Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    12/01/2023    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

I bassi torrioni della rocca di Pesaro, quella mattina di febbraio, a Michelotto ricordavano anche troppo da vicino quelli altrettanto pesanti della rocca di Ravaldino a Forlì.

Forse era il peso che aveva nel cuore, quel giorno, a fargli vedere solo cattivi presagi, tuttavia, quando varcò l'ingresso del portone e si fece condurre alla cella in cui stazionavano i Varano, si chiese se non fosse un segno del destino, quella somiglianza, secondo lui, tanto spiccata.

Sapere che Cesare non stava bene e che, malgrado tutto, si era messo in strada per raggiungere Montefiascone e, da lì, andare fino a Viterbo, lo metteva in agitazione. Avrebbe voluto stargli accanto, per assicurarsi che si trattasse solo di un male passeggero, come gli aveva assicurato per lettera lo stesso Valentino. Era anche stato tentato di rispondere al Borja offrendosi di raggiungerlo, ma sapeva che il Duca non avrebbe voluto.

Miguel era l'unico di cui Cesare si fidasse davvero, ecco perché gli aveva chiesto di correre a Pesaro, a sistemare la questione dei Varano, per poi andare subito a Cagli, per far impiccare Ugolino Da Pian di Meleto, Luigi da Montevecchio e il Vescovo, Gaspare Gulfi, alleato storico di Guidobaldo da Montefeltro.

Ormai rincorrere il Baglioni non aveva più senso, dato che era risaputo che stesse cercando di accordarsi con Pandolfo Petrucci. Lo stesso Valentino aveva assicurato che avrebbe avanzato una proposta impossibile da rifiutare a Giampaolo, e quindi almeno quella questione, per un po', poteva ritenersi sistemata.

Quando arrivò nelle segrete della rocca di Pesaro, il Corella stava ancora pensando a Pantasilea Baglioni, sorella di Giampaolo, ancora nelle mani del Duca di Valentinois. Fosse dipeso da lui, l'avrebbe resa subito all'Alviano, anzi, non gliel'avrebbe nemmeno sottratta... Sapeva, però, che il Borja aveva due occhi più grandi dello stomaco, proprio come i lupi, e dunque era inutile provare a farlo ragionare su certi argomenti.

“Sono tutti e tre di là...” indicò il soldato che l'aveva scortato, puntando l'indice verso una porta scura e dall'aspetto spesso.

“Fatemi luce.” ordinò Miguel, avanzando verso la cella.

Nel momento stesso in cui l'aprì, un tanfo di escrementi, urine e muffa lo travolse, dandogli quasi il voltastomaco. Nel buio profondo della prigione, tre figure indistinte si muovevano a scatti, come i topi, rannicchiandosi nell'angolo più lontano possibile dalla porta.

“Luce.” ribadì il Corella e finalmente la fiaccola venne alzata a sufficienza da permettergli di vedere i tre figli del defunto Giulio Cesare da Varano.

Venanzio, l'erede designato, piangeva senza sosta, il volto tanto sfigurato che, se non fosse stato che Michelotto conosceva grossomodo la sua età – non arrivava ai trent'anni – non l'avrebbe riconosciuto. Annibale, invece, se ne stava in silenzio, lo sguardo perso e la bocca chiusa, stretta come una morsa.

Pirro, un sedicenne che si era fatto ossuto e smunto come un bambino affamato, era riverso in terra e, tra le lacrime e i lamenti, nel momento stesso in cui vide il Corella stringere tra le mani la corda di violone, vomitò.

Il sicario del Valentino guardò con un misto di schifo e pietà i succhi gastrici trasparenti, sintomo di uno stomaco vuoto da giorni, e poi fece un cenno ad Annibale.

Questi, forse l'unico, tra i tre fratelli, ad aver accettato davvero la sua sorte, gattonò fino a lui, troppo debole per alzarsi in piedi, e lo guardò. Faticando a sopportare i suoi occhi, fermi e accusatori, Miguel lo strangolò in fretta, senza guardarlo più e fingendo di non sentire i singulti degli altri due e il gorgoglio soffocato del respiro agonico della sua prima vittima.

Più per non vederlo più vomitare, che altro, Michelotto si inginocchiò accanto a Pirro e, quasi con dolcezza, gli avvolse il collo con la corda e strinse con forza, togliendogli la vita con la facilità con cui l'avrebbe tolta a una gallina.

Venanzio, folle di paura, cercava in vano di ritirarsi sempre di più, sbattendo con la schiena contro il muro, ormai non più padrone delle proprie funzioni fisiologiche e incapace perfino di farfugliare una preghiera di pietà.

Il Corella, che cominciava a essere stanco di liberarsi a quel modo dei nemici del suo amato Cesare, lo afferrò per la collottola, per avvicinarlo a sé, e, con gesti sgraziati e spazientiti, pose fine anche al suo tormento. Venanzio fu l'unico che cercò concretamente di opporsi alla morte, ma era ormai un uomo senza muscoli e senza forze, non poteva nulla contro le braccia adamantine del borgiano.

Rialzandosi, Miguel si guardò le brache, che si erano sporcato nel toccare terra, e fece una smorfia di insofferenza. Guardò un istante appena i tre cadaveri che giacevano davanti a sé e poi, con un sospiro, tornò alla porta, dicendo che sarebbe ripartito all'istante, lasciando a Pesaro una manciata di suoi soldati.

Aveva due uomini e un Vescovo da impiccare a Cagli: non aveva tempo da perdere...

 

Bianca aveva insistito per andare a trovare suo fratello Giovannino al convento d'Annalena. La sua richiesta era stata dapprima osteggiata da Caterina, che credeva troppo rischioso far andare la figlia in Firenze, in quel convento, proprio ora che era arrivata la convocazione per recarsi a Roma a sposarsi. Troppi occhi, secondo lei, potevano puntarlesi addosso, e a quel punto avrebbe anche potuto rivelare involontariamente il nascondiglio del fratello.

In più, le sembrava che non ci fosse una scusa credibile, per quell'uscita improvvisa, proprio adesso che si inaspriva il processo per l'affidamento del piccolo Medici e Firenze aveva ritrovato interesse per i loro affari.

Era stato Fortunati, più sensibile, in apparenza, della Tigre ai bisogni di Bianca, a esprimersi invece favorevole alla visita in convento. Aveva scorto nella ragazza una profonda sofferenza, all'idea di dover partire senza rivedere il fratellino a cui, andava ricordato, aveva fatto da madre per mesi in uno dei momenti più critici per la loro famiglia.

Ne era sorto – nel segreto della stanza che ormai dividevano pressoché ogni notte – un diverbio tra la Leonessa e il piovano, ma, laddove la donna aveva solo le sue paure e i suoi sospetti come argomentazioni, Francesco aveva saputo toccare temi più nobili, sottolineando il grande valore della Riario e l'enorme affetto che la legava al fratello.

“Non lo vede da così tanto tempo...” aveva concluso, accorato: “Non vorrai che Giovannino cresca senza nemmeno ricordare il viso della sorella che gli ha permesso di sopravvivere mentre tu era prigioniera a Castel Sant'Angelo!”

Quell'ultima esclamazione aveva fatto cambiare repentinamente idea alla Sforza e alla fine Bianca era stata fatta partire, con la promessa di stare attenta e tornare prima che facesse buio. Le era stato detto che, se qualcuno, per qualsiasi motivo, le avesse dovuto chiedere il perché di quella visita, avrebbe dovuto rispondere che, dovendosi andare a sposare a Roma, con un uomo molto più vecchio, che non aveva mai visto e che, per di più, aveva combattuto per i francesi, aveva sentito il bisogno di andare a raccomandarsi a Dio, passando qualche ora tre le caste e devote monache d'Annalena.

La Riario aveva imparato a memoria quella scusa, trovandola credibile e abbastanza efficace e poi si era fatta forza e si era affidata all'accompagnatore scelto da Fortunati. Con lei c'era anche la serva Creobola, in modo da salvare le apparenze, non lasciando la bella Bianca, che quell'anno avrebbe compiuto ben ventidue anni, da sola con un uomo.

Arrivata al convento, la Riario mostrò la lettera vergata da Caterina in persona e la monaca al portone, seppur con un velo d'irritazione evidente, la lasciò entrare, assieme alla serva, ma esigette che Creobola aspettasse all'ingresso del convento.

Giovannino, vestito con un abito lungo, da femmina, che gli arrivava alle caviglie, ma che non nascondeva il suo portamento battagliero, stava giocando da solo in un corridoio, con appena una monaca, distante, che lo teneva d'occhio, forse temendo che facesse qualche disastro.

Era l'ala più tranquilla del convento e quando sentì dei passi alle sue spalle, il bambino, che aveva quasi cinque anni, scattò in piedi e guardò la sorella con i suoi occhietti allungati che brillavano come due fiamme.

La riconobbe subito, benché fossero passati molti mesi dal loro ultimo incontro e, senza frenarsi, gridando il suo nome, le corse incontro come un pazzo. La Riario fu pronta ad afferrarlo, stringendolo a sé, e per fortuna lei era una donna robusta, perché lo slancio che il Medici si era dato, l'aveva sollevato da terra abbastanza da fargli quasi spiccare il volo.

Abbracciandolo con forza, mentre la monaca di vedetta si avvicinava circospetta, Bianca gli sussurrò: “Allora ti ricordi ancora di me...”

Il ragazzino, che passava tutte le sue giornate a pregare e giocare, ma, sopratutto, ad aspettare che qualcuno andasse a prenderlo, annuì e ribatté: “Mi porti a casa?”

“Devo parlarti di tante cose...” disse invece lei, con una morsa che le stringeva il petto, nel sentire quanto il fratello desiderasse ricongiungersi in via stabile alla propria famiglia: “Dove possiamo andare per stare un attimo in pace da soli?” chiese poi, rivolgendosi alla religiosa, ormai abbastanza vicina da sentirla.

Furono condotti nella cella in cui Giovannino dimorava e Bianca gli spiegò, con le dovute cautele, del suo matrimonio. Colta da un moto d'affetto incontrollabile, volle parlargli anche di Pier Maria, spiegandogli che, una volta che la loro madre avesse vinto il processo e l'avesse riportato a casa, lui e il nipotino sarebbero diventati grandi amici.

“Avete pochi anni di differenza – gli sussurrò, accarezzandogli il volto, che ormai era davvero un insieme inesplicabile della bellezza di Caterina e di quella di Giovanni – quindi sarete come fratelli... Vi vorrete bene e sarete amici.”

Gli spiegò, poi, di quanto fosse importante che non ne parlasse con nessuno, e concluse dicendo che anche gli altri fratelli lo volevano di nuovo con loro, anche se, nel nominare Bernardino, Galeazzo e Sforzino, la Riario si rese conto che lo sguardo del Medici si era fatto un po' vacuo. Era chiaro che sapesse i loro nomi, e quale legame li teneva uniti, tuttavia era palese che non ricordasse minimamente il loro aspetto, né nient'altro che li riguardasse.

Alla fine Bianca gli chiese notizie della sua vita, si fece spiegare cosa facesse durante il giorno e rimase un po' delusa nello scoprire che Giovannino, malgrado l'età, non avesse ancora ricevuto alcuna istruzione, se non essere stato obbligato a imparare a memoria delle preghiere in latino, di cui, come evinse dopo avergli fatto ripetere qualche brano, non conosceva quasi per nulla il significato.

“Vedrai – gli assicurò, quando il piccolo espresse la sua insofferenza verso le regole del convento e la voglia di scatenarsi in qualche gioco più fisico di quelli che gli era permesso fare – che nostra madre ti farà andare presto a casa e lì potrai correre, fare la lotta, cavalcare...”

Il bambino spalancò le labbra, nel sentire quell'ultimo verbo, chiedendosi se andare a cavallo fosse bello come lo aveva immaginato tante volte, ascoltando le storie raccontate da sua madre.

“E studiare.” concluse la Riario: “Nostra madre di certo ti insegnerà a leggere e scrivere, tanto per cominciare...”

A quella precisazione, il volto di Giovannino si adombrò appena, ma fu solo per un istante.

I due fratelli rimasero insieme ancora per buona parte della giornata. Come quando il Medici era poco più di un neonato, Bianca lo coccolò e mangiò assieme a lui, ritardando il più possibile la loro separazione.

Prima che facesse buio, però, dovette farsi forza e gli disse: “Devo andare, s'è fatto tardi.”

Senza dire nulla, passando dal sorriso beato che l'aveva accompagnato per tutto il giorno, a un'espressione greve, il fratello si fece abbracciare e baciare e poi, trattenendo a stento le lacrime all'idea che anche quella sorta di surrogato di sua madre lo stesse lasciando in convento da solo, sussurrò: “Portami con te...”

“Non posso.” soffiò la Riario e, con un ultimo bacio sulla fronte del piccolo, concluse: “Ci ritroveremo. Tu sarai sempre il mio fratellino. Ti ho sempre voluto bene e te ne vorrò sempre.”

“Anche io.” rispose il Medici, serio.

Con il cuore pesante, ma felice di aver rivisto Giovannino prima di partire per Roma, Bianca ritrovò Creobola, che sonnecchiava su una sedia, ancora relegata nell'atrio d'ingresso, e si disse pronta a tornare alla villa.

“Come sta il tigrotto?” chiese la serva, con il tono sfrontato che di quando in quando tirava fuori senza preavviso.

La Riario, stringendosi appena nella spalle, rispose, a voce bassa: “Starà bene... Lui è forte, come mia madre: qualsiasi cosa gli capiterà, starà bene.”

 

“E sai cos'ha avuto il coraggio di fare quello zotico di tuo marito?” chiese Cesare Borja, guardando Pantasilea Baglioni che, per l'occasione, era stata vestita di nuovo, lavata e pettinata.

La donna non fece nulla, né scosse il capo, né provò a sfidare il Valentino. Non capiva come mai fosse stata tolta dalla sua stanza di prigionia, né perché fosse stata separata dai suoi parenti che erano ostaggi come lei. A suo avviso potevano esserci solo due motivi validi: o stava per essere liberata, o stava per essere uccisa.

“Mi hai sentito?!” sbottò il Valentino, che quel giorno sembrava più magro del solito e portava due profonde occhiaie in viso.

La Baglioni, questa volta, sollevò appena lo sguardo, giusto per evitare un secondo strattone da parte del Duca, ma, ancora, non disse nulla.

Esasperato, Cesare, che aveva continuato a punzecchiarla per almeno mezz'ora – per ingannare l'attesa, più che perché provasse piacere nel farlo – decise di andare avanti col suo soliloquio, che alla sua prigioniera diceva in realtà ben poco: “Io ti avrei tenuta qui con me ancora mesi, o anni, perché no... Tuo fratello me l'avrebbe anche lasciato fare, sai? Dopo un primo momento, si è completamente disinteressato a te! Gli interessa solo salvarsi la pelle...”

Pantasilea deglutì. Non stentava a credere al figlio del papa. In fondo Giampaolo era stato così fin da bambino. Se c'era un giocattolo che gli piaceva, ci giocava fino a distruggerlo, ma se uno dei fratelli glielo portava via, difficilmente si accaniva per riaverlo, nel caso in cui ciò comportasse uno scontro aperto che avrebbe potuto vederlo sconfitto.

“E invece tuo marito, che avrebbe dovuto farsi gli affari suoi – continuò il Borja – ha messo in mezzo i francesi e perfino i veneziani, i quali hanno fatto arrabbiare mio padre, che mi ha ordinato di ubbidire, da bravo figlio...”

Quell'ultima frase accese un barlume concreto di speranza, nel petto della donna. Se c'erano state pressioni da parte dei francesi e di Venezia e se il papa aveva dato ordini al figlio, poteva essere che stessero per liberarla.

“E stavo dicendo – sospirò il Duca di Valentinois, guardandola con disprezzo – che quel troglodita di tuo marito ha avuto anche la faccia tosta di chiedere un salvacondotto veneziano per te, in modo che, uscita da Orvieto, tu possa correre a nasconderti sotto alle sottane del Doge... E lui, addirittura, ha chiesto al Doge il permesso di marciare contro di me! Ma ti rendi conto?”

Sorpresa dalla solerzia di Bartolomeo, che per lei era stato quasi sempre e solo un estraneo, per quanto fossero legittimamente sposati ormai da anni, Pantasilea sollevò di nuovo lo sguardo e la sua sorpresa dovette vedersi bene, perché Cesare scoppiò a ridere.

“Che vuoi farci...” scherzò lui, con cattiveria: “Se ti vuole indietro con tanto ardore, significa che gli piace avere un pezzo di legno nel letto...”

Alla Baglioni non interessavano quelle battute di cattivo gusto. C'era solo una cosa a cui riusciva a pensare, in quel momento: suo marito, quello stesso Bartolomeo che a volte aveva temuto per la sua impenetrabilità, si era esposto pubblicamente e rischiosamente per lei. Forse era stato solo per difendere il proprio onore, ma non le interessava, era comunque un gesto che le infondeva calore e la faceva sentire importante per qualcuno.

“Comunque sei tu, quella che ci perde... Un Duca, quale sono io, contro un bruto come quell'Alviano...” stava ricominciando a dire Cesare, ma, per fortuna, il supplizio di Pantasilea sembrava alla fine.

Arrivarono due soldati del Valentino, dicendogli che la delegazione era pronta e aveva, anzi, già preso in custodia gli altri prigionieri liberati. A quel punto, il figlio del papa fece una smorfia e, non potendo tergiversare oltre, fece un cenno con il capo e lasciò che i due uomini prendessero con loro la donna.

Senza più guardarla, ebbe solo il coraggio di dirle: “Sia chiaro: non eri mia prigioniera, ma mia ospite...”

La Baglioni, che quasi si era illusa che nella delegazione giunta a prenderla ci fosse proprio Bartolomeo in persona, si sentì ugualmente sollevata quando vide altri volti conosciuti, che, comunque, le fecero subito quadrato attorno e si affrettarono a portarla via.

“Dove andiamo, adesso?” chiese lei, senza ansia, solo per prefigurarsi un posto sicuro che fosse lontano da Orvieto.

“Vostro marito vi aspetta al nostro accampamento.” rispose un soldato, senza aggiungere altro.

Quel poco, però, bastò alla moglie dell'Alviano, per sentirsi ancor più felice di quanto non fosse stata fino a una manciata di secondi prima. Si sentiva come un uccellino appena liberato da una gabbia stretta e arrugginita, al quale viene mostrata una voliera enorme e poi viene promesso addirittura il cielo intero.

Il tragitto, tutto sommato breve, che dovette percorrere su un carretto per giungere al campo, le parve lunghissimo. Solo quando tornò a camminare sui suoi piedi si rese conto di quanto fosse stanca. La tensione che aveva provato per giorni e giorni e che le aveva impedito di riposare in qualsiasi modo, le stava presentando il conto.

Stava quasi per cedere e chiedere, senza vergogna, di essere portata a braccio o su una portantina, quando tra i soldati ne riconobbe uno il cui profilo era inconfondibile. Normalmente, vedere il naso rotto e la bocca leggermente storta di Bartolomeo, non le avrebbe fatto alcun effetto, tanto meno avrebbe sentito con tanta forza il desiderio si gettarsi con le braccia attorno al suo collo taurino, né di lasciarsi cingere dalle sue grosse e forti braccia. Quella volta, però, l'aspetto grezzo e burbero di suo marito aveva ai suoi occhi una piega dolce, che si era concretizzata nel suo impegno a farla liberare.

Con una nuova forza, che non solo le rendeva le gambe veloci, ma la portava anche a sorridere come non faceva da anni, Pantasilea cominciò a correre, sorprendendo tutti i presenti e, quando arrivò a un passo dall'Alviano, non si trattenne e lo abbracciò con forza.

Il condottiero, che tra tutti era il più allibito, ricambiò con un braccio solo la stretta, troppo impacciato per fare di più, e, parlando a fatica, per via della lingua che, quel giorno, non voleva saperne di seguire le sue indicazioni, le chiese: “Avete fame? Avete sete? Avete freddo?”

Il tono dell'uomo era secco, ma la Baglioni riconobbe il suo modo ruvido di parlare e colse appieno l'interessamento sincero che sottendeva a tutte quelle domande, un interessamento che mai avrebbe pensato di trovare in lui.

Intenerita da quel modo un po' goffo di ricambiare il suo gesto affettuoso, la Baglioni si scostò appena e, guardandolo di sottecchi, rispose: “No... Ho già tutto quello che mi serve, adesso.”

 

La partenza di Bianca era stata decisa per la mattina seguente. L'ordine, abbastanza perentorio, che era arrivato dai mediatori incaricati da Troilo non lasciava gran margine di manovra e, a onor del vero, la Riario nulla avrebbe fatto, nemmeno potendo, per ritardare ulteriormente il suo viaggio.

Caterina era stata abbastanza categorica, riguardo il cerimoniale per quello che sembrava un addio, più che un arrivederci. Non voleva che i servi si impicciassero troppo dei loro affari, perciò aveva detto alla figlia di prendere commiato da Pier Maria, dai fratelli e anche da frate Lauro e Fortunati quella sera, per evitare discorsi pericolosi il giorno seguente, davanti a tutti, e per non tradirsi in qualche modo nel salutare il figlio.

La giovane era stata d'accordo e aveva accettato di sottoporsi a un saluto molto formale, la mattina dopo, pensando comunque tra sé che qualche abbraccio alla madre o ai fratelli non sarebbe stato scandaloso, né avrebbe suscitato particolari chiacchiere tra i domestici.

La cena fu degna di un banchetto reale, con tutte le portate che la villa poteva offrire e anche il vino messo in tavola fu scelto con accuratezza dalla Sforza in persona. Dopo mangiato, su insistenza della Riario, si radunarono tutti in una delle salette e la ragazza cantò, come aveva fatto tante volte, prima a Ravaldino, assieme alla sua omonima zia, e poi lì in Toscana, per alleggerire un po' il clima che la loro strana condizione portava con sé.

La Leonessa era stata un po' restia a darle il permesso, convinta che quello sprazzo di allegria poco c'entrasse con la recita che stavano faticosamente portando avanti: Bianca, agli occhi del mondo, doveva essere una donna ormai matura, coi suoi ventun anni compiti da un pezzo, che veniva ceduta in sposa a un mezzo sconosciuto che, per di più, aveva militato nelle file francesi. Stando alla logica, la Riario avrebbe dovuto essere mesta, dubbiosa riguardo al futuro o, addirittura, disperata per la sorte che le era toccata. Invece, chiunque l'avesse guardata, mentre cantava ballate d'amore e di guerra, avrebbe visto una radiosa bellezza nel pieno del suo fiorire, illuminata come non mai dalla luce della gioia più pura.

Per fortuna, comunque, il servidorame della villa non sembrava troppo interessato a scrutare con attenzione gli occhi blu di Bianca.

Finiti i canti, la giovane fece come la madre aveva consigliato e, via via, si apprestò a salutare tutti quanti, singolarmente, faccia a faccia, partendo da coloro dei quali – non per cattiveria, ma per ovvi motivi – avrebbe sentito meno la mancanza, ossia Fortunati e frate Lauro.

Caterina, prima di lasciarla ai suoi impegni, le fece presente che sarebbe rimasta per un po' nella sala delle letture, sicura che lei avrebbe capito. A ora tarda, la figlia decise di raggiungerla, ma solo dopo aver visitato ogni fratello, fermandosi soprattutto da Galeazzo, al quale sentiva di dovere molto e dal quale sperava di sentirsi promettere ancora molto, specie a riguardo della protezione di Pier Maria: Galeazzo era l'unico fratello, per ora, al quale si sentiva di raccomandare il suo primogenito.

“Ti aspettavo...” disse a voce bassa la Sforza, quando vide la figlia far capolino sulla soglia.

In quei giorni la milanese non aveva mai trovato il modo di sollevare i suoi dubbi circa una possibile nuova gravidanza di Bianca, ma sapeva per certo che quella mattina aveva vomitato, al risveglio. Creobola, istruita ad arte, aveva detto alle altre serve che quella era la reazione normale che una fanciulla innocente aveva nel sapere che a breve sarebbe andata in sposa a un bruto, e sembrava che tutte ci avessero creduto. La Riario, invece, doveva iniziare ad avere gli stessi sospetti della madre, perché la mattina stessa le aveva chiesto se riteneva pericoloso assumere la pozione per impedire gravidanze indesiderate nel caso si fosse già gravide. Quando la Tigre le aveva detto di ritenere sconsigliabile l'assunzione della pozione, in quel caso, la ragazza aveva fatto un'espressione strana e non aveva chiesto altro.

Bianca, come se non ci fosse bisogno di dire tante parole, si avvicinò alla madre, che era seduta su una poltroncina di legno, e la strinse a sé per qualche istante.

“Mi addolora pensare che potrebbero passare anni, prima di rivederci.” le disse, cupa.

“Potremmo anche non rivederci mai più.” puntualizzò Caterina, senza voler essere spietata, ma solo realista: “E non è la prima volta che ci troviamo a salutarci... Alla fine ci siamo sempre riviste.”

La Riario fece un sorriso un po' mesto e poi chiese alla madre come stesse e da lì le due donne parlarono un po' di tutto, senza mai toccare argomenti impegnativi. Era come se entrambe temessero di arrivare al punto del discorso e al conseguente addio.

“Hai già salutato per bene tutti i tuoi fratelli?” chiese a un certo punto la milanese, convinta che l'assenza di Ottaviano e Cesare, in fondo, non dispiacesse troppo alla figlia.

Anche se, per certi versi, la si poteva dire più vicina ai due fratelli maggiori – avendo un'età vicinissima alla loro aveva vissuto grossomodo gli stessi traumi e le stesse tensioni in famiglia, quando ancora Girolamo era in vita – era evidente come, con gli anni, si fosse sempre più allontanata da loro e dal loro modo di vedere la vita.

“Sì.” annuì lei, stropicciandosi un po' le mani: “Anche Bernardino.” sottolineò, quasi a voler rassicurare la madre su quel punto.

“Non ne dubito, in fondo è tuo fratello anche lui.” rispose questa, un po' secca.

“Voglio passare la notte vicino a mio figlio.” continuò la ragazza: “Chissà tra quanto tempo lo rivedrò... Sarà già cresciuto, quando potrò stringerlo di nuovo a me. Nemmeno mi riconoscerà...”

Quella sensazione, seppur acuità dalla certezza di star per morire, l'aveva provata provata anche Caterina, quando aveva lasciato proprio a Bianca il suo Giovannino.

Quel pensiero dovette attraversare anche la mente della Riario perché, accorata, si protese in avanti, stringendo le mani della madre e disse, veloce, ma con forza: “Tre anni fa, tu mi hai affidato il tuo figlio più prezioso, affinché io lo tenessi al sicuro... Ora io affido a te il mio primogenito, per lo stesso motivo.”

“E io lo custodirò, lo accudirò e l'amerò così come tu hai fatto con Giovannino.” promise, senza indugio alcuno, la Leonessa.

Con gli occhi che si velavano di lacrime di commozione, Bianca la ringraziò silenziosamente e poi riuscì a dire: “Pier Maria è fortunato a poter ricevere le tue cure...”

“Lui è fortunato ad avere te come madre.” la corresse Caterina, senza traccia di piaggeria: “Sono sicura che sarai mille volte meglio di me.”

“Per ora, però, non posso nemmeno portarlo con me...” si dolse la giovane.

“Una cosa per volta.” sospirò la Tigre: “Lo proteggi molto di più così, che non cedendo a un egoismo del momento. Quando sarà il caso, verrai qui per qualche mese, e poi tornerai da tuo marito, dicendo alla tua gente che il bambino era debole e l'hai dovuto lasciare da me... Quando Pier Maria avrà quattro o cinque anni, riuscirete a mentire bene sulla sua età, e lo potrete riportare con voi a San Secondo...”

“Sempre che nel mezzo non ci sia qualche... Incidente di percorso... A quel punto gli anni potrebbero diventare di più.” sussurrò la Riario, arrossendo appena.

“Hai già messo nel tuo bagaglio le scorte di pozione che ti ho preparato? Non è un rimedio infallibile, ma ha sempre funzionato bene...” la incoraggiò la madre.

A quel punto, però, la ragazza tentennò. Senza dire né sì, né no, abbozzò un sorriso e inclinò la testa di lato.

“Lo sai che se volete evitare di avere un altro figlio subito, ti conviene prenderla...” tentò di insistere la Leonessa.

“Credo che...” la giovane si schiarì la voce e poi concluse: “Credo che per un po' sarebbe più prudente, per me, non assumerla.”

A quel punto Caterina non poté più trattenersi: “Dunque credi di essere di nuovo incinta?”

“Non lo posso escludere.” ammise Bianca.

Il modo in cui la Sforza strinse le labbra, mise una strana ansia addosso alla figlia, che, come se potesse servire a qualcosa, agitò entrambe le mani e provò a rimediare in qualche modo.

“Io... Io penso che... Magari non la sono... Io credevo che... Stavo ancora allattando, anche se poco, non credevo di rischiare troppo se...” ma le sue mezze frasi vennero interrotte bruscamente dalla madre.

“Vedrai che sarà una femmina.” le disse, senza traccia di ostilità o rimprovero.

“Sì, lo credo anche io.” fece eco la Riario, fidandosi, finalmente, ad ammettere a voce alta quella che ormai per lei era una certezza e non più solo un sospetto.

Le due donne rimasero ancora qualche minuto in silenzio, pensando entrambe alla piccola vita che, probabilmente, stava pian piano crescendo proprio lì, tra loro, discreta e tranquilla.

Alla fine, la Tigre finse di avere molto sonno, più per concedere a Bianca più tempo da passare con Pier Maria, che non perché volesse davvero che si congedasse da lei, e la ragazza colse l'antifona.

Si abbracciarono per qualche istante e poi, colta da un senso di colpa che di quando in quando riaffiorava nel suo animo, sempre con ferocia e cattiveria, la Riario soffiò: “Avrei voluto esserti più leale...”

Alla Sforza non servì altro per capire che la ragazza si riferiva alla congiura in cui era morto Giacomo e al fatto che lei, seppur non nei dettagli, ne fosse a conoscenza e non avesse fatto assolutamente nulla per impedirla.

“Non parliamone mai più.” la redarguì: “Te l'ho già detto: non voglio che noi due ne parliamo mai più.”

Siccome lo sguardo di Bianca non si era ancora rasserenato, la madre si sentì in dovere di calcare la mano, per quanto non se la sentisse.

“Io ti ho perdonata anni fa.” disse, chiedendosi intimamente se fosse davvero così o se, più semplicemente, avesse solo cercato di non pensarci mai troppo, finendo quasi per dimenticare il ruolo giocato dalla figlia in quella tragedia: “Ed è tempo che anche tu perdoni te stessa.”

La Riario capì perfettamente che il perdono espresso dalla madre non era affatto pieno e sereno, ma sapeva anche di non poter pretendere di più.

Perciò, con gli occhi che si riempivano, stavolta, di lacrime piene e salate, le disse: “Grazie.” e, dopo un ultimo abbraccio, lasciò la sala delle letture.

 

 

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas