Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: Puffardella    02/03/2023    2 recensioni
L’animo umano è come la terra sulla quale è stato messo per vivere. La sofferenza a cui a volte è sottoposto si può paragonare all’incendio che travolge un campo. Dopo la furia del fuoco apparirà desolato, e vuoto, e invivibile. Invece, proprio quel trattamento gli darà nuovo vigore, lo renderà più fertile.
Allo stesso modo, solo dopo aver provato un grande dolore ci si riaccosta alla vita con rinnovato entusiasmo, perché è quando hai perso molto che capisci quanto sia importante non dare per scontato le cose che hanno il potere di renderti felice.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Mi sono precipitato da Marina, pantaloncini e infradito, sporco di sabbia e con la salsedine che mi tira la pelle. Non me ne frega niente. In questo momento ho solo bisogno di parlare con lei. Ma, come mi ero immaginato, non è in casa.
Bene, l’aspetterò, dovessi attendere una vita. E nell’attesa penso. Penso a quanto sia grande il sentimento che provo per lei. Penso che non posso perderla. Penso che avevo chiesto a Sara di guidarmi nella scelta di una donna in grado di amare la nostra Rachele nel modo in cui lei ha bisogno, e Sara mi ha condotto da una donna capace di amare anche me, nel modo in cui io ho bisogno.
I minuti passano, e anche le ore, e sebbene sia già pomeriggio inoltrato, di lei nessun segno. Ho chiamato Monica un paio di volte per sapere come se la cava con Rachele. La seconda volta mi ha chiesto come stessi, chiaramente preoccupata.
Come mi sento? Stordito, confuso, demoralizzato. Arrabbiato. Sì, arrabbiato con me stesso per quello che le ho fatto. La porta si apre mentre mi faccio queste riflessioni facendomi balzare dal letto sul quale sono rimasto sdraiato tutto il pomeriggio, in attesa di questo momento. Ho il cuore in gola, tremo come un quindicenne al primo appuntamento. Ma la delusione mi investe come un treno impazzito con i freni andati. Non è Marina, è la signora Angela, la vecchina del piano di sotto.
Sembra imbarazzata. Se ne sta lì davanti alla porta che giocherella nervosamente con il mazzo di chiavi di Marina, ed io tremo all’idea di quello che sta per dirmi.
«Fabio, Marina mi ha chiesto di dirti di andartene. Mi dispiace ragazzo mio…»
«È giù?» le chiedo speranzoso, pronto a precipitarmi giù per le scale.
«È da me...»
«Posso vederla? Le dica che ho bisogno di vederla, la prego!»
«Non sarebbe una buona idea.»
«Perché? Sta bene?»
«È tutto il giorno che piange. Ora non ti vuole vedere. E se le vuoi bene, lascia correre per oggi. Si agiterebbe di più.»
«Non posso lasciar correre, io ho bisogno di vederla!»
«Tesoro, chiediti di cosa ha bisogno lei…»
«Lo so già, ha bisogno di me! Io non me ne vado fino a che non la vedo.»
Angela esita. «Rivuole le chiavi indietro…» Agita le chiavi facendole tintinnare, sempre più a disagio. «Ha detto che chiamerà la polizia se non te ne sarai andato da casa sua entro cinque minuti.»
«Che lo faccia! Chiami chi vuole! Solo con la forza riuscirà a buttarmi fuori di casa, oggi. Glielo vada a dire, che solo con la forza può sbattermi fuori di casa» reagisco aggressivo, gesticolando vivacemente. Poi mi cheto e le afferro le mani rugose con slancio.
«La prego, signora Angela, la prego, le dica che non posso andarmene senza prima aver parlato con lei. Devo vederla. Devo chiederle perdono. La prego…»
Angela acconsente, e mentre aspetto che torni con la risposta, sento l’ansia montarmi nell’animo ogni secondo che passa, e con l’ansia l’adrenalina. E quando Angela è tornata scuotendo la testa, non c’ho visto più.
Non so proprio cosa mi sia preso. Io non sono così. Io non sono un impulsivo, né un violento. È stata la disperazione, questo mi ha fatto scartare la vecchina, scendere le scale a due a due, entrare senza chiedere il permesso in casa di Angela e chiamare a gran voce Marina.
Inizio a spalancare tutte le porte, continuando a chiamarla.
«Santo cielo, giovanotto, ora stai proprio esagerando!» mi rimprovera Angela indignata alle mie spalle.
Marina esce da una stanza e si ferma in mezzo al corridoio. Ha gli occhi gonfi, i capelli spettinati. È sconvolta, e mi fa un male cane vederla così.
«Devo parlarti, Marina. Ti prego!» la imploro. Lei singhiozza vistosamente sebbene non pianga più, segno che lo ha fatto fino ad un attimo fa. La vecchina inizia a giustificarsi debolmente, ma Marina le dice che va bene, è tutto a posto. Mi viene di fronte.
«Prima rivoglio indietro le chiavi di casa» mi dice con una determinazione che mi spiazza. E sebbene farlo mi costi terribilmente, le tiro fuori dalla tasca dei pantaloncini e gliele consegno.
Marina si precipita all’uscio, ma non sale le scale. Va in cortile, dove ho parcheggiato la macchina. Non la mia BMW ma la Bravo, che era la macchina di mia moglie e che io uso solo quando sono con Rachele. Dietro, infatti, c’è il seggiolino. E questo particolare non passa inosservato agli occhi di Marina, che subito mi aggredisce.
«Cambi macchina a seconda del ruolo in cui ti cali? È questo che fai? Fai lo stesso con le persone, non è così? Te le infili come faresti con un vestito? Oggi una camicia, domani una maglia, firmata se l’occasione è importante, uno straccio qualsiasi se non lo è? E dimmi, Fabio, io per quale occasione ero?»
«Marina, ti prego, no…»
«No? No cosa? Hai idea di come mi sia sentita oggi? Come se tu ti fossi vergognato di me…»
«Non è così. Non mi vergogno di te, ma di me stesso.»
«E fai bene, vergognati! Chiunque tu sia.» Scuote la testa, sospira. «Ma poi chi sei tu? Un padre…» e qui si interrompe, sopraffatta dal dolore.
Singhiozza forte, e forte è il modo in cui riprende a piangere. Io l’abbraccio, me la stringo al petto. Metto il naso fra i suoi capelli, le mie labbra sul suo orecchio.
«Voglio dirti tutto. Voglio che tu sappia, che tu veda. Poi deciderai cosa fare di noi...»

Marina resta interdetta davanti alla mia casa. La mia casa di fronte al mare.
La disegnai per Sara, fu il mio regalo di nozze per lei.
È sopra una collinetta erbosa, circondata da alberi di mimose, limoni, pesche, magnolie, piante di rose e gelsomino e glicine e cespugli odorosi di ogni tipo: lavanda, rosmarino, alloro, salvia...Una casa come ce ne sono tante in Emilia Romagna, la mia terra.
Marina si guarda intorno allibita, senza fiato. Io sono emozionato e atterrito allo stesso tempo. Apro la porta di casa, mentre i raggi del sole cadono obliqui e tingono ogni cosa di un’intensa luce calda. Accendo le luci. Aspetto che Marina prenda confidenza con la casa, che ne assorba l’essenza, che mi chieda di lei, di Sara.
E infatti non tarda a farlo. Non a voce. Prende una delle tante foto distribuite ovunque. Prende quella che sta sulla mensola del camino della sala, che ritrae Sara e me in montagna, dove eravamo andati a sciare un inverno di tanti anni fa, ai tempi dell’università. Marina schiude le labbra come se volesse chiedermi qualcosa, ma la voce le muore in gola.
«Sara, mia moglie… La donna che ho amato con tutto me stesso, la donna di cui non riesco a liberarmi. È morta tre anni fa… Più di tre anni fa… Mia figlia Rachele era appena nata… Lei… si è suicidata.»
Mi prendo una pausa.
«Prima di incontrare te avevo perso ogni speranza di essere nuovamente in grado di provare qualcosa. Prima di incontrare te desideravo morire ogni giorno. Non provavo più niente per nessuno, nemmeno per mia figlia. Andavo avanti solo per un senso di responsabilità nei suoi confronti. Prima di incontrare te avevo dimenticato cosa volesse dire ridere, stare bene. Amare…»
Marina si porta una mano alla bocca, visibilmente colpita dalla mia confessione. Riprende a guardarsi intorno, confusa. Una ad una esamina tutte le camere, ogni stanza.
Quando vede il suo ritratto nello studio emette un singulto. Si asciuga le lacrime con le dita, in silenzio, e prosegue l’ispezione. E quando entra nella mia camera e la vede tappezzata dalle foto di Sara, i suoi occhi tornano pieni di disperazione.
«Perché mi hai portata qui?» mi chiede allargando le braccia, addolorata.
«Io non riesco a liberarmi di lei, Marina… Non ci riesco. So di avere bisogno di te, solo non so come dire addio a mia moglie…»
«Perché mi hai portata qui?» torna a ripetermi lei con più foga.
«Aiutami a farlo, ti prego. Aiutami a guardare avanti.»
«Come?»
«Amami… Non mi lasciare.»
«Averti amato fino ad oggi non è servito a farti amare lei di meno… Io non posso aiutarti, Fabio. Ho seppellito mio figlio da sola. È nato morto, non ho nemmeno avuto il tempo di dirgli quanto lo amavo. Credi che non capisca cosa stai passando? Lo capisco. Ho tenuto per mesi i suoi piccoli vestiti dentro i cassetti, la carrozzina, il passeggino, tutto il suo corredo, fino a quando ho capito che fare finta che non fosse accaduto non me lo avrebbe riportato in vita. È stata dura, ma ce l’ho fatta. Ce l’ho fatta da sola, e non mi ha mai sfiorato l’idea di fare un altro figlio per dire addio a quello che avevo perso. Perché tu pretendi di farlo con me? Credi davvero che basti sostituire tua moglie con un’altra donna per fartela dimenticare? Non è così che funziona. Devi trovare quel modo da solo. Io non posso aiutarti, né puoi chiedermi di fare la donna di scorta…»
«Tu non sei una scorta, Marina.»
«Perché hai fatto finta di non conoscermi oggi, in spiaggia?»
Non c’è un’unica risposta a questa sua domanda. Le risposte, in realtà, sono molte, ma una è la più importante.
«Mi sono vergognato di me stesso. Avrei fatto fraintendere l’intensità del sentimento che provo per te, e non ho voluto. Quelli in spiaggia non erano semplicemente degli amici, ma i miei parenti. La donna bionda, lei è la sorella di Sara. Lei, i miei suoceri, tutte le persone che amo, non fanno altro che dirmi di guardare avanti, di innamorarmi di un’altra donna, di lasciare andare Sara, liberarmi delle cose che me la ricordano. Se oggi ti avessi presentata loro, si sarebbero fatti delle domande. Sarebbero arrivati alla conclusione che non sei importante, per me. E non è così. Io ti amo...»
Le accarezzo una guancia. Lei chiude gli occhi e sospira, sfiora la mia mano con la sua.
«Io non posso continuare a stare con te, adesso… Non così…» e mi indica Sara alle pareti.
Sento il dolore aprirmi in due il petto, e scavare, scavare, scavare… E poi sento la mia voce rispondere, piano:
«Lo so.»

Lo so. Queste sono state le ultime parole che ho detto alla mia fatina delle lucciole, la donna che vorrei amare con tutto me stesso, senza trovare il coraggio di farlo.


Altri giorni vuoti, cose vecchie, nuovo dolore.
Rachele ha compiuto quattro anni appena ieri. Ho affittato una sala, con tanto di giochi gonfiabili e animatori. C’erano tutti i suoi compagni d’asilo. Ho distribuito sorrisi a tutti, finto interesse per chiacchiere futili, ignorato sguardi di mamme compassionevoli e desiderose di prodigarsi in mille modi, anche in quelli meno leciti.
La donna è un essere misterioso, per me. È mamma prima di ogni altra cosa, ed è l’istinto materno che la spinge a interessarsi ad un uomo. Più è disperato, più ne è attratta. Non resiste alla tentazione di lenire le sue ferite. Sente il bisogno di prendersene cura.
Andrea avrebbe approfittato della situazione, io ho solo avuto voglia di essere lasciato in pace. Tutti quegli odori aggressivi, quei profumi dolciastri, quell’accozzaglia di ormoni in fibrillazione, mi stavano dando sui nervi.
Ma ho continuato a sorridere, ho indossato la maschera migliore che avessi e sono andato avanti, stringendo i denti.
Alla fine della serata ho chiesto a Santa Amelia di badare a Rachele per un’oretta. Sono arrivato sotto casa di Marina a piedi e ho indugiato a lungo davanti al suo portone.
Avrei voluto citofonarle, sentire la sua voce, anche solo per un attimo. Ma le avrei fatto solo altro male. Le foto di Sara sono ancora lì, dove i suoi occhi le hanno scoperte un mese fa.
Dalla tasca della giacca ho tirato fuori un sacchetto di plastica trasparente, con dentro una banconota da cinquecento euro e il cellulare, quello che le comprai ma che rifiutò.
Sembra essere passata un’eternità da allora perché, anche se è successo appena un paio di mesi fa, da quel giorno il tempo procede con una lentezza esasperante.
Non le ho scritto messaggi, l’ho ritenuto superfluo. Lei sa tutto quello che c’è da sapere, ormai. Però ho messo il mio numero nella busta.
Io non le farò pressioni alcune, ma non smetterò mai di sperare per noi due. Ho bisogno di continuare a crederci.
Ho infilato la busta nella cassetta della posta e ho sollevato lo sguardo in un gesto puramente istintivo, dal momento che non ci sono finestre di casa sua affacciate sul cortile.
Ho alzato il bavero della giacca, infilato le mani nei jeans e mi sono allontanato da lì, con il cuore gonfio di amarezza.
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Puffardella