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Autore: Adeia Di Elferas    10/07/2023    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Rodrigo Borja, la mattina del 18 agosto, riparato dall'ombra della sua stanza, lontano dalla canicola irrespirabile di Roma, seguì la Messa officiata dal Vescovo di Carinola.

In un primo momento, quando gli era stato proposto di seguire la funzione, il papa aveva rifiutato, stanco e dolorante, ma poi qualcuno gli aveva fatto notare che anche un pontefice ha bisogno di un aiuto divino, in caso di malattia grave e così si era piegato al volere altrui, ma solo a patto che fosse il suddetto Vescovo a celebrare la Messa, essendo egli un amico curiale di sua figlia Lucrecia. Forse erano le febbri, o forse la disperata malinconia che provava in quei giorni per la figlia – che non avrebbe, anche volendo, potuto muoversi da dove stava, visto che nel ferrarese ormai c'erano molti casi di peste, e spostarsi era un rischio enorme – ma sentire la voce di quell'uomo che sua figlia aveva ritenuto degno d'amicizia, per Alessandro VI era una consolazione.

Il papa, docile come un agnellino, così diverso dal toro che era stato per anni, lasciò che l'aiutassero a prendere la Comunione e, mentre veniva riadagiato sui suoi cuscini, mormorò: “Sto male, molto, molto male...”

L'attenzione di tutti era per lui, per ogni suo minimo gesto, per ogni sua più piccola parola, e così quando quel giorno il Vescovo Gerolamo Pallavicini – che aveva, apparentemente, lo stesso male del pontefice – morì, nessuno gli diede importanza. Gli unici, anzi, che spesero qualche minuto a pensargli lo fecero solo interrogandosi sulle similitudini e sulle differenze tra il suo caso e quello di Alessandro VI, per capire quanto quella morte potesse essere o meno presagio di quella del Santo Padre.

Il resto della giornata passò lentissimo e al contempo molto in fretta. Il Borja ebbe picchi febbrili insopportabili, alternati a momenti di assopimento. La sua fronte a tratti scottava e a tratti era gelida come la neve di gennaio.

Ormai il brusio di sottofondo dei suoi appartamenti era continuo e univoco. Tutti sapevano che non poteva mancare molto alla fine. C'era sempre la speranza di un miracolo, ma in che miracolo, si chiedevano tanti, poteva sperare un uomo che aveva fatto il volere del diavolo per tutta la vita?

Stava arrivando la sera, e le lunghe ombre del 18 agosto iniziavano a gettare anche sugli appartamenti pontifici una luce sinistra.

Su invito di alcuni uomini che gli stavano accanto – ma che, preda del delirio, il papa non riconosceva – Rodrigo accettò di ricevere l'olio degli infermi, come estremo tentativo di salvarsi.

Se fosse stato un po' più lucido, probabilmente, il pontefice avrebbe chiesto dov'era il figlio Cesare e, magari, anche dove si trovasse in quel momento Michelotto. Invece era del tutto avulso dalla realtà e, anche se gli avessero detto che proprio in quei minuti, forse intuendo la gravità della situazione, il Corella, portatosi alla Porta di San Pancrazio, stesse cercando, abbastanza inutilmente, di prendere il controllo della Torre di Guardia, per certo non gli sarebbe importato molto.

Ormai stava per far buio e il letto del pontefice sembrava un lume in grado di attirare falene enormi, vestite da Vescovo, da Cardinale, da medico e da servo. Tutti gli ronzavano intorno, parlottando, indicandolo, sollevando le mani al cielo e invocando il perdono divino, come se lui fosse già morto.

A un certo punto, muovendosi impacciato sui cuscini madidi di sudore e aprendo un po' di più gli occhi, il pontefice guardò un qualcosa di indefinito davanti a sé e poi sussurrò, ben udibile, comunque, da tutti i presenti: “Va bene, va bene, arrivo. Aspettate un momento...”

E dopo quelle parole, ricadde all'indietro e non si mosse più.

Il silenzio che seguì a quell'ultimo guizzo fu allo stesso tempo solenne e spaventoso. Nessuno più parlava, nessuno più respirava... Tutti i presenti erano immobili, così com'era la salma del papa.

Passarono un paio di minuti buoni. Un servo era uscito di soppiatto, senza che nessuno lo notasse.

Il silenzio iniziava a essere sostituito da qualcosa di molto più pericoloso: un brusio sordo e incessante, simile al ronzare di un alveare, e man mano le voci tendevano sempre e solo a lambire un paio di argomenti. In primis, ovvio, si diceva che il pontefice era morto. In secundis, però, si diceva con sempre maggior foga che morto un papa bisognava farne un altro...

Non si era ancora arrivati a dar forza sufficiente all'alveare affinché cominciasse a fare il nome di una nuova ape regina, quando la porta si spalancò di scatto. Nessuno comprese subito chi fosse arrivato, né il perché, ma quando, facendosi largo tra gli uomini armati che lo scortavano, si palesò Michelotto, di nuovo piombò il silenzio.

Il Corella, con un gesto imperioso, fece chiudere la porta alle sue spalle e poi guardò la piccola folla, soffermandosi solo un istante in più sul viso esangue del defunto Rodrigo. Stava cercando un uomo in particolare e, quando lo trovò, lo indicò con l'indice e gli intimò di avvicinarsi.

“Scegliete – disse al Cardinale Ventura Benassai, Tesoriere della Camera Apostolica – o mi consegnate le chiavi del tesoro papale, o verrete gettato dalla finestra.”

L'uomo, che aveva sostituito da un paio di mesi appena nel ruolo di Tesoriere proprio quel Cardinale Adriani Castelli da Corneto che era stato additato dai malpensanti come possibile avvelenatore del papa e del Valentino, scosse piano il capo, tremante: “Ma io...”

“Scegliete!” sbottò Miguel, estraendo il pugnale e posandolo sulla grassa gola del prelato, premendo abbastanza da far stillare un paio di gocce di sangue.

Deglutendo – e sentendo ancor di più il bacio gelido della lama contro la pelle – Benassai iniziò a raspare con entrambe le mani nella scarsella che teneva al fianco e poi, tremando come una foglia secca, le porse al Corella: “Eccovi, eccovi le chiavi... Questa – iniziò a elencare, sollevandone una per volta – è per la cassa di ducati d'oro, quest'altra per la cassa dell'argenteria, questa...”

“Taci. Ci pensano i miei uomini.” tagliò corto Miguel, afferrando il mazzo e consegnandolo al suo secondo.

Il mercenario elencò una serie di ordini ai suoi soldati e poi, con un ultimo sguardo inceneritore, lasciò la stanza, avendo cura che restasse ben sorvegliata. Doveva andare a riferire a Cesare che suo padre era morto e, soprattutto, doveva stargli accanto. Le febbri ancora lo scuotevano e il Corella non se la sentiva di guidare i soldati e lasciarlo solo con i cerusici... Non si fidava e temeva, anche se non voleva nemmeno prendere inconsiderazione l'ipotesi, che il Valentino potesse non superare la notte che stava per iniziare. Non poteva staccarsi da lui.

Avrebbe fatto affidamento su Joffré, il fratello di Cesare. Solo lui poteva fare le sue veci in quelle concitatissime ore...

Il giovane principe di Squillace rispose subito allo sprone di Michelotto. Il ventiduenne era animato non solo dal desiderio filiale di difendere tutto ciò che il padre aveva costruito in vita, ma anche di difenderne l'onore, così come il pontefice aveva fatto con lui poco meno di un anno prima, facendo rinchiudere sua moglie Sancia d'Aragona a Castel Sant'Angelo.

Non l'aveva buttata in una di quelle celle così piccole e scure da essere usate con prigionieri di altro tipo, com'era stata a suo tempo, per esempio, la Tigre di Forlì, ma una cella molto più confortevole, tanto, almeno, da permetterle in quei mesi di diventare amante del Cardinale Ippolito Este.

Era stata messa in gabbia proprio per i suoi modi disinvolti, per il legame adulterino che aveva stretto con Prospero Colonna, eppure, anche in carcere, era riuscita a comportarsi come una sgualdrina, ma, almeno l'aveva fatto lontano dagli occhi indiscreti della corte e di questo Joffré poteva ringraziare solo suo padre, papa Alessandro VI.

Così, mentre il Corella stava al capezzale di Cesare e dava disposizioni per l'assistenza da dargli durante la notte, il giovane principe di Squillace smaniava e insisteva per prendere Roma in armi e metterla a ferro e fuoco. Miguel lo fece ragionare e così, più calmo, ma mosso da un'arroganza e una spavalderia che facevano impallidire il ricordo di quelle sfoggiare dal Valentino durante le sue campagne militari, Joffré la mattina dopo si mise alla testa dei suoi soldati e cominciò a passare in rassegna palmo a palmo dapprima il Vaticano e poi la città intera, come un padrone rabbioso che controllasse le sue contrade.

Ormai tutta Roma sapeva che il papa era morto e, impossibile evitarlo, presto si sarebbe saputo anche fuori dalla città e dalle campagne la voce sarebbe corsa frenetica in tutto il Lazio e da lì in tutta Italia, fino a varcare le Alpi. I Cardinali non aspettavano altro, specie quelli che si erano nascosti e rintanati negli angoli più disparati del mondo, che non un nuovo Conclave.

Joffré stesso era cosciente che la loro fosse una lotta inutile, ma dovevano tenere il potere il più a lungo possibile: avevano bisogno di tempo per far sparire tutto quello che sarebbero riusciti a far sparire, dall'oro alle opere d'arte, e poi bisognava che Cesare avesse modo di rimettersi. Così debole com'era, non era immaginabile spostarlo, il rischio che peggiorasse o che qualcuno approfittasse della sua condizione per ucciderlo era troppo alto.

Il giovane Borja stava passando proprio in quel momento da piazza della Minerva, immerso nei suoi pensieri, figurandosi il prossimo Conclave a tratti come un evento apocalittico e a tratti come un'opportunità, quando si rese conto che alcuni uomini stavano costruendo una piccola barricata.

“Che succede? Che vuol dire questa cosa?” chiese il principe di Squillace, facendo fermare il cavallo.

“Noi staremo di qua – gli rispose uno degli uomini che stava accatastando roba – e voi starete di là!”

Anche per uno come Joffré, che si era tenuto lontano il più possibile, in quegli anni, dalle dinamiche della politica e della guerra, quell'esclamazione aveva un significato evidente. Anche il popolo sapeva che presto ci sarebbe stato un Conclave e che sarebbe stato importante chiarire da che parte si era, se da quella del papa morto o di quello che ancora doveva essere eletto. Quella barricata doveva sancire una sorta di limite invalicabile tra i vecchi tirapiedi dei Borja e i romani pronti ad accogliere un nuovo pontefice.

Senza attendere ulteriori spiegazioni, Joffré diede uno strattone alle redini e si mise a galoppare verso il Vaticano, seguito a ruota dalla sua scorta personale. Pur contro il parere di Michelotto, che avrebbe preferito sì una linea dura, ma non impulsiva, il Borja diede ordine che si sparasse un colpo di bombarda verso la via dei Banchi, a mo' di ammonimento.

 

Scipione aveva passato tutto il 19 agosto a cercare di capire cosa ci fosse di vero nelle voci che aveva sentito. A Firenze non si parlava d'altro della malattia del papa e del Valentino e, stando ai pettegolezzi di quelli che si dicevano più informati, il pontefice, alla fine, aveva perso la sua battaglia e si era spento la sera o la notte del 18 agosto.

Il Riario fremeva all'idea di poter veicolare la formidabile notizia a Caterina Sforza, ma non voleva partire da Firenze prima di esserne assolutamente sicuro. Così il 19 agosto era arrivato e passato nell'attesa di un segno ufficiale.

Il giorno seguente, il 20 agosto, finalmente la Signoria doveva aver ricevuto qualche messaggio ufficiale, dato che le campane di tutta la città, nel pomeriggio, si misero a suonare a lutto con una tale insistenza da assordare tutti i fiorentini.

Scipione andò nella chiesa più vicina, all'ora della Messa, e attese che finisse per rincorrere il prete che l'aveva officiata e chiedere notizie. L'uomo, spaventato dall'animosità del giovane, dapprima gli consigliò di chiedere al Gonfaloniere, e poi, smosso nell'orgoglio – il Riario aveva sbottato che lui che era un uomo di Chiesa non poteva saperne meno, riguardo alla morte del papa, rispetto a un uomo qualsiasi com'era Soderini – aveva confermato la notizia: Alessandro VI era morto, la sera del 18 agosto. Riguardo al Valentino, però, non sapeva che dire.

Tanto bastò a Scipione per mettere le ali ai piedi. Corse a cercare un cavallo e lo fece sellare il più in fretta possibile e poi, con il cuore in gola, galoppò più veloce che poteva per raggiungere la villa di Castello e dare in anteprima la notizia a Caterina.

Erano molte le cose di cui parlare, molte quelle da decidere... Che il papa non fosse eterno, ne erano tutti coscienti, ma che morisse così improvvisamente non se l'era aspettato nessuno. Di certo, non appena la notizia si fosse sparsa per l'Italia, si sarebbero create nuove alleanze, si sarebbero intessuti nuovi intrighi, e Scipione voleva con tutto se stesso che se la Tigre di Forlì avesse voluto farne parte, potesse farlo, e per riuscirci, doveva essere subito messa al corrente di tutto.

Sperava di non incontrare intralci sul suo cammino, e di arrivare sano e salvo da Caterina prima che fosse notte. I tempi non erano dei migliori, e per strada era facile imbattersi in malintenzionati travestiti da soldati francesi, e dunque il Riario avrebbe preso una strada alternativa che, per quanto più lunga, gli avrebbe consentito di non dover incontrare nessuno.

 

Per quanto volessero, Michelotto e Joffré non riuscivano da soli – la sensazione corretta che avevano era proprio quella di essere da soli a combattere contro il destino – a tenere testa a tutto quello che stava succedendo nell'afa irrespirabile di Roma.

Anche se il Vescovo Burckhardt teneva fede al suo ruolo di cerimoniere, occupandosi personalmente almeno del corpo del papa, facendolo lavare, rivestire con panno bianco, pianeta d'oro e pantofole di velluto, e facendolo adagiare su un catafalco ornato da raso cremisi, e da un bellissimo tappeto, tutto il resto era fuori controllo.

Servi di ogni sorta – e anche qualche prelato minore – facevano la spola, senza sosta, dalle stanze del Vaticano fino a oltre il Tevere, per portar via stoffe, soprammobili, calici, vestiti, tappeti, gioielli, candelabri, e perfino la sedia pontificia.

Il Corella era troppo impegnato a vegliare Cesare, a tratti incosciente e a tratti delirante, mentre Joffré friggeva dalla voglia di prendersela con il popolino, sparando sulla folla palle di cannone o incendiando case e capanne.

Johann Burckhardt poté quindi limitarsi a fare il suo, rammaricandosi, umanamente, per lo squallore in cui era stato lasciato il papa. Non erano tanto le stanze ormai spoglie, né le misere scene di saccheggio ad avvilirlo, quanto vedere come nessuno – nemmeno la tanto amata Vannozza Cattanei – si fosse preso il disturbo di andare a piangere il povero Rodrigo. Il Vescovo poteva capire la paura di essere coinvolti in qualche tafferuglio, ma un uomo come Alessandro VI, seppur con tutti i suoi difetti, doveva pur aver lasciato anche qualche affetto, sulla Terra..!

Senza riuscire a darsi pace per le sorti del ponteficie, il Burckhardt fece dapprima trasportare la salma nella sala del Pappagallo e poi, com'era da cerimoniale, arrivata la sera lo fece portare in San Pietro, in modo che, protetto da una grata, venisse esposto al popolo che, in linea teorica, avrebbe dovuto porgergli l'estremo saluto e pregare per la sua anima.

Il corpo senza vita di Rodrigo, però, sembrava voler dare spettacolo fino all'ultimo momento. Il caldo tremendo di quel giorno stava infierendo su di lui con ferocia. Circondato da mosche e moscerini di ogni sorta, il cadavere iniziò, prima ancora che scendesse la notte, a gonfiarsi, annerirsi e disfarsi con una velocità che poco aveva di naturale.

Quei temerari che erano andati per primi a osservare il feretro, uscirono da San Pietro nauseati e allibiti e raccontarono ovunque quello che avevano visto. Il diavolo, dicevano, stava restituendo al papa tutto il male che il papa aveva fatto. Qualcuno sosteneva fosse il risultato dei veleni usati per ucciderlo, molti altri, invece, imputavano una putrefazione tanto rapida e catastrofica alla natura disumana del Borja.

Il gruppetto di coraggiosi curiosi cominciò a farsi capannello e poi folla. Lo spettacolo macabro del pontefice in disgregazione stava attirando tutta Roma a San Pietro.

Per evitare quel pubblico ludibrio, il Burckhardt alla fine decise di far ricoprire il cadavere con un tappeto e, non appena fu buio, si tenne, alla luce di qualche torcia, il funerale, per pochi eletti, tra cui il Vescovo di Carinola. Da lì il feretro venne traslato in Santa Maria Delle Febbri. Lì era stato condotto, a suo tempo, il corpo senza vita di Juan Borja, figlio prediletto del papa, e dunque a tutti era parsa la soluzione migliore.

Al momento di spostare i resti terreni del pontefice dal catafalco alla bara lignea che sarebbe stata incassata nel muro, però, ci si trovò dinnanzi a un problema non calcolato. La decomposizione feroce che aveva portato al rigonfiamento delle carni e alla fermentazione dei fluidi, aveva tolto ogni forma umana a Rodrigo Borja. La sua taglia – già notevole in vita – s'era fatta formidabile e, benché la cassa non fosse piccola, fu subito chiaro che sarebbe stato necessario usare le maniere forti per riuscire a far entrare il cadavere tra quelle quattro assi.

Alcuni dei prelati presenti chiusero gli occhi e si tapparono le orecchie, per non vedere i gesti grezzi dei becchini, che spingevano e schiacciavano, a volte con pugni o premendo coi piedi, e per non sentire il rumore umidiccio e sordo prodotto da queste manovre macabre.

Dopo quasi mezz'ora, inchiodata a fatica la cassa, che minacciava di esplodere da un momento all'altro, i becchini chiusero il loculo con una lapide scura che, da progetto, sarebbe stata solo temporanea.

I presenti non restarono in loco nemmeno il tempo necessario per un'ultima preghiera, perché il tanfo del cadavere, esacerbato dal modo in cui era stato smosso per stiparlo nella bara, era così ammorbante da rivoltare anche lo stomaco più coriaceo.

Così, a passo svelto e torce spente, tutti quanti, in una frettolosa fila, lasciarono Santa Maria Delle Febbri e uscirono nella notte afosa, umida, ma molto più profumata di Roma.

 

Caterina, anche quella notte, non riusciva a dormire. Aveva cercato conforto nella compagnia di Fortunati, ma anche in quel caso, dopo poco, aveva sentito la sua consueta inquietudine farsi avanti e, per non disturbare il piovano, aveva lasciato il letto e si era portata in una delle salette più tranquille della villa.

Illuminata da un paio di candele di sego, il cui odore pizzicante la infastidiva un po', contribuendo alla sua insonnia, la donna si era messa a pensare. Le notizie che erano arrivate da Roma erano promettenti, ma finché non fosse stata certa che almeno il papa fosse morto – che lo fosse anche il Valentino le sarebbe sembrata troppa grazia dal cielo – non sarebbe stata tranquilla.

Aveva già mandato qualche lettera, molto vaga e molto cauta, ad alcuni parenti, come il Cardinale Sansoni Riario, e ad alcuni suoi vecchi partigiani a Forlì e Imola, ma non sapeva quando sarebbero stati raggiunti dalle sue missive, né se i fatti avrebbero assecondato i suoi desideri.

Era stata tentata, prima di ritirarsi in quella sala a meditare, di passare dalle cucine e prendere una caraffa di quel trebbiano che Galeazzo, pian piano, le stava facendo apprezzare, benché fosse un vino molto più leggero di quelli che di norma gradiva, ma fin da quella mattina aveva fatto – con sé stessa, più che con Dio – uno strano voto per cui non avrebbe toccato vino o birra o liquore finché non avesse avuto la notizia che voleva.

Confidava fermamente nel fatto che il suo fioretto venisse ripagato in fretta e non, magari, a distanza di qualche anno. In quel caso, diceva tra sé e sé per rabbonirsi, avrebbe trovato un modo per ritrattare con se stessa i termini del voto.

Giusto per provare a non pensare alle sorti del pontefice, né a quello che sarebbe seguito alla sua morte o – peggio – alla sua guarigione, la donna si mise a ragionare sulle ultime formalità riguardanti l'eredità di suo marito Giovanni.

Semiramide Appiani si era dimostrata una cognata comprensiva, ma ferma. Com'era giusto, non voleva cedere più del dovuto, anche per via delle pressioni che le faceva suo figlio Pierfrancesco, in costante necessità di denaro e rassicurazioni, ma non teneva conto degli ammanchi enormi in termini monetari che, secondo la Tigre, avrebbe dovuto compensare in altro modo. Fortunati la stava convincendo poco per volta non insistere troppo e ad appianare il più possibile le divergenze, perché anche se adesso Semiramide era una povera vedova, suo figlio Pierfrancesco presto, anzi, prestissimo, sarebbe stato un uomo e non era bene inimicarselo, a costo di perdere qualcosa, visti i trascorsi con il padre.

La Leonessa stava valutando tra sé come fosse difficile digerire quell'ulteriore umiliazione, e come avrebbe reagito diversamente, solo qualche anno addietro, quando sentì delle voci arrivare dalla direzione dell'ingresso della villa. Sentì il portone richiudersi con un tonfo e poi la voce familiare di Scipione che chiedeva di lei.

Senza pensarci un secondo, lasciò la sua postazione e corse fuori dalla sala, palesandosi in anticipo con un semplice: “Arrivo!”

Il Riario, visibilmente provato dal viaggio, breve, ma molto intenso, che da Firenze l'aveva portato lì, la guardò in un modo strano e poi schiuse le labbra, finendo per richiuderle subito, quasi non trovasse le parole giuste.

“Dimmi, è successo qualcosa di grave?” chiese Caterina, fissandolo, incurante del fatto che fossero accorsi anche Creobola, un paio di servi e frate Lauro.

Scipione, che invece era più che cosciente di tutti quegli occhi assonnati puntati su di loro, rispose, sibillino: “Qualcosa di importante.”

“Vieni con me.” lo incitò allora la donna, capendo il motivo della sua reticenza, e facendogli cenno di seguirla.

Tornando, in pratica, sui suoi passi, lo condusse nella saletta in cui ancora erano accese le candele e lo fronteggiò subito, chiedendo se le notizie che portava, quali che fossero, arrivassero da Roma o da Firenze.

“Roma.” rispose il giovane che, evidentemente, malgrado la pericolosa corsa che aveva compiuto per arrivare in fretta alla villa, ora si trovava quasi in difficoltà a veicolare in prima persona una notizia dalla portata tanto enorme.

Era stato lui, qualche tempo addietro, a portarle la notizia della morte di Lorenzo il Popolano e, ora che si apprestava a rivelare un altro grande stravolgimento nelle loro vite, si sentiva mancare la terra sotto ai piedi.

“Parla, santo cielo!” sbottò allora Caterina, trattenendo a stento un paio di bestemmie.

“Il papa è morto.” fece allora Scipione, molto seccamente, quasi stesse parlando di una cosa banale come il tempo.

La Tigre parve congelarsi. Lentamente si sedette e si passò una mano sulle labbra, lo sguardo perso in un punto lontano davanti a sé.

La donna, nel momento stesso in cui aveva sentito le parole del suo figlioccio, aveva sentito una specie di laccio, all'altezza dello stomaco allentarsi, ma non sciogliersi del tutto.

“Ne siamo sicuri?” chiese: “Intendo sicuri davvero?”

Il Riario chinò il capo una sola volta, in segno di solenne assenso, e assicurò: “Ne siamo sicuri.”

“Chiudi la porta.” ordinò la Tigre, indicando l'uscio, che, in effetti, era rimasto in parte aperto: “Ci sono molte cose di cui dobbiamo discutere.”

Scipione non era certo di essere davvero la persona più indicata per quel genere di discorsi, ma siccome la Sforza sembrava decisa a riversare su di lui tutti i suoi pensieri, si offrì volentieri come ascoltatore, premurandosi, di quando in quando, di esprimere anche il suo parare su alcune questioni e dare qualche suggerimento.

In particolare, parlarono di come adesso si sarebbero mossi i prelati più importanti di Roma, e di come avrebbero trattato il Valentino. C'erano molti punti in sospeso, a riguardo. Innanzitutto, Cesare Borja stava meglio? Stava peggio? Sarebbe morto o si sarebbe salvato?

In secondo luogo, il suo tirapiedi, Miguel da Corella, stava prendendo le armi? Stava organizzando qualcosa per far sì che venisse eletto un nuovo papa favorevole ai Borja?

Da lì il discorso era fluentemente passato a elencare chi si potesse ritenere un Cardinale elettore in grado di propugnare, invece, un papa che fosse favorevole alla causa della Leonessa di Romagna.

“Raffaele è sicuramente uno di questi.” aveva detto Scipione che, pur non avendo mai beneficiato molto in prima persona della generosità del cugino, sapeva quanto il Sansoni Riario ci tenesse a tener alto il nome della famiglia, e, soprattutto, a difendere i figli di Caterina.

“Lui come elettore e corruttore ci servirà.” annuì la donna: “Purtroppo è impossibile, ma sarebbe bellissimo se eleggessero lui papa...”

“Magari lui no, ma Giuliano ha la stoffa per prendere il posto del Borja...” soppesò il Riario, alludendo a un altro cugino, il Della Rovere, che tanto aveva brigato già undici anni prima, al Conclave che aveva eletto Alessandro VI.

La Tigre parve ragionarci a lungo e poi sospirò: “Sarebbe una buona cosa anche quella, ma dubito che vincerà qualcuno di così palesemente ostile al vecchio papa...”

“Allora facciamo sì che siano i nostri alleati e i nostri parenti a individuare un papa che possa andare bene, anche se non direttamente collegato a noi.” fece Scipione: “E poi voteranno anche Francesco Soderini, che è amico dei vostri amici Salviati, e quel Giovanni Medici che è figlio del Magnifico... E poi immagino che ci sarà anche vostro zio, Ascanio Maria Sforza... Di uomini a nostro favore, ne abbiamo, in Conclave.”

“Sempre che quel codardo del figlio di Rodrigo Borja non riesca a escogitare qualche trucco per tenerli tutti fuori dal Vaticano...” ringhiò la Sforza, immaginandosi già il volto del Valentino trasfigurato da una risata diabolica.

“Impossibile... Nemmeno lui può farlo... Specie ora che la Francia sta per voltargli le spalle una volta per tutte... Non ne avrebbe mai il coraggio.” decretò il Riario.

“Quando io ho bloccato il Conclave prendendo Castel Sant'Angelo, nessuno pensava che avessi il coraggio di farlo, e invece l'ho fatto.” ribatté Caterina.

Pur non volendola ferire, ma volendo portare avanti la sua tesi, il giovane le fece notare: “Sì, l'avete fatto, ma alla fine vi siete dovuta arrendere...”

La milanese fu a un soffio dal ricordare a colui che aveva dinnanzi che se si era arresa la colpa era solo di suo padre, Girolamo Riario, ma non aveva alcuna intenzione di arrivare a un alterco con lui.

Così riportò il discorso sul filo delle loro possibili alleanze, e quando tornarono a parlare di Giuliano Della Rovere – con il quale la Tigre disse che avrebbe preso subito contatto – Scipione fece una considerazione casuale, ma che ebbe il potere di irrigidire la Sforza: “Giuliano ha anche una nipote da far sposare... La sua nipote preferita, dicono... Maria Giovanna, mi pare che si chiami... L'ha resa vedova il Valentino, facendo ammazzare suo marito, Venanzio da Varano...”

“Se Giuliano ha una nipote vedova da far risposare, non sono certo affari miei.” sentenziò secca Caterina.

“Certo, certo...” convenne l'uomo, evitando di ricordarle che Galeazzo, ormai, era in età per prendere moglie e che, tutto sommato, forse quell'unione avrebbe potuto giovare a tutti.

La Leonessa, anche se non l'avrebbe mai ammesso, aveva inconsciamente fatto lo stesso collegamento mentale, tanto che, quando parlò, il soggetto del suo pensiero era proprio il suo quintogenito: “Devo andare a dire a Galeazzo di scrivere subito a suo fratello Cesare... Che si porti a Bologna. Ottaviano è inutile, là da solo... Con Cesare farò andare lì anche Galeazzo stesso. Se avremo anche i Bentivoglio, dalla nostra parte, il Conclave non potrà andar male...”

“Sicura che Cesare ubbidirà?” domandò, scettico, Scipione.

“Certo che lo farà... Questa è la sua famiglia e, anche se gli fa schifo, è suo dovere fare quello che deve fare.” tagliò corto lei: “Onora il padre e la madre, lo dicono i comandamenti, no? Vuole essere una specie di martire santo, e allora lo sia anche in questo...”

Prima che la donna lasciasse la sala per andare dal figlio a dare disposizioni, il Riario la fermò un istante e le chiese: “Non festeggiate almeno un po'? Credevo avreste almeno bevuto un calice con me, per la gioia della morte del papa e di quella prossima del figlio...”

“Finché il figlio di Rodrigo non sarà ufficialmente morto, per lui non festeggerò.” ribatté, dura, per poi fare un breve sorriso: “Ma per il papa sì, hai ragione... Intanto fai portare qualcosa di buono dalle cucine, io vado un momento da Galeazzo e torno...”

“Anche Galeazzo potrebbe bere qualcosa con noi... So che è tardi, ma...” propose Scipione.

“Va bene...” annuì la Leonessa e poi, accigliandosi, aggiunse: “Magari passerò anche dalla mia camera e chiederò a Fortunati di unirsi a noi...” e detto ciò uscì.

Un po' perplesso da quell'ultimo inciso – cosa mai poteva farci il piovano nella stanza della Tigre a quell'ora di notte, non voleva nemmeno chiederselo – il Riario uscì dalla sala a sua volta e andò verso le cucine.

“Il vino più rosso, più forte e più buono che c'è nella dispensa!” ordinò all'unica serva che riuscì a trovare: “Tutto nella sala delle letture: c'è da festeggiare, stanotte. Non capita tutti i giorni che muoia un diavolo...”

 

   
 
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