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Autore: benedetta_02    15/02/2023    0 recensioni
Giustizia: /giu•stì•zia/ : La virtù rappresentata dalla volontà di riconoscere e rispettare il diritto di ognuno mediante l'attribuzione di quanto gli è dovuto secondo la ragione e la legge.
I casi dell'avvocata Giuliani, eccelsa mente giuridica e donna desiderosa di amore.
Genere: Drammatico, Noir, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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CAPITOLO 2

“Quindi? Vuoi dirmi cosa stai facendo?” Continuava a ripetermi il ragazzo riccio dal palese accento veneto.

“Puoi lasciarmi il braccio? Inizi a far male.” Gli dico io posando lo sguardo sulla sua mano, che lui ritrae in un colpo come se si fosse reso conto di quello che stava facendo.

Poi dopo aver finalmente mollato la presa, torna a darsi un tono e continuava a fissarmi nell’attesa che gli potessi dare delle informazioni. Riccardo Testa. Leggevo il suo nome dal cartellino appeso alla tasca a destra in alto del camice. Tutti i miei dubbi sono stati risolti. Era uno specializzando, proprio come avevo supposto qualche minuto prima. Questa cosa mi fa sorridere perché il mio voler costantemente indagare per la ricerca della verità si riversava inevitabilmente anche nelle questioni più sciocche e quotidiane.

“Ti faccio ridere?” Mi dice il dottor Testa puntandosi un dito verso il suo viso. Aveva lo sguardo di quelle persone che vogliono provare a riscattarsi ma non hanno la minima idea di come farlo. Potevo essere la sua opportunità.

“No mi scusi dottor…” Dico io avvicinandomi con lo sguardo al suo cartellino, socchiudendo gli occhi come se facessi fatica a vedere quelle lettere scritte in maniera troppo piccola “…Testa! In realtà io stavo cercando dei faldoni riguardanti l’esaminazione post mortem di Simona Elia.”

“In qualità di cosa?” Continua a non vederci chiaro.

“Avvocato. Sono l’avvocata Giuliani. Mi occupo del caso della signora Elia, stiamo tentando di farle giustizia.”

“Nobile da parte sua…se fosse vero.”

Mi riprende il braccio con forza e mi trascina lungo il corridoio, mentre io continuavo a divincolarmi dalla sua stretta per provare a spiegarmi. In quel frangente, mentre venivo portata via da quell’archivio come se fossi una criminale, la mia preoccupazione non era di sentire le urla di tutti i mie superiori per aver disobbedito, ma piuttosto di non esser riuscita a scoprire nulla di nuovo sul caso di Simona. Improvvisamente sentivo una forza mai percepita in me, riuscii a togliermi dalla presa di quel ragazzino. E mi posizionai davanti a lui impedendogli di fare un passo.

“Sta peggiorando la sua situazione.” Mi dice lui mettendosi le mani nelle tasche, stava cercando il cellulare. Gli presi il polso destro e lui mi guardò di scatto come se una scintilla gli fosse esplosa nel cervello.

“Io le giuro che sono un avvocato. Guardi, ora le prendo il tesserino.” Mentre cercavo il tesserino gettato in chissà quale punto della borsa.

“Mi scusi, ma sa quanta gente viene qui ogni giorno? A maledirci, a fingersi chissà chi, una volta hanno persino tentato di rubare un cadavere. Perché dovrei fidarmi di…” Improvvisamente le sue parole si spezzano. Aveva fatto una cazzata. Aveva tentato in tutti i modi di interrompere il mio lavoro. Rimane fisso sul mio tesserino per almeno due minuti, nel realizzare che mi aveva trattata come una galeotta quando in realtà volevo solo fare il mio lavoro.

“Mi perdoni avvocato.” Mi dice restituendomi il tesserino, con la faccia di un cane bastonato. Poi riprende la sua predica, facendosi serio. “Ma lei lo ha un permesso per stare qui?”

Questa volta non sapevo proprio come controbattere. Che cosa gli avrei dovuto dire? No, guardi dottore in realtà sono venuta perché altrimenti finisco per essere licenziata. Mi avrebbe presa per un’incosciente e dato il caratterino avrebbe certamente allertato le autorità. Quindi questa era l’unica scelta che non potevo fare. Ma che cazzo gli dico a questo ora? Continuavo a fissarmi la punta delle scarpe, in attesa che una risposta alquanto attendibile, comparisse improvvisamente sul pavimento.

“Dottor Testa! Che facciamo? I playboy?” Un angelo pensai. Una voce femminile mi stava salvando.

“No dottoressa, in realtà…” Dice lui guardandomi infuriato per la figura che gli avevo fatto fare con la sua superiore.

“Avvocata Giuliani…” Era la stessa voce di prima. Il mio angelo mi conosce. D’improvviso sollevo il capo cercando di identificare chi fosse a parlarmi, nella speranza certa di dare effettivamente un volto a quella voce. E poi glielo dò. Era la dottoressa Arcuri, una delle migliori nel campo della medicina legale. Aveva collaborato con il nostro studio diverse volte.

“Salve dottoressa.”

“Testa, raggiungi gli altri. Arrivo.” Dice la dottoressa tentando di congedare tutti i ragazzi, forse voleva avere una conversazione privata. E io ritenevo che fosse necessaria date le circostanze.

“Le va un caffè?” Mi dice rivolgendomi un sorriso. Era l’unica cosa che volevo sentire da quando ho messo un piede a terra questa mattina.

Il suo passo corre dritto verso la macchinetta automatica del caffè. Non mi sono mai capacitata di come alcune donne riuscissero a scappare così velocemente con dei tacchi ai piedi. Anche io ero abituata a portarli, ma da sempre vengo riconosciuta per la mia andatura lenta. Mio padre diceva sempre che io e lui avevamo la stessa camminata. Lenta, rilassata, quasi come se tentassimo sempre di rallentare qualcosa che invece corre inesorabile lungo il tragitto. Mi diceva che avevamo l’andatura di chi non volesse mai arrivare al traguardo, per paura forse, che l’arrivo non sarebbe stato come lo avevamo progettato alla partenza.

La dottoressa Arcuri comincia a premere con forza sui tasti della macchinetta come se volesse torturarli. Mentre attendevamo l’uscita del primo caffè, mi volge un sorriso di circostanza. Ero sicura che anche lei avrebbe voluto farmi l’interrogatorio. Ma a differenza del dottor Testa, non era avventata. Sapeva fare bene il suo lavoro e l’ho sempre ritenuta una donna capace di mettere a suo agio chiunque le parlasse. Mi porge il primo caffè e ritorna sfogarsi con i tasti della macchinetta. Non riuscivo ad immaginare che cosa avesse intenzione di dirmi, o almeno non le parole esatte. Continuava a sorridermi e a scrutarmi, quasi come se volesse farmi percepire che lei sapeva che quelle come me non venivano mai senza un motivo. In seguito, mi fa un gesto che intendeva indicarmi il posto nel quale ci saremmo confrontate. Il suo ufficio. Continuavo a seguirla esattamente come facevano tutti quei ragazzi desiderosi di imparare, ma io non volevo sapere come dissezionare un cadavere o almeno non nello specifico e dal punto di vista scientifico. Entriamo in quella stanza accogliente, quasi come se si fosse portata un pezzo di casa nel suo ufficio, un po’ la capivo. Anche io di tanto in tanto, ornamentavo il mio ufficio con piante, quadri, vasi. Ma non potevo fare altrimenti, ero arrivata in una condizione in cui passavo più tempo in ufficio che nella mia abitazione. In qualche modo quel palazzo di via Ripamonti era diventata casa mia.

“Allora avvocata.” Dice la dottoressa mentre si accomoda sulla sua poltrona. “Si accomodi.”

Faccio quanto mi ha ordinato. Tenevo le gambe accavallate e le mani giunte quasi come in una preghiera. Mi sentivo a disagio.

“Suppongo non si tratti di una visita di cortesia.” Continua lei, girando e rigirando quella spatolina di plastica nel caffè.

“No, ovviamente no. Le volevo parlare di un caso nello specifico.”

“Carne nuova?”

Carne nuova? Questa sua domanda mi fa per un attimo raggelare il sangue. Mi fa capire che i nostri lavori, seppur spesso complementari, siano così diversi. Per lei un cadavere era solo un cadavere, qualcosa da esaminare per giungere ad un risultato scientifico. Per me era una persona lesa, qualcuno a cui era stato inflitto qualcosa e che non avesse più la possibilità di spiegare autonomamente cosa gli fosse successo.

“No, dottoressa. In realtà, si tratta di Simona Elia.”

Si drizza sulla poltrona e posa il caffè, mettendosi immediatamente al computer nella ricerca di un numero da associare al nome che le avevo dato. E lo trova.

“Si, la donna che è stata uccisa da una beretta m9 con caricatore bifilare. Non è iniziato il processo?”

“Si è iniziato, ma pare che il marito sia stato scagionato dalle accuse.”

Mi guarda perplessa, sospira, e poi torna a guardarmi. “E perché?”

“Perché pare che le impronti digitali non siano congruenti.”

“E la scientifica che dice?”

“Ancora niente, stiamo attendendo nuove informazioni.”

“Prevedibile.” Sogghigna e poi riprende. “Da noi cosa vuole avvocato?”

“Vorrei che ripetesse la perizia sul corpo della vittima.”

“Non faccia l’avvocato con me. Sa perfettamente che noi ci adattiamo alla procedura e tutto quello che io e i ragazzi abbiamo fatto, è stato fatto correttamente.”

“E su questo non metto parola. La mia perplessità risiede nel fatto che forse non è stato riportato tutto.”

“Di cosa mi sta accusando?”

“Non la sto accusando.”

“Invece a me sembra di sì. Io non vengo a mettere bocca sulle questioni su come Valenti sceglie di muoversi durante un processo. Pierpaolo sa perfettamente che non è nella mia indole. Io fornisco informazioni neutrali, a me non avrebbe arrecato nessun danno dire che ci sarebbero state altri fattori scatenanti. “

“Dottoressa, la mia idea è che probabilmente le analisi sulla donna potrebbero avere qualche falla. Si è mai presa in considerazione la lotta o una violenza sessuale?”

“Avvocata Giuliani, ma per chi mi ha presa? Secondo lei, io non avrei considerato queste cose? Sapendo il pregresso? Adesso mi scusi, ma la invito ad uscire.” Mi dice lei ritornando sul computer.

Io mi alzo senza batter ciglio. Avevo sbagliato. Ero entrata a gamba tesa e le avevo solo fatto accuse. La avevo offesa. A lei. Che era una dei luminari della medicina. Come mi ero permessa di fare un torto simile? Ora sicuramente avrebbe avvisato Pierpaolo, e per cosa poi?

Mentre mi dirigo verso l’uscita , penso continuamente alle frasi poco felici che avevo detto qualche minuto prima. Rimango un attimo sull’uscita, quasi come se necessitassi di prendere aria. Come se non avessi mai respirato e per la prima volta i polmoni si riempissero di aria. Un po’ come quando vai al mare dopo molto tempo, e senti l’urgenza di respirare quell’aria particolare a pieni polmoni, come se la volessi intrappolare lì dentro e non farla uscire mai più. Ma poi esce, e la volta successiva, ripeti quell’operazione, illudendoti che quella volta sarebbe stata quella giusta per tenere per sempre con te quell’odore. Mi ero portata anche le mani sugli occhi, per continuare ad evadere da quella realtà fin troppo crudele e permanere nelle mie fantasie ancora un po’. Lo facevo perché lo volevo. Perché non ho mai reputato fragile, chi sente per un lasso di tempo l’esigenza di partire in un viaggio mentale, la forza di queste persone risiede proprio nel non farsi traportare troppo oltre e capire quando arriva il momento di darsi forza e spingere verso il basso, e ritornare nella realtà. Ma quella mattina proprio non ne volevo sapere di ritornare nella realtà. Sia durante il praticantato che negli ultimi due anni di lavoro, mi era capitato di assistere a casi del genere, e per quanto ci ritenessimo dei personaggi indistruttibili, in realtà eravamo arrivati spesso ad un punto di non ritorno. Ci siamo trovati spesso messi con le spalle al muro, ci siamo ritrovati tante volte nelle condizioni di dover assecondare il giudice e i nostri avversari, a volte per prove certe e ingiustificabili e altre volte perché non sapevamo proprio cosa fare. Continuavo a stropicciarmi gli occhi , come se stessi facendo un incubo, e non vedevo l’ora di svegliarmi.

“Avvocato?”

Quella voce squillante mi riporta con i piedi per terra. Riapro gli occhi, quasi a fatica e mi volto nella direzione della voce. Riccardo Testa. Ancora tu.

“Chiamami Bianca, per favore.” Gli rispondo io andandomi a sedere di fianco a lui sul muretto immediatamente posto sotto al corrimano delle scale del patio.

“Mi sentirei a disagio a darle del tu.” Risponde lui senza nemmeno guardarmi, ma continuando a scrutare a terra. Che si sentisse in colpa?

“Questa mattina non eri da questo parere.” Rincaro la dose, giusto per ridere. E ci riesco, lo faccio ridere.

“Mi dispiace.” Finalmente mi guarda. “Mi dispiace per la reazione di prima. Non so davvero cosa mi dicesse il cervello.”

“Se ti può rincuorare, sinceramente avrei fatto lo stesso.”

“Anche a lei avrebbero sgridato?”

Mi fa ridere questa affermazione, vedevo Riccardo come un bambino ma poteva avere si e no qualche anno in meno di me. Era inconsapevole di quello che potesse accadergli, lo vedevo spaventato dall’avvenire. In fondo, non potevo dargli torto. Io ho avuto la fortuna di trovare un lavoro praticamente subito, ma non tutti i miei colleghi sono stati fortunati come me.

“Riccardo, giusto?” Acconsente con la testa e quindi proseguo. “Riccardo, se alla mia età mi facessi ancora sgridare dal mio capo, ci sarebbe un problema.”

“Mi scusi se glielo chiedo. Ma non ci dormirei la notte se non glielo chiedessi. Quanti anni ha?”

Mi viene da sorridere a questa domanda, guardo per un po’ la strada con l’amarezza di chi sta per pronunciare quel numero sempre più rammaricato.

“Ho 32 anni, perché? Ti sembro più vecchia?”

Riccardo spalanca gli occhi e si porta una mano alla bocca. Poi dopo lo shock iniziale, riprende fiato e inizia ad emettere qualche parola. “Mi creda, pensavo fosse molto più giovane.”

“Ti sei guadagnato dei punti bonus. Riccardo.” Gli sorrido e lui inevitabilmente ricambia il mio sorriso. “Ciao, e se mi vedi in giro evita di prendermi per un braccio e strattonarmi.”

Lui continua a sorridere, arrossendo. Poi fa un cenno di consenso con la testa e mi saluta con la mano, mentre io mi allontano sempre di più da quel posto.

Riccardo ricordava me alla sua età. Mi ero appena laureata ed ero totalmente incerta su quello che potesse essere il mio futuro. Noi siamo la generazione di mezzo, siamo quelli nati tra l’era analogica e quella digitale, siamo quelli che forse hanno dovuto sviluppare uno spirito di adattamento che né le generazioni precedenti e neanche quelle successive hanno dovuto fare. Ci hanno lasciato nelle mani qualcosa di labile, fugace ed effimero. Il tempo di assaporare quell’improvviso senso di stabilità ed eccolo che si dissolve nel nulla. A volte mi chiedo per quanto tempo ancora dovrò continuare a vivere in affitto, quando finalmente potrò essere nelle condizioni di pagare una casa tutta mia, quando finalmente potrò smettere di vedere il lavoro come qualcosa da tenermi stretto come se ci fosse sempre qualcuno dietro l’angolo a rubarmelo. Questo ha scaturito anche un irrefrenabile sfida fra ragazzi che vivono la stessa condizione, io in primis. Dai tempi dell’università, ho sempre dovuto essere migliore di tutti e come me tanti altri. Perché in un tempo nel quale si va avanti solo se dimostra di saper graffiare, io ho dovuto imparare anche a mordere. Quindi lo capivo lo sguardo perso di Riccardo. Primo anno di specialistica e la necessità di farsi notare senza sosta da qualcuno che potrebbe proteggerlo per sempre e garantirgli un futuro. Anche io a 26 anni ho fatto lo stesso.

I miei pensieri vengono immediatamente interrotti dalla mia suoneria. Dovrei cambiarla. Lo dico sempre ma poi non lo faccio mai. Mi giustifico dicendo che ormai mi sono abituata a quel suono e che sentirne un altro potrebbe disorientarmi, potrei non riconoscerlo e perdere telefonate importanti. La verità è che io faccio la stessa cosa con ogni scelta della mia vita. Anche con le persone che decido di tenere al mio fianco. Non cambio amici, non cambio amori, non mi permetto di scegliere persone nuove al mio fianco per paura di disorientarmi, di non sapere più riconoscere le persone giuste da quelle sbagliate. Potrei odiarmi per sempre per aver scelto una nuova suoneria. Oppure potrei iniziare a ballarci sopra.

“Pronto? Chi è?”

“No dimmi che stai scherzando.” Avrei riconosciuto la sua voce fra mille voci indistinte.

“Camilla, dimmi.” Le dico sorridendo mentre faccio per infilarmi in auto.

“Che vuol dire che non hai il mio numero registrato in rubrica?” Potevo vedere la sua faccia sorridente che fingeva di rimproverarmi anche dall’altro capo del telefono.

“Cami, lo sai. Ho cambiato cellulare.”

“Si vabbè. Faccio finta di crederti… Senti un po’ , che piani hai stasera? È venerdì, non so se il tuo calendario segna ancora il weekend o solo i giorni in cui devi lavorare.” Continuava a sfottermi, ma ormai sapevo che era il suo modo di dimostrarmi che incondizionatamente lei mi volesse bene.

Camilla Mariani era la mia migliore amica dai tempi dell’università. La suddetta Mariani, come la chiamo io, è la classica ragazza un po’ stravagante della famiglia perfetta. La pecora nera, come si suole dire. Camilla apparteneva ad una delle famiglie più note del panorama giuridico milanese, suo padre era un bravissimo e stimato notaio mentre sua mamma era un eccellente avvocato civilista. Ormai entrambi in pensione. Camilla, essendo peraltro figlia unica, è stata costretta a continuare il percorso dei suoi genitori, come se dal primo momento che avesse emesso il primo respiro, i suoi la immaginavano con la toga indosso. La realtà dei fatti però è un po’ diversa. La verità è che la pupilla Mariani, rispettata da docenti e colleghi, in realtà non frequentava giurisprudenza da anni. Camilla aveva abbandonato la facoltà praticamente all’inizio del terzo anno per spostarsi alla facoltà di Comunicazione-editoria. Oggi la mia amica lavora come giornalista per la Gazzetta di Milano. I suoi genitori ovviamente non hanno mai approvato questa scelta e le hanno tagliato i fondi. Camilla è scappata da quella stabilità che tutti noi vogliamo, per i sogni. Sarà stata sciocca o saggia?

“Allora Cami, in realtà avrei un impegno.”

“Cioè? Ti devi strapazzare il vecchio?”

“Ma Camilla! E anche se fosse?”

“Io ancora non capisco perché ci vai a letto.”

“Io non ci vado solo a letto, Camilla. Abbiamo una storia, abbastanza strana, ma per me è una storia.”

“E per lui?”

“Camilla, mi hai chiamato per questo?”

“No, ti ho chiamato perché vorrei passare del tempo con la mia amica, visto che sembra vivere in un altro Paese ma in realtà sta a quindici minuti da casa mia.”

“Facciamo domani, dai.”

“Si, vabbè Bià. Io ti conosco, domani ti metterai sul tuo divano, e in men che non si dica ti farai trasportare dal sonno.” Camilla emette un sospiro, per poi stare in silenzio per un po’ e io faccio lo stesso, poi riprende. “Disdici con Pier vecchio per stasera ed esci con me.”

“Camilla!” La verità è che Camilla aveva perfettamente ragione. Non la vedevo da troppo tempo, ma io cercavo di dividermi fra i mille impegni, facendo rientrare fa questi anche il tempo per Valenti e i miei amici. “Facciamo in questo modo, io disdico con Pierpaolo. Ma tu non mi porti in discoteca.”

“Mi sembra equilibrato. Facciamo per le 22. E se ti addormenti, giuro, che faccio un casino.”

“Va bene.”

Senza sprecare altro tempo, inviai un messaggio a Pierpaolo in cui lo informavo che stasera non ci saremmo potuti vedere. Me ne stavo già pentendo. Il tempo per me e lui era sempre troppo poco. A volte mi maledico per aver accettato questa situazione, ma d’altra parte io sono sicura di amarlo e non farei nulla per allontanarlo da me. Nemmeno non accettare il suo matrimonio e la sua famiglia, avrei fatto qualunque cosa per non perderlo. Mi illudevo che prima o poi, Pierpaolo avrebbe scelto me. Avrebbe voluto svegliarsi con me accanto e vivere la vita di coppia solo con me. Ma Pierpaolo non voleva per nessun motivo lasciare sua moglie, o meglio non voleva che questo si ripercuotesse nella sua sfera familiare. Mi dice sempre che tiene troppo alle sue figlie per rischiare ed io non posso non comprenderlo. Sarei un’egoista altrimenti.

Valenti aveva risposto con un secco “OK”, questo era indice che confermava il mio non esserci, ma non gli stava bene. Anche io quando disdice all’ultimo ne risento, anche io quando mi dice che aveva dimenticato degli impegni con la sua famiglia, gli tengo il broncio per un po’. Ma poi mi passa, perché lo amo. E sapevo perfettamente che anche lui avrebbe tolto quell’aria da orso , solo per ritornare a darmi un bacio.

Decido di tornare direttamente a casa perché ero stanca di sentire parlare di omicidi, processi e quant’altro. Avrei avuto una serata con una mia amica dopo tanto tempo. Non dovrei essere felice e spensierata? Invece non riuscivo a non pensare a Pierpaolo. Ero pronta a chiamare Camilla e dirle che avevo cambiato idea, ma ero altrettanto sicura che quella che mi avrebbe tenuto il broncio poi sarebbe stata lei. Camilla non era Pierpaolo, se Camilla era arrabbiata, non mi avrebbe parlato per settimane fino a quando non le avrei telefonato io. Seppure si sia tolta quella smania borghese, Camilla resta sotto molti punti di vista una bambina viziata, una bambina che non ha mai ricevuto un “no” come risposta. Una bambina che non è abituata a sentirsi dissentire, né dai suoi genitori, né dalle sue vecchie amiche e soprattutto dagli uomini. La bionda sciroccata sapeva il fatto suo, sapeva come conquistarli e come tenerseli stretti. Era abituata ad averli tutti ai suoi piedi, sapeva che nessuno le avrebbe fatto il benché minimo danno, perché nessuno voleva ferire Camilla Mariani. Un po’ la invidiavo. Io che la pubertà l’ho vista in ritardo, sono sempre stata trattata a pesci in faccia dai ragazzi, e poi una volta adulta ho cominciato a rincorrere casi impossibili, un po’ come se fossero processi da risolvere. Volevo chiudere tutte quelle finestre aperte in ognuno di loro, ma sapevo perfettamente che non sarebbe stato possibile. O almeno non alle mie condizioni. Perché finivo per ferirmi e bruciarmi? Mi piaceva giocare con il fuoco?

Mi slaccio i pantaloni e metto su una gonna di jeans. Trovavo terapeutico il cambio di abiti. Ci togliamo le nostre vesti di giorno per indossare quelle notturne. Come fanno le prostitute o i supereroi. In quale categoria metterci lo decidiamo noi. Le telefonate di Camilla sono il segno che sono ancora in ritardo. Ma chi ha deciso che le giornate devono durare così poco?

Scendo di fretta le scale del palazzo e incrocio la signora Livia. Inizio a sospettare che attendi che il mio portone si chiuda per uscire fuori e vedere dove vado.

“Buonasera signora Livia!”

“Buonasera avvocato. Dove va?”

“Esco. Si vuole unire?”

Mi diede una delle sue occhiatacce e si rintanò nel suo appartamento come se quella conversazione non fosse mai avvenuta. Io volevo davvero instaurare un rapporto, perlomeno civile, con la signora Livia ma nonostante lei fosse campionessa mondiale di “farsi i fatti degli altri”, non dava la possibilità a nessuno di poter parlare con lei. Di chiederle anche solo “come sta oggi?”. Se mi dovessi descrivere da anziana, penso che il ritratto ideale sarebbe quello della signora Livia. Cinica, sola e diffidente.

“Eccomi! Dove si va?” Dico io infilandomi nella Fiat 500 rossa di Camilla.

“Pensavo di andare al Noir. Che dici?” Mi propone lei ingranando la marcia pronta a partire.

“Al Noir? Ma è pieno di ragazzini.”

“Meglio. Così ti rifai un po’ gli occhi, visto che ultimamente ti sei appassionata al Mesolitico.”

“E dai , Cami! Valenti avrà appena 55 anni.”

“Eh si, un ragazzetto nel fior fiore della sua giovinezza.”

“Ti assicuro che scopa come un ragazzetto, anzi meglio.” Dico abbassando lo specchietto per sistemarmi il rossetto , lasciando Camilla in un espressione di stupore.

“Sei una lurida, Bianca Giuliani.”

“Ho imparato dalla più brava.”

Due risate si univano all’unisono. Io e Camilla rappresentavamo perfettamente quello che si dice essere l’iconico duo. Io mora, lei bionda. Lei era l’incarnazione della forza e del coraggio, io del cuore. Io che rappresento tutto ciò che è giusto, limpido, ferma sulle mie decisioni. Lei apparentemente dura come un tronco di quercia , ma in realtà molto più fragile di ciò che vuole far vedere, lei sa sempre dove sta andando , conosce sempre la sua direzione ma se le dovesse capitare di ondeggiare e di sbagliare sentiero, troverebbe una scappatoia. Ci siamo adeguate alla vita, siamo state allenate a colpire qualora fosse necessario e a smettere di subire. Ci siamo abituate ai colpi della vita insieme, forse lei più di me, e mi ha insegnato a non farsi trasportare dal vento, ma ad essere la corrente. Per questo siamo complementari.

“Ma questo posto non cambia mai?” Mi dice Camilla non appena entriamo nel locale.

Il “Noir” era il locale in cui andavamo da universitarie, era un locale abbastanza grande, totalmente buio con delle luci colorate messe qui e lì. C’era sempre musica dal vivo oppure qualche dj emergente. I cocktail erano buoni e l’atmosfera pure. Tutto ciò che mi serviva era lì.

“Ragazze che vi porto?” Ci dice il cameriere appena sedute al primo tavolo libero.

“Per me , basta il tuo numero.” Esordisce Camilla, creando una situazione di disagio, tant’è che il cameriere imbarazzato inizia a farfugliare cose a caso.

“Guarda, due gin tonic vanno benissimo.” Rispondo io alla sua precedente domanda, cercando di togliere tutti da quella situazione, sebbene Camilla stesse trattenendo le risate.

Camilla scoppia in una risata liberatoria non appena il cameriere si allontana e io la seguo a ruota.

“Cami, ma avrà 20 anni.” Le dico io mentre continuo a ridere.

“Tu dai lezioni a me in merito?” Risponde prontamente Camilla. Touché.

“Camilla , io vado un attimo in bagno.” Le dico mentre ero già pronta ad alzarmi.

Mi incammino verso il bagno. Il tragitto tavolo-bagno l’ho sempre ritenuto molto imbarazzante. Avevo sempre la sensazione che per un attimo il mondo si fermasse e che la gente iniziasse a fissarmi. Qualcuno lo faceva davvero, ma era forse troppo pretenzioso credere di essere capace di bloccare il mondo solo per un movimento di anche e piedi che si muovono uno davanti all’altro. Entrata in bagno, poso la borsetta sul lavandino ed estraggo il cellulare. Devo chiamare Pierpaolo, glielo devo. Mi avvicino il telefono all’orecchio e con l’altra mano tappo il lobo per il rumore troppo forte della musica.

“Pronto.” Era seccato o forse solo stanco.

“Ti disturbo?”

“Perché urli?”

Stavo urlando. Non sentivo nemmeno il rumore della mia voce dalla musica troppo alta. “Scusami, non volevo. Che cosa stai facendo?”

“Bianca dove sei?”

“Sono a casa.”

“Bianca, non dirmi cazzate. Non a me. Sei uscita?”

Faccio un sospiro. Ma perché l’ho chiamato? “Si, sono fuori con Camilla.”

“Perfetto. Ciao.”

“No, no, no, no, ti prego Pierpaolo. Non chiudere.”

“Che vuoi , Bianca?”

“Volevo sapere solo come stavi.”

“Vuoi sapere come sto? Sto che fino a qualche ora fa stavo progettando la nostra serata, ed ero sereno. Poi mi hai scritto che non potevi, e lo ho accettato, sono l’ultima persona al mondo che può sindacare su questo. Ma scoprire che mi hai bidonato per una tua amichetta, mi fa infuriare.”

“Pierpaolo, hai ragione, non dovevo dirtelo all’ultimo. Ma se ti va dopo ci vediamo.”

“Bianca, torna a fare la scema con la tua amica. Io ho una casa da mandare avanti.”

E poi il nulla. Aveva riattaccato. Mi veniva da piangere, ma sapevo che non avrebbe avuto molto senso. Perché si era arrabbiato cosi? Cosa cambia da tutte le volte in cui lui mi dice di no per giocare a tennis o andare a cena con qualche amico? Assolutamente nulla. Nulla. Non avevo scelta se non quella di parlarci di persona e provare a chiarire. A volte penso che lui in fondo mi veda ancora troppo immatura per immaginarsi davvero una vita con me. Ma io, ero altrettanto sicura che lui non mi capisse davvero, che io volevo solo renderlo felice e se accadevano queste cose, era perché lui non aveva davvero accettato il pacchetto completo. Con ogni singola parte di me. Torno al tavolo, che è meglio.

Arrivata in prossimità del tavolo, vedo Camilla con dei ragazzi. Ecco qua. È stata la prima cosa che sono riuscita a pensare. Man mano che mi avvicino al tavolo, penso solo a cosa avrei dovuto dire a questi e soprattutto speravo che almeno li avesse pescati maggiorenni. D’improvviso Camilla inizia a dimenarsi e ad indicarmi, urlando il mio nome. Io accenno un sorriso ai miei nuovi amici che nel frattempo avevano iniziato ad intonare un coro rumoroso con il mio nome. Poi si gira per ultima la sagoma che ha preso il mio posto.

“Avvocato Giuliani!” Riccardo ma perché gridi?

Inizia a venirmi incontro e mi mette un braccio intorno al collo portandomi dalla mia amica e da quelli che presumibilmente erano i suoi amici. Avevo una faccia sbigottita. Se mi fossi vista da fuori, probabilmente mi sarei vergognata di vedermi in mezzo a dei ragazzi di massimo 26 anni a bere gin tonic e shottini di tequila.

“Bianca, ma conosci questi fighi e non me li hai mai presentati?” Questa volta ad urlare era Camilla.

“Camilla, io non li conosco.” Gli dico io, tornando a darmi un tono.

“Ma come, avvocato. Ma cosa dici? Noi siamo amici. Vero?”

Riccardo era ubriaco. Se già questa mattina mi sembrava un ragazzino indifeso, adesso mi sembrava un ragazzino e basta. Ballava insieme ad i suoi amici e Camilla sulle note di “too much of heaven”. Ma non oserei mai criticarlo, io alla sua età avrei fatto la stessa cosa. Anzi facevo la stessa cosa. Se non peggio. Il problema è che io non dovevo essere in quel posto, con quei ragazzini. Io dovevo essere fra le braccia di Pierpaolo, dovevo preoccuparmi del caso. Dovevo comportarmi come una della mia età. Senza dire nulla a nessuno, recupero la mia borsa e vado fuori da quel locale, mettendomi all’ingresso. Cercavo disperatamente il numero di qualcuno che potesse venire a recuperarmi oppure quello di un taxi.

“Avvocato, ma te ne vai?” Stava ancora urlando.

“Sì, Riccardo. Me ne vado.”

“Non ti stai divertendo?” Mi chiede avvicinandosi a me, per poi sedersi sulla panchina accanto a me.

“Riccardo, a me queste cose non fanno più divertire.” Gli risposi io non spostando lo sguardo dalla rubrica.

“E cosa ti piace?”

Ora avevo spostato gli occhi su di lui. Era praticamente steso sulla panchina e se fosse scivolato ancora un po’ con il sedere, sarebbe caduto. Quest’immagine mi fa ridere. Lo tiro su dalle ascelle e lo rimetto in una posizione corretta. Poi gli rispondo. “Mi piace lavorare.”

“Sei la donna più noiosa che io abbia mai conosciuto.”

“Hai perso i punti di questa mattina.”

Riccardo ride , continuando a spostare lo sguardo un po’ su di me e un po’ in un punto indefinito. “Ma che sei venuta a fare oggi?”

“Mi stavo informando su un caso.”

“Quale caso?”

“Menomale che io ero quella noiosa. Anche tu vedo che non pensi ad altro. Anche da ubriaco.”

“Io trovo spunti di conversazione.”

Che faccia da schiaffi.

“Il caso di Simona Elia.”

“Ah si, certo. Me lo ricordo, eccome. L’Arcuri ha fatto di tutto per non farci assistere.”

Cosa aveva detto?

“Riccardo, puoi ripetere?”

“La Arcuri non voleva farci assistere. Diceva che non era il caso, che quello lo avrebbe fatto da sola. Ci ha detto di aspettare il prossimo, che sicuramente non sarebbe tardato ad arrivare.”

“Ma tu sei sicuro ? Cioè tu sei certo di quello che mi stai dicendo?”

“Bianca, se permetti c’ero io. Lo saprò bene.” Touché.

“Riccardo, te la senti di aiutarmi a risolvere un caso?”

“Avvocato, con tutto il rispetto. Io faccio il medico, o almeno ci provo, mica il poliziotto.”

“Neanche io sono un poliziotto. Ma per me ha senso lo stesso. Per te?”

“Dipende dalle circostanze.”

“Ti prego, aiutami. Solo tu puoi.”

“Tu mi farei licenziare.” Si passa una mano sulla faccia come se anche lui volesse riprendersi da un brutto sogno, poi continua per un po’ a fissare un punto fisso e poi ritorna a guardarmi, per poi buttare la testa sul mio petto. Ero di nuovo sbigottita. “Va bene, avvocato.” Conclude, mormorando.

Era bello vederlo così rassegnato dalle mie parole, a tal punto di gettarsi su di me come se avesse accettato di concedere tutto se stesso a me. Istintivamente , gli portai una mano sulla testa, e lo accarezzai. Ero sicura che da lì a poco si sarebbe addormentato. Era bello vederlo così. Seppure fra noi non ci fosse nessun legame. Seppure fino a ieri, a quell’ora io non sapevo nemmeno chi fosse.

Nemmeno il tempo di apprezzare quel gesto quasi materno, che Riccardo sobbalza rendendosi conto del mio tocco ripetuto. Riesce solo a proferire un ‘cercami tu’, rintanandosi di nuovo nel locale dal quale proveniva una canzone dei Black Eyed Peas abbastanza ovattata.

In quella giornata, io e Riccardo ci eravamo detti una ventina di frasi, ognuna di una portata diversa. Ognuna con un senso diverso. Me è stato consolatorio condividere questo tempo con lui, ne avevo bisogno, avevo bisogno di un alleato in questa guerra. Perché la Arcuri mi ha mentito? Cosa nasconde?

 

 

 

 

   
 
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