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Autore: Ode To Joy    31/10/2023    1 recensioni
[Dazai & Mori Centric]
[Spin-off di “Poems By A Ghost”]
Dazai non aveva la minima idea di chi fosse Mori Ougai, ma non vi era alcun timore nel modo sfacciato in cui lo scrutava. Starnutì.
Nel silenzio assoluto della stanza, suonò come un colpo di pistola. Mori saltò come una molla e la lametta gli tagliò la pelle. Poche gocce di sangue caddero nel lavandino, andando a mischiarsi a quelle che rimanevano del vecchio Boss.
Brutto presagio.
“Oh, ti sei distratto,” commentò Dazai, con voce incolore. “Ma dalle cicatrici che hai sulla schiena, sei abituato a essere colpito alle spalle.”

[…]
Un passo indietro, all’inizio della storia, ai giorni in cui Mori muoveva i suoi primi passi come Boss e Dazai cominciava la sua educazione per divenire il più giovane dei cinque Dirigenti.
La nascita della Port Mafia come Yokohama la conosce oggi.
[Trans!Dazai] [Accenni Fukumori]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Kouyou Ozaki, Nuovo personaggio, Osamu Dazai, Ougai Mori, Ougai Mori, Ryurou Hirotsu
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'These Brand New Pages'
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0.4

 

Poco meno di vent’anni prima dello scoppio della Grande Guerra, l’Europa si vide costretta ad affrontare una minaccia invisibile a cui nessuno riuscì a dare un nome per molto tempo. I bambini sparivano e non nel modo saltuario e circoscritto in cui simili disgrazie erano solite avvenire. Il target era molto preciso: le vittime erano tutte figli di famiglie conosciute in Europa in quanto possessori di abilità da generazioni. Tra queste vi erano anche quelle che lavoravano sotto il diretto ordine della Torre dell’Orologio. Fu un’emergenza internazionale che, per motivi di sicurezza globale, non raggiunse mai i canali ufficiali delle notizie.

I servizi segreti di tutti gli stati vennero schierati per trovare il colpevole di tali rapimenti, scoprire le ragioni che vi erano dietro e riportare a casa i bambini vivi. Fu l’era delle spie, delle guerre silenziose, dei segreti che nessuno avrebbe mai voluto rivelare.

Ci volle più di un decennio perché l’Europa trovasse un nome: Mephistopheles.[1]

Di questo individuo non si seppe mai nulla con esattezza, nemmeno se fosse uomo o donna. Fu l’estensione della sua Organizzazione a spaventare la Torre dell’Orologio stessa: aveva risorse in ogni stato, talpe dove era più comodo posizionarle e un talento mai visto prima nel muoversi dell’ombra.

Attraverso un’azione militare mandata avanti dall’allora Comandante Jünger, il suo quartier generale principale - un orfanotrofio in mezzo al nulla, nel nord-est Europa - venne preso d’assedio e conquistato. Lì trovarono gran parte dei bambini scomparsi - non tutti vivi o abbastanza presenti a loro stessi da pensare che ci fosse possibilità di salvezza per loro. Dopo quel colpo, Mephistopheles scomparve nel nulla.

Una delle vittime tratte in salvo, Johann Goethe, considerato primo testimone del caso per via della sua vicinanza al carnefice, non fu in grado di fornire informazioni precise riguardo un eventuale piano di fuga di Mephistopheles. Pur non conoscendo con esattezza la vastità delle aree d’influenza del proprio secondino, non ebbe dubbi nell’affermare che era lungi dall’essere sconfitto, che esistevano altre branche dell'Organizzazione nel resto del mondo e che sarebbe stato impossibile sopprimerle tutte.

Il secondo testimone, Victor Hugo, recuperato in stato quasi catatonico, non fu in grado di dire nulla di comprensibile. Nella sala degli interrogatori, pianse a basta.

Quando arrivò il suo turno, William Shakespeare disse poche, inquietanti parole: “l’Inferno è vuoto. E tutti i diavoli sono qui.” [2]

Nel periodo immediatamente successivo a una tale tragedia, in Europa cominciarono a sbocciare i primi fiori di una nuova generazione di possessori di abilità con i mezzi necessari per far conoscere se stessi nell’alta società.

Johann Goethe fu solo il primo, forse il più ribelle dei tanti. Le dorate proposte del Governo Tedesco non servirono mai a niente - nemmeno quelle fatte dal Comandante Jünger in persona, suo salvatore. Appena adolescente, si ritirò nelle proprietà della sua famiglia e si riscoprì poeta. 

Affidò alla parola scritta tutto ciò che era pronto a urlare al mondo, senza preoccuparsi delle conseguenze. La sua condotta non fu mai scandalosa nel modo in cui lo era quella dei suoi coetanei più disinibiti. 

Johann aveva una mente sveglia e gli era impossibile non dargli voce, anche quando rischiava di essere biasimato per le proprie idee. Era un tipo vivace, ma solitario. Sì, era un falso estroverso che si sentiva a suo agio solo con un pugno di persone, per le quali sarebbe stato disposto a dare la vita.

Il suo amico William Shakespeare assomigliava più a un giovane della propria estrazione sociale. Intellettuale, certo. Donnaiolo, perché no? Una volta uscita dalla fornace dell’inferno in cui Mephistopheles lo aveva forgiato, La Torre dell’Orologio lo aveva accolto a braccia aperte. Li faceva pentire di quella scelta nove giorni su dieci. Poi arrivava quel decimo giorno in cui, come per miracolo, William si dimostrava indispensabile in una situazione di emergenza. E, niente, a Londra erano costretti a dargli vitto e alloggio, chiudendo un occhio su tutto il resto.

Victor Hugo era l’immagine del giovane integerrimo. Fin dal suo salvataggio, il Governo Francese lo aveva coccolato affinché servisse il popolo con la propria abilità. Troppo gentile per il suo bene e poco incline a riconoscere in se stesso un qualche valore, Victor aveva accettato, tentato dal fatto di poter dare uno scopo alla propria esistenza salvando le persone. 

In questa Europa piena di speranze e giovani fiori sul punto di sbocciare, Mori Rintarou arrivò senza preavviso, attirando su di sé l’attenzione di un intero continente. E avere al proprio fianco l'irraggiungibile Johann Goethe non fece che aumentare il volume delle voci sul suo conto.

Fu proprio questo a spingere uno dei personaggi più controversi di quella generazione di possessori di abilità ad avvicinarlo.


Per quella notte Lord Byron aveva pensato a tutto un altro tipo di divertimento.

“Prima che il nostro tempo si esaurisca, una festa in maschera è quantomeno d’obbligo!” Aveva esclamato un paio di giorni prima.

In molti avevano esultato. Rintarou era rimasto composto, al fianco di Johann, chiedendosi come si potesse organizzare un evento del genere in meno di quarantotto ore, ma se c’era una cosa che George Gordon Byron gli aveva insegnato era che i soldi non erano solo un mezzo potente per gestire gli equilibri del potere, ma anche per concretizzare i più futili capricci. 

Ed eccoli lì, in quella nottata di neve nel bel mezzo del nulla, vestiti come se i fasti dell’Impero di Napoleone fossero cosa loro. E Rintarou apprezzava l’estetica, davvero. Gli piaceva il completo di velluto viola che Johann aveva scelto per lui - perché il Principe della Port Mafia non sarebbe mai uscito dalla sua camera per tirarsi i capelli con gli altri mocciosi viziati che volevano essere i pavoni della scena - era una pausa elegante e goliardica dal nero che lo aveva accompagnato per tutta la vita. Nulla di più e nulla di meno.

Rintarou e Johann avevano ballato insieme fino a tarda sera, poi Hugo e Shakespeare avevano preteso la partecipazione del loro amico a una conversazione che ruotava intorno alla minaccia di una guerra contro non si sapeva né cosa né chi. Pur amando i dialoghi impegnativi, Rintarou aveva preferito allontanarsi e rifugiarsi nella stanza della musica. 

Fu felice di non trovare nessuno impegnato a fornicare sul pianoforte o si sarebbe sentito moralmente costretto a dargli fuoco.

Si sedette sullo sgabello imbottito, accompagnato solo dai raggi argentei della luna.

Rintarou prese un respiro profondo, con le dita sospese sopra le chiavi nere e bianche. Si godette il silenzio per qualche respiro. Era così difficile avere del tempo per sé in quella villa e, sebbene fosse stato il primo a pensare che sarebbe stato interessante conoscere la giovane élite fuori dagli schemi inibitori dell’etichetta, Rintarou doveva riconoscere i limiti della sua educazione. Era spregiudicato, sì, era innegabile, ma i suoi natali gli imponevano un certo pudore. Accoppiarsi come animali dove capitava e con meno lucidità di un ubriaco per strada gli suscitava ribrezzo. Non era bigotto, per carità, ma sua madre insegnava alle sue allieve come rendere il piacere un'arte e non avrebbe accettato come clienti nessuno dei bifolchi che si atteggiavano da grandi amanti in quei salotti. Byron per primo.

Rintarou si aggiustò un ciuffo di capelli corvini dietro l’orecchio.

In assenza del suo poeta, quel pianoforte sapeva essere un perfetto compagno.

Uno di cui Johann non sarebbe stato geloso.

Cominciò con Für Elise, semplice, rilassante, portatrice di bei ricordi e subito sentì il petto farsi più leggero. Fu un sollievo breve. 

Non appena Rintarou sollevò le mani dalle chiavi del pianoforte, la stanza semibuia venne riempita dal rumore di un applauso.

Preso alla sprovvista, Rintarou balzò in piedi.

“Oh, scusami…” Disse l’uomo che era entrato senza farsi udire. “Non volevo spaventarti.”

Ma Rintarou non era un ingenuo.

“Di certo non ti sei annunciato in alcun modo,” disse, cortese ma con una lieve sfumatura velenosa. Non aveva certo paura di essere avvicinato da uno dei rampolli dell’aristocrazia europea, ma quando capitava, a meno che non si trattasse di un membro della cerchia di Johann, non erano mai molto rispettosi nei suoi confronti.

“Hai ragione…” 

Lo sconosciuto si fece avanti, lasciandosi investire dalla luce della luna. Era evidentemente giovane, con gli occhi piccoli e scuri, ma penetranti come degli spilli. 

“Mori Rintarou, giusto?” 

Rintarou non si trattenne dall’alzare gli occhi al cielo a quella domanda.

“Se avessi una moneta, di qualsiasi valuta, per ogni volta che si sono approcciati a me con questa domanda-“

“Non ti servirebbe, sei già ricco, no?” Il nuovo arrivato si prese la libertà di farsi più vicino. “Il Principe della Port Mafia, giusto?”

Strano. Si era aspettato di essere definito il Fiore d’Oriente di Johann Goethe per l’ennesima volta.

“Chi sei?” Domandò Rintarou.

Il giovane fece un inchino esagerato, come un attore su di un palcoscenico.

“Il Marchese De Sade, monsieur,” si presentò. “O, se preferite, Louis Sade.”

Rintarou non rispose immediatamente, ma tese ogni muscolo del corpo, pronto a difendersi se si fosse rivelato necessario.

“Oh, bene…” Commentò De Sade, raddrizzando la schiena. “Vedo che la mia fama mi precede. Johann vi ha per caso parlato di me?”

Ha evitato accuratamente di parlare di te.

“No,” rispose Rintarou. “Ma il tuo nome è mormorato da molti in Europa.”

De Sade sospirò.

“La gente guarda con sospetto chiunque sia baciato dalla fortuna, penso sarai d’accordo,” disse, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni. “Riportare in auge il nome di una famiglia caduta in disgrazia non è un’impresa per tutti, ma è il maggiore dei miei vanti.”

Rintarou stirò le labbra in un sorriso che non raggiunse i suoi occhi.

“Siete il ritratto della modestia,” lo canzonò. “Da quanto sei qui? Non ci hanno mai presentati…”

“Sono qui da settimane,” confessò il Marchese. “Solo Byron sa chi sono, agli altri mi sono presentato con un nome fittizio.”

“Per quale ragione?”

“La reazione che hai avuto nell’udire il mio nome è una ragione più che sufficiente.”

“Non ricordo nemmeno di averti mai incrociato e questa villa è grande, ma non così grande.”

“Sono bravo a rendermi invisibile.” Ogni parola era un passo. Ormai il Marchese poteva quasi toccare il pianoforte. “Mi piace osservare…”

Aveva fascino, Rintarou doveva ammetterlo ma, al contempo, aveva qualcosa di viscido nel suo atteggiamento che gli faceva accapponare la pelle.

“E quale sarebbe la ragione che ti ha spinto a svelare il tuo segreto a me?” Domandò. “Hai condannato definitivamente la tua copertura così.”

Johann sarebbe venuto a sapere di lui non appena avrebbe lasciato quella stanza ed era certo che anche Shakespeare e Hugo avrebbero ritenuto quell’informazione interessante.

“Perché tu sei l’unica creatura qui a meritare la mia attenzione,” rispose il Marchese De Sade.

Rintarou inarcò le sopracciglia, per nulla colpito.

“Siete francese, vero? Voi francesi avete un problema con le lusinghe gratuite…”

“Nulla di gratuito.” De Sade si sedette sullo sgabello lasciato libero dal giovane giapponese. “Suonate incantevole.”

“Molti qui lo sanno fare.”

“Imitazioni. Pappagalli che ripetono a comando, nulla di più.”

“Non sono un’artista, Marchese,” tagliò corto Rintarou. “Amo l’arte e cercò di avvicinarmi a essa come posso, tutto qui. Posso sapere il motivo che vi ha spinto a seguirmi? Perché se vi piace osservare è ovvio che siete rimasto a guardarmi tutta la sera, aspettando di cogliermi da solo.”

Il Marchese suonò un’ottava, senza mai togliergli gli occhi di dosso.

“Lo sapevo che non eri come loro.”

Rintarou si stava esasperando.

“Senti-“

“Lo pensi anche tu, no?” De Sade accarezzò le chiavi bianche con la punta delle dita. “Quando sei arrivato, hai provato a guardarti intorno ma, no, non hai trovato nessuno degno di nota. Stai sempre accanto a Johann perché è il solo che ritieni al tuo livello e tolleri la presenza dei suoi amici perché sei tanto intelligente da capire che per lui sono importanti, ma è un genere di affetto che non sentì.”

Rintarou lo scrutò, gelido e si guardò bene dall’aprile bocca.

“È la prima volta, vero?” Domandò il Marchese.

“Di cosa?”

“Che t’innamori…”

Per qualche strana ragione, quella parola uscita dalla bocca di quell’uomo suonò a Rintarou come una blasfemia. Decise di stare al gioco, tanto per rassicurare l’altro che non c’erano speranze che avesse il coltello dalla parte del manico contro di lui.

“E il Marchese come sarebbe arrivato a una simile conclusione?” Domandò, incrociando le braccia sopra il pianoforte.

“Basta guardarvi,” rispose De Sade puntando sgraziatamente il gomito contro i tasti bianchi, provocando un suono fastidioso. “È la prima volta anche per lui, sai? Questo non l’ho intuito, lo so per certo.”

“Conosci Johann?”

“Non è importante…” Il Marchese appoggiò il viso al pugno chiuso. “Perché quando lo osservo mentre è con te, potrebbe tranquillamente essere un estraneo. Lui ti guarda e vede tutte le stelle dell’universo nei tuoi occhi. È l’amore di cui cantano i poeti come lui, deve averne scritto centinaia senza conoscerlo… Ed ecco che arrivi tu. In Europa dicono le cose più volgari su di te.”

Era brutale, ma sincero.

“Eppure col mio nome si riempiono la bocca,” ribatté Rintarou, orgoglioso.

“È anche la prima volta che uno straniero riesce ad attirare su di sé tutti gli sguardi dell’Antico Continente. Hai un talento, Mori Rintarou.”

Il Marchese De Sade si alzò in piedi.

Rintarou rimase dov’era, i pugni stretti.

“Se tutti quegli idioti si prendessero un momento per guardarvi, come faccio io, sentirebbero quanto è profondo quello che vi lega. Siete il ritratto del primo amore, quello tanto intenso da rendere folli, il solo che pensi al concetto di per sempre e lo creda reale.”

Rintarou non sapeva dove l’altro voleva arrivare. Quella conversazione non aveva avuto senso fin dal principio e peggiorava di parola in parola.

Il Marchese fece volteggiare la mano accanto alla sua testa, come se fosse indeciso se toccarlo o meno. Se lo avesse fatto, si sarebbe ritrovato senza un braccio.

“Mi chiedo quanto potente potrebbe essere il dolore nato dalla fine di un amore così…”

Il Marchese De Sade prese tra le dita il nastro viola che legava i capelli di Rintarou e lo sciolse. Il giovane di Yokohama si fece indietro e le ciocche corvine gli ricaddero davanti agli occhi, mentre le sue iridi si accendevano di un sinistro colore violaceo.

Un distintivo rumore di vetri in frantumi interruppe la scena.

Rintarou sussultò e sentì la forza del suo potere venire meno. Si voltò.

Johann era sulla porta, il braccio teso in avanti e l’espressione furente. Vi erano dei frammenti per terra, lì, dove il bicchiere aveva colpito il pianoforte, andando in mille pezzi.

“Johann!” Chiamò il Marchese, allontanandosi subito dal giapponese. “Che piacere rive-“

“Sotto quale sasso ti eri nascosto, maledetta serpe?” Domandò Johann, trattenendo a stento l’ira.

Rintarou decise di rimanere dov’era. Aveva molte domande, ma non era quello il luogo e il momento giusto a cui dare loro risposta.

“Colpa tua e dei nostri amici non avermi notato,” ribatté De Sade. “Poco male, ho avuto una piacevole conversazione con il tuo Fiore D’Oriente e-“

“Ti voglio fuori da questa casa entro stanotte.”

Il Marchese rise, deridendolo.

“Il padrone di casa sa benissimo che-“

“Il padrone di casa non si può permettere di andare contro la Torre dell’Orologio. Pur averti invitato per creare scandalo, tipico di Byron. Ciò nonostante, non può gestire un’accusa di favoreggiamento da parte mia.”

“Favoreggiamento di cosa, Johann.” Il Marchese aprì le braccia. “Tutti parlano di me e nessuno ha una prova che mi possa rovinare.”

“Solo fino a che impongo a me stesso un certo obbligo morale,” disse Johann, gelido.

Da dove si trovava, Rintarou non poteva guardare in faccia Louis Sade, ms qualcosa gli diceva che non si divertiva più.

“E tu che fingi ancora di non essere un guerriero, indossando la maschera del poeta,” disse il francese. “È stato un piacere, Rintarou,” aggiunse, senza voltarsi a guardare il diretto interessato negli occhi. 

“Ci rivedremo presto.”



 

XI
 

-15 anni dopo-



 

“Vieni con me, Osamu.” Elise gli porse la mano. Un gesto stupido a cui Dazai non diede seguito.

“Ops!” Esclamò lei, ridacchiando. “Hai ragione, non dobbiamo toccarci.”

Il ragazzino storse la bocca in una smorfia e fu tentato di farle il verso, ma si trattenne. Era un gioco, una sorta di telefono senza fili ma in cui non era ammesso commettere errori. Mori, senza essere presente, metteva alla prova il suo giovane assistente - a Dazai quell’etichetta proprio non andava giù - tramite Elise. 

Porgergli la mano era stata la prima prova, forse per vedere se il quattordicenne fosse attento.

“Tra noi due, l’idiota non sono io,” borbottò, seguendo la personificazione dell’abilità di Mori su per le scale di marmo. 

Elise continuava a parlargli ma il ragazzino non gli prevista alcuna attenzione. I suoi occhi scuri si posavano su ogni superficie della villa, giudicando aspramente lo stato di semiabbandono in cui versava. Mori doveva ricordare quel luogo in modo molto diverso. Da parte sua, Dazai non poteva negare che l’atmosfera gotica che aleggiava per tutto l’edificio fosse affascinante, ma se ne sarebbe stancato presto.

Non era di facili entusiasmi, a differenza dell’idiota che parlava col padrone di casa al piano di sotto e la noia era la sua migliore amica.

Dazai l’avrebbe volentieri sostituita con la morte, ma la fortuna non voleva proprio assisterlo in quel senso. Appoggiò una mano sul corrimano di marmo della scale. Rimase presto deluso dallo scoprire che era polveroso, certo, ma non di sicuro pericolante. Non poteva volare accidentalmente giù dalle scale e spaccarsi la testa in due. Non ci avrebbe creduto nessuno.

Un paio di gradini sopra di lui, Elise si fermò. “Pensa se, invece di morire, finissi per ferirti in modo da essere costretto a letto,” disse, forse intuendo i suoi pensieri. “Immagina come sarebbe dover dipendere da Rintarou in tutto e per tutto, magari per sempre. Se ti lesionassi la colonna vertebrale in modo grave, non guariresti. Puoi immaginare un’intera vita così?”

La bambina non si voltò, ma Dazai poteva intuire il sorriso sinistro che doveva avere in viso dal suono della sua voce. Sbuffò. “Procediamo?” Aveva freddo, tremava e voleva farsi quel maledetto bagno caldo.

Elise riprese a salire le scale, sempre saltellando. Dazai lasciò da una parte i suoi intenti suicidi per concentrarsi su un altro tipo di violenza: se avesse fatto del male a quella bambina, Mori avrebbe provato dolore?

Si diede preso dello stupida: il solo toccarla sarebbe bastato a farla scomparire.

Non poteva sfogare il suo malumore su di lei. Peccato.

Arrivati al secondo piano dell’abitazione, la mente di Dazai stava ancora cercando un modo per scacciare la noia. Quanto lo disturbava rendersi conto che la presenza di Mori, per quanto irritante, era un buon diversivo per lui. Fin tanto che il Boss della Port Mafia gli gravitava intorno riusciva quasi a dimenticare il suo desiderio di morire, in favore di quello di uccidere.

Dazai era certo che Mori lo facesse a posta: essere insopportabile era l’unico modo in cui riusciva a esistere. Questo portava la mente del quattordicenne a Johann Goethe, che era rimasto al fianco di Rintarou per ben cinque anni. No, non erano una vita intera ma era comunque troppo.

Dazai aveva perso il conto dei mesi che erano trascorsi da quando Soseki lo aveva lasciato nel mani di quel medico da strapazzo, ma era certo di essere invecchiato di un decennio nel mentre.

“Osamu, stai attento a non perderti,” disse Elise, premurosa.

Vi erano due corridoi, uno a destra e uno a sinistra. Un po’ gli ricordava la vecchia villa in cui lui e Mori si erano rifugiati dopo l’attentato alla vita di quest’ultimo, ma nemmeno lì aveva trovato tanta polvere e tanto buio.

Dazai cominciò a chiedersi se il bagno in cui avrebbe dovuto lavarsi esistesse davvero o fosse solo un’altra stanza lasciata alla rovina, in balia del tempo e della mancata manutenzione.

“Vieni, da questa parte.” Elise scelse il corridoio di sinistra.

Il ragazzino lo seguì senza fare domande, tenendo gli occhi fissi sul pavimento: c’era poca luca e nessuno gli assicurava che il pavimento fosse intatto. I tappeti che lo ricoprivano emettevano un odore stantio e anche se vi camminava sopra con le scarpe, gli faceva schifo.

Si chiese in che stato avrebbe trovato le lenzuola del proprio letto. Sempre ammesso che vi fosse ancora un letto lì e non un ammasso di muffa.

Elise smise di saltellare a metà del corridoio. “Siamo arrivati!” Esclamò, felice. La porta che scelse non aveva nulla di diverso da tutte le altre. La spalancò e Dazai ebbe la prima bella sorpresa di tutta la giornata.

“Oh, il padrone di casa ci ha trattato davvero bene,” commentò Elise, soddisfatta. 

Dazai entrò dopo di lei e quel che vide gli alleggerì il petto: i pavimenti erano lucidi, liberi da qualsiasi tappeto in fase di decomposizione; il letto era un vero letto, con una coperta calda e delle lenzuola fresche di bucato e, ultima ma non ultimo, vi era un allegro fuoco a scoppiettare nel caminetto.

Il ragazzino vi s’inginocchiò davanti senza troppe cerimonie. Non si rese conto di quanto era gelato prima di sentire le guance farsi calde troppo velocemente.

“Così non va bene,” disse Elise, richiudendo la porta. “Devi riscaldarti gradualmente, altrimenti il cuore si sforza troppo e rischi di collassare. Non sei esattamente un tipo robusto, sai?”

No, era pelle e ossa e ne era perfettamente consapevole. Ciò non significava che volesse sentirselo dire da lei. Al contrario, voleva solo che stesse zitta.

Elise non si preoccupò del suo silenzio. Passò oltre, esplorando la camera nei dettagli. Aprì l’armadio e sorrise soddisfatta. “I nostri bagagli sono già stati disfatti.”

“Che velocità,” commentò Dazai, senza nessun entusiasmo.

Se possibile, tremava ancor di più.

Quel piccolo Demone dai capelli biondi aveva ragione: stava per collassare, forse gli era anche venuta la febbre. Tutto perché si era imputato a non voler ascoltare Mori. Se si fosse preso un’influenza, avrebbe dovuto sorbirsi lamentele inutili per un’eternità.

Sbuffò, prendendosela con se stesso. 

“Osamu, dai, vieni a farti un bagno,” lo invitò Elise, col tono comprensivo di chi percepisce lo stato miserabile di qualcun altro.

Dazai sapeva che non era lei

Lei, in quanto essere, non era nemmeno reale.

Era Mori a parlargli, a prendersi cura di lui sotto mentite spoglie.

E Dazai non lo sopportava.

“Te lo preparo io!” Si offrì Elise, con entusiasmo, trotterellando verso la porta del bagno.

Dazai si voltò, il viso gli andava a fuoco. “Faccio da solo.”

Per la prima volta da quanto erano rimasti soli, gli occhi azzurri della bambina incontrarono quelli scuri dell’adolescente. Non c’era niente di Mori sul viso di Elise, eppure Dazai la vide assumere la stessa espressione con cui il Boss della Port Mafia era solito guardarlo quando faceva i capricci. “Sei davvero capace di fare qualcosa da solo?” Lo derise, velenosa.

Dazai la fissò, rancoroso. Anche se gli girava la testa e sentiva il corpo pesante, si costrinse a restare in piedi e a varcare la porta del bagno. Anche lì la situazione non era male: lo stile era un po’ vintage, con la vasca al centro della stanza, ma ogni superficie era tirata a lucido. 

Si sorresse contro lo stipite della porta. “Quel maggiordomo vecchio di secoli sembra avere più vitalità di me.” Faceva fatica a credere che fosse riuscito a rendere queste due stanza vivibili, mentre il resto della casa cadeva a pezzi.

Alle sue spalle, Elise rise. “Non ci vuole molto per essere più vitali di te, Osamu.”

Con una smorfia, Dazai fu costretto a darle ragione ma lo fece in silenzio. Si trascinò fino alla vasca da bagno. Era una di quelle con un rubinetto per l’acqua calda e un’altra per quella fredda e dovette star lì a regolare i due flussi per ottenere la temperatura desiderata.

Una volta soddisfatto, Dazai si lasciò scivolare sul pavimento, con la schiena appoggiata al bordo di ceramica bianca. Elise lo guardava dalla porta, con lo sguardo di chi si aspetta una richiesta d’aiuto da un momento all’altro. 

Piuttosto la morte, pensò il quattordicenne. Niente di nuovo, era la sua soluzione ogni volta che si ritrovava nella posizione di soccombere o fare qualcosa che non voleva.

Elise sospirò, rassegnata come una donna di quarant’anni. “Ti prendo dei vestiti puliti.”

“Faccio da solo,” ribatté Dazai, ma lei aveva già aperto l’armadio. La vide scegliere un completo a tre pezzi completamente nero, camicia compresa. Doveva averlo comprato Mori di sua iniziativa, perché il ragazzino non ricordava di averlo mai visto.

“Sarà la prima cena a cui presenzierai come Principe della Port Mafia,” spiegò Elise.

“Principe di che cosa?”

“Rintarou ci tiene che tu sia elegante.”

Rintarou insiste nel ricordare a tutti che non sono un signorino, poi crede di poter decidere come vestirmi.” Dazai si alzò in piedi e si accorse che la vasca era piena quanto bastava. Chiuse entrambi i rubinetti. “Se vuole usare la sua abilità per crearsi una bambola viva, faccia pure,” aggiunse. “Io non starò allo stesso gioco.”

Si tolse i vestiti pur sapendo che Elise - e, di conseguenza, anche Mori - lo stava guardando dalla porta. Più tardi, avrebbe potuto usare quel breve episodio per dare al Boss del maniaco ancora una volta, tanto per fargli saltare i nervi. La verità era un’altra: dopo che Mori gli aveva raccontato di come si era ritrovato prigioniero di un corpo non suo, Dazai non sentiva più la necessità di nascondersi. Ovviamente, questo allo stronzo idiota non lo avrebbe mai detto. Ci mancava solo che Mori s’illudesse di avere la sua fiducia e si montasse la testa.

Dazai s’immerse nell’acqua calda col più profondo dei sospiri. Appoggiò la nuca al bordo freddo e chiuse gli occhi. Era stanco e forse stava soffrendo i primi effetti del jet-lag, oltre ad avere il principio di un malore che poteva essere un comune raffreddore o un vero e proprio attacco di febbre.

Poco importava. Mori si sarebbe arrabbiato con lui in ogni caso, ormai era certo e non aveva vie di fuga.

“Osamu…”

Il quattordicenne aprì gli occhi e quando vide la bambina bionda aggrappata al bordo della vasca, sobbalzò con tanta violenza che dell’acqua sì rovesciò sul pavimento. Non l’aveva sentita avvicinarsi.

“Non farlo mai più,” sibilò, rabbioso.

Elise non smise di sorridere. “Non ti piace essere preso di sorpresa.”

“C‘è qualcuno a cui piace?”

“Le sorprese, per loro definizione, dovrebbero rendere felici le persone.”

Dazai alzò gli occhi al cielo: era il genere di discorso stupido che avrebbe fatto Mori per parlare di qualcosa senza farlo davvero. “Il Boss è stato colpito alla schiena molte volte.” Ricordò la notte dell’omicidio del vecchio folle, quando il medico si era liberato dei vestiti sporchi di sangue e Dazai non era riuscito a tenere il conto di tutte le cicatrici sulla sua pelle. Non che lui versasse in uno stato migliore. “Dubito che quelle sorprese lo abbiano reso felice,” aggiunse, sarcastico.

“Rintarou era un soldato,” ribatté Elise. “Non tutti i segni che ha addosso hanno alle spalle una storia di tradimento. La maggior parte sono souvenir della Grande Guerra.”

“Giusto, la Grande Guerra…” Dazai continuava a dimenticare che il giovane Mori Rintarou era morto in Germania, durante quel conflitto mondiale. Non poteva fare a meno di pensare che suonava terribilmente tragico, nel senso più poetico del termine. Mori Rintarou, per come lo raccontava la sua versione trentaduenne, sembrava più il personaggio di un romanzo che una persona vera. Nato Principe della Mafia, fuggito in Europa a quindici col suo primo amore, divenuto soldato proprio per restare con l’uomo che gli aveva rubato il cuore, un figlio perso - anche se Fletcher aveva parlato di una bambina - l’amante per cui aveva dato tutto era caduto in battaglia…

“Che melodramma!” Commentò aspramente Dazai, come se si trattasse di un lavoro di narrativa scadente e non della tragedia personale di una persona.

Elise lo scrutò, curiosa. “A che cosa ti riferisci?”

Gli occhi scuri del ragazzino continuarono a fissare il soffitto del bagno. “Elise…” Mormorò.

“Sì, sono qui,” rispose la bambina, stupidamente.

Dazai drizzò il collo e rispose allo sguardo di quegli occhi azzurri. Quando parlò, non fu a lei che si rivolse. “Era il nome che volevi dare a tua figlia, vero?” 

Elise continuò a sorridergli, come se non avesse compreso le sue parole.

“Mi hai mentito a Yokohama,” concluse il quattordicenne. “Il Generale era certo dell’esistenza di un figlio, tu l’hai messo a tacere prima che potesse dirlo chiaramente. Subito dopo mi hai raccontato quella balla sull’aborto spontaneo, ma il vecchio Fletcher era piuttosto certo dell’esistenza di tua figlia.” 

La bambina continuò a guardarlo serena, muta, come una bambola rotta.

“Un Dirigente della Port Mafia e il maggiordomo di un Lord inglese,” proseguì Dazai. “Non si sono mai incontrati e ti hanno messo in difficoltà con la medesima storia, pochi dettagli a parte. Non hai perso nessun bambino. Tua figlia è nata ed è morta.”

Elise sparì in un veloce bagliore viola. Dazai sollevò gli occhi scuri e trovò quelli di Mori che lo fissavano dalla porta. 

“Bravo,” il Boss della Port Mafia lo guardava soddisfatto, ma anche stanco. “Sei riuscito a mettere insieme i pezzi di cui ti stavo privando e hai visto la verità oltre le mie bugie. I miei complimenti, Dazai.”

“Non sei arrabbiato.” Dazai non nascose la sorpresa.

Mori scrollò le spalle. “Perché dovrei esserlo? Se sei bravo, sei bravo e il mio obiettivo è che tu divenga il migliore, quindi… Posso avvicinarmi?”

L’acqua copriva già tutto quello che c’era da vedere, ma Dazai si strinse comunque le ginocchia al petto. “Sì,” rispose, alla fine.

Mori non andò subito da lui, si avvicinò al mobile accanto alla porta e prese a cercare qualcosa dietro le ante. “Ti sei immerso senza prendere ciò che serve per rendere un bagno degno di tale nome.” Si avvicinò con tre bottigliette diverse strette tra le dita e un asciugamano bianco sotto il braccio.

“Mi vuoi avvelenare?” Domandò Dazai.

Mori sbuffò. “Questa tua fissa per i veleni va un attimo rivista.” Si sedette sul pavimento a gambe incrociate, come se il ragazzino di quattordici anni fosse lui. “Sta a vedere la magia.” Prese una delle tre bottigliette - quella rossa - e ne versò gran parte del contenuto nell’acqua. 

Dazai lo guardò come se si fosse completamente rincitrullito. “E quindi?”

Parliamo,” rispose Mori, “aspettando che si compia la magia, intendo.”
“Vuoi davvero parlare di Elise?”

“Se lo vuoi anche tu.”

Dazai era sorpreso dalla serenità con cui il Boss affrontava l’argomento. Lo aveva visto ribollire di rabbia di fronte al traditore che aveva organizzato il massacro della sua famiglia, ma il ricordo della figlia morta non sembrava colpirlo con altrettanta ferocia. 

“Era figlia di Johann?” Dazai lo chiese pur conoscendo la risposta.

Mori sollevò l’angolo destro della bocca. “La risposta è un tantino scontata.”

In effetti.

“Come è morta?” Domandò quattordicenne.

“Per parlarti della sua morte, dovrei parlarti di quella di Hans,” rispose Mori. “Non sono sicuro che tu abbia la pazienza.”

“Ti sembra che stia tentando la fuga?” Domandò Dazai, sarcastico. Notò che la vasca si stava riempiendo di schiuma. “Hai fatto veramente quello che credo?”

“Oh, avanti!” Esclamò Mori. “Tutti amano i bagni pieni di schiuma! Non fare il guastafeste!”

Sì, Dazai non aveva assolutamente alcuna difficoltà a immaginare l’attuale Boss della Port Mafia mentre canticchiava in falsetto, girandosi e rigirandosi in una vasca da cui fuoriuscivano bolle di sapone.

“Non pensavo che fossimo venuti qui a Ginevra per girare lo spot di uno shampoo,” si lamentò il ragazzino.

Mori rise, di gusto. “Questa mi è piaciuta!” Esclamò. “Allora, vuoi sentire questa storia o no?”

“Accomodati.”

Contro ogni aspettativa del più giovane, il Boss non allontanò lo sguardo da lui nel raccontare. “Vivemo a Weimar,” cominciò. “Quando non eravamo in battaglia, avevano una casa fuori città. La chiamavamo la casa con giardino, per distinguerla dalla proprietà principale, che si trovava in centro e in cui non andavamo quasi mai. Quella che sto per raccontarti è la mia verità, ma sappi che gli ultimi eventi mi stanno facendo ricredere su molte cose.”

Dazai annuì per dirgli che aveva capito. “Vai avanti.”
“Non so chi ci abbia attaccati,” ammise Mori. “Al tempo, sospettai addirittura del Governo di Germania, ma non ho prove. Non so chi sia entrato in quella casa e abbia fatto quello che ha fatto.”

“E cosa ha fatto?”

“In realtà, su Elise c’è poco da dire,” ammise Mori. “L’avevo lasciata nella sua culla e quando sono tornato, ho trovato solo la sua copertina sporca di sangue.”

Per chiunque, quelle parole sarebbero state sconvolgenti. Quale mostro avrebbe mai potuto far del male a una bambina in fasce? Dazai Osamu non aveva il lusso di porsi certe domande, perché in mezzo a quei mostri era cresciuto. Fare del male a un essere umano così piccolo non era così difficile come alla gente comune piaceva credere.

“E Johann?”

“Qui viene la parte interessante,” disse Mori. “Di lui ho trovato solo la testa.”

Dazai sgranò gli occhi. “Mentre venivamo qui, mi hai detto di avere il sospetto che Johann Goethe sia la terza parte coinvolta nella storia di Byron.”

“E lo credo.”

“Hai appena detto di aver trovato la sua testa.”

“Avanti, Dazai, sei intelligente,” lo sfidò Mori. “So che hai già capito dove voglio andare a parare.”
Il quattordicenne non dovette pensarci. “Pensi non fosse Johann Goethe?”
“Penso che avevo appena vent’anni, piangevo come non ho mai pianto in vita mia, era buio e quel viso era stato sfregiato.”

“Allora perché ti sei convinto fosse Johann?”

“Perché non poteva essere nessun altro,” rispose Mori. “Perché aveva gli stessi capelli biondi, perché l’unico occhio che gli era rimasto era azzurro. Perché c’erano solo lui e Elise in quella casa. Chi altri poteva mai essere?”

Dazai non poteva dargli torto. “Pensi che abbiano finto la morte di Johann per separarlo da te?”

“Non riesco a fare ipotesi su questo.” Mori guardò verso la finestra: la neve continuava a cadere. “So che al tempo avevamo tanti nemici da non poterli contare. Subito dopo la tragedia, io me la presi con il sospettato più plausibile e feci perdere le mie tracce. Mori Rintarou è morto allora, subito dopo Johann ed Elise.”

Dazai circondò le ginocchia con le braccia e fissò la schiuma farsi sempre più densa. “Ammettiamo che Johann Goethe sia viva per davvero,” ipotizzò. “Prendiamo per vera la teoria secondo cui lui è l’uomo ad aver consegnato la lettera di Byron a Hirotsu. Perché?”

“Ci siamo già posti questa domanda, Dazai.”

“No, mi sono spiegato male,” aggiunse il quattordicenne. “Perché adesso? Dove è stato negli ultimi…”

“Dodici.”

“Ecco, dove è stato negli ultimi dodici anni?” Si domandò Dazai. “Lo hanno rinchiuso per tutto questo tempo e ora, non sappiamo come né perché, è libero di volare fino a Yokohama per mettere in moto un piano che non sappiamo se è a nostro favore o sfavore?”
“Mi pongo le stesse domande, Dazai,” lo rassicurò Mori. 

Dazai lo fissò e quello sguardo bastò a preannunciare le parole che seguirono. “Se sai che potrebbe essere nostro nemico, perché ci speri tanto?”

Mori sorrise amaramente. “Non posso proprio nasconderti più niente,” concluse. “Non va bene.” Si sollevò sulle ginocchia, raccolse un po’ di schiuma sul palmo della mano e la sbatté contro il viso del ragazzino.

“Ma che diavolo!” Imprecò Dazai, pulendosi gli occhi.

Mori non gli diede il tempo di riprendersi: prese la seconda bottiglietta - di colore blu - e versò il contenuto sulla testa del ragazzino. Si spostò alle sue spalle e affondò le dita tra i ribelli capelli scuri per insaponarli.

Dazai tentò di ribellarsi. “Toglimi le mani di dosso!”
“Su, su, li devi curare questi capelli o finiranno per divenire un nido di rondini.”

“Non sono affari tuoi!”

“Oh, lo sono eccome!” Ribatté il Boss della Port Mafia, alzandosi in piedi alla ricerca di un pettino. Quando lo trovò, si voltò a guardare il suo giovane assistente e per poco non scoppiò a ridere: a causa del sapone, Dazai aveva tutti i capelli dritti.

Il quattordicenne lo guardò malissimo. “Sei un idiota.”
“Linguaggio, ragazzino.” Mori gli tornò accanto e prese a pettinargli i capelli per districare i nodi.

Dazai borbottò per tutto il tempo, ma gli fece la grazia di stare fermo. 

“Hai dei bei capelli,” commentò il medico, arricciando le punte intorno alle dita.

Il ragazzino tentò di voltarsi, ma le mani dell’altro glielo impedirono. “Ti perdi in complimenti, adesso?” Domandò, sarcastico. “Perché non mi dici di cosa avete parlato tu e Byron.”
“Prima di tutto, sembra interessato più a te che a me.”

Dazai gli lanciò un’occhiata orripilata da sopra la spalla. “Vuoi vedermi, dì la verità?”

Mori rise di gusto per la seconda volta in pochi minuti. “Temo che nemmeno George Gordon Byron abbia abbastanza denaro per comprarti.”

“Oh, adesso ho un prezzo?”

“No, hai un valore,” ribatté Mori. “Tu puoi non riconoscerlo in te stesso, ma io non posso fare a meno di notarlo. Immergiti con la testa all’indietro.”

Dazai ubbidì e quando tornò in superficie, i suoi capelli erano perfettamente lisci e completamente tirati all’indietro.

Mori gli rivolse uno sguardo che tradì un poco di tenerezza. “Sì, hai davvero un bel faccino.”

“La pianti?” Domandò Dazai. C’era un limite a quanto poteva sentirsi orripilato in una sola giornata. “Questi maledetti soldi ci sono?”
“Lo scopriremo con certezza solo domani,” rispose Mori. Afferrò l’asciugamano da terra e si alzò in piedi. “Avanti,” disse, aprendolo, “prima ti asciughi e meno soffrirai dello sbalzo di temperatura. Se sei fortunato, ti beccherai solo un raffreddore.”
Dazai si sollevò dall’acqua, stando attento a rimanere di spalle. Fu una precauzione inutile, perché Mori non tardò ad avvolgerlo nell’asciugamano. 

Non appena il Boss della Port Mafia si fu allontanato, il quattordicenne si voltò per scavalcare il bordo della vasca. Prima di porre la sua prossima domanda, puntò gli occhi scuri contro la schiena dell’uomo. “Se Johann Goethe è vivo, pensi che lo sia anche Elise?”

Mori si fermò sulla porta del bagno, come se si fosse trovato davanti a un muro invisibile. “No, non credo,” rispose, infine. “Ho smesso di cercarla molto tempo fa.”

Dazai non riusciva a capire. “Del sangue in una culla non è niente,” disse. “Non puoi nemmeno sapere se fosse suo e-”
“L’ultima volta che ho parlato faccia a faccia con mia madre, mi ha detto una cosa che non ho più scordato,” lo interruppe Mori. “Il sacrificio estremo per un figlio è una cosa stupida, perché, in questo mondo, un bambino senza nessuno che lo protegga è condannato. Forse Elise non è morta quella notte, ma sono certo che non c’è più.”

A quel punto c’era un dubbio che Dazai aveva bisogno di togliersi. “L’amavi?”

Nonostante la sua impudenza, Mori fu abbastanza gentile da rispondergli sinceramente: “più della mia stessa vita.”

Più quella conversazione andava avanti, meno il ragazzino riusciva a dare un senso all’uomo che gli era di fronte. Già a Yokohama aveva trovato difficoltà. “E come fai a stare in piedi?” 

“Elise era la figlia di Rintarou e Johann,” rispose il Boss della Port Mafia. 

Dazai capì l’antifona. “E Mori Rintarou è morto in Germania, durante la Grande Guerra,” concluse con per conto suo. 

“Proprio così, Dazai.” Il medico gli fece cenno di avvicinarsi. “Vieni qui. Questa sarà la tua prima cena nelle vesti di un Principe della malavita e voglio porre attenzione anche ai dettagli.”

Dazai alzò gli occhi al cielo. “Che cos’è questa novità?” Domandò, già esasperato. “Guai a chiamarmi signorino, ma adesso sono vostra altezza?”

“Non ti sto educando per diventare il mio segretario,” gli ricordò Mori. 

“Io non diventerò un bel niente, perché io morirò prima che finisca il mio primo anno nella tua vita!”
“Se ne sei convinto…” Il Boss aveva ormai imparato che era inutile contraddirlo, tanto valeva lasciarlo libero di dire le sue fesserie. “In ogni caso, sappi che puoi presentarti a questa cena come Principe della Port Mafia o sopportare che Byron ti dia del Fiore d’Oriente per tutto il nostro soggiorno qui.”

Dazai fu svelto a cambiare idea. “Principe della Port Mafia va benissimo.” Se doveva ereditare uno dei titoli di quel folle che si spacciava per suo tutore, meglio optare per quello meno umiliante.

Mori sorrise soddisfatto. “Molto bene, vostra altezza.”


Note:
[1]
Mephistopheles è il nome ricorrente soprattutto nella cultura folkloristicatedesca per indicare un diavolo. Viene spesso dato a una rappresentazione di Satana. È anche il nome con cui viene chiamato il demonio nel mito di Faust - che ispirò il “Faust” di Goethe.
[2] citazione da “La tempesta” di William Shakespeare.

   
 
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