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Autore: Non Molto    07/12/2023    0 recensioni
«M-ma Lei è pazzo» biascicò Ella tra i singhiozzi, mentre le lacrime avevano cominciato a scenderle copiosamente lungo le guance arrossate. «L-lei non può demolire in questo modo la vita di una persona, lo capisce?!».
«E invece posso, dottoressa» obiettò Wammy, calmo. «E, come già Le accennavo prima, se c’è qualcosa che posso prendere, perché non allungare semplicemente la mano e afferrarlo? Comunque, il bambino di cui Le ho parlato finisce lezione verso mezzogiorno, ma riprende subito dopo la pausa pranzo e, in ogni caso, ora Lei mi sembra fin troppo provata per incontrarlo, dunque potrete conoscervi stasera. Nel frattempo la signora Sybil, la nostra governante, Le mostrerà i Suoi alloggi. Ah, e non disfi completamente la valigia: domani sera ripartirà per Sydney e vi rimarrà per circa un mese e mezzo. Naturalmente potrà continuare a vedere i Suoi cari e i Suoi pazienti, seppur sorvegliata. Dopodiché lascerà permanentemente l’Australia e farà ritorno in Inghilterra, e dunque renderemo pubblica la Sua morte, sui cui dettagli La informerò in un secondo momento. Da lì in poi, Lei sarà sotto completa sorveglianza e a completa disposizione del bambino, il piccolo L».
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: L, Nuovo personaggio, Watari
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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IV

Blue Pursuit

 

Quando L aveva stabilito che per proseguire al meglio le indagini sarebbe stato opportuno trasferirsi in Giappone, Wammy aveva acquistato, nel giro di ore, un loft in uno dei più moderni grattacieli dell’intero quartiere di Shinjuku.

Il superattico era diviso in tre appartamenti: uno era riservato al giovane detective, e L l’aveva tramutato in un antro privo di luce da cui pareva fermamente intenzionato a non uscire. Ella non era mai entrata nell’appartamento di Watari, ma poteva facilmente immaginarlo: straripante di monitor ordinati, che gli permettevano di avere infinite finestre su qualsivoglia parte di mondo.

Infine, l’ultimo appartamento era quello in cui viveva lei. Naturalmente, Ella non si era trattenuta dal personalizzarlo: teneva le foto di famiglia sul comodino in camera da letto — nonostante Wammy gliel’avesse “proibito” per proteggere l’anonimato, ma ad Ella non importava nulla dell’opinione del vecchio — le candele profumate alla vaniglia in bagno, le coperte che aveva fatto all’uncinetto — come le aveva insegnato a fare suo padre da ragazza — sui divani, le piante sui davanzali — le stesse che aveva Heath, e i due coniugi si sfidavano per vedere chi sarebbe riuscito a mantenerle in vita più a lungo… Insomma, Ella aveva fatto di tutto pur di rendere quel loft — che sicuramente era costato più di quanto lei avrebbe potuto guadagnare in cinque vite — un’abitazione normale. Normale, così come Ella era una persona normale. O almeno, come aveva sempre tentato di affermarsi in quel mondo totalmente fuori dal comune.

La straordinarietà era diventata per lei ordinarietà: L era straordinario, le avventure che da sempre viveva da dietro il monitor di un PC erano incredibili, e lo stile di vita che conducevano era completamente fuori dal comune. 

Ribadire la propria ordinarietà in mezzo a tanta singolarità era sempre stato per Ella uno sguardo di sfida nei confronti di Watari, che la teneva in ostaggio dall’età di ventotto anni. Era l’unica arma che aveva, quella ribellione silenziosa. Talmente silenziosa però che, probabilmente, in quindici anni di sequestro il vecchio non aveva mai neanche lontanamente notato.

Era quasi ora di cena, quella sera. Erano le sei e mezza, fuori era già buio. Ella, in vestaglia, stava sprofondata su una sontuosa poltrona color amaranto, che dava le spalle a una meravigliosa vista sulla Tokyo notturna. Sulle gambe teneva aperto un album di fotografie.

«Mh, ok, vediamo… Oh, sì! Questa è bella» sogghignò. «Pagina quindici, sì, vai decisamente a pagina quindici». Era al telefono con Heath.

«Ah, sì! Mi ricordo. Eravamo alla presentazione del libro di Peter, giusto? Ehi, ma… aspetta… era quella, di presentazione?!».

«Mh, “Ricordi D’Africa”» confermò Ella, sghignazzando. «Ci puoi giurare».

Heath scoppiò in una risata fragorosa. «Oh, mio Dio! Ma ti ricordi? Peter che decanta le lodi di Carl Sagan davanti alla stampa e agli intellettuali di turno, e Pauline dall’ultima fila che gli corregge la pronuncia del nome! Quando tutti si sono girati a guardarla avrei voluto sotterrarmi, te lo giuro».

Ella ridacchiò. «È sangue tuo, Heath» lo prese in giro, rinfacciandogli la sua parentela con la petulante Pauline Nordahl. «Come sta Peter?» azzardò poi.

«Bene, è partito qualche settimana fa per l’Etiopia. È riuscito a trascinarci anche qualche suo specializzando».

La donna sorrise, e poi arpionò il filo della cornetta con le dita. «Ti chiede ancora di accompagnarlo?».

«Sì, ma non mi ha ancora convinto», Ella lo sentì ridere. «Proprio non ho voglia di prendermi la leishmaniosi o la malaria».

Ella stirò le labbra, con amarezza. Heath stava mentendo. Gli sarebbe piaciuto eccome, andare con Peter in Etiopia.

All’epoca, quando Quillsh Wammy non si era ancora appropriato della libertà dei coniugi Nordahl, Heath aveva tanti progetti. Uno dei tanti era l’Africa, come i suoi genitori prima di lui: lui, Peter e Jenna, suoi colleghi e amici, sarebbero partiti per il Ghana a breve. Giovani chirurghi, smaniavano di poter salire su un aereo per andare a cambiare la vita di coloro che parevano ormai senza speranza.

Quel sogno era stato però infranto, e la vita serena dei due giovani sposi completamente sconvolta. Ella era diventata ostaggio di Watari e del suo lugubre orfanotrofio, e Heath si era ritrovato cimici e telecamere perfino in bagno.

Da quindici anni, Heath non usciva più di casa da solo. Oltre alle cimici cucite all’interno dei suoi vestiti, c’erano i servizi segreti britannici a pedinarlo, anche quando Heath non li vedeva. Ogni sua telefonata era controllata, ogni suo spostamento concordato e programmato. Le poche volte in cui era uscito di casa di sua iniziativa, si era ritrovato almeno due agenti ad attenderlo davanti al cancello. Watari temeva che l’uomo avrebbe potuto denunciare il rapimento della moglie; non era la polizia a spaventarlo, dato che quella poteva gestirla come meglio credeva, ma parenti e amici: quella era l’unica area in cui il vecchio non aveva il controllo sul serpeggiare delle informazioni. E Wammy non poteva assolutamente rischiare che in giro per il mondo iniziassero a circolare storie sui suoi affari. Proteggere l’anonimato, quello era sempre stato l’obiettivo fondamentale.

Il vecchio non aveva mai dato troppa importanza ai legami. Dato che riguardavano la sfera emotiva e sentimentale erano superflui, per lui. Quando però si era trattato di sfruttarli per raggiungere i propri scopi, quest’aspetto l’aveva tenuto bene in considerazione: si era curato d’impedire al legame tra Ella ed Heath di affievolirsi, perché altrimenti il ricatto con cui teneva in pugno i coniugi Nordahl avrebbe perduto il suo potere.

Prima che L abbandonasse definitivamente l’orfanotrofio, Heath era potuto andare a trovare Ella a Winchester una volta all’anno. Inoltre, il vecchio permetteva loro trenta minuti di telefonata ogni tre giorni, telefonata che veniva repentinamente chiusa dall’agente di turno quando qualcuno andava a trovare Heath senza preavviso.

Questo perché solo Heath sapeva che Ella era ancora viva. Per il resto della sua famiglia e dei suoi amici, Ella era morta il 21 dicembre 1988, sul volo Pan Am 103 delle 18 in punto, in partenza da Londra Heathrow e diretto al J. F. Kennedy di New York. Dopo un ora di decollo, l’aeroplano si era schiantato sul villaggio scozzese di Lockerbie: un attentato terroristico a opera dei servizi segreti libici. Comunque, per Heath non era stato difficile scoppiare in lacrime il giorno del funerale di Ella, anche se sapeva che sua moglie era ancora viva e vegeta.

Quando la donna avvertì tre colpi alla porta sobbalzò, mentre ancora stava ridendo.

«Scusa Heath, devo andare» fece, alzandosi dalla poltrona. 

«È venuto a chiamarti?» domandò lui.

Heath sapeva di L, ma non l’aveva mai incontrato. Né Ella né Watari avevano mai voluto.

«Sì» mormorò Ella, mentre apriva la porta.

«Ok, allora di lascio. Salutamelo» fece Heath, come diceva di solito.

Ella sospirò, guardando i grandi occhi grigiastri del detective che aveva di fronte a sé. «Sì, certo. Buonanotte, Heath».

«Buonanotte, amore», ed Ella mise giù.

«Ciao, che ci fai qui?» domandò poi al giovane. Era da un po’ che L non si presentava alla sua porta, e al contrario era lei a doverlo raggiungere nella sua stanza.

Il ragazzo ignorò completamente la domanda, scivolando delicatamente nell’appartamento della psicologa. «Heathcliff ti dice frequentemente di salutarmi?» domandò.

«Sì, direi ogni volta» rispose lei guardandolo di sottecchi, mentre chiudeva la porta.

«E perché non mi riporti mai i suoi saluti?».

«Non saprei» borbottò Ella. «Non l’hai mai visto, dopotutto» sviò.

«Sì, che l’ho visto».

«Ah, sì?».

«Sì, qualche volta vi ho visti passeggiare nel giardino del The Wammy’s House. Avevi l’identica faccia inebetita che hai quando parli al telefono con lui».

«Ah, grazie».

«È la verità. Comunque, è questione di cortesia. Ricambia i saluti a Heathcliff, Ella».

«Senz’altro» borbottò lei e, senza farsi vedere da L, alzò gli occhi al cielo.

Senza aggiungere altro, il detective andò a prendere posto su una delle due poltrone al centro dell’appartamento, assumendovi la sua tipica posizione accovacciata. 

Ella spostò quella su cui era rannicchiata poco prima per posizionarla di fronte a quella di L, e prese la copia dell’album di fotografie che stava sfogliando insieme a Heath, e lo appoggiò sul tavolino in legno scuro.

«Dunque, immagino che—».

«Tu ami Heathcliff così come lo amavi quindici anni fa. Com’è possibile?» la interruppe L.

«Come fai a dire che lo amo come lo amavo quindici anni fa?».

«Per la faccia inebetita che ancora fai. La facevi anche quand’ero bambino».

«E per te l’amore è questo? Fare la faccia inebetita?».

«Sì, praticamente sì».

«Ah, buono a sapersi» ridacchiò la donna. «Comunque, non saprei. Perché dovrei non amarlo più, dopotutto?».

«Non ne ho idea. Tutto tende a sgualcirsi, col tempo. Gli oggetti, gli alberi, i cadaveri, gli uomini. Tutto muore, tutto si degrada. Per l’amore però questo principio sembra non valere. Rimane vivo e baluginante, sempre. È singolare, non trovi?».

«Be’, non sempre. Anche l’amore va a scemare, in certi casi» obiettò la psicologa.

«Non l’amore vero» ribatté il detective. «Se va a scemare è perché non era amore, ma semplice infatuazione».

Ella sogghignò. «E da quando gli uomini di scienza sono così sicuri nel fare affermazioni riguardo a costrutti non operazionalizzabili?» lo provocò.

Il giovane però sembrò non cogliere la presa in giro. «Hai ragione» sospirò, stiracchiando appena le lunghe braccia sottili. «Cominciamo questo colloquio?».

«Colloquio!?» fece Ella, teatralmente incredula. «Sei piombato nella mia stanza mentre ero al telefono con mio marito, porto vestaglia e pantofole e stavo per andare a prepararmi la cena. Questo non è il setting di un colloquio psicologico, ma di una chiacchierata di piacere. Perciò ti concedo quindici minuti, poi fila nel tuo appartamento ché è ora di mangiare».

L non ribatté ma gonfiò le guance, contrariato. Era un gesto infantile, e difatti il ragazzo lo faceva di frequente quand’era bambino. Vedendolo, Ella avvertì una punta di nostalgia. «Allora? Come stai?» gli domandò.

«Bene» sviò subito lui, come faceva sempre. «Si sono verificati tre casi di detenuti che hanno compiuto azioni mai riscontrate prima, e poi sono morti d’infarto».

«Del tipo?».

«Uno di loro si è tagliato un dito, e col sangue ha disegnato sulla parete della cella una stella a cinque punte contornata da un cerchio. È comune la credenza che rappresenti un emblema satanista; in realtà, simboleggia gli elementi di terra, acqua, fuoco, aria e spirito. Poi, un altro ha lasciato un messaggio contenente parole di terrore nei confronti di Kira. E l’ultimo è evaso dal carcere per poi morire nei bagni del personale».

«Mh. E dunque?».

«Come “e dunque”?».

«Non capisco cosa ci sia di strano. Tanta gente fa cose strane prima di morire».

«Del tipo?».

Ella sbuffò. «Che ne so. Léon consegna l’anellino di una granata a Stansfield, prima di morire. Stansfield non capisce perché, ma Léon sa che lo sta facendo per vendicare Mathilda. Léon aveva una motivazione ben precisa. Magari anche questi criminali le avevano».

«Per crepare in un gabinetto?» domandò L, alzando un sopracciglio.

«Sì, va be’, era per dire» borbottò Ella. «Tu cos’hai pensato, invece?».

«Ho pensato che se nessun criminale morto per arresto cardiaco finora ha compiuto azioni inusuali prima di morire, e stavolta invece addirittura in tre l’hanno fatto, non è da escludere che sia opera di Kira».

«Be’, ma ormai abbiamo appurato che è opera di Kira, no?».

«Sì, che a farli fuori sia stato lui ne sono certo» chiarì il detective. «Io mi riferivo alla manipolazione delle azioni precedenti la morte: magari Kira ha, oltre al potere di decidere quando avverrà l’infarto, anche quello di stabilire quali saranno le azioni che la vittima compirà prima di spirare».

«Il “potere”?» gli fece eco Ella, rabbrividendo. «Cavolo, sembra di avere a che fare con uno stregone».

L ignorò il suo commento e andò avanti. «Ho ordinato all’NPA di comunicare ai media che le morti sono avvenute per infarto, senza specificare nulla riguardo alle azioni a esse precedenti. Probabilmente la manipolazione delle azioni precedenti la morte è un’abilità che Kira ha ottenuto di recente, ed è probabile che ora stia effettuando dei test per capire fin dove può arrivare. Il punto ora è capire perché Kira ha svolto dei test servendosi dei criminali. Vuole forse fare qualche mossa? L’FBI però si accorgerebbe di un individuo che si comporta in maniera sospetta…», L stava ragionando ad alta voce.

«Be’, l’hai appena detto tu, no? Magari sta testando questa sua eventuale nuova capacità per comprenderne i limiti» suggerì Ella, sebbene il suo intento non fosse quello di consigliare il giovane, bensì quello di riportarne l’attenzione al momento presente. «Ci sono novità dagli agenti dell’FBI?».

«Nulla di rilevante. E se l’obiettivo di Kira fosse un altro?», L tornò ai propri ragionamenti. «Non so se la stella a cinque punte significhi qualcosa in particolare, ma ho analizzato il messaggio che conteneva parole di terrore nei confronti di Kira. Leggendo la prima lettera di ogni riga in sequenza, viene fuori l’inizio di una frase: “L, lo sai che”. Credo che stia tentando di comunicare con me».

La terapeuta stava per ribattere, ma le parole le morirono in gola: in quel momento Wammy aprì la porta dell’appartamento tramite il passepartout ed entrò, reggendo un ampio piatto in ceramica finemente decorata, che offriva un vasto assortimento di dolci.

«Le ho detto almeno un centinaio di volte che è irrispettoso e controproducente interrompere un colloquio terapeutico, signor Watari» gli ringhiò contro Ella. «E, visto che questo è il mio appartamento, preferirei che bussasse prima di entrare».

Il vecchio, che portava un completo elegante color grigio antracite, avanzò lentamente e poggiò il piatto davanti a L, sul tavolino.

«Non è un colloquio terapeutico ma una chiacchierata di piacere, dottoressa Nordahl» ribatté poi, con tono calmo ed educato. «Inoltre ero convinto che questi anni di sequestro Le fossero stati sufficienti per capire che di quello che Lei preferisce o non preferisce a me non importa minimamente».

«Grazie, Watari» mormorò L, mentre Ella guardava incredula il vecchio rivolgere un cenno del capo al ragazzo e poi andarsene, chiudendo la porta dietro di sé.

Dopodiché, L guardò la terapeuta. Aveva negli occhi una nota di rimprovero. «Non devi attaccare Watari. Anche se ci litighi, la tua situazione non cambia. L’unico risultato che ottieni è che ti arrabbi ancora di più, proprio perché non ottieni alcun risultato. Sei come un leone che tenta di sfondare una gabbia d’acciaio col proprio corpo: non ce la farai mai. L’unica cosa che ottieni sono delle membra doloranti».

L non sbagliava. Ella odiava Wammy, e ogni scusa era buona per ringhiargli contro. Era anche vero che manifestare al vecchio le proprie emozioni non aveva mai alcun vantaggio: Wammy continuava a fare come gli pareva, sempre. E sì, il più delle volte ciò non faceva altro che far arrabbiare Ella ancora di più.

«È vero» ribatté la donna «ma al contempo è deolontogicamente corretto che io protegga la privacy del mio paziente e il setting terapeutico, ed è quello che ho tentato di fare. Perciò astieniti dal fare questi commenti, se mi comporto in un determinato modo è perché ho in mente un obiettivo che è funzionale per il mio lavoro» lo ammonì poi. «E da qui mi collego: non devo ricordarti io che hai la sindrome di Marfan, vero?» domandò infine, riferendosi al piatto in ceramica ricolmo di dolci.

«No, non devi» rispose L, tranquillamente.

Ella non ribatté nulla, e restò impotente a guardare il suo paziente mentre ingurgitava un bignè strabordante di crema al cioccolato.

«A proposito», L parlò con la bocca piena, «Watari vuole che io decida chi erediterà l’identità di L dopo di me. Potrei andarmene da un momento all’altro, dopotutto. La mia aorta potrebbe lacerarsi per via della sindrome di Marfan, oppure potrei morire per mano di Kira».

Ella annuì lentamente, con occhi vuoti. «Devi scegliere uno tra i bambini dell’orfanotrofio?» gli domandò poi.

«Sì, del The Wammy’s House. Non che io abbia vasta scelta, in realtà. Il primo e il secondo della graduatoria sono due ragazzini di dodici e quattordici anni. Te lo immagini? Un altro preadolescente in gabbia, obbligato a fare questa vita».

Le labbra di Ella si curvarono in un ghigno amaro. «Quindi è una vita a cui si è obbligati, la tua? Non è una vita che ci si sceglie?», il suo tono aveva una punta d’ironia ch’era certa L non avrebbe afferrato.

«No, non ce la si sceglie» fece L. «Solo un folle la sceglierebbe».

«Ciò equivarrebbe a dire che anche tu sei un folle» lo sfidò Ella.

Il giovane alzò le iridi grigie, e la pugnalò con un’occhiata gelida e affilata. «Ho detto che solo un folle “sceglierebbe” questa vita. Io non l’ho mai scelta, così come non l’hai mai scelta tu».

La terapeuta annuì. «Mai parole furono più vere» commentò. 

«È come se mi avessero drogato» proseguì il ragazzo. «Mi hanno instradato in questa vita, dicendomi che non avrei potuto fare altro. Senza permettermi d’imparare a fare altro. E ora fare questa vita è l’unica strada che conosco per tirare avanti. È una gabbia, ma è la mia unica fonte di salvezza. Mi protegge dal mondo esterno, con cui non ho mai imparato a interagire veramente. Senza contare che l’adrenalina che avverto quando risolvo un caso ha su di me l’effetto di una sostanza psicoattiva. Mi permette di non fermarmi a riflettere, perché ho la certezza che fermarmi a riflettere equivarrebbe a realizzare quanto mi sento perduto».  

Senza ribattere Ella, sotto allo sguardo curiosamente vigile del detective, andò ad afferrare il blocco da disegno che teneva sul tavolo della cucina — nel tentativo di coltivare un nuovo hobby — e vi appuntò a grandi linee quanto L aveva appena detto. «Il quarto d’ora è scaduto, ma quella che hai appena fatto è una riflessione estremamente interessante. La prossima volta riprendiamo da qui. Ora fila nel tuo appartamento, ché ho fame».

   
 
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