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Autore: Milly_Sunshine    21/10/2023    3 recensioni
Kay è una giornalista radiofonica affermata e conduce un programma di cronaca, accerchiata da un entourage di fedelissimi, il marito Anthony, a sua volta giornalista, il loro collega Samuel e l'assistente Theresa. Fissata con i crimini irrisolti, matura un'ossessione insolita nei confronti dell'omicidio di un'anziana locandiera che le costa a sua volta la vita. Kay si ritrova a sua volta vittima di un delitto, lasciando le persone che le stavano intorno, oltre che la collega Rebecca, con la quale aveva una feroce rivalità appianata soltanto nelle sue ultime settimane di vita, a interrogarsi su chi l'abbia eliminata e perché, su chi fosse la femme fatale che si aggirava presso la sede della radio il giorno prima del delitto, oltre che sulle ragioni per cui fosse così in fissa con lo specifico caso della locandiera assassinata. // Long fiction scritta nel 2015 sulla base di un'idea già in parte sviluppata cinque anni prima, unisce elementi del giallo classico e del thriller.
Genere: Mistero, Suspence, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Rebecca sbuffò.
Sheila le avrebbe promesso che sarebbe stata puntuale, ma di lei non si vedeva l’ombra. Non che per Dylan e il suo amico fosse un problema, anche se per qualche strana ragione sembravano pendere entrambi dalle labbra di quella psicopatica dai capelli viola, ma Rebecca non voleva fare tardi.
“Ci sono tante cose di cui occuparsi.”
Il weekend era finito e c’era una grande attesa per la prima puntata della settimana... o almeno era quello il modo in cui Rebecca gradiva vedere le cose.
Erano le quasi le quattro del pomeriggio e gironzolare per un parco pubblico con due bambini che ancora non avevano compiuto sette anni non era una prospettiva molto allettante. Se solo quella psicolabile si fosse degnata di presentarsi all’appuntamento...
Rebecca alzò gli occhi al cielo, mentre Dylan e Jamie continuavano a borbottare.
«Ti dico che è quello!»
«Non c’è niente di strano.»
«È la stessa cosa che pensa anche mia madre. Eppure...»
Rebecca diede un’occhiata, per controllare che non stessero facendo niente di sconveniente. Per fortuna non era così: stavano solo contemplando due cartelloni pubblicitari, dall’altra parte della strada.
«Eppure deve essere vero!» insisté Jamie. «Nel film che stavo guardando con il nonno, gli alieni nascondevano messaggi segreti nei cartelli dove c’erano già delle scritte.»
Rebecca sospirò.
“Forse un giorno capirà che i bambini devono guardare film per bambini!”
Dylan obiettò: «Gli alieni non esistono.»
Rebecca abbassò gli occhi.
“Magari, con un po’ di fortuna, pensa che non esistano nemmeno gli assassini e gli stupratori seriali.”
Sperò che la conversazione sulle forme di vita extraterrestri fosse finita, ma evidentemente per Jamie non era così.
«Secondo me l’hanno fatto anche qui. Nel cartello rosso...»
Rosso.
Rosso.
Rosso.
Perché Rebecca iniziava a convincersi che ascoltare l’amico di suo figlio fosse la cosa migliore da fare?
Si avvicinò finalmente ai due bambini e domandò: «Qual è il problema?»
«Jamie dice che gli alieni hanno lasciato un messaggio sul cartello rosso.» Indicava i due pannelli pubblicitari, uno rosso e uno blu, che riportavano scritte identiche. «Vede qualcosa di diverso su quello rosso.»
«I confini delle lettere non sono definiti bene come su quello blu» spiegò Jamie. «Secondo me è un messaggio degli alieni... un po’ come sul nostro libro di scuola.»
«Non c’è niente sul libro di scuola» obiettò Dylan. «Quando tua madre dice che vedi cose strane, ha ragione.»
Jamie insisté: «Potrebbero essere messaggi degli alieni. Nel film che guardavo con mio nonno, gli extraterrestri stavano avvelenando gli umani. È per questo che quando leggo mi lacrimano gli occhi e mi viene mal di testa. Nessuno mi vuole credere, ma...»
«Quando leggi ti lacrimano gli occhi?» lo interruppe Rebecca. «E ti viene spesso mal di testa? È così?»
«Sì.»
«Però riesci a leggere.»
«Sì.»
«Sia i libri, sia i cartelloni stradali. Anche se quei due ti sembrano leggermente diversi, vero Jamie?»
«Sì.»
Rebecca ridacchiò.
«Non sei di molte parole.»
«Tanto nessuno mi crede» ribatté il bambino, «Quando dico che gli alieni sono tra noi. Perfino il nonno mi dice che esistono solo nei film.»
Rebecca sorrise.
«Tuo nonno potrebbe avere ragione.»
Jamie indicò ancora una volta il pannello pubblicitario.
«E il cartello?»
«Beh, non tutti vediamo le stesse cose» gli spiegò Rebecca. «Adesso ti sembra che i due cartelloni siano diversi e che gli alieni abbiano modificato quello rosso. Un giorno, forse, ti sembreranno uguali.»
Era molto più probabile, realizzò Rebecca, che un giorno la madre di quel bambino si rendesse conto che suo figlio aveva problemi di vista e che un oculista arrivasse alla conclusione che il suo bulbo oculare fosse leggermente troppo corto.
Era ancora immersa in quel ragionamento, quando una voce alle sue spalle la fece sobbalzare.
«Sono qui.»
Era Sheila.
Rebecca si voltò.
«Finalmente.»
«Scusami» mormorò Sheila. «Lo sai come funziona, quando vai dal medico. Sai quando entri, ma non sai quando esci.»
«Ti lascio i bambini» la informò Rebecca. «Ormai ho già perso anche troppo tempo.»
«Certo» borbottò Sheila, tra i denti, «Quello che trascorri con tuo figlio è tempo perso. Non potevo aspettarmi altro.»
Rebecca non commentò.
Si stava facendo tardi.
Aveva la macchina parcheggiata proprio davanti all’ingresso del parco, quindi non le sarebbe bastato meno di un minuto per arrivarvi.
La raggiunse e salì a bordo.
“È tutta una questione di bulbo oculare” realizzò, allacciandosi la cintura di sicurezza. “La cosa assurda è che, se quello almeno di Kay fosse stato della giusta lunghezza, non saremmo mai arrivati in fondo alla questione di Wordpower.”
In realtà nemmeno i suoi collaboratori più stretti avevano capito di cosa si trattasse.
“Due di loro, almeno.”
C’era chi era perfettamente al corrente della verità, chi lo era stato fin dal primo momento.
Rebecca sorrise, compiaciuta.
Se erano più vicini a una soluzione, era soltanto grazie a lei. Se solo anche gli altri avessero sprecato un po’ del loro tempo ad ascoltare assurde dissertazioni di bambini costretti a sforzare la vista più del dovuto per riuscire a mettere a fuoco ciò che vedevano a pochi centimetri dal loro naso, forse avrebbero potuto intuire qualcosa.

Theresa sussultò, nell’udire una voce dietro di lei.
«Signorina Silver» scandì, subito dopo, Veronica Freeman, «Non volevo spaventarla.»
«Si figuri.»
Theresa non si voltò. Doveva finire di battere quella dannata scaletta, nella speranza che Rebecca apprezzasse il suo lavoro.
“Sempre ammesso che si degni di venire.”
Era andata a prendere il figlio a scuola, quel giorno, perché la tizia fuori di testa che stava insieme al suo ex marito era impegnata. Rebecca se n’era lamentata parecchio, ma del resto Theresa non se ne stupiva: era talmente piena di sé, ancora più di Kay, da non rendersi conto che essere costretta a occuparsi di suo figlio, di tanto in tanto, non era il più terribile dei sacrifici.
A Theresa sarebbe davvero piaciuto avere un figlio, prima o poi. Ormai non ci sperava più, perché sapeva che, in qualunque modo quello che stava accadendo fosse finito, tra lei e Samuel avrebbe finito per crearsi una frattura troppo profonda. Alla sua età sarebbe stato troppo tardi per trovare un altro uomo. Avrebbe già dovuto impegnarsi per riuscire a trovare un altro lavoro; perché lo sapeva, ormai, doveva lasciare Radio Scarlet.
La signora Freeman si schiarì la voce, per attirare la sua attenzione.
«Le chiedo scusa per il disturbo, signorina Silver...»
Theresa fece un lieve sospiro, mentre finalmente iniziava ad abituarsi all’idea che, se la scaletta doveva aspettare, era per ascoltare le chiacchiere della segretaria del direttore e non certo per lasciarsi andare alle proprie digressioni mentali.
«Mi dica.»
«Ho letto la notizia, sul giornale.»
Theresa si girò a guardarla.
«Quale notizia.»
«Di quel tale che si è suicidato.»
Theresa iniziò ad avvertire un poco piacevole nodo allo stomaco.
«Tanta gente si suicida.»
«Intendo dire quel John Brooks» puntualizzò la Freeman. «Quello che si è buttato giù da un cavalcavia venerdì sera.»
«Capisco.» Theresa trattenne i conati di vomito. «Vuole chiedermi se era un parente di Kay, non è vero?»
Veronica Freeman scosse la testa.
«No, non sono qui per questo. In realtà è una domanda interessante, ma al momento non è la mia priorità. Mi è giunta voce che il signor Jeffrey dovesse incontrarlo, proprio venerdì nel tardo pomeriggio.»
Theresa si lasciò andare a un lieve sorriso.
«Vuole chiedermi se penso che in realtà Samuel l’abbia ucciso?»
Veronica arrossì vistosamente.
«Certo che no.»
«E allora di che cosa si tratta?»
«Si tratta proprio di Samuel Jeffrey» ammise la segretaria di Carpenter. «Perdoni la domanda imbarazzante, ma non le sembra quantomeno strano che quell’uomo abbia deciso di suicidarsi proprio dopo avere incontrato il nostro collega?»
«Né io né Samuel siamo responsabili delle azioni intraprese da altre persone» puntualizzò Theresa. «Venerdì pomeriggio ho raggiunto Samuel nel luogo in cui stava parlando con il signor Brooks. Avevo bisogno urgente di chiarire con lui una faccenda capitata poco prima. Gli ho chiesto di raggiungermi un attimo, in disparte. Samuel l’ha fatto e, quando è tornato da Brooks, si è reso conto che quel tizio se n’era andato senza dire niente a nessuno. Questo è tutto. Non penso che ci siano le condizioni necessarie per parlare di istigazione al suicidio.»
«Non ho mai accusato nessuno di istigazione al suicidio!» sbottò Veronica Freeman. «Potrei accusare tranquillamente Samuel Jeffrey di avere sedotto fin troppe donne, qui dentro, e di avere portato una di loro sulla strada della perdizione...»
Theresa spalancò gli occhi.
«Sta parlando di me?»
«Non mi risulta che lei sia sposata o che abbia una relazione con un altro uomo» puntualizzò la Freeman. «Per quanto io, al suo posto, mi guarderei bene dal lasciar entrare Samuel Jeffrey nel mio letto, è libera di fare quello che più desidera. Parlavo ovviamente di un’altra persona.» Indicò la scrivania, spoglia fin dal giorno in cui il computer rotto - un semplice depistaggio, Theresa ne era sicura - era stato portato via. «Deve ammettere che il signor Hunter avrebbe potuto aspirare ad avere una moglie migliore.»
«Anthony ha avuto una moglie che gli ha dato un lavoro» puntualizzò Theresa. «Lo sanno tutti qui dentro. Il signor Carpenter pendeva dalle labbra di Kay, perché era sicuro che fosse la persona più adatta per aumentare gli ascolti.»
Veronica Freeman annuì.
«Su questo devo darle ragione. Il signor Carpenter teneva molto in considerazione Kay. Mi sono sempre chiesta perché. In realtà, se mi è concesso esprimere la mia opinione, sono sempre stata del parere che, come speaker, non fosse minimamente paragonabile a Rebecca. Sarebbe stata perfetta per un ruolo secondario, almeno in trasmissione, ma affidarle la conduzione di un programma è stato a mio avviso esagerato. Ci sapeva fare, il suo lavoro era brillante... ma una giornalista brillante non sempre è brillante allo stesso modo quando si tratta di parlare davanti al grande pubblico della radio.»
L’analisi di Veronica era perfetta.
«Credo che abbia ragione, signora Freeman» ammise Theresa. «Al giorno d’oggi la ragione per cui il direttore abbia sempre avuto una tale ammirazione per Kay è tuttora un mistero.»
«Già.» Veronica Freeman sembrava più intenzionata che mai a proseguire la propria invettiva. «Se ci pensa bene, per quanto Anthony Hunter e Samuel Jeffrey siano due giornalisti validi, nessuno dei due sarebbe mai arrivato qui, se non fosse stato per la spinta di Kay. La Brooks ci sapeva fare. Era capace di portare chiunque dalla propria parte. Ciò che mi stupisce è che sia stata in grado di farlo anche con il signor Carpenter. Lui non è così disposto a cedere al fascino di una donna...» Rise. «È vero, nella sua vita privata, per quanto ne so, frequenta una donna di notevole bellezza, ma Kay era di tutt’altro stampo. Come dire, Kay Brooks era una bella donna, ma non era una seduttrice. Non ne aveva bisogno. Ci sono donne, invece, che scelgono di impiegare la loro vita a sedurre uomini, perché non sanno fare nient’altro.»
Theresa abbassò lo sguardo.
Sì, c’erano donne che non sapevano fare nulla.
Ce n’erano alcune, come sua sorella, che sceglievano di sedurre uomini. Ce n’erano altre, come lei, che finivano in un polveroso ufficio a sognare quanto sarebbe stata migliore la vita se qualcuno si fosse accorto di loro.
Theresa ne era sempre più certa: lei e sua sorella erano entrambe due perdenti, destinate all’infelicità.
“L’unica differenza è che io ne sono consapevole.”
Fino a quel momento Theresa era sempre stata convinta che fosse un bene, ma era sempre più sicura di essersi sbagliata.

Era tardi, nel momento in cui Rebecca entrò. Ormai Michelle se n’era già andata e alla reception c’era Penny.
Purtroppo non era al telefono.
Rebecca fece un rapido cenno di saluto, con la speranza di allontanarsi senza che l’altra la trattenesse.
Non accadde.
«Va tutto bene?»
Penny ci provava sempre, a quanto pareva. Più il tempo passava e più tendeva a diventare simile a Michelle. Quelle due erano il futuro di Radio Scarlet: prima o poi Veronica Freeman sarebbe andata in pensione e una nuova reginetta del pettegolezzo sarebbe stata necessaria.
«Sì, va tutto bene» rispose Rebecca, realizzando soltanto in un secondo momento che, tutto sommato, tra Penelope Altman e Veronica Freeman c’era un abisso. A Penny non interessavano gli affari degli altri: si limitava a voler apparire cordiale per farsi apprezzare. Decise di non deluderla e le domandò: «Tu, invece, come stai?»
«Bene.»
Rebecca la guardò per un attimo con aria di approvazione, prima di domandarle: «Ci sono tutti, non è vero?»
Penny annuì.
«Samuel, Anthony e Theresa? Sì, certo.»
«Meglio così.»
Rebecca stava per andarsene, quando la voce della receptionist la trattenne.
«Invece...» Penny parve esitante. «Per quanto riguarda Raymond...»
Già, Raymond.
Rebecca avrebbe dovuto aspettarselo, prima o poi qualcuno avrebbe iniziato a fare domande.
«È da un po’ che non si vede» osservò finalmente Penny. «Volevo chiederti se per caso se n’è andato definitivamente. La signora Freeman, venerdì pomeriggio, diceva che si è licenziato e che, stando a quanto ha capito lei, ha lasciato la città.»
«Lo spero» ammise Rebecca, «Perché sinceramente non ho nessuna intenzione di avere ancora a che fare con lui, nel prossimo futuro. In ogni caso non ne so niente. Non so quando abbia deciso di licenziarsi e di trasferirsi, dato che non si è degnato di informarmi.»
«Oh, mi dispiace...»
«Fidati, non c’è niente di cui tu debba dispiacerti» la rassicurò Rebecca. «Ci sono uomini che non hanno un valore. Raymond era uno di quelli.» Cercò di trattenersi, ma non vi riuscì. «Per quanto riguarda te, invece, può darsi che un giorno un uomo che vale davvero si accorga di te.» Rebecca fu tentata di mordersi la lingua. Altro che Penny, la reginetta del pettegolezzo sarebbe diventata lei stessa, se avesse continuato su quello stampo! Ciò nonostante, decise comunque di proseguire: «So che, in questo momento, potrebbe sembrarti che quello che ti sto dicendo non abbia molto senso. Ti assicuro che in realtà non è così. Se c’è una certa persona che ti interessa davvero non devi perdere le speranze.»
Penny abbassò lo sguardo.
«A volte è meglio non sprecare troppo tempo a sperare. Ci sono uomini che, per quanto possano apparirci interessanti, non fanno caso a noi. A volte stanno accanto a donne che ci sembrano prive di valore.»
Rebecca cercò di trattenere una risatina.
Penny parlava di Samuel e di Theresa, non aveva dubbi.
«Non è detto che sprechino tutta la vita insieme a loro. Pensa a me e a Raymond. Qualcuno avrebbe potuto pensare che avrei potuto puntare a qualcosa di meglio...» Rebecca decise che era giunto il momento di mettere fine a quella conversazione. «È meglio che vada. Sono già in ritardo, si staranno chiedendo dove sono andata a finire.»
Penny non la trattenne. Se non altro, diversamente da Michelle, era in grado di capire che era meglio non spingersi oltre certi livelli.
Rebecca imboccò il corridoio e si diresse verso l’ufficio. La porta era aperta, notò. C’era qualcuno che parlava, all’interno e, nell’avvicinarsi, riconobbe chiaramente la voce di Veronica Freeman, che stava blaterando qualcosa a proposito di donne affascinanti che avevano come unico obiettivo di vita quello di sedurre uomini facoltosi. La ragione per cui stesse discutendo di quell’argomento proprio con Theresa le era ignota, ma lavorava a Radio Scarlet da abbastanza tempo da non stupirsi più di niente.
Entrò e fu costretta a schiarirsi la voce per far notare la propria presenza.
«Oh, Rebecca, finalmente!» esclamò Theresa.
Il suo entusiasmo sembrava sincero. Del resto, realizzò Rebecca, chiunque sarebbe stato molto lieto di avere la possibilità di liberarsi della Freeman.
«Stavamo parlando del suicidio di John Brooks» puntualizzò Veronica. «Ne ha sentito parlare?»
Rebecca spalancò gli occhi.
«Del... suicidio di John Brooks?!»
Tutto ciò che sapeva era che, il venerdì precedente, quel tizio aveva ammesso di essere stato sposato con Kay in passato e che, non appena Samuel si era allontanato per un attimo, se n’era andato sparendo apparentemente nel nulla.
Si era suicidato?
Quella prospettiva non stava né in cielo né in terra.
Veronica Freeman puntualizzò: «Si è buttato giù da un cavalcavia.»
Si era buttato giù o qualcuno l’aveva spinto?
«Ho bisogno di parlare con Anthony e Samuel» dichiarò Rebecca. «Dove sono?»
«Anthony è da qualche parte, l’ho visto l’ultima volta verso le due e mezza e mi ha pregata di informare Samuel che aveva urgenza di vederlo» le riferì Theresa. «Samuel doveva incontrare quel tizio dell’associazione dei consumatori, per la trasmissione di domani. È rientrato non più di mezz’ora fa. Gli ho detto che Anthony voleva parlargli, quindi è andato a cercarlo.»
Non era una notizia così terribile. Anzi, il fatto che fossero entrambi assenti, in quel momento, le dava un po’ di tempo in più per decidere sul da farsi.

   
 
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