energia che la circondava prese a pulsare in sincronia coi suoi movimenti, emettendo scariche elettrostatiche che Hinata avvertì fin dentro le ossa.
“Buonasera, nonna.” la salutò Wakatoshi, piegando il busto in segno di rispetto.
“Bentornato, Wakatoshi.” si limitò a rispondere quella, affilando lo sguardo.
La sua voce era roca, ma ferma; il suo viso spigoloso era percorso da rughe profonde, le quali solcavano soprattutto gli angoli degli occhi e il contorno della bocca, per poi scendere lungo il collo sottile, elegantemente adornato da un giro di perle, per il resto, invece, la sua pelle appariva tesa e acquosa come un lenzuolo umido, appena lavato. Hinata notò che anche lei, nonostante le spalle ricurve, era piuttosto alta, sicuramente magra. I suoi capelli erano raccolti in uno chignon, per cui era impossibile definirne la lunghezza, tuttavia il loro colore era di un corvino innaturale, specchio perfetto delle sue iridi buie. 
Aveva un portamento regale, altero.
Tutto in lei esprimeva fierezza, dal mento alto al modo di congiungere le mani sul bastone, dai gioielli che indossava con la grazia di una nobildonna all’espressione di gelida accondiscendenza disegnata sul suo volto.
Era quello, in effetti, a preoccupare Hinata sopra ogni cosa: più la guardava, più non riusciva a comprendere che cosa passasse per la testa della signora Ushijima. Gli sembrava di essere di fronte ad una maschera splendente e misteriosa, oltre la quale guardare non era concesso.
Di istinto, tuttavia, Hinata intuì che doveva nascondere un abisso.
Un abisso in cui sporgersi faceva dannatamente paura.
“Sei dimagrito, dall’ultima volta che ti ho visto.” asserì dal nulla la donna, inclinando un poco il capo per studiare il nipote da capo a piedi.
Wakatoshi strinse le labbra, preso in contropiede e “Non saprei…” rispose soltanto.
“Non era una domanda, era una constatazione.”
“Forse ho perso qualche chilo, sì.”
“Forse? Con tutti i medici, i preparatori atletici e i programmi che io e il tuo staff prepariamo minuziosamente per te, tu ti permetti il lusso di non conoscere una informazione così importante come il tuo peso corporeo?”
Shoyo sentì il colpo che quella affermazione inferì a Wakatoshi, come fosse stato rivolto a lui.
La cosa che più lo straniva era che la donna di fronte a loro non aveva usato alcuna sfumatura collerica o di irritazione nella propria voce, così come non vi era la benché minima ombra di biasimo sui suoi tratti, eppure in quel suo sorrisetto inespressivo, in quel suo contegno ghiacciato simile ad una stalattite, c’era qualcosa di così feroce e di così spietato che era inevitabile esserne atterriti.
“Il piano alimentare e gli allenamenti sono molto rigidi ultimamente.” affermò comunque il campione, inalando un profondo respiro. Era arrabbiato, era evidente; teneva lo sguardo fisso innanzi a sé, ma stando ben attento a non incontrare quello della nonna e poi stava stringendo i pugni, lungo i fianchi, con una intensità tale da farsi venire le nocche bianche.
“Niente che non sia assolutamente necessario, Wakatoshi, lo sai.” ribatté la donna, tranquillamente “D’altronde, hai bisogno di recuperare il tempo perduto dopo quella scampagnata del tutto superflua che hai preteso di fare coi tuoi amici, o sbaglio?”
“È stata solo una giornata…”
“Una giornata che ti è costata una febbre e tre giorni di fermo.”
Wakatoshi rimase in silenzio, incapace di replicare.
A quel punto, la anziana si sporse leggermente verso di lui, sollevò una mano e la posò tra i capelli del giovane asso, il quale fu costretto, questa volta, a fissare la nonna dritto negli occhi.
“Noi facciamo tutto questo per te, lo sai vero?” fece quindi, con un tono morbido che Shoyo trovò assolutamente fasullo, arcuando appena il suo sorriso incolore “Vogliamo solo e soltanto il meglio per te e la tua carriera, ma è importante che tu…”
“Che io mi fidi del tuo giudizio e faccia qualche sacrificio.” recitò Wakatoshi, come se stesse ripetendo una vecchia filastrocca; alla fine, emise un lungo sospiro, rilassò le spalle e annuì lentamente “Sì, hai ragione, nonna.”
“Il mio ragazzo dei miracoli…” sibilò allora la donna, con un lampo di orgoglio negli occhi neri.
Shoyo non era affatto preparato, quando all’improvviso quella si voltò verso di lui.
Lo inchiodò lì dov’era, con un’aria a metà tra il curioso e l’altezzoso, quindi prese ad analizzarlo come fosse una cavia da laboratorio, senza nemmeno preoccuparsi di dissimulare la scortesia.   
“B-buonasera, signora Ushijima, i-io so-sono Hinata Shoyo” si sentì in obbligo di dire, esibendosi in un profondo inchino, se non altro per interrompere l’esame certosino che stava avvenendo sulla sua persona.
“Sì, lo so chi sei.” precisò la nonna di Wakatoshi, compiendo qualche passo verso di lui “Io sono la padrona di casa, nonché capo di questa famiglia. Il mio nome è Midori Ushijima.”
Shoyo rabbrividì.
Lo so chi sei.
Poteva sembrare una frase banale, una asserzione di circostanza, ma non lo era: Midori Ushijima si stava ergendo un gradino sopra di lui, stava implicitamente puntualizzando che, sebbene non fosse presente con loro in casa, ella esercitava una vigilanza quasi costante sulla vita del nipote, al punto da conoscerne ogni più piccolo dettaglio.
“Morivo dalla voglia di conoscerti, sai Hinata? Soprattutto da quando ho scoperto che la tua convivenza con mio nipote si è prolungata tanto.” disse Midori, il solito sorrisetto stampato sul volto, nonostante la marcata insinuazione nella sua voce.
“Non è una convivenza, mamma, è una situazione temporanea, Wakatoshi te lo ha già spiegato…” intervenne Akiko per la prima volta, tremolando.
Hinata notò che se ne stava in un angolo della stanza, a capo chino, ancora stretta tra le sue stesse braccia come se le facesse paura anche il mero atto di respirare. 
“Temporanea?” sbottò però la nonna, facendo trasalire la figlia “Tesoro, temo che abbia smesso di essere temporanea settimane fa.”
Qualcosa, nelle profondità dello stomaco di Shoyo, si contorse: quella donna aveva l’abilità di assestare sferzate così taglienti e precise, da non concedere l’agio, a chi le subiva, nemmeno di difendersi, nemmeno di concepire una via di fuga.
Bisognava solo incassare, in silenzio, pregando di non subire un altro fendente mortale.
“Ad ogni modo, non vedo l’ora di conoscerti meglio a cena, Hinata Shoyo. Chissà, forse capirò cosa abbia spinto mio nipote a dedicarti tutta questa attenzione…” sentenziò maligna, dandogli le spalle, dopodiché afferrò la figlia per un braccio e la costrinse a seguirla fuori dalla sala “Wakatoshi, caro, mostra pure al tuo coinquilino il resto della casa.”
“Grazie.” mormorò Shoyo flebilmente, prima di abbassare la testa in segno di congedo.
Aveva la pelle d’oca.
 
 
 
 
NOTE AUTORE
Vi preparo una camomilla, va bene ragazzi?
Lo so, Midori Ushijima non vi ha fatto una buona impressione, ma vi avverto… è meglio che preparate la bile, perché quello che avete visto durante questo primo incontro è soltanto la punta dell’iceberg!
 
In realtà il capitolo, sulla carta, doveva essere molto più lungo, comprendendo anche la scena della cena, tuttavia un po' perché vi ho lasciato a bocca asciutta per parecchio, un po' perché mi sono resa conto di quanto già questo primo approccio con la famiglia Ushijima si fosse dimostrato saturo e corposo, alla fine ho pensato fosse meglio spezzarlo.
Tranquilli, però! Proprio per questo motivo, la seconda parte del Capitolo XX arriverà molto prima, precisamente mercoledì 15 dicembre!
 
Sono molto curiosa delle vostre reazioni riguardo Akiko e Midori Ushijima, rispettivamente la mamma e la nonna di Wakatoshi! La storia di questa famiglia deve ancora essere trattata a dovere, ma vi anticipo che costituisce una parte fondamentale di questa parte della long!
ATTENZIONE: questi personaggi - i loro nomi, la loro caratterizzazione, la loro storia - sono tutta farina del mio sacco, quindi me ne prendo tutti i diritti e le responsabilità! Nel canone, infatti, queste due figure compaiono nella terza stagione, insieme al padre di Wakatoshi, che vive all'estero, precisamente in America; si spiega altresì che i suoi genitori sono divorziati, ma nulla di più! Quindi tutto quello che avete letto e leggerete, al di là di queste informazioni di base, proviene da me, cioè costituisce una mia personale interpretazione della storia di Ushiwaka! 
 
A presto!
Violet Sparks
 
 
 
 
   
 
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