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Autore: Evali    06/08/2023    0 recensioni
Vi, Re, Fe sono tre gemelli senza nome. Sono molto diversi gli uni dagli altri, il loro passato marchiato da indicibili traumi e dall'abbandono. Eppure, il futuro si prospetta radioso di fronte a loro, un destino che li lega al mare e ad una luogo a cui non appartengono.
In un mondo in cui magia, alchimia e leggende oscure plasmano villaggi e interi continenti, due ragazze e un ragazzo, gemelli di sangue, lotteranno per riscoprire le loro leggendarie origini e il dolore che ha da sempre caratterizzato la loro terra natìa.
* Sequel di "Figli di padri rinnegati" ma può essere letta anche separatamente *
Genere: Avventura, Drammatico, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Soldati, nobili e pirati


- Fissate le tende, ci accamperemo qui! – esclamò Ruben.
- Agli ordini!
- Ruben! – lo richiamò uno dei suoi compagni di viaggio ed ex compagno d’arme.
Il biondo si voltò verso di lui, in attesa di sentirsi porgere qualsiasi lamentela con cui lo stava tartassando da almeno due settimane.
- Non fare già quella faccia – lo supplicò l’altro, andandogli incontro. – Non voglio discutere di nuovo con te, sei sfinente.
- Parla, Valentin.
- Questa è una zona desertica. Non so se non te ne sei accorto – sottolineò sarcasticamente. – Non è il massimo dell’agio accamparci qui.
- Non siamo mai stati abituati a vivere al massimo dell’agio, Valentin. Non possiamo perdere tempo a cercare un’altra locanda.
- A proposito di locanda: chi era la donna che ti ha chiamato disperata, quasi come se ti conoscesse, in quella locanda ad Est settimane fa? E non mi riferisco ad una delle cinque puttane che hanno provato ad attirare la tua attenzione.
- Con una di quelle hai fatto faville per più di un’ora, mi pare – cambiò discorso Ruben.
- Avresti potuto farlo anche tu. Perché non vuoi divertirti mai, eh?
- Non si tratta di non voler divertirmi, Valentin, si tratta di decidere io quando farlo e quando non farlo.
- Non hai risposto alla mia domanda, comunque. Chi era la donna nera che ti ha chiamato e che ci stava per inseguire?
- Non ne ho la minima idea – rispose sinceramente Ruben, guardandosi intorno, approfittando per scrutare il territorio: erano approdati in quella terra dal suolo desertico da circa una settimana. Avevano sondato le zone circostanti, avevano iniziato le loro ricerche anche lì, cercando di non disturbare troppo le popolazioni locali con il loro passaggio, come al solito.
Si trovavano nel profondo sud dell’Asia centrale.
Avevano già soggiornato in zone desertiche, ma quel caldo torrido non l’avevano mai sperimentato prima. Era a dir poco soffocante.
Sapevano che in quelle terre, poco lontano dal deserto, vi era una florida popolazione mercantile. Una popolazione che adorava e idolatrava un “dio umano”.
Ruben non sapeva altro, ma sapeva per certo che quella fosse la volta buona: in quelle terre avrebbe trovato informazioni utili sulla scomparsa di suo padre.
Improvvisamente, una sagoma, una sorta di ombra nera dalle fattezze terribili gli apparve davanti agli occhi in lontananza.
No, non può essere
Chiuse le palpebre una volta e quando le riaprì la sagoma era scomparsa.
- Conosceva il tuo nome? – persistette Valentin, riportandolo alla realtà.
Il biondo si voltò verso di lui, tornando a prestargli attenzione.
Valentin era un giovane uomo di trentadue anni, alto e ben piazzato, con la struttura fisica del soldato “imbattibile”, come amava ripetere il loro vecchio generale. Teneva sempre i capelli scuri rasati molto corti, un leggero strato di barba scura copriva la sua mascella importante, ma i suoi occhi erano grandi e sembravano quasi trasmettere una strana dolcezza, a volte. Le sue iridi gialle come quelle dei gatti attiravano l’interesse di molte donne, almeno quanto il suo grande corpo statuario.
Nonostante avesse un corpo di tutto rispetto, Ruben spesso si sentiva piccolo e mingherlino in confronto a lui. Eppure, era lui quello ad avere affrontato quasi quindici anni di guerre e battaglie sanguinarie, a fini pressocché inutili.
Ruben si era arruolato a undici anni, quando era solo un bambino, e non aveva neanche avuto il tempo di abituarsi a quello stile di vita, che lui e le altre reclute erano state catapultate nel cuore dell’Asia orientale, nella parte più arcaica, selvaggia e pericolosa.
Era sopravvissuto a tutto, ed ora era lì, vivo e vegeto, ma con una consapevolezza negli occhi che neanche un uomo con il triplo della sua età avrebbe avuto.
Valentin, invece, si era arruolato tardi, all’età di vent’anni, quando Ruben ne aveva quindici.
Se lo era ritrovato come compagno di tenda e, benché litigassero sempre, avevano fatto subito amicizia.
Ed ora, Valentin era uno dei pochi fidati che lo seguiva ovunque, fino in capo al mondo, in quella impresa assurda e forse destinata a fallire: la ricerca di suo padre, nonché uno degli alchimisti più famosi dell’Occidente. Tutti lo credevano morto, motivo per cui la fama acquisita dal suo nome di famiglia sembrava essere morta con lui.
Il fatto che Ruben, il suo unico figlio, non avesse seguito le sue orme, non aveva poi aiutato a portare alto il nome dei “von Hohenheim”.
A Ruben non era mai interessata l’alchimia. A lui interessava più inseguire la morte, senza alcuno scopo logico.
- Non so se conoscesse il mio nome – rispose sinceramente. – In ogni caso, perché le stai attribuendo così tanta importanza?
I due vennero interrotti da un altro dei loro compagni: - Ruben! Valentin! Venite qui, presto! – esclamò il ragazzo in lontananza, facendo loro segno con il braccio.
I due si mossero all’unisono e corsero da lui, scoprendo che si trovava dentro un’umile casa fatta di argilla e paglia, come lo erano la maggior parte delle abitazioni di quella zona.
Piombarono dentro, venendo invasi da un tanfo di un odore non propriamente riconoscibile o per lo meno non accostabile a nulla di umano.
- Cos’è questa puzza?? – domandò contrariato Valentin, sguainando già la spada.
Ruben vi poggiò sopra la mano, facendogli intendere di rimanere calmo. – Non ce ne è bisogno. Guarda: sono tutti civili, non c’è alcun pericolo qui.
Valentin lo scrutò, indeciso se rinfoderare l’arma o no.
- In ogni caso… la magia non si sconfigge con le armi – aggiunse Ruben avanzando dentro la casa.
Davanti a loro c’era una famiglia di civili impauriti, con il classico abbigliamento tipico del luogo: lunghe tuniche e turbanti in testa. La loro pelle, come ci si aspettava, era di uno scuro olivastro, i loro occhi più scuri e grandi che mai.
La donna della casa strinse forte a sé i suoi figli e supplicò qualcosa nella propria lingua, incapace di parlarne e capirne altre.
- Non abbiamo un interprete in questo posto dimenticato da Dio – commentò frustrato Valentin.
- Ha chiesto di non fare del male ai suoi figli. E che farà tutto ciò che vorrete, purché non facciate del male ai suoi bambini – una voce sconosciuta, arrochita dall’età, fece il suo ingresso nella scena.
Si trattava di un vecchio, con turbante in testa, occhi vispi e la pelle stranamente chiara.
- Era lui che volevo mostrarvi – commentò Arne, il compagno d’arme che li aveva chiamati. – Dice di poterci aiutare.
Ruben lo squadrò, dubbioso e diffidente.
In tanti, durante i suoi anni di infiniti viaggi per il mondo, si erano spacciati per benefattori, rivelandosi poi velenose vipere.
Nessuno faceva nulla in cambio di nulla. E spesso il prezzo che chiedevano era infinitamente maggiore del servizio che offrivano.
Il vecchio vispo aveva gli occhi puntati solo su Ruben. A ciò, quest’ultimo si fece avanti, muovendo qualche passo verso l’uomo, continuando a squadrarlo con durezza.
A ciò, il vecchio deglutì e alzò le mani al cielo, come per dimostrargli maggiormente le sue buone intenzioni. - Volevo incontrarvi, Ruben von Hohenheim. Da più tempo di quanto pensate – disse improvvisamente, sorprendendo tutti.
- Come sapete il mio nome? – domandò il biondo, non tradendo alcuna reazione particolare.
- Il vostro cognome è piuttosto famoso tra chi pratica la magia – rispose il vecchio, dando conferma alle loro supposizioni.
- Conoscevate mio padre…? – domandò Ruben, trattenendo internamente il respiro senza darlo a vedere.
- No, purtroppo. Ma, forse, conosco un modo per trovarlo – disse ghignando.
Poteva essere un imbroglione o un mascalzone, poteva essere qualsiasi cosa.
Percepiva già l’esigenza di Valentin di intervenire e di farglielo notare in ogni modo possibile.
Tre due uno…
- Potrebbe star mentendo! – esclamò Valentin da dietro, puntualissimo come un orologio.
- L’ho trovato che praticava delle arti magiche per rintracciarci… - spiegò Arne.
- Perché volevate rintracciarci? – domandò Ruben sfoderando la spada con abilità strabiliante, come fosse una cosa normalissima, puntandola alla gola del vecchio.
A ciò, gli occhi dell’uomo virarono verso il petto del ragazzo, verso l’opale appeso al cordoncino.
- Quell’opale… dove l’avete preso? L’ho notato solo ora – la sua voce era più profonda, ora.
- Non vi riguarda. Rispondete alla mia domanda se non volete ritrovarvi sgozzato prima di aver esalato un’altra parola.
- Voglio trovare vostro padre quanto voi. Credete nelle arti magiche, Ruben? – rispose il vecchio, prendendosi tutto il suo tempo per studiare e osservare il giovane uomo dinnanzi a sé.
Ruben si sentì messo a nudo per la prima volta dopo tanto tempo, e non comprese per quale motivo quel vecchio lo stesse guardando in tal modo.
Sicuramente c’era qualcosa sotto.
Qualcosa che gli sfuggiva.
Ma non lo avrebbe mai scoperto se lo avesse ucciso, né tanto meno se non avesse accettato il suo aiuto.
- Credo nell’alchimia. E nella magia arcaica – gli rispose, dopo un lungo silenzio.
- Bene. Vostro padre praticava l’alchimia, mentre io sono padrone di arti magiche un po’ diverse, ma comunque non così distanti.
So che voi lo state cercando e che siete un ottimo segugio, oltre che un ottimo combattente.
- Come diavolo fa a sapere tutte queste cose su di te?? – domandò contrariato Valentin, avvicinandosi.
- Il vostro amico tiene molto a voi – commentò divertito il vecchio, portando gli occhi su Valentin alle spalle di Ruben, ma allontanando subito l’attenzione da lui, poco interessato.
Riportò subito lo sguardo sul biondo.
- Allora? Unirete le forze con me per trovarlo? Lo cercate da anni e non lo avete ancora trovato.
Tutti credono sia morto e quasi nessuno è disposto a dare credito alla vostra speranza.
Io potrei esservi molto utile a tal proposito.
- Se lo state cercando da anni anche voi e vi proclamate così abile, per quale motivo non lo avete trovato nemmeno voi? – replicò Ruben, rinforzando la presa sull’elsa della spada, la quale premette maggiormente sulla gola rugosa dell’uomo.
- Mi serviva il vostro aiuto così come a voi serve il mio.
- È un ciarlatano, Ru! – persistette Valentin, accanito nei confronti del vecchio.
Quell’uomo non gli ispirava un briciolo di fiducia, anzi, gli faceva ribollire le viscere di rabbia.
- Parlate egregiamente la lingua del mio continente natìo e avete la pelle chiara, come la nostra.
Cosa ci fate qui, in Asia?
- Mi piace questo posto – rispose semplicemente il vecchio, alzando le spalle infantilmente, ma non staccando mai gli occhi dal giovane di fronte a sé. – Vi immaginavo diverso, comunque. I von Hohenheim non hanno mai brillato particolarmente in bellezza… eppure, voi siete molto gradevole alla vista.
- Quest’uomo è folle – convenne anche Arne, il quale si avvicinò a Ruben, accostandosi al suo orecchio. – Mi spiace che sia stato un buco nell’acqua. Credevo ci potesse essere utile davvero – gli sussurrò.
Udendo le parole del ragazzo, il vecchio si giocò un’ultima carta: - Non vi sarei utile solo nel rintracciamento di vostro padre, ma vi farei anche da interprete. Non conoscete la complessa lingua di queste terre, mentre io sì. Vi garantisco che avrete bisogno di un interprete per proseguire su questa via.
Ruben gli donò un ultimo sguardo, poi si rimise in posizione eretta e rinfoderò la spada. – Prendiamolo con noi – decise, per poi avvicinarsi tanto al vecchio da far sfiorare i loro nasi. – Fate qualsiasi cosa che possa ledere lontanamente alla sicurezza e alla salute dei miei compagni e vi ritroverete senza testa in un battito di ciglia. Intesi?
 
 
I preparativi per la festa in occasione del compimento dei quattordici anni della contessina erano in atto da mesi ormai.
- Han?? Han, dove sei?? – la chiamò preoccupata la contessa, percorrendo le scale a chiocciola dell’imponente palazzo.
La giovane dama di compagnia, in punta di piedi e con la sottana tirata su, camminava silenziosamente sul pavimento marmoreo, raggiungendo la contessina nascosta dietro la pesante e altissima tenda.
- Lou! – la richiamò a bassa voce la contessina.
- Contessina! Sto arrivando, ma ho paura che vostra madre mi senta!
- Fa’ piano e non ti sentirà! – esclamò aprendo la tenda, afferrandole la mano e trascinandola dentro con sé con veemenza.
- Ah! Mi avete pestato un piede, contessina!
- Nel mondo ci sono cose peggiori di un piede pestato, Marie-Louise!
La contessina Lucrezia Hannover conosceva la sua dama di compagnia Marie-Louise sin da quando era in fasce. Quando la contessa Sybil aveva dato alla luce sua figlia, la sua serva più fidata era gravida di Marie-Louise.
Erano cresciute insieme, ed ora stavano sbocciando insieme, nelle gioie e nei deliri della campana di vetro in cui erano rinchiuse.
Ma fuori dal palazzo, nei mari e nei continenti lontani, era solo la bellezza della contessina ad essere ben nota e chiacchierata, non quella di Marie-Louise. Quest’ultima sapeva di essere carina, di avere delle fattezze graziose, ma non si illudeva certo di poter avvicinarsi all’accecante splendore della sua amica e padroncina.
E anche Hannover stessa era consapevole della propria bellezza. Eppure, ogniqualvolta ne aveva l’occasione, la contessina lodava l’aspetto della sua dama, per non farla sentire in nessun modo inferiore a lei.
Ed ora che entrambe si avvicinavano alla soglia dei quattordici anni, e che gli sguardi degli uomini a corte iniziavano a posarsi su di loro, la contessina Hannover minimizzava ogni attenzione maschile dedicatale, affermando invece che quegli sguardi fossero indirizzati alla sua dama di compagnia.
Ma Marie-Louise sapeva fosse una bugia, per farla felice.
Questi erano i motivi per cui, per quanto la contessina fosse viziata e possedesse un carattere alquanto difficile, teneva a lei più della sua stessa vita.
Marie-Louise era bassa, aveva il viso tondeggiante e una spruzzata di deliziose lentiggini aranciate su tutto il volto; i suoi occhi erano tondi e fianciulleschi, di un colore simile alla ruggine; la sua pelle lattea e i suoi capelli erano un voluminoso cespuglio di ricci color carota.
La contessina Hannover, invece, era più alta. Il suo viso aveva una forma più adulta, per quanto mantenesse l’innocenza di una quattordicenne; il suo seno era già bello sodo, benché il suo corpo fosse magro e longilineo come quello di una ninfa; la sua pelle lievemente ambrata, il naso graziosissimo e tendente all’insù; i suoi capelli erano una cascata di lucenti e folti fili castani tendenti al mogano; infine, i suoi occhi avevano un taglio più allungato e seducente, con delle iridi color verde giada che illuminavano ogni luogo in cui andava.
Si pestarono i piedi a vicenda, continuando a stare sulle punte, nonostante i piedi nudi. A forza di indossare scarpe scomode e col tacco in ogni momento della giornata, i loro piedi restavano più facilmente sulle punte, piuttosto che con la pianta a terra.
- Vuoi stare ferma??
- Scusate! Se ne è andata? Perché vi sta cercando, stavolta?
- Come perché? Per farmi fare il dodicesimo ritratto da esporre alla festa, ovviamente. O per farmi cucire addosso dalle sarte l’ennesimo vestito pomposo.
- Voi amate i bei vestiti.
- Sì, ma non amo che me li cuciano addosso, Lou.
La contessina restò affacciata ancora un po’, accertandosi che né sua madre, né nessun servo fossero presenti nel salone.
Suo padre, invece, il famoso conte Agloveil, non era mai nelle vicinanze.
Appurato che non ci fosse nessuno nei dintorni, le due uscirono allo scoperto.
Marie-Louise guardò fuori dalla finestra e si accorse che il sole stesse tramontando. – Contessina Han?
- Sì, che c’è?
- Si sta avvicinando la sera, è quasi il momento di sottoporvi al vostro solito rituale.
Hannover si voltò a sua volta per guardare il cielo tramontare. – Hai ragione.
- Avete paura, contessina Han?
- Del rituale? Mio padre me lo fa fare tutte le sere da due anni, Marie-Louise, oramai ci sono abituata.
- No, intendevo… - la ragazzina si bloccò. – Si mormora che vostro padre abbia deciso di darvi in sposa ad un regnante nord-orientale, che pagherà una grandissima somma per avervi in moglie. Non … avete paura?
- Degli uomini, Marie-Louise? Per quale motivo dovrei temere gli uomini? – rispose la reale con una certa spavalderia nella voce. Una blanda maschera di disprezzo che nascondeva una naturale e folle paura. La giovane dama di compagnia seppe riconoscerla subito.
- Se le voci fossero vere… vorrei poter venire con voi.
- Anche tu prima o poi sarai data in moglie ad un uomo, Marie-Louise. Non potremo rimanere insieme per sempre – c’era un velo di triste rassegnazione nel suo tono vizioso. – Ora andiamo nelle segrete.
- Ancora?? Lo sapete che è proibito! Vostro padre vi ucciderebbe se lo scoprisse! Oh, insomma, perché volete sempre andare a far visita al prigioniero che vive nelle segrete??
- Perché lui dice sempre cose interessanti, al contrario tuo, Marie-Louise! Ed ora vieni, sbrigati!
- Uff! – sbuffò la piccola dama, continuando a reggersi la sottana in alto e correndo furtivamente, per tenere il passo della sua padroncina.
“L’uomo delle segrete” aveva sempre tante cose da dire e la contessina le ascoltava tutte come fossero oro colato. Il fatto che fosse viziata non presupponeva che non sapesse ascoltare. Il conte Agloveil non voleva che nessuno parlasse con il suo prigioniero, eppure non era mai riuscito a scoprire che la sua figliastra sgattaiolasse quasi ogni giorno in quel luogo, per intrattenersi in lunghe conversazioni con il prigioniero.
Mentre pensava a tutto ciò e correva, Marie-Louise avvertì un improvviso dolore al basso ventre.
Era un dolore strano, mai percepito prima, e ripensò mentalmente a cosa avesse mangiato a pranzo, a quale pietanza potesse averle fatto fare indigestione.
Eppure, non sembrava indigestione. Il suo andamento rallentò, mentre il dolore si trasformava in acute fitte, tanto forti da toglierle quasi il respiro.
- Ah!
- Che ti succede, Lou…? – le domandò la contessina, accorgendosi del suo malessere e tornando indietro per accertarsi delle sue condizioni.
- Mi fa male la pancia!
- Questo succede perché ti ingozzi sempre di more e lamponi sciroppati!
- No! Non è la pancia, è… è più in basso! – si indicò più in basso e la contessina impietrì.
- Per caso qualcuno ha avuto l’indecenza di abusare di te e non mi hai detto niente???
- No!!
- E allora cos’è??
- È in mezzo! In mezzo tra la pancia e le mie zone intime…
- Ma non c’è niente lì in mezzo!
- Vi dico che è così! Mi fa male lì!
Marie-Louise non fece in tempo a emettere un altro gridolino di dolore che, improvvisamente, percepì le cosce bagnarsi di un liquido viscoso.
Gli occhi della piccola dama si spalancarono mentre stritolava le mani della sua padroncina. – Han…
- Che c’è ora? Il dolore è sparito?
- No. Guarda in basso, sotto le mie gambe. Io non ne ho il coraggio.
A ciò, la contessina fece come le era stato detto, abbassò gli occhi di giada verso il basso e li sgranò talmente tanto che Marie-Louise temette le sarebbero usciti fuori dalle orbite. Poi urlò. – Aaaaaaaaaaah!
- Che c’è?!?
- Sangue!
- Sangue??
- Stai sanguinando, Marie-Louise!!
- Sto sanguinando…? Cosa??? – Marie-Louise abbassò lo sguardo a sua volta e non appena vide una pozza di sangue sottostare alle sue gambe, urlò a squarciagola a sua volta. – Aaaaaaaaaaaah!
- Aaaaaaaah!
Urlarono entrambe, stringendosi le mani convulsamente, non sapendo che fare.
- Che mi succede???? – urlò Marie-Louise in lacrime.
- Io lo so che ti succede!!
- Davvero?? Che cosa?! Parlate!
- Mia madre me l’ha spiegato un giorno…! Succede quando-
- Quando cosa?!?
- Sta’ zitta e lasciami finire, Marie-Louise! È una cosa che succede a tutte le fanciulle che diventano signorine!!
- Io non ho mai sentito parlare di una cosa simile!
- Perché lo nascondono tutte! Quando iniziamo a sanguinare vuol dire che… - la contessina fece mente locale, nel panico. Quando sua madre le aveva blandamente spiegato “quella cosa”, lei non era neanche troppo concentrata ad ascoltarla. - … che siamo pronte a fare figli! O una cosa del genere!
- Ma a voi non è ancora successo! – Marie-Louise non sembrava affatto rassicurata.
- Beh, perché non succede a tutte alla stessa età! A me potrebbe capitare tra un anno o due!
Spero il più tardi possibile  pensò tra sé.
- E quindi ora che faccio?? Sanguinerò fino alla fine dei miei giorni??
- Oh Dio… questo non lo so!
- Aaaaaah
- Marie-Louise, sta’ calma! Rilassati!
- Non siete voi che state sanguinando!! Se vostro padre mi vedesse mi farebbe punire per aver sporcato tutto il pavimento!!
- No! Questo non lo permetterò! – esclamò la contessina, riacquistando la giusta lucidità che sarebbe servita per entrambe. – Vieni con me!! – le afferrò la mano e iniziò a correre portandosela dietro, lasciando scie di copioso sangue ovunque nel castello.
Corsero anche sulla scala a chiocciola, evitando miracolosamente la presenza di qualsiasi servo.
Ma, sfortunatamente, non riuscirono ad evitare anche di scontrarsi con la contessa Domitilla, una delle numerose sorelle del conte Agloveil.
- È colpa mia!! – mentì spudoratamente Hannover, per evitare che la sua amica e dama venisse punita. – Ho sporcato io, è tutta colpa mia, mia, solo mia!! Il sangue è mio!!
 
Era trascorsa un’ora dallo spiacevole indicente con Marie-Louise, e Hannover si trovava nella sua lussuosa camera, nella stanza più alta del castello, coccolata e pettinata abilmente dalla sua mamma.
Quello in cui si trovavano veniva chiamato il “Continente grigio” perché quasi ogni costruzione che lo componeva era fatta di metallo.
Lo stesso castello in cui viveva e aveva sempre vissuto la contessina era composto del più pregiato metallo esistente in circolazione.
Acciaio, ferro, persino piombo.
Era una volontà del conte Agloveil stesso, quella che la maggior parte delle abitazioni fossero erette in metallo. Egli andava pazzo per l’acciaio soprattutto. Questo era il motivo principale per cui il paesaggio del continente grigio era così uniforme e cupo, anche visto a distanza.
Il castello del conte era il più alto e il più fortificato di tutti.
Mai nessuno sarebbe riuscito a penetrarvi all’interno e a superare tutto quel metallo.
Così come nessuno sarebbe riuscito ad uscire.
La contessa Sybil pettinava i lunghissimi e lucenti capelli di sua figlia con ardore, ammirandoli con il sorriso a incresparle le belle labbra. – Ho sempre amato i tuoi capelli… - sussurrò.
- Madre? – le domandò Hannover guardandola dallo specchio dinnanzi a sé.
- Sì, cara?
- Succederà qualcosa a Marie-Louise? Per quello che è accaduto oggi pomeriggio? – le domandò incerta, cercando di nascondere la preoccupazione.
Sybil sorrise dolcemente in risposta. – No, tesoro, non le accadrà nulla. Ora sua mamma si sta prendendo cura di lei esattamente come io sto facendo con te. Questo è un giorno speciale per Marie-Louise, sai? Il giorno in cui si inizia a sanguinare per la prima volta è molto speciale per una donna. Anche mia madre lo disse a me.
La contessa Sybil non parlava mai della sua famiglia d’origine. E ogni volta Hannover aveva timore di chiederle qualcosa in più sui suoi nonni. L’unica cosa che la contessina era riuscita a scoprire, era che sua madre fosse stata rapita dal conte Agloveil, il quale l’aveva costretta a diventare sua moglie. Al tempo, Sybil era già incinta di lei, dunque, il conte non era il suo vero padre. Eppure, era l’unico che avesse e che poteva considerare tale. Inoltre, non ce l’aveva con lui per quello che aveva fatto a sua madre, in quanto neanche sua madre sembrava nutrire rancore nei suoi confronti.
- Hai un bel ricordo di tua madre, mamma? – ebbe il coraggio di domandarle.
Le mani di sua madre smisero di pettinarla. – Le tue domande sono audaci come sempre, bocciolo – la sua voce era calma, ma distante. – Vuoi sapere se l’amavo?
- Sì.
- L’ho amata. L’ho amata fino al momento in cui lei non ha provato ad uccidermi. Allora, l’ho uccisa io.
Hannover impietrì tra le sue mani, continuando a fissarla dallo specchio.
Sybil si avvicinò a sua figlia, affacciandosi con il volto alla sua spalla delicata. Sorrise, dolcemente incerta. - Quello che ti ho detto ti spaventa?
- No – mentì Hannover.
- Bene. Voglio che tu sappia che non succederà mai una cosa simile tra noi due.
Sono contenta di non doverti uccidere.
Malgrado fosse ancora scioccata, Hannover le credette. Credette alle sue parole, perché si fidava di lei e l’amava.
- Voglio che tu sappia… – continuò la donna, prendendole il viso delicato e bellissimo tra le mani e voltandolo verso di sé, per guardarla fissa negli occhi. - … che ti proteggerò sempre, a costo della mia stessa vita. Tu sei la cosa più bella e preziosa che ho. E finché sarai al mio fianco… non permetterò mai che ti accada nulla di male. Tanto è vero che ti chiami Lucrezia Hannover – le garantì, poggiando la fronte sulla sua.
- Mamma?
- Sì, bocciolo?
- Come ci si sente quando si inizia a sanguinare? Che sensazione è? – le domandò incuriosita e anche un po’ impaziente a dir la verità.
La domanda sembrò lasciare Sybil senza parole. – Non ti so descrivere la sensazione. Forse, in qualche modo, ci si sente potenti. Potenti, per avere un potere così grande tra le gambe. Un potere che gli uomini non hanno.
Hannover non comprese quella risposta, ma era certa che l’avrebbe capita quando sarebbe cresciuta.
In quel momento, qualcuno bussò alla porta, interrompendole.
- Entrate – rispose sua madre.
La porta si aprì e rivelò la figura di una delle fedeli sorelle del conte Agloveil, dallo sguardo duro e intransigente. – È l’ora che la contessina Lucrezia si sottoponga al rituale serale.
Giusto. Lo aveva quasi dimenticato.
A ciò, Sybil fece coricare sua figlia nello spaziosissimo letto e le diede un dolce bacio in fronte. – Fate presto – disse laconica, senza neanche degnare di uno sguardo la donna che si stava avvicinando a sua figlia.
A ciò, come di consueto, Hannover, che indossava solo la sua vestaglia da notte, aprì le cosce, rivelando la propria rosea intimità.
La prima volta era stato doloroso, specialmente perché aveva dodici anni la prima volta che vi era stata sottoposta.
Ma ora aveva imparato a sopportare meglio il dolore, e non provava più niente.
Sua zia si sporse verso di lei con il piccolo iniettatore in mano.
Le infilò l’utensile di metallo dentro l’intimità e le iniettò dentro quello strano liquido caldo.
Hannover attese e si fece fare tutto, senza batter ciglio.
Per l’ennesima volta, curiosa, chiese a sua madre per quale motivo dovesse sottoporsi ogni sera a quella strana pratica.
- Non ti serve saperlo, cara – le rispose Sybil, cupa in volto.
Non ti serve saperlo.
 
 
 
Quel vetro colorato e resistentissimo venne toccato e saggiato da un dito scoperto per metà, la mano indossava un guanto di pelle a mezze dita. Il dito continuò a toccare curiosamente quella superficie straordinaria, premendovi sopra. - Questo vetro … è celestiale. Sappiamo in che modo è stato realizzato? - domandò il capitano.
- Dalle informazioni che abbiamo sembra che il re Yuan fosse l’unico a possederlo in questa zona – spiegò un membro della ciurma, srotolando l’immensa cartina piena di puntine sull’enorme tavolo della stanza del capitano.
- Dunque… questo significa che ora siamo noi gli unici possessori – affermò fieramente il braccio destro del capitano.
- Se non ce ne curiamo adeguatamente non lo saremo ancora nel mondo – la mise in guardia il capitano, continuando a saggiare il vetro con le dita. – Potremmo usarlo per costruire materiali ancor più resistenti, per evolverci ancora – aggiunse.
- Vi? – lo richiamò il suo braccio destro, avvicinandosi a lui con un’intimità che solo lei poteva permettersi. – Cosa ne facciamo dei due prigionieri che abbiamo preso dalla ciurma avversaria? Tua sorella è molto arrabbiata perché non li abbiamo uccisi tutti – gli fece presente, guardandolo dal basso.
Il capitano alzò gli occhi al cielo. – Lasciala sbollire, sai com’è fatta. Per quanto riguarda i due, portateli da me, cercherò di spillare loro informazioni – rispose, pragmatico come sempre.
A ciò, gli unici due superstiti della ciurma avversaria, lasciati in vita sotto sua specifica richiesta, gli furono portati dinnanzi, ben incatenati e tenuti fermi da altri due pirati. – Eccoli a voi, capitano! – vennero spinti malamente e costretti ad inginocchiarsi al cospetto del ragazzo.
- Ditemi un po’ … - cominciò il capitano, restando in piedi dinnanzi a loro. – Come avete fatto a superare la sicurezza e i rettili del re Yuan?
I capelli dei due prigionieri vennero strattonati indietro dai due pirati che li tenevano fermi, costretti a guardare in faccia il giovanissimo capitano della nave nemica.
Quel ragazzino occidentale aveva un aspetto totalmente diverso da come lo avevano visto conciato quando si fingeva con eccellente bravura un innocente schiavetto prigioniero nella loro nave.
La casacca cenciosa che indossava era stata sostituita da un completo interamente nero: pantaloni di cuoio squamati, alti stivali, una cintura colma di pistole e daghe di diverse misure, il busto snello e longilineo stretto in un gilet e in una giacca, di un materiale simile a quello dei pantaloni, guanti di pelle con le dita tagliate e, infine, la chioma di capelli d’ebano legata ordinatamente indietro.
Era alto per la sua età, aveva un portamento elegante e per nulla infantile, il suo sguardo trasmetteva forza e astuzia, era fiero, algido, sicuro di sé, intimorente.
Il suo aspetto era a metà tra un pirata e un nobile. Un capitano perfetto, in tutti i sensi, e per giunta molto diverso dai pirati orientali, e non solo per la sua fisicità più occidentale che mai; ma anche per i modi.
I due si domandarono che tipo di addestramento gli avessero dato per renderlo così, in grado di destreggiarsi egregiamente tra le complesse leggi che dominavano i mari asiatici. D’altronde, la sua ciurma sembrava composta interamente da ragazzi asiatici, eccetto che per lui stesso e le sue due sorelle.
Da dove accidenti sbucavano fuori quei tre?
- Dunque, tu saresti il tanto chiacchierato “Capitano dagli occhi di ghiaccio” – commentò uno dei due, osservando i due diamanti chiari quanto la superficie lunare incastonati nei suoi occhi, in grado di catalizzare tutta l’attenzione. – Si dice anche che non hai un nome… e chiunque debba indentificarti ti chiama “Capitano W.” - l’uomo parlava, ma cercava di celare l’affaticamento delle membra e il dolore provocato dalle dita del pirata dietro di sé che gli tirava i capelli indietro, era palese. – Mi aspettavo fossi più vecchio…
- Pss, che originalità – commentò il braccio destro del capitano, annoiata.
- Se avete intenzione di portarla per le lunghe, i miei ragazzi vi taglieranno un dito a testa e vi rinchiuderanno un’altra notte nella cella con i topi. Poi, domani vi riporgerò la stessa domanda, e ad ogni giorno in cui non risponderete, avrete un dito in meno.
- E quando saranno finite le dita?? Ci ucciderai, principino?? – lo schernì l’altro, decisamente più audace e meno furbo.
Il capitano si avvicinò a lui, facendo sbattere i propri stivali sul legno pregiato della propria nave.
- Stammi bene a sentire – cominciò con voce vellutata, accovacciandosi e puntando la canna della sua pistola sotto il mento del prigioniero maleducato. – Ci sono voluti quattro anni di navigazione per mare, in acque selvagge e inesplorate, in balìa di qualsiasi pericolo terreno e marino, per ottenere tutto ciò che ho ora. Ogni mia conquista me la sono sudata, con il sangue e con il sudore: la nave, la mia ciurma, la fiducia dei miei uomini, il copioso bottino di cui disponiamo. Personalmente, non me ne faccio nulla della fama, non mi serve un nomignolo con cui gli altri parlino di me e della mia ciurma. Forse vi sembrerò pretenzioso, considerando l’esiguo tempo in cui sono al mondo rispetto a voi, ma vi posso garantire che non è così. Ora, ve lo ripeto, di nuovo gentilmente: come avete fatto a rubare al re Yuan tutto ciò che aveva senza morire tutti? Perché ho tutta l’intenzione di tornare lì e trattare con quel “povero” sovrano derubato da degli “sporchi pirati”, e di offrirgli qualcosa in cambio di informazioni riguardo gli usi e la composizione di questo vetro speciale.
- Volete rivenderglielo…? – domandò l’altro prigioniero, attirando la sua attenzione.
- Mai.
- Se glielo rivendeste, potresti farci un mucchio di quattrini. Se lo vendeste a qualsiasi acquirente, ve lo pagherebbero tonnellate d’oro.
- Non ho la minima intenzione di rivenderlo. È mio ormai e mio rimarrà – commentò con convinzione il capitano, rinforzando la presa sulla pistola, in un chiaro segno di spazientimento.
- Abbiamo sguinzagliato un puma ben addestrato contro i serpenti… - si decise a parlare il prigioniero, deglutendo rumorosamente.
- Non ho visto nessun puma sulla vostra tremenda nave. Ti stai burlando di me?
- No! Lo giuro! Il puma è morto durante la missione, le guardie del re sono riuscite ad ucciderlo!
- Ma i serpenti sono tutti morti. Giusto?
- Non ne sono totalmente certo… Ad ogni modo, il sovrano non reagirà bene quando scoprirà il tuo intricato piano per far rubare ad altri quello che poi ti sei tenuto tu! Non negozierà mai con te.
Sarai anche arguto, ma non così tanto.
- Al mio piano d’azione ci penso io, tu pensa solo a fornirmi tutte le informazioni di cui ho bisogno e a fare compagnia ai ratti: a cosa è interessato il re Yuan, in quanto a compenso? Cosa potrebbe convincerlo a darmi tutte le informazioni di cui ho bisogno e a non ucciderci tutti?
- Gli piacciono le belle donne…
Il braccio destro del capitano fece roteare gli occhi al cielo, a tal rivelazione.
- Possiede centinaia di concubine e gestisce moltissimi mercati di schiave di qualsiasi età – continuò il prigioniero.
- Poi?
- Le pietre rare e introvabili – commentò l’altro. – Di oro ne ha già abbastanza, non è interessato alla ricchezza. Ma alla bellezza e alla rarità… sì, a quello è molto interessato.
- Vi ringrazio per la vostra loquacità – terminò il capitano rialzandosi in piedi e rinfoderando la pistola. - Ragazzi, rimetteteli in cella e date loro qualcosa da mangiare.
- Agli ordini!
- Reik, dove sono Re e Fe? – domandò il capitano al suo braccio destro.
- Fe è nella sua stanza, mentre Re… non ne ho idea – rispose la ragazza.
A ciò, il ragazzo corse fuori dalla sua stanza e si diresse verso la prua.
Il tempo in cielo non lasciava presagire nulla di buono.
Gli dèi non erano con loro, quel giorno.
Forse, era stata proprio Re, una delle sue due gemelle, a farli adirare.
- Re!! Dove sei?! – la chiamò a gran voce, non trovandola da nessuna parte.
Un sospetto, ben più che sospetto, ce l’aveva eccome. Il ragazzo si affacciò al bordo esterno della prua e guardò il mare intorno a sé, sondando le onde che si stavano alzando sempre più, con i suoi glaciali occhi lunari.
- Regn!!! – la chiamò a squarciagola, ascoltando i tuoni dell’imminente temporale divenire sempre più impetuosi e violenti.
Dopo qualche secondo, fuori dall’acqua sbucò quella che agli occhi dei più sarebbe sembrata una creatura acquatica, un delfino o una sirena: la ragazza nuotava come se l’acqua fosse il suo habitat naturale, percorrendo chilometri e chilometri senza neanche accorgersene.
Sbucò fuori dall’acqua, saltando come un aggraziato delfino, i lunghi capelli rossi intrecciati in una grossa treccia.
- Regn!! Regn, guardami!! – il ragazzo le parlò nella loro lingua natìa, una lingua nord-occidentale che gli altri membri della ciurma non riuscivano a comprendere.
Udendo la voce del fratello, la ragazza voltò subito lo sguardo verso la nave, a diversi metri da lei, ma discretamente vicina. Aguzzò gli occhi grigi e lo individuò sulla prua che si sgolava nel chiamarla.
- Vind!!! – gli rispose lei a distanza, agitando la mano per fargli capire che lo avesse udito.
Il ragazzo, aggrappato saldamente con le mani al bordo della nave, alzò gli occhi al cielo oramai divenuto quasi nero, avvertendo la preoccupazione risucchiarlo come un tornado. – Torna qui, Regn!!! Sta arrivando un nubifragio!! Fa’ presto!!! – le urlò a squarciagola.
A ciò, anche la ragazza finalmente alzò gli occhi al cielo scuro come l’acciaio fuso, paralizzandosi.
 
 
 
 
   
 
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