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Autore: Dorabella27    15/08/2023    15 recensioni
Come mai Oscar non ha mai voluto farsi ritrarre sino alla tarda primavera, anzi, all’estate del 1789?
A parte il ritratto “d’ordinanza” nel bureau da comandante delle Guardie Reali che intravediamo nell’ep. 29 quando Oscar consegna la sua sciabola a Girodelle per l’avvicendamento al comando del reggimento, e un quadro che la raffigura e che intravediamo fuggevolmente nella camera della protagonista nelle prime puntate, non abbiamo tracce di ritratti ufficiali o solenni di Oscar.
Ecco una possibile spiegazione.
Racconto cross-over, in cui riconoscerete l’ispirazione di un grande classico della letteratura (con la speranza di non averlo troppo strapazzato), debitamente retrodatata e modificata per portare i suoi personaggi in Francia ai tempi di Oscar. Come sapete, mi piace cimentarmi sempre con qualche diversa declinazione del racconto; per cui, dopo il giallo, il racconto gotico (o pseudo-tale), il racconto natalizio a lieto fine, il giallo con protagonisti i nostri beneamati da bambini ... ecco qui un po' di mistero, con "Cortesie per l'ospite" (e che ospite!).
Genere: Avventura, Fantasy, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Generale Jarjayes, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes
Note: Cross-over, Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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10 – Castigat ridendo mores - La locandiera
1 - “Sarebbe interessante assistere a una rappresentazione teatrale a Parigi”, buttò là Lord Douglas Sholto, una sera a cena, con il tono al contempo interessato e timido di un ospite che si faccia riguardo a chiedere esplicitamente.
“La famiglia Jarjayes ha da sempre un palco alla Comédie Française”, sorrise Oscar, tamponandosi la bocca con il tovagliolo di fiandra candida, “Se volete, posso informarmi sulle rappresentazioni in cartellone in questa stagione…”
“Oh, Colonnello Jarjayes, sarei così felice!”, sorrise Lord Sholto, e Lord Henry Wotton, che gli sedeva di fronte, non poté, ancora una volta, pur se dopo tanti anni e dopo una così profonda conoscenza del suo pupillo, non restare affascinato da quell’espressione così maliardamente ingenua, così artefatta, con una simulazione così perfetta della sincerità. “La naturalezza non è che una posa, e la più difficile, perché richiede una continua dissimulazione”: così gli aveva detto Dorian, una sera, in una stanza in penombra del loro club, mentre contava con gusto felice le vincite a whist
Scosse la testa, Lord Wotton, riemergendo dai ricordi. “La Vostra Signoria è forse stata turbata da qualcosa?”, si informò la contessa Marguerite, mentre anche André, che serviva a tavola, si era bloccato, la bottiglia di Bordeaux a mezz’aria, avendo notato l’espressione assente di Lord Henry.
“Nulla, nulla”, minimizzò quello. “Lontani ricordi”.
“Ricordi piacevoli, spero”, sorrise Dorian.
“Piacevolissimi”, tagliò corto il suo tutore, concentrandosi sul piccione che aveva nel piatto.
Poi, si rese conto che, nel breve momento in cui si era estraniato dalla conversazione, il Colonnello Jarjayes doveva avere proposto a Dorian di condurlo ad assistere al Trionfo dell’Amore, di Marivaux. “Non una gran novità, certo”, commentò garbatamente la contessa Marguerite “ma in questo periodo dell’anno siamo tutti talmente occupati, e trafelati, che le compagnie preferiscono allestimenti sicuri, e non troppo impegnativi per il pubblico”.
“Oh ma sicuramente, Madame la Comtesse”, convenne Lord Sholto, “e poi Marivaux è una gloria del teatro francese, un classicus auctor, oserei dire, un classico irrinunciabile per le vostre patrie lettere, e credo che non possa dire di essere stati a Parigi senza aver visto rappresentata una delle sue commedie!”.
2 - Tanto entusiasmo e tanta buona disposizione d’animo vennero mantenuti dal giovane ospite della famiglia Jarjayes nel corso di tutta la rappresentazione teatrale, quando, due sere dopo, Oscar e André condussero il giovane, insieme con il suo tutore, alla Comédie Française: nell’ordine, Lord Sholto espresse sommi elogi per il teatro, per le sue decorazioni, per l’eleganza del palco della famiglia Jarjayes, per la scenografia, per l’interpretazione degli attori, per la loro dizione, per i costumi fastosi e tuttavia eleganti, per il testo di Marivaux e il suo genio teatrale, per la sua leggerezza e la sua amabilità. Un tale buonumore era a tal punto contagioso, da strappare una serie di sorrisi rilassati anche a Lord Wotton, che, nella penombra, durante la rappresentazione, mentre gli attori interpretavano l’amore nascente di Léonide, sotto mentite spoglie, per Agis, non poteva tuttavia non rivolgere sguardi intenti verso André, a sua volta calamitato dal profilo di Oscar, che sedeva davanti al suo attendente, un poco ruotata, proprio accanto a Lord Sholto.
La rappresentazione si concluse con scrosci di applausi, che accompagnarono il matrimonio di Agis e Léonide, e Dorian, mentre si levava dalla sua poltrona imbottita, esclamò con aria sognante: “Decisamente, in Francia si sa parlare d’amore come in Inghilterra lo possiamo solo immaginare!”.
Ma la sua esclamazione, proferita con tono tanto sospiroso, venne coperta dalla domanda di Lord Wotton, che, raggiunta Oscar sulla soglia del palco, le chiesto, con il suo consueto tono blasé: “Colonnello de Jarjayes, voi certo conoscete quale sia la prima causa del divorzio?”.
André lo fissò di sotto in su, come a chiedersi dove Lord Henry trovasse tanto ardire, ma Oscar, insolitamente lieta, piegò le labbra in un sorriso ironico, e con un guizzo color fiordaliso negli occhi, rispose: “Veramente, Lord Henry, non solo lo ignoro per motivi personali, ma credo che chiunque in Francia lo ignori…”
“Oh, già!”, ribatté quello con tono mondano, come se avesse dimenticato una ovvietà, e fu quell’intonazione leggera a far passare come un simpatico epiteto l’altrimenti sprezzante “papisti!”, che Lord Henry pronunciò sorridendo, ma mettendosi come in atteggiamento di lieve attesa.
Oscar, che quella sera, notò André, era davvero in stato di grazia (forse perché da qualche giorno il visconte di Girodelle era a letto con un brutto raffreddore ed ella era sola al comando della Guardia Reale?) rilanciò, chiedendogli: “E dunque, Lord Wotton, vi prego di appagare la mia ignoranza: quale sarebbe la prima causa del divorzio?”.
“Ma il matrimonio, naturalmente!”, sorrise Lord Henry, e la facezia fu accolta con risatine convulse dalle dame che nel ridotto avevano orecchiato la battuta. Anche Oscar rise, un riso sommesso, basso, di gola, spensierato, si sarebbe detto, che fece correre un brivido per la schiena ad André, e anche a Lord Douglas Sholto.
“Colonnello de Jarjayes, Colonnello de Jarjayes!”, esclamò il giovane, affrettandosi a coprire con due rapide falcate la poca distanza che lo separava da Oscar, la quale era andata avanti tra la folla degli spettatori che si accalcavano verso l’uscita, affiancata da Lord Henry. “Sì, Lord Douglas? Ditemi”, si volse lei, mentre André, sussurrando un “con permesso”, lasciava il teatro per andare a recuperare la carrozza. “Colonnello de Jarjayes”, esclamò Lord Sholto con le guance imporporate e gli occhi scintillanti, che dardeggiarono verso il suo tutore, quasi che in essi ardesse la fiamma di una strana, misteriosa competizione “non potremmo concludere la serata andando a bere qualcosa in una autentica taverna parigina? Vi supplico!”.
“E va bene”, acconsentì Oscar, mentre lo sguardo di Lord Henry si spostava dal suo pupillo al Colonnello. “Ma attendiamo solo che André ritorni, per dirgli di lasciare in custodia la carrozza presso l’Hôtel de Deauville, qui vicino, e avviarci a cavallo”.
“Ah, ma naturalmente, Colonnello, naturalmente”, rispose Lord Sholto, abbassando gli occhi a terra, in atteggiamento quasi mortificato, come se avesse dato per scontato che sarebbero andati a bere soltanto in tre, e gli venisse improvvisamente ricordata la necessaria presenza dell’attendente del suo anfitrione.
Oscar si attardò per un attimo a osservare, con una strana aria sottilmente perplessa il volto del giovane Lord, inconsapevole dello sguardo sarcastico e quasi trionfante che Lord Wotton, da dietro le spalle del Colonnello Jarjayes, aveva lanciato al suo protégé.
 
3 – L’entusiasmo di Lord Douglas Sholto quella sera aveva qualcosa di bambinesco, per non dire di francamente molesto: tutto gli sembrava eccellente, eccezionale, squisito, “così tipico”, come aveva ripetuto almeno una dozzina di volte entrando nella taverna, “Le coq vert”, popolare, ma non misera, scelta con attenzione da André, per riguardo nei confronti degli ospiti inglesi, che si sarebbero scandalizzati, forse, se fossero stati condotti in una delle bettole dove lui e Oscar a volte terminavano le loro giornate. Uguali entusiasmi avevano suscitato la choucroute della casa, il vino, rosso, robusto, invero non disdicevole, e la birra fresca e schiumosa, alla quale, in verità, anche il Colonnello, e il suo attendente, per non parlare di Lod Henry, avevano reso onore. Il taverniere, del resto, avendo intuito la condizione dei nuovi avventori, li aveva trattati con ogni riguardo, mandano loro le bottiglie più pregiate, la birra più costosa e più leggera, servendoli personalmente, o mandando al tavolo a servirli la sua stessa figlia, Marianne, una ragazza di forse sedici anni, castana dagli occhi d’ambra, che assommava una notevole bellezza con un atteggiamento modesto e garbato, tipico di quella taverna frequentata da studenti, praticanti avvocati, qualche gazzettiere, artigiani di un certo livello, a giudicare dall’abbigliamento. Lord Douglas sembrava davvero in estasi; a un tratto, si alzò per ammirare la collezione di bottiglie e botti che l’oste teneva dietro il bancone.
“Dovete scusarlo, Colonnello”, disse Lord Henry, levando il suo bicchierino di cognac, l’ennesimo, “i giovani, si sa, si entusiasmano facilmente!”.
“Oh, Lord Wotton, vi prego: è un piacere per me farvi conoscere Parigi e i suoi luoghi più tipici. Senza contare che”, affermò Oscar, levando a sua volta il boccale di birra, l’ennesimo, imitata da André, “questa birra strappa un elogio entusiastico anche a m…”. Ma non finì la frase, perché, dal bancone, si erano levate urla belluine.
“Mostro! MOSTRO! MOSTROOOO!!!”, urlava una donna anziana, che sarebbe sembrata una linda vecchina, se non fosse stato per la smorfia orribilmente rabbiosa che le stravolgeva i lineamenti.
“Lasciami, megera! Lasciami!”, esclamava Lord Sholto, agitando nevroticamente il braccio che la vecchia gli aveva abbrancato.
“Nonna! Nonna! Che fate!”. Marianne, la figlia del taverniere, insieme col padre, tirava dall’altra parte la vecchina, per staccarla dal braccio di Lord Douglas, ma quella, con un accanimento e una energia insospettabili in una donna tanto anziana e tanto minuta.
“ASSASSINO! PAGHERAI PER MIA SORELLA!”, continuava a gridare ora quella che doveva essere normalmente una fragile nonnina, ma che, al momento, sembrava una pericolosa arpia.
Oscar, André e Lord Henry accorsero, ma ormai il taverniere e la figlia erano riusciti a staccare la vecchietta dal braccio di Lord Sholto, che si massaggiava l’omero e osservava la manica del suo giustacuore di velluto blu, strappata dalla spalla: “Damned witch! Look what you have done!”, sibilò, il furore negli occhi,
“Nonna, che cosa ti è preso?!”, piangeva Marianne, abbracciando la vecchina, mentre quest’ultima era scoppiata a piangere, come crollata dopo lo sfogo di aggressività di poco prima, accasciandosi fra le braccia della ragazza e ripentendo: “Sybille! Oh, Sybille! Sorella mia!”. Nel frattempo, il taverniere, tutto rosso in viso, sia per lo sforzo compiuto, che l’aveva affaticato non poco, data la sua stazza non indifferente, sia per la pessima figura rimediata, iniziò, imbarazzato, a scusarsi, tormentandosi con le dita il grembiale nero e senza quasi riuscire a levare gli occhi per la vergogna.
“Signori, signori! Vi chiedo umilmente scusa!  Mia nonna, dalla quale la mia famiglia ha ereditato la taverna, non si è mai comportata così!”.
“Via, si sarà trattato di un moto … dovuto all’età”, abbozzò Oscar, cercando con gli occhi la comprensione in quelli dei suoi ospiti inglesi.
“No, no, vedete, mia nonna, nonostante abbia superato ormai i novant’anni, è sempre stata lucidissima e quieta, e anzi, con una salute e una padronanza di sé tali da scendere ancora, a volte, in taverna, a servire i clienti e soprattutto a intrattenerli, grazie alla sua memoria di ferro, con aneddoti dei tempi della Reggenza[1]. Non …  non so che cosa le sia preso… vi scongiuro di perdonarla…”
“Oh, sì, perdonate la mia bisnonna!”, implorò anche Marianne, senza smettere di cingere con le braccia la vecchina, che ancora smaniava all’indirizzo di Lord Douglas Sholto.
“Ma io dico! Prima la vostra dolce e lucidissima vecchina mi ha preso a tradimento per il collo e sembrava intenzionata a strangolarmi”, ribatté il ragazzo, sciogliendo il fazzoletto da collo e mostrando i lividi e i segni delle unghie che la nonna del taverniere gli aveva lasciato, pur attraverso il tessuto; “poi, quando mi sono divincolato una prima volta”, continuò Dorian, “mi ha afferrato per la manica e ha iniziato a strattonarmi, blaterando che dovevo pagare per una certa Sybille! Ma chi è questa Sybille? Una cliente che non ha pagato il conto? Era un conto sostanzioso?”, chiese, infine, facendo le viste di mettersi le mani in tasca. “Mostro!”, urlò la vecchia, di rimando, “Sai benissimo chi sia Sybille e che cosa abbia fatto!”, e mentre la bisnipote conduceva nel retrobottega la vecchietta, il taverniere spiegò, stringatamente: “Sybille era la sorella di mia nonna, la sorella maggiore. Oltre ottant’anni fa, quando mia nonna non era che una bambina, venne trovata impiccata nella sua camera da letto, con un biglietto …”, l’uomo, che un attimo prima aveva iniziato la sua spiegazione guardando dritti in faccia i quattro avventori, ora distolse lo sguardo, chiudendo gli occhi e unendo le dita tozze alla radice del naso. “Diceva che non poteva più vivere, dopo che il suo amore l’aveva sedotta e abbandonata per tornare in Inghilterra e che non poteva accettare di gettare il disonore sulla sua famiglia”.
“Una storia assai triste”, convenne Lord Henry, rompendo l’imbarazzo del momento.
Nel frattempo, gli altri avventori, che per qualche minuto avevano sospeso le loro chiacchiere e le loro bevute, calamitati dalle urla e dalla scenata, nella quale era coinvolto, a giudicare dalla sfolgorante uniforme rossa, anche un alto ufficiale di Sua Maestà, avevano ripreso a bere e ad attendere ai loro traffici, dato che il quintetto sembrava ora impegnato in una conversazione decisamente più pacata e meno ghiotta.
“Molto. Molto”, convenne l’oste. “Mia nonna non fu colei che trovò la sorella, ma per lei la morte della prozia Sybille fu comunque un dolore lancinante, che segnò tutta la sua vita. Quando suo padre morì, ed ella, in quanto unica figlia sopravvissuta, rilevò col marito, mio nonno, la taverna di famiglia, la vendette, per riaprirne una nuova, con un nuovo nome, ovvero questo locale, sulla sponda opposta della Senna, come a voler allontanare in ogni modo il ricordo di quella tragedia”.
“Terribile”, convenne Lord Sholto, il cui sguardo si era addolcito. “Ma io che c’entro, in tutto questo?”
“Oh, beh, l’uomo che sedusse la sorella di mia nonna, facendola impazzire per l’abbandono”, era un inglese”, rispose l’oste, imbarazzatissimo. Un inglese, mi raccontava spesso mia nonna, quando mi metteva a parte dei suoi ricordi d’infanzia, “bello come un principe, biondo, con gli occhi blu, sempre vestito di velluto blu, ricco e gentile, che le aveva promesso che l’avrebbe sposata”. Lord Henry, senza una parola, si precipitò a passi decisi nel retrobottega.
“Lord Wotton, dove andate?!”, chiese allarmata Oscar.
“Eccomi qui”, rispose quello, dopo pochi minuti, riemergendo dalla stanzetta avvolta nella penombra con una mano sulla spalla di Marianne, che, a sua volta, sosteneva per le spalle la bisnonna, che sembrava quieta, ma che non smetteva di guardare con odio e con ferocia Lord Sholto.
“Buona donna”, disse Lord Wotton, “ripetete anche a me quanto avete detto: in che anno è morta la vostra amata sorella?”.
“Nel 1699!”, gridò la donna.
“E vi pare che questo giovane possa essere il seduttore di vostra sorella, dato che doveva avere all’epoca almeno vent’anni, e da allora ne sono passati oltre ottanta? Guardatelo!”, disse Lord Henry indicando Dorian. “Vi pare forse che quest’uomo potesse avere vent’anni nel 1699?”.
La vecchina fissò Lord Sholto con espressione vacua e stralunate, poi, rendendosi conto di quanto le diceva il suo interlocutore, nel suo sguardo passò un lampo di vergogna, e poi gli occhi le si riempirono di lacrime, e cadde in ginocchio, articolando sillabe confuse, dalle quali si capiva soltanto che chiedeva perdono al giovane inglese, e invocava la sorella morta.
“Su, su, brava donna, alzatevi”, disse Dorian, imbarazzato, dopo essersi scambiato con il suo tutore un velocissimo sguardo d’intesa – che non sfuggì ad André - avvicinandosi alla vecchietta e aiutandola a rialzarsi, insieme con la bisnipote. “Su, su, non piangete. Ecco, io … mi duole per la vostra cara sorella”.
“Perdonateci, Monsieur! Vogliate perdonarci, Vostra Grazia!”, supplicarono all’unisono il taverniere e la figlia. Dorian rispose senza indugio: “Ma certo, certo…si capisce… ovviamente… non… nessun rancore… ecco, io….”, e cacciandosi una mano in tasca, ne tolse due ghinee d’oro, che mise sul bancone “ecco, credo che bastino, e … tenete pure il resto”. Poi chiese, con fare implorante a Lord Henry e ad Oscar: “Io … ora …vorrei tornare a casa”.
“Ma certo, Lord Douglas Sholto”, rispose Oscar, in tono premuroso.
Recuperati i cavalli, e tornati all’Hôtel de Deauville, i quattro rientrarono a Palazzo Jarjayes in carrozza, con André a cassetta, e Oscar che chiacchierava sussurrando con Lord Wotton, mentre Lord Sholto dormiva, stremato da quell’avventura notturna, o faceva le viste di dormire.
“Maledetta megera!”, pensava in realtà, sotto le sue delicate palpebre abbassate, il giovane Lord. “Ma chi poteva pensare che fosse ancora viva la sorellina di quella sciocchina?! E soprattutto, come potevo sapere che avevano cambiato locanda e nome del locale?! Damn, damn, damn!!!”
 
4 -  Il congedo e la buonanotte furono rapidi. Dorian insistette per ringraziare sino alla porta della sua camera il suo tutore. Una volta sicuro che nessuno li vedesse, sussurrò: “Thank you, Henry, for your promptness of spirit.  Thank you very much, for the umpteenth time”, e subito dopo posò di slancio sulle labbra di Lord Wotton un bacio.
Lo sconcerto che si dipinse sul volto di Dorian, vendendosi respinto, quando le labbra di Lord Henry si ritrassero e la sua mano lo allontanò da sé, era terribilmente sincera.
“Non voglio un ultimo contentino. E non voglio essere pagato per quello che ho fatto per tutta la vita con piacere”, disse, l’aria severa, guardando dritto negli occhi il suo pupillo.
“Perché vedi squallore e mercimonio dappertutto, Henry? Sei così prevedibile!”. Le parole di Dorian erano intrise di scherno: evidentemente, si era ripreso subito dallo smarrimento del sentirsi rifiutato, per la prima volta in vita sua.
“Perché tu non conosci altro modo di rapportarti ai tuoi simili”, soffiò il suo tutore.
“Come preferisci”, tagliò corto il giovane, “vuol dire che me ne vado con un bacio di meno! Ma tu sei sicuro che non lo rimpiangerai?”.
Quando la porta della camera di Lord Wotton si chiuse, e Lord Sholto si avviò verso la sua camera, André chiuse la minuscola finestrella che, dal passaggio che correva parallelo al camminamento del corridoio, dava proprio sull’ingresso della stanza riservata all’ospite inglese. Aveva sentito abbastanza.
 
5 -  Non appena si chiuse la porta dietro le spalle, Lord Wotton sentì che gli occhi si riempivano di lacrime. Inammissibile, per un lord.
Si dispose a ignorare la propria pena – non era questo, in fondo, il senso ultimo di tutta l’educazione da gentiluomo ricevuta? – e iniziò a compiere, misurato e preciso, i gesti necessari per mettersi sotto le coltri, senza però suonare il campanello per farsi aiutare dal valletto messogli a disposizione dal Colonnello Jarjayes: non sarebbe riuscito a sopportare lo sguardo di un estraneo che si posava su di lui, non in quel momento.
Cercò di dominare il tremito delle mani.
 Non ci riuscì.
Si sedette sul letto, anzi, ci si lasciò cadere.
Si toccò le labbra con le dita, sfiorandole là dove Dorian aveva posto la sua bocca.
Era stato uno sciocco? Sì. Uno sciocco, uno sciocco pieno di dignità, ma pur sempre uno sciocco.
Se Dorian gli mancava tanto, come l’acqua a un assetato, perché rifiutare quel bacio? Credeva forse che tutti gli altri, che si erano succeduti in tanti anni insieme, fossero stati motivati da affetto sincero … da amore? Rise: una risatina sommessa, disperata. Ma certo che no: Dorian non sapeva che cosa fosse l’amor. Poteva dubitarne?
Ricordò quando lo aveva raggiunto al club, dopo aver liquidato per conto suo William. Era entrato nella sua stanza con una espressione furba e insieme infantile, trionfante come quella di un gatto che ha rubato il lardo dalla cucina sotto gli occhi della cuoca.
“Fatto”, aveva detto, senza aggiungere altro, e gli aveva gettato le braccia al collo.
“Ora saremo solo noi due”, gli aveva sussurrato all’orecchio.
Che cretino era stato, a credergli. Solo loro due? Certo. Solo due, ma unicamente sino a quando a Dorian fosse tornato utile. Avrebbe dovuto prendersi quell’ultimo bacio, pensò Lord Henry, e anche di più, se solo non fosse stato vigliacco e remissivo come sempre; se solo avesse imparato da Dorian a prendere tutto quello che voleva e che gli serviva, senza riguardi.
Sospirò a fondo, Lord Henry, e, dopo essersi messo la camicia da notte ed essersi seppellito sotto le coltri morbide e calde, si addormentò in preda a un’amarezza che aveva raramente provato.
Nel frattempo, André si era rifugiato in biblioteca, colto com’era stato da un dubbio che gli artigliava l’anima. Se davvero Lord Sholto era stato responsabile della morte di quella povera ragazza, oltre ottant’anni prima, la sua permanenza, sotto altro nome, in Francia ai tempi della gioventù del Generale non era stato certo il primo soggiorno di quell’essere oltremanica.
Si diresse a passi sicuri, una lanterna cieca in mano, verso la sezione della biblioteca dove erano conservati i documenti storici della famiglia Jarjayes, i diari degli antenati del Generale, le raccolte di lettere dei membri del casato, le patenti di nobiltà, i contratti stipulati con gli architetti che avevano progettato il palazzo e i giardini, e con gli artisti che avevano, nei decenni, realizzato quadri e sculture per adornare la dimora.
Si dispose a consultare i pesanti volumi, ordinati per decenni, e prese con sé quello che recava, sulla costa di cuoio marrone, le date 1690-1705. Poi, silenzioso come era venuto, scivolò, attraverso un passaggio nella parete della biblioteca, verso la sua stanza.
 
[1] Si intende il periodo dal 1715 al 1723, quando, alla morte di Luigi XIV, la reggenza venne detenuta dal cugino del Re, Filippo d’Orléans, data la minore età di Luigi XV.
   
 
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