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Autore: Adeia Di Elferas    03/07/2023    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Lucrecia era rientrata ormai stabilmente a Ferrara da inizio agosto, dopo essere stata per qualche tempo in campagna, su consiglio dei medici pagati da suo marito Alfonso. Aveva avuto qualche fastidio, qualche breve febbre e alcuni sintomi lievi, ma molto spiacevoli.

Anche se gli esperti che l'avevano invogliata a stare all'aperto e a mangiare sano borbottavano qualcosa circa il possibile coinvolgimento, nei suoi sintomi, del contatto con il marito, il cui mal francese in quel periodo era tornato a dar noia, secondo lei e le sue dame di compagnia si trattava solo di problemi femminili, legati forse ancora all'aborto dell'anno prima o, chissà mai, a una gravidanza in arrivo.

La Borja non dava peso, comunque, ai suoi malanni, perché era tutt'altro che la teneva allerta e sempre in bilico tra la disperazione, la speranza, la malinconia e il desiderio.

Aveva gradito il clima più leggero della campagna, distante dalla vita estense che ancora, in parte, non capiva e non condivideva, tuttavia c'era stato un grosso problema, nello stare fuori città: Pietro Bembo, a differenza sua, era rimasto a Ferrara per tutto il tempo.

Anche per quello, una volta rientrata, la giovane non era stata capace di frenarsi più e ogni scusa era buona, ogni momento strappato alla noia era sacro ed era perfino arrivata a odiare le cene all'aperto a Belfiore, che l'allontanavano dall'unico sole che le interessasse in quel momento.

Quella mattina, la canicola a Ferrara era peggiore che mai. Lucrecia non aveva mai vissuto, in Roma, un simile disagio per il caldo e l'umidità. Non la sorprendeva sapere che in molte città, non lontane da loro, stavano già scoppiando focolai di peste.

Anzi, proprio perché stava pensando a quell'epidemia che minacciava di esplodere da un momento all'altro, quando vide il suo servo particolare arrivare quasi di corsa e affannato nel suo salottino, interrompendo il pigro vociare delle sue dame di compagnia, la giovane fu certa che fosse arrivato per proclamare l'arrivo della peste a Ferrara.

Invece l'uomo le si avvicinò e con fare guardingo, rivelò: “Mia signora, messer Bembo è malato, brucia di febbre e dicono sia costretto a letto...”

La reazione di Lucrecia fu immediata e impossibile da mascherare. Portandosi una mano alle labbra, si alzò dalla seduta in pietra su cui stava fingendo di leggere e chiese se il Bembo fosse davvero grave.

L'uomo, che ne sapeva poco, scosse il capo e rispose che gli era stato solo riferito delle febbri e dell'allettamento, ma se fosse o meno in serio pericolo lo ignorava.

La Borja lo congedò allora in fretta e tornò a sedersi, di colpo pensierosa. Tutte le sue dame di compagnia iniziano a parlare, una sopra l'altra, esclamando, domandando, malignando e pregando, creando una confusione che, paradossalmente, permise alla moglie di Alfonso Este di chiudersi un momento in se stessa e ragionare.

“Devo andare da lui.” disse alla fine, in un sussurro appena udibile, ma che tra le sue adepte ebbe una risonanza enorme, tale da farle tacere tutte quante assieme.

“Ma mia signora...” fece una, corrucciandosi: “Una visita del genere verrebbe vista come ufficiale e...”

“Mandategli una lettera, piuttosto...” propose un'altra.

Poi, però, una terza fece notare: “La nostra signora non è forse andata qualche mese fa a trovare Ludovico Gualengo, che era un po' ammalato? E lui è uno degli addetti alla corte, ma di certo meno importante di messer Pietro...”

Quella nuova prospettiva cambiò radicalmente i commenti delle donne. Da essere scettiche, anzi, dall'avere paura di quell'iniziativa, improvvisamente tutte si fecero entusiaste e, come tante oche starnazzanti, passarono da un estremo all'altro, arrivando perfino a dire che una donna comune avrebbe sollevato troppi sospetti nell'andare a trovare il Bembo, ma non lei, no, lei era una principessa, la figlia di un papa, una santa e dunque poteva andare benissimo a casa sua senza destare alcun sospetto, anzi, dimostrando grande umanità e pietà cristiana.

Lucrecia aveva ascoltato tutte, ma la sua decisione era già stata presa. Le faceva, in ogni caso, piacere che le dame fossero dalla sua parte: in caso di spiegazioni da dare al marito o al suocero, avrebbe fatto presente le pressioni fatte dalle sue compagne e nessuno avrebbe più potuto criticarla.

Così, quell'11 agosto, scelte tra le sue dame quelle non solo più fidate, ma anche più intelligenti, la Borja affrontò il caldo appiccicoso delle vie di Ferrara. La città era silenziosa e immobile, come se quel primo pomeriggio fosse qualcosa di irreale e sospeso. La carretta ducale – scelta non a caso, proprio per rendere ufficiale e quindi, per assurdo, insospettabile, quella visita – cigolava a ogni curva e sobbalzava a ogni buca, ma nessuno sembrava farle caso.

Lucrecia sorrise tra sé, pensando a quanta fatica aveva fatto per incontrare il suo Pietro di nascosto, quando, forse, sarebbe bastato un pretesto stupido per andare da lui in grande pompa, come stava facendo quel giorno, senza sollevare alcun pettegolezzo. Il sorriso si spense solo quando la donna ricordò il perché di quella particolare visita. Il suo amato era forse davvero in pericolo di vita, oppure il suo stato di salute era meno grave di quanto lasciassero intendere le voci..?

La casa del Bembo era ormai in vista. Il carretto portò tutte loro fino alle scale. Scesero con calma, senza far fracasso, e poi la Borja andò avanti, chiedendo di essere annunciata al povero malato.

Tutte le donne vennero subito ammesse nella casa e accompagnate alla stanza di Pietro. L'uomo, con gli occhi umidi di febbre e il volto arrossato, guardò tutte loro, ma poi si fermò su Lucrecia.

Questa, senza troppe cerimonie, prese una sedia e si sistemò proprio accanto a lui, cercandone una mano e stringendola nelle proprie. Il Bembo la ringraziò, poi ringraziò tutte le altre e si definì molto fortunato a poter avere il sollievo di una tanto dolce compagnia, tuttavia, dopo qualche minuto, la Borja gli toccò la fronte, sentendola scottare, e chiese alle sue dame di uscire dalla stanza.

“Fa troppo caldo e se siamo qui in troppe, faremo solo danno...” si scusò, indicando loro la porta.

Nessuna di loro fece alcun commento, ma gli sguardi che si scambiarono furono eloquenti. Non era un mistero, che al trentatreenne piacessero molto le donne, e per alcune delle dame non era un mistero nemmeno che a Lucrecia piacesse quel trentatreenne...

La Borja aveva dieci anni meno di lui – anzi, come a volte avevano scherzato, parlandone, aveva nove anni e undici mesi meno di lui – ma in quel momento Pietro la vedeva quasi come una figura materna. Il modo in cui lo accarezzava e gli parlava a voce bassa lo stava sciogliendo e avrebbe voluto chiederle di restare al suo fianco per sempre.

“Cosa dicono i medici? Sanno cosa ti affligge?” chiese, dopo quasi un'ora di discorsi a vuoto, la donna.

Pietro scosse il capo. Aveva cominciato a stare male quasi all'improvviso, le spiegò. Il suo curante aveva escluso, deo gratia, la peste e altre perniciose malattie, ma non ne aveva ancora capito nulla.

La Borja, decisa a capire meglio la situazione, per mettersi il cuore in pace o, al contrario, per rassegnarsi a patire per l'infermità del suo amato, riprese a far domande, sempre più specifiche e dirette, senza quasi rendersi conto che, nel domandare, arrivava sempre di più a prendere spunto dalla condizione di suo marito Alfonso.

Su certi punti, però, Pietro era reticente e lei per prima non aveva il desiderio di prendersi delle colpe, nel caso fosse stata la causa del suo male, tuttavia non riuscì a non chiedergli: “A parere del tuo medico, potrebbe essere mal francese?”

L'uomo, con la bocca secca e la testa che tornava a fargli male, forse per la febbre che si alzava, fece un profondo sospiro e tagliò corto con un vago: “Il mio medico non è un grande esperto di quella malattia...”

Lucrecia abbassò lo sguardo e poi, vedendo il Bembo molto provato, gli accarezzò una spalla e gli disse, a voce bassa: “Riposa un po'...”

“Anche se fosse mal francese, e non è detto che lo sia, ben inteso – fece Pietro, sistemandosi un po' sui cuscini – non mi pento di nulla e spero solo di star meglio presto, perché in questa casa da solo, senza di te, impazzisco...”

La Borja sarebbe rimasta al fianco del suo amato ancora per ore, avrebbe volentieri lasciato calare il sole e sorgere la luna, ma sapeva bene qual era il confine tra una visita audace, ma accettabile e uno scandalo. Perciò, quando fui certa di aver raggiunto il tempo massimo concesso, si sporse verso di lui, lo baciò in fronte, e poi gli sfiorò le labbra con le proprie, senza indugiare, più in rispetto al suo stato di salute che non perché non ardesse dalla voglia di andare oltre.

Riammise nella stanza le sue dame di compagnia, che salutarono in modo formale, anche se caloroso, il povero Bembo, e poi, con la morte nel cuore, lasciò il palazzo.

La sera sembrava non arrivare più e ogni minuto che la separava dall'imbrunire la faceva sentire in colpa per non essersi attardata di più dal suo Pietro. Malgrado ciò, quando suo marito arrivò, sporco come un manovale per la lunga giornata passata a lavorare ai suoi cannoni, fu felice di potergli riferire della sua visita sottolineando le tempistiche tenute.

Alfonso, che aveva sentito a volte dei commenti sgradevoli sull'intesa che la moglie e il Bembo sembravano avere quando si trattava di poesia e arte, fece una smorfia, ma non poté dire nulla, specie dopo aver sentito l'elenco di dame di compagnia che la Borja si era portata appresso.

“Vado a mangiare qualcosa.” disse così, senza commentare: “Più tardi pensi che sarai stanca, o..?”

Quella mezza domanda sottintendeva tante cose e Lucrecia lo sapeva. Il più delle volte suo marito non le chiedeva nulla, ma si presentava e basta nelle sue stanze. Non l'aveva mai forzata, ma, comunque, di rado si informava apertamente sulla sua volontà.

Che fosse un modo un po' strano e sotterraneo – quindi molto adatto all'Este – per indagare sull'esatta natura del legame tra lei e il Bembo? Credeva che, nel caso in cui lei fosse davvero legata al chierico, l'avrebbe scoraggiato dal visitare le sue stanze quella notte?

La giovane sorrise e scosse il capo: “No, no... Oggi ho riposato. Ti aspetterò sveglia.”

Alfonso non si fece attendere troppo e, quando giunse dalla moglie, lo fece ripulito dal grasso e dalla fuliggine e con indosso un camicione bianco fresco di bucato.

“Mio padre vorrebbe che lasciassimo la città per un po'.” disse, con una certa freddezza: “Per via della peste. C'è rischio che sia anche qui a Ferrara, ormai...”

Il modo in cui l'Este occhieggiò verso Lucrecia le fece capire che si stava chiedendo se il Bembo, da lei visitato proprio quel giorno, non fosse uno dei primi a essere stato colpito dal morbo.

Anche la Borja si pose quella domanda, ma ripensando al quadro generale di Pietro e basandosi sulle poche, ma abbastanza solide, conoscenze che aveva in tema di peste e altre malattie simile, si sentì abbastanza tranquilla nell'escludere l'eventualità.

Forse proprio vedendo la moglie abbastanza tranquilla, anche Alfonso si calmò. Con una sorta di imbarazzo, che non provava con le donne grezze e volgari con cui si accompagnava di solito, si tolse il camicione e fece un paio di passi verso Lucrecia.

La giovane, che stava già pensando angosciosamente a cosa avrebbe significato per lei lasciare Ferrara e chissà per quanto, si lasciò distrarre in fretta dal fisico prestante del marito. Si sentì in colpa, ma non poteva vincersi. Le sembrava impossibile amare Pietro e allo stesso tempo desiderare in modo così prepotente Alfonso, eppure era proprio così.

Senza dire altro – anche perché il dialogo tra lei e l'Este non era mai stato molto fluente – la Borja si propose a lui senza pudore e Alfonso, rincuorato da quella sfacciataggine, la prese subito, senza farsi più domande e senza più pensare a nulla, né alla peste, né al Bembo, né, una volta tanto, alla sua amatissima artiglieria.

 

Il giorno di San Lorenzo Alessandro VI e suo figlio Cesare erano stati ospiti in vigna da Adriano Castelli da Corneto, ora Cardinale e in passato segretario papale. L'invito era stato gradito, e anche se non era un mistero che il papa avesse da un po' messo gli occhi sulle ricchezze del Cardinale, nessuno a quel convito pareva avere sospetti di sorta sugli altri commensali.

Tuttavia il giorno seguente, il Castelli si era messo a letto, scosso da tremende febbri e dolori addominali squassanti. Il pontefice, nel saperlo, aveva fatto un'espressione greve, dando la colpa all'epidemia che si stava scatenando a Roma in quei giorni, e poi era andato a officiare una funzione.

Solo il Valentino aveva avuto il fegato di prendersi gioco del Castelli, ridendo del fatto che forse le confetture con cui avevano pasteggiato erano avvelenate. Nessuno, però, gli aveva dato ascolto, e così il gioco era iniziato e finito lì.

Il giorno dopo, il 12 agosto, Rodrigo Borja cominciò a non sentirsi troppo bene. Diede la colpa al caldo, poi la diede al pranzo di quel giorno, poi la diede alle febbri che giravano in città, accusando gli uomini della sua corte e l'aria malsana delle stanze in cui abitava.

Di fatto, prima di sera, dovette mettersi a coricare, perché le gambe non lo reggevano più e la fronte gli scottava. Fin da subito, qualcuno cominciò a dire che il pontefice aveva poche speranze, perché era vecchio, grasso e iracondo, e quel genere di soggetti, di norma, erano i primi che soccombevano alle febbri estive di quel genere.

Il giorno seguente, anche Cesare cominciò a scottare di febbre e qualcuno si chiese se non si trattasse di malaria, mentre altri, più sottili e maliziosi, cominciarono ad avanzare ipotesi di natura molto diversa.

Secondo le malelingue, infatti, non poteva essere un caso che si fossero ammalati, nel giro di poche ore, il Castelli, il papa e suo figlio, che avevano tutti condiviso il cibo e il vino a San Lorenzo... E non poteva essere un caso che si fossero ammalati già molti uomini del seguito pontificio che erano stati presenti al convito. Addirittura uno scalco e un cuoco erano già morti.

Ovviamente le stesse coincidenze confortavano anche l'idea – predominante – che la corte del papa fosse semplicemente stata presa di mira dall'epidemia che imperversava a Roma e che, purtroppo, stava mietendo vittime anche al di fuori degli appartamenti di Alessandro VI.

Nel giro di poche ore, mentre l'attenzione di tutti andava alle sorti del pontefice e a quelle di suo figlio, Baccino cercava di raccogliere il maggior numero di informazioni possibili. Aveva paura di ammalarsi, ma il prelato presso cui prestava servizio era ancor più spaventato di lui e aveva messo a regime regole ferree che, verosimilmente, li avrebbero tenuti lontani dal morbo.

Certo, lo stare al sicuro e trovare notizie fresche non erano due attività facili da conciliare, ma il cremonese aveva sviluppato, nel corso della sua ormai lunga permanenza a Roma, una certa abilità nel lavorare in modo sotterraneo.

Così seppe in fretta che Miguel de Corella stava tornando a gran velocità dal perugino, sia per dar man forte agli uomini del papa, in caso di bisogno, sia, anzi, soprattutto, per soccorrere Cesare, malato quanto il vecchio papa.

Non appena ne ebbe la possibilità, vergò una breve lettera per la Tigre di Forlì e trovò il modo di farla partire da Roma, alla volta della villa di Castello. Voleva che la sua signora sapesse che a Roma stava per arrivare un terremoto, perché solo sapendolo prima avrebbe potuto, se avesse voluto, approfittarne a dovere.

 

Mancavano un paio di giorni al compleanno di Sforzino e Caterina si stava ritrovando a pianificare come mai aveva fatto in vita sua il pranzo per festeggiarlo. Aveva scelto personalmente il vino ed era andata a colpo sicuro sul dolce da servire, mentre le cuoche avevano già messo da parte il cibo per le portate principali. A quanto pareva, nelle cucine Sforzino era conosciuto e abbastanza apprezzato, forse anche perché era tra i pochi a lodare costantemente l'operato della servitù.

La Sforza avrebbe voluto aggiungere qualche cosa di allegro, per alleggerire un po' l'afa di quell'agosto, ma scartata l'ipotesi di ingaggiare dei musici e non avendo più con sé Bianca, che avrebbe cantato volentieri per il fratello, non le era rimasto che chiedere consiglio a Fortunati, a frate Lauro e ai suoi altri figli. Dopo un acceso scambio di opinioni, l'aveva spuntata bossi, che, tra tutti, forse conosceva di più i gusti del ragazzo. La sua proposta era stata molto semplice: permettergli di investire qualche soldo in un libro di teologia che sapeva per certo si potesse recuperare tramite una sua vecchia conoscenza. La cifra non era trascurabile, ma Fortunati fu ben felice di offrirsi per contribuire in modo sostanziale all'acquisto, e così anche la Leonessa fu soddisfatta: di certo Sforzino avrebbe apprezzato di più quel regalo che tante cose.

Dato mandato al frate di occuparsi del tomo, la Leonessa si era permessa di mettersi tranquilla e quel pomeriggio stava cercando di scappare alla calura seduta in un angolo d'ombra del cortile interno.

Fuori con lei c'erano Fortunati, che si faceva di continuo vento con la mano, Galeazzo, seduto a un tavolino di fortuna, immerso nei calcoli, intento a studiare matematica e svolgere esercizi che poi il suddetto piovano avrebbe corretto e Bernardino con Giovannino.

“Forse dovrei mandarli in casa con Sforzino...” disse Caterina, guardando il Feo e il Medici che, accomunati dall'incapacità di stare fermi, continuavano a rincorrersi a tratti sotto il sole cocente d'agosto e a tratti nelle rare strisce d'ombra.

“Non mi hai ancora detto cosa ne pensi dei francesi a Dicomano...” fece Francesco, con aria casuale, ma molto attento alle reazioni della donna.

“E cosa dovrei pensarne?” sbuffò lei: “Mi pareva ovvio, quando abbiamo saputo che erano a Pescia e a San Donnino, che sarebbero andati oltre... E poi se anche hanno pesato un po' sulle dispense dei signorotti di Dicomano, non mi dispiace più di tanto...”

“Alloggiare per due giorni nelle ville dei residenti non mi sembra una cosa da poco, per dei soldati...” commentò il fiorentino.

“Tanto se ne sono andati a Ponte A Sieve, poi, no?” ribatté la donna, che non aveva voglia di perdere altro tempo a parlare di quello spostamento di truppe che, a suo avviso, poco aveva a che fare con l'eventuale difesa di Firenze, ma solo con la prosecuzione della guerra al sud.

“Sì, però... Non trovi spaventoso che la gente di Dicomano non abbia potuto dire di no?” insistette Francesco.

“Non la gente...” fece notare la Tigre: “Ma solo quelli ricchi. Anche se hanno devoluto qualche gallina e un po' di vino, di certo per due giorni appena non sono andati in rovina.”

“Se i francesi fossero passati da Castello, li avresti ospitati volentieri?” chiese allora Fortunati, irritato dall'atteggiamento della milanese.

“Chi lo sa...” disse allora lei, irritandosi a sua volta e guardando con voluto dubbio il piovano: “Se in mezzo a loro ci fosse stato qualche giovane bello e disponibile, magari ne avrei anche tratto dei vantaggi...”

“E se in casa ci fosse stata ancora tua figlia Bianca? Saresti stata tranquilla ad avere qui dei soldati francesi?” l'ostinazione del piovano fece scattare qualcosa di molto spiacevole, in Caterina, ma la Leonessa riuscì a trasformare l'irascibilità in ironia.

“L'ultima volta che dei soldati al soldo francese sono stati qui – fece, con insolenza – mia figlia ne ha tratto un marito. Devo aggiungere altro?”

Il piovano aprì la bocca per un minuto, cercando un modo per ribattere, ma poi scosse il capo e, afflitto, ribatté: “Ho capito: non c'è modo di farti provare un po' di pena per Landucci e gli altri che si sono trovati in casa dei francesi da un giorno con l'altro...”

“Ripeto: a quanto mi dici sono rimasti solo una notte e hanno soggiornato a casa di gente ricca e senza troppi danni...” sbuffò la Tigre: “Di certo sarebbero stati molto più distruttivi se avessero preso di mira un paesino di poveracci... Quindi...”

La mente della Sforza era andata, benché non lo volesse, alle tremende immagini della strage di Mordano. Quello che i francesi avevano fatto all'epoca, per lei, non era minimamente paragonabile a quello che si diceva avessero fatto a Dicomano. E dunque non riusciva a provare alcuna empatia per i ricchi che erano stati ospitali loro malgrado.

Fortunati, che era appena stato richiamato da Galeazzo, che aveva finito un esercizio di matematica e voleva che gli fosse corretto, chiese licenza a Caterina, ben felice di potersi sottrarre a quel discorso spinoso, e così la donna fece un sospiro e si mise a guardare Bernardino e Giovannino che continuavano a rincorrersi come pazzi.

Stava quasi per dire loro di moderarsi, visto il caldo, quando uno scalpicciare agitato la fece voltare verso la porta che conduceva all'interno della villa.

Frate Lauro, con un pacco avvolto nella stoffa sotto al braccio, fece un cenno d'assenso, come a dire che aveva con sé il tomo per Sforzino, ma poi si frugò nella scarsella e porse una lettera a Caterina: “Ho incontrato qui fuori un messaggero che vi cercava. Da Roma.”

Sentendo il cuore perdere un colpo, credendo subito che si trattasse di cattive notizie di qualche tipo, la Leonessa scattò in avanti e prese il messaggio.

Il modo in cui l'aprì e iniziò a leggere, con le mani che tremavano appena, non passò inosservato. Il piovano distolse l'attenzione dai calcoli di Galeazzo, che fissava la madre e anche Bernardino e Giovannino smisero di fare confusione e, ansanti e accaldati, si fermarono a guardare la Sforza per capire cosa fosse accaduto.

Da parte sua, la Tigre dovette rileggere più volte ciò che aveva davanti, prima di comprenderne appieno il significato. Si portò una mano sulle labbra. Guardò a lungo la firma in calce, che era di Baccino, e poi andò dritta in casa.

I figli non la seguirono, pensando che, qualsiasi cosa fosse accaduta, era meglio attendere che fosse lei stessa a parlarne con loro, mentre Francesco non resistette e le filò dietro.

Caterina si era accorta di essere seguita, ma camminò comunque senza fermarsi, fino a giungere in camera. Aprì la finestra, benché entrasse ben poca aria, e poi, senza fiato, si sedette sul letto.

“Vuoi dire anche a me che cosa succede?” chiese, molto spaventato, il fiorentino.

“Il papa e suo figlio stanno male – sussurrò lei, con voce gracchiante – potrebbero morire entrambi...”

Fortunati restò a bocca aperta e poi, senza dire nulla, si fece dare la lettera di Baccino e la lesse a sua volta. Deglutì più volte, sforzandosi di comprendere appieno la portata enorme di quella notizia.

Che il papa non fosse eterno, lo sapevano tutti. Che non fosse giovane non era un mistero... Ma che si potesse sperare che sia lui sia il figlio si trovassero in pericolo di vita nello stesso momento, era davvero inconcepibile...

A sua volta con il respiro corto, l'uomo si sedette accanto alla Leonessa e aspettò per qualche minuto che il cuore riprendesse a battere normalmente.

“Adesso che facciamo?” chiese, attonito.

“Tu devi fare solo una cosa: pregare che crepino entrambi e in fretta.” decretò Caterina, questa volta con voce ferma e con un che di esaltato nello sguardo: “Per quel che riguarda me, lo so io quel che devo fare.”

E detto ciò, la donna gli diede un colpetto sulla spalla e si andò a mettere alla scrivania, un foglio pulito già davanti a sé e la penna inchiostrata a dovere nel pugno, chiedendo al piovano, per favore, di lasciarla sola, in modo che potesse fare quel che doveva.

 

Quella mattina Alessandro VI aveva la febbre altissima. Era impossibile dire se scottasse più lui o il sole di quel Ferragosto.

Il Vaticano era immerso in un'aura irreale e nessuno, nemmeno i più viscidi tra i suoi abitanti, osava far scappare notizie azzardate, perché si sapeva che il Borja aveva mille risorse e il Diavolo, che lo doveva per forza aver molto caro, avrebbe fatto di tutto, pur di farlo restare il più possibile sullo scranno di San Pietro.

A dare una mano al demonio c'erano i medici personali del pontefice che, su insistenza e minaccia di Cesare – che stava a sua volta male, ma aveva momenti discreti e di grande lucidità – si stavano rompendo la testa nel cercare un rimedio a quel misterioso morbo.

Dopo varie discussioni e un litigio, si risolsero nel provare con un salasso. Rodrigo guardava il sangue colargli dal braccio pallido e si chiedeva che avesse mai fatto di male, per meritare quel travaglio tremendo.

Si appellò a Dio, si appellò ai Santi, si appellò perfino al diavolo e alla fine, verso metà pomeriggio, sfebbrò e si riprese quasi del tutto. Euforico nel sentire di nuovo la sua consueta forza pervadergli il corpo, chiese che i suoi famigli e il figlio Cesare lo raggiungessero per giocare a carte con lui.

L'invito fu preso come un ordine, malgrado i medici fossero contrari a ogni forma di fatica da parte del papa, e fino a sera nelle stanze del pontefice si giocò a ogni gioco possibile.

La mattina dopo, il 17 agosto agosto, Alessandro VI tornò a essere febbricitante e perse perfino i sensi. Tutta l'attenzione si riversò di nuovo su di lui, a discapito degli altri che s'erano ammalati nel palazzo.

Il Valentino, tremante, scosso da brividi incoercibili, si ritirò a letto, troppo confuso per riuscire anche solo a dire un ave o un pater per il padre. Si coprì più che poté e cercò di dormire, ma riusciva solo a tremare e tremare ancora.

Quasi non riconobbe Miguel, quando questi entrò di prepotenza nella sua stanza, seguito da alcuni servi, gridando ordini nella sua lingua d'origine.

Non seppe come ribellarsi, quando il Corella lo prese di peso, con le sue forti braccia, né riuscì a evitare che l'amico lo mettesse, nudo e inerme, in una vasca di legno colma fino al bordo di acqua e pezzettoni di ghiaccio.

Avrebbe voluto dire che così sarebbe morto, che il suo cuore non avrebbe retto, che si sarebbe congelato e che un bagno avrebbe ucciso il Duca di Valentinois laddove una guerra non c'era riuscita... Ma le sue labbra erano un fibrillare unico e non poté far altro che lasciarsi maneggiare da Michelotto come una bambola senza vita.

Il Corella, dal canto suo, avrebbe voluto piangere e disperarsi. Dicevano che il papa era gravissimo e che andava subito organizzata la difesa, perché se fosse morto, non ci sarebbe stato scampo per i suoi prossimi, essendo Alessandro VI il più odiato dei papi... Ma non poteva non stare accanto al suo Cesare, un pulcino bagnato e fragile che solo lui poteva salvare...

Con gli occhi riversi e la pelle marezzata per l'aspra lotta tra la febbre e il ghiaccio, il Valentino riuscì a fargli un cenno. Miguel si avvicinò e restò in attesa.

“Cane...” sputacchiò il Borja: “Così m'ammazzi...”

Erano parole d'accusa e d'odio, ma al Corella non interessava. Cesare non era in sé. Quando fosse stato salvo, l'avrebbe ringraziato e, forse, gli avrebbe concesso uno di quei gesti d'affetto di cui era così avaro, e tanto bastava a Michelotto per non demordere.

“Altro ghiaccio!” gridò ai servi: “E preparate una sanguigna... Se dopo il bagno non sfebbra, che gli si cavi il sangue!”

 

Caterina avrebbe voluto essere molto più presente, con il pensiero, a quella che era la cena in onore del compleanno di Sforzino, invece continua a pensare con estrema ansia a quello che stava succedendo a Roma.

Non aveva notizie troppo fresche, e doveva basarsi su quanto scritto da Baccino ormai giorni addietro, e su qualche pettegolezzo che arrivava alla villa per mezzo degli amici di Fortunati, che avevano avuto mandato di tenerlo il più possibile informato.

Il figlio, comunque, fiero dei suoi sedici anni appena compiuti, non sembrava essersi accorto troppo della distrazione della madre e, per quanto restio allo stare al centro dell'attenzione, si era lasciato festeggiare adeguatamente dai fratelli e dagli altri presenti, arrivando perfino a bere un calice di vino in più del solito, rendendo così le sua guance paffute ancor più rosee del solito.

Era stato molto felice del libro che gli era stato regalato per tramite di Fortunati e, mentre mangiava con foga la sua porzione doppia di spongata, lo si sarebbe potuto dire il ragazzo più felice delle Terra.

A cena finita, malgrado tutti volessero soffermarsi ancora un po' con il festeggiato, la Tigre trovò un modo elegante per defilarsi un attimo. Non che non avesse voglia di stare con Sforzino, ma aveva passato gli ultimi tre giorni senza riuscire a riposarsi molto, e non voleva che la stanchezza si trasformasse per qualche motivo in scontrosità, andando a rovinare la serata a tutti. Forse stava solo invecchiando, benché avesse appena quarant'anni, o forse i suoi vecchi malanni le stavano facendo pagare il conto, ma le era bastato concentrarsi sulla questione del papa e del Valentino per far sì che tutte le sue forze ne venissero assorbite, lasciandola sfiancata.

Così aveva detto di voler andare un momento a dare la buona notte a Pier Maria, che era già stato portato in stanza dalla balia, e ne approfittò sì per salutare il nipote, ma anche per andare a ritirarsi per un po' in solitudine nella stanza delle letture.

Quasi del tutto al buio, se non fosse stato per una candela solitaria, la Sforza si andò a sedere un momento su una delle poltroncine imbottite e, senza accorgersene, stremata, si assopì.

 

Sforzino teneva il tomo che gli era appena stato regalato tra le braccia, stretto come una preziosissima reliquia. Era stato frate Lauro a suggerirgli di andare a cercare la madre nella sala delle letture, e lui aveva seguito la dritta.

Si sentiva sempre in soggezione, con lei. Non che ne avesse paura, ma andare a cercarla per ringraziarla di quel fantastico regalo gli sembrava paragonabile a una prova di coraggio in piena regola.

Ormai era sera tarda, quasi tutta la villa si era ritirata per riposare. I passi di Sforzino facevano a tratti un rumore cadenzato, attutito dai tappeti, ma la Tigre, che in effetti era nella sala delle letture, sembrava non averlo sentito.

A uno sguardo più attento, il Riario si accorse che la madre era assopita. Sul bordo del camino c'era una candela quasi finita, e il volto della Sforza, in quella luce fioca, era animato da ombre quasi spaventose. Quella vista fece scivolare via ogni temerarietà dall'animo di Sforzino: lui ci aveva provato, ma non poteva certo svegliarla per un motivo tanto stupido...

Proprio mentre girava i tacchi per tornare da dove era arrivato, il ragazzo sentì la madre farfugliare qualcosa. Allora si voltò a guardarla e, vedendola agitarsi, restò in attesa. Caterina fece un paio di borbottii disarticolati e poi, sgranando gli occhi, si svegliò di colpo.

Ci mise qualche secondo per orientarsi e poi, nella penombra, vide il figlio e, accigliandosi, gli chiese: “Mi stavi cercando?”

“Io...” Sforzino deglutì e fece un passo avanti: “Volevo ringraziarvi sia per la bellissima cena, sia per questo bellissimo dono...”

La Leonessa lo guardò ancora un attimo e poi si aprì in un sorriso: “Basta così poco, per renderti felice...”

Il Riario chinò appena il capo e poi, forse incoraggiato proprio dal sorriso della madre, o forse vinto dalla curiosità, le chiese: “Stavate facendo un incubo?”

“Non era nulla di importante...” minimizzò lei: “Le solite cose... Cannoni, spade...”

“Sognate spesso la guerra?” chiese il ragazzo, stando un po' sulla difensiva, ma desideroso di non troncare sul nascere quel contatto inatteso con la madre.

La Tigre sollevò un sopracciglio e rispose: “Solo quando sono fortunata. Le altre volte mi trovo a sognare cose ben peggiori...”

Sforzino si sentì in difficoltà. Doveva chiedere di cosa si trattasse? O era meglio evitare e cambiare argomento?

Alla fine optò per una via di mezzo, ossia restò sull'argomento, ma cambiandone il soggetto: “A me capita spesso di sognare mio fratello Livio.”

Sentire il nome dell'unico figlio che la Sforza avesse perso, attirò all'istante l'attenzione della donna. Mai si sarebbe aspettata di sentirlo nominare quella sera.

“Mi ricordo la sua agonia e il giorno in cui è morto.” riprese il Riario, con una serenità che stonava con le sue parole: “Mi ricordo molto bene di come avevate fatto cambiare stanza sia a me sia a Galeazzo, per paura che...”

Caterina aveva abbassato lo sguardo. Ricordava molto bene anche lei quelle giornate tremende, con la città e la rocca prede delle febbri. Livio era morto prima ancora che lei si rendesse conto di quanto fosse grave. Quando se n'era accorta, non aveva potuto far altro che cercare di limitare i danni... Aveva spostato Sforzino e Galeazzo, seppur anche loro febbricitanti, solo per paura che lo vedessero morire.

“Non volevate che io e Galeazzo ci spaventassimo, vedendolo morire.” concluse Sforzino, con la voce che, finalmente, aveva un cedimento: “Credo che sia stato allora che... Ero un bambino, ma ho cominciato a pensare alla vita, alla morte, al loro significato... E con il tempo ho iniziato a cercare le risposte nei libri, nella teologia...”

“E le hai trovate?” chiese la madre, con una tangibile speranza nella voce.

“Non ancora.” ammise il figlio: “E credo sia per questo che io abbia ancora tutto questo desiderio di studiare...”

Caterina, che da quel breve scambio sentiva di potere, anzi, di dover trarre molte riflessioni, si alzò dalla sua poltroncina e, avvicinandosi a Sforzino, fece una cosa che faceva di rado, specie con lui.

Lo strinse a sé, sorprendendosi di quanto fosse diventato alto e di quanto fosse tutt'ora robusto, malgrado si fosse aspettata che si sarebbe un minimo snellito, crescendo e dovendo sottostare alle ristrettezze della villa, gli sussurrò: “Hai la corporature dei Visconti...”

Il Riario si inorgoglì a quelle parole e, allargando un po' le spalle, le chiese, una volta che si furono di nuovo allontanati: “Da tempo volevo chiedervelo, ma... Posso usare anche il vostro cognome, se dovessi firmare un documento o una lettera?”

“Ti prego di farlo.” annuì lei: “Per me sarebbe solo una gioia.”

Sforzino la ringraziò di cuore e poi sollevò il tomo che portava con sé, e che era rimasto in mezzo al loro abbraccio e ribadì: “Siete stata molto gentile. Davvero. Qualsiasi cosa io possa fare per voi, sapete che dovete solo chiedermelo.”

“Devi ringraziare anche Fortunati... Senza di lui non avresti quel libro, ora...” fece lei, dandogli un colpetto sulla spalla poderosa: “Ma c'è una cosa che puoi fare per me, stanotte: prega che il papa muoia. È l'unica cosa che ci servirebbe davvero...”

Un po' interdetto da quella richiesta, Sforzino non poté comunque negare quel favore alla madre e così, dopo averla salutata, si andò a ritirare in camera e passò la notte del suo compleanno, un'afosa notte a cavallo tra il 17 e il 18 agosto, chino sull'inginocchiatoio, a pregare con fervore affinché il papa venisse richiamato quanto prima alla casa del Padre.

 

 

   
 
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