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Autore: Guntxr    02/01/2024    0 recensioni
Uno scrittore sofferente e un ragazzino, senza casa e costretto a rubare, si incontrano, cosa può insegnare l'uno all'altro? Due mondi completamente opposti che si incontrano e si scontrano. Può Moira portare il ragazzo sulla buona strada? Qual è la buona strada? Tante domande e poche risposte, ma questo solo se non si legge quanto segue, se si inizia questa avventura, le risposte arriveranno.
Genere: Fantasy, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Lз tre erano arrivatз all’orfanotrofio da meno di un minuto, Moira aveva avuto bisogno di qualche secondo di pausa, non era tanto la camminata ad averlo stancato, ma tutti i pensieri che vi erano stati durante quest’ultima. Rebecca cercò di fargli forza, intuendo che forse era la paura a tenerlo fermo, posò la sua mano sulla sua spalla e guardandolo negli occhi recitò tutte le parole che le frullavano per la testa in quel momento. «Dai, Moiri, è come quando c’era Thomas, ricordi? Tu che ti cacciavi in qualche guaio, lui che ti urlava di distruggere tutto e io che facevo la voce della coscienza.», ironico, pensò lui, che ora era proprio Thomas a fare la parte della coscienza, di solito faceva ridere il fatto che lui sembrava essere privo di questa tanto nominata coscienza. Rebecca ripeteva sempre che lui era mosso a razzo da un’energia creata dal caos e da tutto ciò che poteva seminare scompiglio nella terra. “Agente del disordine”, lo chiamava lei con fare affettuoso. «Ora che non c’è più lui dobbiamo fare da soli, ma anche in questa situazione non siamo soli, no? Io ho te e tu hai me.», gli porse la mano e quando le due si unirono lei non s’accorse che quella di Moira s’era unita a quella di Thomas. Lei per un attimo riuscì quasi a vederne la sagoma, la ignorò pensando non fosse nulla di cui preoccuparsi. «Piuttosto, tu hai un piano? Di solito eri tu a escogitare il piano finale, noi ti spronavamo e basta. No?


Moira si guardò attorno, poi rispose dopo un sospiro. «Ho scritto un messaggio a Rossella prima che partissimo, ha detto di aspettare qui e che ci avrebbe portato lei dentro. Ora i bambini sono tutti a dormire, perciò tra qualche minuto saremo lì, accompagnati da una gran donna.», spostò poi lo sguardo su Rebecca, «Mi correggo, due, due grandi donne. Ci sei anche tu.», lei arrossì guardandolo, sorrise. Sembrava quasi essere fatta apposta tutta la conversazione appena avuta, dato che dopo qualche secondo uscì dalla porta davanti a loro una donna avanti con l’età, che Moira riconobbe subito. «Rossella, lascio tutto nelle tue mani, perché io non ho la benché minima idea di cosa fare, davvero, sono congelato qui dove sono. Tu hai un piano, vero?», lei annuì, poi cominciò a parlare non appena l’uomo, che ai suoi occhi era ancora un ragazzo, fece silenzio.


Diede come un colpo di tosse e con voce quasi stridula, dovuta al freddo che vi era attorno a loro, iniziò la sua spiegazione. «Io e lo staff ci siamo messi d’accordo, abbiamo intenzione di usare le armi pesanti. E ciò che io definisco “armi pesanti” è questo.», usci dall’interno della giacca una lettera, che Moira lesse ad alta voce davanti a Rossella, Rebecca e l’impercettibile Thomas. Essa era pregna di calde parole verso l’anziana signora e alla fine di tutto il testo vi era una parte in cui il mittente donava in eredità l’orfanotrofio a lei, dicendo che sarebbe stato di sua proprietà e non del figlio.


«Le pratiche legali e burocratiche sono già in corso, quindi non abbiamo di che preoccuparci, ora dobbiamo solo aspettare che le cose vadano a finire come speriamo noi. In teoria questa è una vittoria da parte nostra, ma non è del tutto conclusa come storia. Moira io ormai sono vecchia e non posso di certo continuare a gestire l’orfanotrofio fino ai miei novant’anni; quindi, ti chiedo di pensarci su e quando sarai pronto di darmi risposta.», lui disse che non capiva di cosa stesse parlando.


Ci volle l’aiuto di Rebecca che gli spiegò per filo e per segno cosa Rossella aveva appena detto. «Moira, vuole metterti come…si può dire nuovo erede? Fatto sta che vuole che tu abbia l’orfanotrofio dopo di lei. Mi corregga Signora se mi sto sbagliando.», quest’ultima sorridendo confermò le sue parole. «Certo, è una grande responsabilità, ma non è da cestinare.»


Moira chiese di dar lui cinque minuti, di entrare e aspettarlo all’interno. Prima di andarsene, inoltre, tolse la propria sciarpa che aveva al proprio collo e la avvolse dolcemente attorno a quello di Rossella che era visibilmente infreddolita, commentando dicendo che serviva più a lei. Seguito da Thomas si allontanò di qualche metro, andando dietro a un angolo dove nessunǝ l’avrebbe visto o sentito. «Pensavo sarebbe stato più semplice.»


«La vita va così Moira, non puoi semplicemente decidere di sparire per un capriccio amoroso, lasci indietro tutto ciò che ti sei costruito e tutte le persone a te care soffrirebbero e non poco. Ricordi come eravate distrutti quando avete perso me? E tutt’ora siete in pena per la cosa. Vuoi davvero lasciare tutto questo dietro di te? Questa terra a volte è la più gelosa e più la vuoi abbandonare e meno ti lascerà andar via. Con alcuni è così, con altri è l’esatto opposto. A volte la vita è ingiusta, da sempre ciò che non vuoi avere per ostacolarti, ma sono questi ostacoli che ti rendono forte, che fanno di te ciò che sei realmente. Ogni caduta è un insegnamento a rialzarsi e quando non puoi più fare niente allora saprai che ci hai provato. Questo è come la vedo io, ma in fondo, è dell’opinione di un morto che stai ascoltando. Prendi le tue decisioni, fa ciò che tu stesso vuoi fare, non io, non Rebecca, nessun’altra persona al mondo ha l’opinione perfetta per te, neanche io, solo tu ce l’hai.»


L’uomo strinse i pugni in segno di rabbia. Certo, non era davvero triste o infastidito dalle cose successe negli ultimi giorni, ma il dover risolvere le situazioni, l’essersi rimesso in gioco con Rebecca, il dover accudire un bambino, questo rovinava i suoi piani di seguire Thomas nel mondo dei morti. «Hai ragione, non si può sparire e basta. Forse devo solo mettermi l’anima in pace, non vedo altra scelta e te lo dico con grande onestà, anche se questo significherà non dover stare più con te, farò ciò che renderebbe entrambi felici. Perché so benissimo che tu non vuoi che io muoia, tu mi vuoi ancora qui in mezzo agli altri, perché anche tu vuoi il meglio per me.»


Thomas commentò ridacchiando. «Beh, è troppo tardi per pensare al meglio per me, quindi penso al tuo di bene, no? Sei la cosa che più si avvicina a una mia anima gemella, quindi alla fine, ci reincontreremo comunque.»


I due si guardarono e l’uomo alato riprese. «Che ne dici se ora entriamo? Ti stanno aspettando e la situazione non mi sembra così comoda da poter stare qui a riflettere e prendersela con calma. Anzi, pare assai delicata da ciò che mi sembra di capire.», Moira s’alzò in piedi, Thomas gli posò la mano sulla spalla dolcemente. «Non sei solo e mai lo sarai, ricordalo sempre.»


«Grazie.», disse lui con tono basso, cercando di forzare un sorriso.


I due entrarono nell’edificio, si ritrovarono in un piccolo bagno di folla di almeno quindici persone, forse anche venti, erano tuttз attorno a Moira. Si intromise Rossella intimando loro di lasciarlo respirare. «Lui dov’è?», la donna spiegò poi che era andato via e che avrebbe messo in mezzo i suoi avvocati, definendolo un vigliacco, ma che in effetti non aveva altra scelta e fosse stata lei al suo posto avrebbe fatto allo stesso modo. «Ho capito, ora però, che si fa? Se non c’è altro da fare io tornerò a casa, ho delle cose importanti da sbrigare e non so perché ma ho un brutto presentimento, non so se mi spiego.», Rossella annuì, lasciandolo andare. «Rebecca, tu che fai, vieni con me?», quest’ultima scosse il capo dicendo che voleva rimanere un altro po’ e subito la folla sembrò inghiottire lei al suo posto. «La sciarpa dalla pure a Rebecca quando se ne va, buona giornata a tutti, grazie!», dopo che il resto del gruppo lo salutò se ne andò seguito come sempre dal fantasma alato.


«Me la aspettavo più epica come scena.», commentò Thomas.


«Cosa intendi?»


«Non lo so, prevedevo una mega rissa, oppure qualche testa impalata. Sai come in quel libro fantasy, lì risolvono così questo tipo di cose. Ma in effetti non avremmo risolto nulla, anche se sarebbe stato più cinematografico e anche più epico. Ovviamente scherzo, non ci tengo ad assistere a certe scene, certo, ho lo stomaco di ferro, ma siamo nel ventunesimo secolo, non mi sembra il contesto sociale adatto per una vicenda del genere.» Moira rise, pensando al fatto che solo Thomas riusciva a farlo divertire in momenti di stress come quello. «Poi te lo immagini? Magari anche con la testa mozzata Fascizio urlerebbe alla caccia ai gay. Ti piace come l’ho rinominato?»


«Fascizio. Mi piace, parecchio poetico oserei dire. Ora che si fa? Si torna a casa e si piange? Ancora non ci credo che quel ragazzino non ci abbia nemmeno detto come si chiama.», seguì uno sguardo un po’ confuso da parte di Thomas che era d’accordo con l’amico. «Sicuramente è una spia.», concluse ridacchiando. «Non ci vuole dire chi è, altrimenti dovrebbe ucciderci. Con me sarebbe semplice, non opporrei resistenza, ma con te, diamine avrebbe un bel po’ da fare prima che tu possa morire una seconda volta.» Thomas, trovandosi di nuovo d’accordo con le sue parole, si limitò ad annuire sorridendo alla cosa. I due riuscirono a trovare il loro attimo di pace. «Senti Thomas, ora che siamo solo io e te, cosa ne pensi se parlassimo di noi due? Voglio dire, sono passati un po’ di giorni, possiamo…insomma, decidere cosa fare? Anche tu hai ragione dicendo che la cosa non durerebbe, ma io credo, invece, che potremmo goderci i nostri ultimi istanti su questa terra insieme e quando anche tu sarai libero di andare, la cosa finirà. Che ne pensi?», Thomas non aggiunse altro, i due continuarono a camminare verso casa in silenzio, senza dire nulla per tutto il tragitto. Moira sentiva tutto il peso del momento su di sé, riusciva a malapena a pensare; perciò, parlare era al momento fuori dalla sua portata.


Passarono davanti a un negozio di alimentari e a Moira venne in mente la buona idea di entrare e comprare qualche spuntino per il suo nuovo piccolo amico. Chiese a Thomas di aspettarlo fuori e che voleva stare un po’ per le sue. Certo, aveva davvero in mente di prendere qualcosa per il ragazzino, ma riuscì ad approfittarne per avere un momento senza Thomas, un momento in cui aveva altro a cui pensare che non fosse lui. «Vediamo.», disse guardando tra gli scaffali. «Oggi potremmo vedere un film, magari un po’ di pop corn, che ne dici Tho…», si morse la lingua immediatamente. «Riesco a vivere senza di lui, suvvia Moira, scegli da solo, non c’è bisogno che ci sia sempre lui a decidere per te, sei adulto.», sulla sua spalla sinistra apparve il solito omino della coscienza con le sue fattezze, gli disse che ciò non era vero, che non riusciva a fare nulla senza l’accompagnamento di Thomas. Lui controbatté «Non sai cosa dici. Ce la posso fare benissimo anche da solo. Vedrai! Vedi? Ora prendo i pop-corn e vado a pagare, ce ne torniamo a casa e ce li gustiamo davanti a un buon film. Magari uno di quelli dove c’è Massimo Troisi, sono i miei preferiti del cinema nostrano.»


Arrivò poi alla cassa con ancora l’omino della coscienza sulla propria spalla che lo riprese. «E allora perché hai preso due pacchi di pop-corn? Dai Moira, non sai nemmeno se Thomas è capace di mangiare o bere, e tu prendi una porzione in più? L’altro giorno ti ho visto, sai? Quando hai preparato un piatto in più, il giorno in cui hai invitato a pranzo Rebecca. E poi cos’è questa storia che sei innamorato di Thomas? Lui è tuo amico, rovinerai tutto così. Lui finirà per odiarti e tu lo perderai, per sempre.» Gli rispose con il pensiero, dicendo che quello era un destino che già conosceva da tempo e che era arrivato in ritardo, concludendo con un “come al solito”.


Si ritrovò Thomas di fronte, che lo aspettava e pareva essere parecchio preoccupato. «Ti ha dato filo da torcere, vero?», Moira non capiva a cosa si riferisse. «Quella sottospecie di elfo di babbo natale che ti ritrovi sulla spalla. Dovrebbe imparare un po’ di educazione.», lanciò come uno sguardo minaccioso all’omino, che subito si nascose dietro al colletto di Moira. Lui chiese se anche lui riuscisse a vederlo. «Certo, oso rammentarti che le nostre anime sono collegate in qualche modo, è come se vivessimo all’unisono nello stesso posto. Come se tu avessi due anime e io due corpi. Per questo quando ci siamo baciati ti sono spuntate quelle bellissime ali bianche, eri diventato, anche se per un attimo, come me. Non vorrei che io abbia le ali da corvo solo perché sono nero, altrimenti l’universo sarebbe alquanto razzista.»


Moira ridacchiò. «Sicuramente c’è un motivo dietro. Le mie erano davvero bianche? Non sono riuscito a vederle, ma le sentivo su di me, non so come, ma mi percepivo come in un limbo, in un ponte tra la vita terrena e l’oltretomba, mi sentivo come fuori luogo sia in una metà sia nell’altra.», i due si guardarono per qualche secondo, poi Moira riprese. «È così che ti senti, vero?», il ragazzo sospirò rattristito, sentendosi terribilmente in colpa. «Quando perdi qualcosa, non è sempre detto che ritorni. Godi di ogni momento prima che ciò accada, perché non è detto che ritorni per te. Tu non sei tornato per me. Sei stato costretto. Tu volevi solo l’eterno riposo, non volevi più avere nessuna storia, non volevi avere più nulla di aggiuntivo e ora io sto rovinando i tuoi piani come l’universo sta facendo con i miei. Nevvero?», lui annuì silenzioso mentre s’accendeva l’ennesima sigaretta. «Per questo non smetti mai di fumare, ogni sigaretta è come la mera attesa che non appena si questa si spenga tu possa tornare lì, libero da ogni responsabilità, libero da ogni storia. Volevi solo andartene in pensione,» disse ridacchiando, «ma ti sei ritrovato con più lavoro da fare di prima. Ora andiamo, sono preoccupato per quel ragazzino, ho preso dei pop-corn, alla fine. Sicuramente vedremo un film e con molta probabilità sarà uno con Massimo Troisi. Sai, quelli che tanto piacciono a me.»


Iniziarono di nuovo a camminare e in dieci minuti circa arrivarono a casa.


Moira aprì la porta e si ritrovò davanti a un silenzio glaciale. Lo trovò strano, nonostante casa sua fosse stata sempre così, ma pensando al fatto che vi era un ragazzino al suo interno la cosa pareva più che bizzarra. Di solito, pensò lui, dove ci sono i più piccoli, non c’è mai quiete. Lo diceva per esperienza, dato che lui aveva a che fare con i bambini di ogni età, aveva anche pensato di portare il nuovo arrivato all’orfanotrofio, realizzando però che forse era troppo grande per poter stare con gli altri, che, invece, erano assai più giovani di lui. Moira tolse con calma le scarpe e guardandosi attorno posò la propria giacca sull’appendiabiti.


«Siamo arrivati!», si fece sentire alzando un po’ la voce, ma non ricevette risposta alcuna. «Che stia dormendo?» Iniziò a cercare un po’ per tutte le stanze, ma non lo trovò in nessuna di queste. «Spero vivamente non sia fuggito via, eppure, la porta d’ingresso era chiusa a chiave, non vedo da dove sia potuto uscire. Dici che gli facciamo paura? A me sembrava già molto spaventato di suo, ma al contempo s’era ambientato bene tra di noi, non trovi?», Thomas fece spallucce non sapendo esattamente cosa dire. «Senti anche tu questa musica? Viene dal soggiorno.», Thomas replicò dicendo che quello dove si trovavano in quel momento fosse il soggiorno. «Lo pensavo anche io quando venni ad abitare qui, ma questo è il primo, ce ne sono due, l’altro è più nascosto e ci tengo i miei vinili. Avrà ascoltato il mio consiglio di ascoltare Wagner, anche se questo è Mozart.»


L’amico che ascoltava tutt’altra musica, si sentì come estraneo alla conversazione, si limitò quindi a sorridere e annuire senza aggiungere altro. Non appena entrarono in quella stanza vennero avvolsi da uno strano calore nell’aria. Era dolce e riusciva ad abbracciare entrambi allo stesso tempo. Non trovarono però il ragazzino, Thomas, la quale attenzione era stata attratta da qualcosa, si spostò un po’ più avanti. Si chinò verso terra, prendendo in mano quella che sembrava essere una collana. «Moira…», esordì guardando l’altro, «…questa è tua?», l’amico scosse il capo, dicendo che non aveva mai comprato né ricevuto collane di quel tipo. «Ho già visto questo simbolo, era una spilla che aveva l’uomo che vidi il giorno che sono morto, quello che mi disse che non potevo andare oltre e che dovevo restare con te. Era vestito di rosso, ora che ricordo, molto elegante.», Moira subito si avvicinò a lui, strappandogli la collana dalle mani, chiedendogli di ripetere l’ultima parte. «Vestito di rosso? Sì era molto elegante e aveva questo abito sgargiante che non passava di certo inosservato. Inusuale per un angelo, oserei dire. Me lo sarei aspettato vestito di bianco, con l’aureola e le ali. Come gli altri angeli, ecco.»


«Quello non era un angelo, Thomas. E poi li hai mai visti gli angeli biblicamente corretti? Sono la cosa più inquietante che si possa immaginare e non sarebbero capaci affatto di indossare un abito. Quello che hai visto è quello che ho visto io oggi, non pensavo fosse reale. A dirla tutta…», nel mentre iniziò a cercare nella propria libreria un libro specifico. «…non ha nemmeno un nome.», prese tra le mani il volume chiamato “Le Dodici Bestie Di Morfeo”, l’amico non lo riconobbe, dato che l’autore non vi era scritto e lui non aveva mai sentito quel titolo da nessuna parte. Iniziò a sfogliare il libro, arrivando a una pagina, dove vi era scritto “Fuoco Vivo”, sotto quest’ultimo vi era un’immagine, raffigurante lo stesso simbolo della collana, un fiore e una falce. In verità quel libro aveva le illustrazioni ed erano anche tante, solo che quest’ultime non erano state di interesse del ragazzino, per questo non riuscì nemmeno a notarle. «Cito testualmente. “Questa collana non è un oggetto normale come tutti gli altri, anzi, essa è un portale per un mondo ultraterreno dove soltanto chi la indossa e chi muore può entrare. Un mondo al confine tra la vita e la morte dove si può riposare in eterno. È qui che Fuoco Vivo trascorre la sua esistenza.”, sentivo qualcosa di strano in quell’uomo e non credevo nemmeno fosse reale, pensavo fosse solo frutto di immaginazione. Senti, Thomas, io credo che andrò da solo, non posso permettere che questo…Fuoco Vivo se lo tenga, è un ragazzino e non è ancora pronto per un’esperienza del genere. Tu aspettami qui.», tra i due nacque una piccola diatriba in cui uno diceva di voler avventurarsi da solo, mentre l’altro insisteva sull’accompagnarlo.


«Mi spiace Thomas, ma ho preso la mia decisione. Sarà il mio primo passo verso una vita senza di te, dovrò abituarmici, no?», non attese nemmeno che l’altro parlasse, indossò la collana e subito sparì nel nulla.


La casa iniziò a risuonare sempre più muta e anche il giradischi che fino ad allora continuava a cantare la stessa musica senza sosta riuscì a zittirsi. Si udiva soltanto il soffiare del vento venir dentro da una finestra rimasta socchiusa in soggiorno. Un’aria calda che coraggiosa si fece strada ovunque.


Quando Moira riaprì gli occhi si ritrovò in una landa desolata, dove tutto ciò che si poteva vedere erano rocce e polvere e piccoli o grandi monti e colline fatte sempre dello stesso materiale. «Non lo immaginavo così questo posto, pensavo fosse più verde.», cominciò a guardarsi attorno, ma non appena si voltò si ritrovò davanti a Thomas che aveva avuto il suo stesso pensiero. Sobbalzò non appena lo vide. «Tu che cosa ci fai qui? Dovevi rimanere a casa, non dovresti esserci anche tu.»


L’amico sembrava essere anche più confuso di lui, si grattò il capo. «In teoria, io non sarei potuto venire, ci avevo pensato bene e io ho ancora la catena che mi tiene legato al nostro mondo, ma non capisco come ciò sia possibile.», con le mani poi prese la grossa, ma leggera, catena che aveva al piede, essa trapassava il terreno e dopo un po’ di sforzo per tirarla tutta su, si accorse che l’altra estremità era attaccata al piede di Moira. «Io sono attaccato a te, non alla Terra dei vivi. Ora si spiega tutto.», pensò poi tra sé e sé che “lui è veramente la mia anima gemella”, non lo disse però ad alta voce, non sapendo come l’altro l’avrebbe presa. «Ora capisco perché sembra che tu voglia impedirmi di andarmene, non lo fai apposta, è nella tua natura volermi qui. Nessun’altra persona poteva essere, tu e solo tu puoi aiutarmi a far finire tutto questo, ma questo già si sapeva, no?», sospirò poi posò la mano sulla spalla dell’amico, entrambi guardarono verso l’orizzonte. «Andiamo a cercare il nostro amico senza nome.»


Moira gli sorrise di rimando, dopo di che cominciarono a camminare insieme. «In questo mondo non funziona nulla come noi pensiamo funzioni, dobbiamo fidarci solo del nostro istinto, null’altro. E il mio istinto mi dice che dobbiamo andare di qua, seguimi.», camminarono a lungo, forse per più di mezz’ora, tutto ciò che incontrarono fu altra polvere e massi, accompagnati da altri monti e collinette. «Non sto seguendo abbastanza il mio istinto.», dalla tasca della felpa tirò fuori un fazzoletto pulito di stoffa, lo legò attorno agli occhi e quando Thomas gli chiese cosa stesse facendo, lui rispose «Così seguirò soltanto il mio istinto e null’altro.» Mise anche le mani sulle proprie orecchie, finendo per non vedere e sentire più nulla. Iniziò a camminare a vuoto, senza sapere dove effettivamente stesse andando, passò un’altra mezz’ora, fecero almeno un chilometro di strada, forse più. Si fermò proprio in un punto preciso e anche non l’avesse fatto, non sarebbe potuto andare più avanti, dato che di fronte a sé vi erano delle sbarre che separavano lui e Thomas da un piccolo gatto grigio. «Siamo giunti a destinazione.»


«No, Moira. Sbendati, non siamo per nulla arrivati.»


«Thomas, chiudi gli occhi e tappati le orecchie, fidati di me.»


L’uomo fece come chiesto, dapprima divenne tutto buio, poi nell’oscurità delle sue palpebre chiuse vide come una figura luminosa dall’altra parte delle sbarre, era come fatto di luce propria, color grigiastro. Era il ragazzino. Quando riaprì gli occhi però al suo posto c’era sempre il piccolo animale.


«Perciò …», esordì Thomas, «…lui si chiama…», stava per dire il nome scritto sul cartello attaccato alla bocca della grotta, sulle sbarre in pietra, venne però interrotto. Era stata una voce dall’alto a parlare, pareva essere quella di un uomo. Quest’ultima recitò testuali parole: “Sì! Si chiama Levi! Ed è ora di mia proprietà. Sarà sotto la mia protezione in attesa della venuta del mio padrone!”, Thomas era alquanto confuso, non capiva da dove venisse quella voce, sembrava propagarsi nell’aria, come se nelle nuvole fatte di detriti ci fossero delle casse che facevano risentire quella voce attorno a loro. Moira, che aveva ancora gli occhi chiusi, fece un altro passo, il suo naso era a malapena a dieci centimetri dalle sbarre, Thomas voleva avvisarlo, ma non fece in tempo, Moira fece un altro passo e attraversò le sbarre, afferrò con le proprie mani il gatto e lo portò dall’altra parte, finalmente libero. «Io non capisco.», l’amico aprì gli occhi. «Com’è possibile che lui sia un gatto? E poi chi era che parlava prima? E soprattutto di cosa parlava?», Moira si voltò verso di lui, dicendogli nuovamente di coprirsi gli occhi. Lui, senza replicare, fece come detto. Di fronte a sé vide apparire, nel buio dei suoi occhi chiusi, una figura alta, anch’essa sembrava avere luce propria, quest’ultima però aveva come colore un rosso acceso che brillava più che mai. «Moira, sei tu?»


«Non è il mio padrone quello che lei vede.», rispose una voce calda e bassa, la stessa che poco prima aveva parlato tramite il cielo. «Piacere, sono Dunkel. Per i comuni mortali il mio nome è Fuoco Vivo.», sembrò zittirsi per un secondo, Moira ne approfittò per ripetere a Thomas di non aprire gli occhi e ascoltare. «Dopo che il mio padrone mi creò, ho vissuto per anni in queste lande desolate e non ho mai avuto un amico con me. Certo, il mio compito è soddisfare il suo desiderio e nient’altro, iniziai a sentirmi solo, disperso, ma sapevo che il mio padrone sarebbe tornato un giorno.» Quest’ultimo posò la mano su Thomas, che subito iniziò a sentire meno freddo. «Tu sei stato il primo desiderato dal mio padrone, ricordo ancora il giorno in cui ci conoscemmo, undici anni fa. Tu non sei morto, in verità, Thomas. Sono io che ti ho reso così, per soddisfare le voglie del mio creatore di averti sempre con sé.», Thomas aprì quindi gli occhi e di fronte a sé vide un uomo pallido, dai capelli lunghi, raccolti in una coda di cavallo. Era vestito in abiti eleganti rossi, che più eleganti non s’erano mai visti. E nel taschino della giacca vi era un fazzoletto di stoffa con incise due iniziali, “M. H.”.


«Io pensavo non fosse reale, Thomas! Te l’ho anche detto, no? Pensavo fosse frutto di fantasia, non pensavo che scrivendo quel libro io stessi raccontando di creature realmente esistenti.», Thomas esigé spiegazioni. «Sono io il suo creatore, ricordo tutto soltanto ora ed è una lunga storia.»


«È iniziato tutto all’incirca un anno dopo che i miei genitori mi lasciassero all’orfanotrofio. Ero completamente distrutto e non riuscivo a farmi nessun amico, perché tutti quelli che erano con me venivano subito adottati, tutti tranne me. Così iniziai a parlare con gli oggetti, dapprima con le porte, poi con le foto e alla fine con il fuoco, ero solo un bambino, non potevo immaginare che avrebbe portato un giorno a questo.»


Era la Vigilia di Natale dell’anno 1988 e il piccolo Moira era davanti al camino del salone, il fuoco era acceso e tutto il resto dei bambini era a dormire. Lui continuava a parlare con la fiamma di fronte a sé. «Ti prego, desidero che nessuno mi abbandoni più, mai più.», non lo disse così grammaticalmente corretto, ma il concetto che voleva lasciare era proprio quello. Tanto che il fuoco, prese come vita, il bambino si ritrovo davanti a una piccola fiamma rossa che volava, sembrava un fuoco fatuo, quest’ultimo cambiò di forma in una colomba dinanzi ai suoi occhi increduli, poi ritornò ad essere la stessa fiammella di prima. «Come riesci?», quest’ultima rispose, con tono elegante, che dopo tutti i giorni in cui il bambino continuava a ripetere sempre lo stesso desiderio al fuoco, questo aveva preso vita, creato da Moira.


«Crescendo avevo dimenticato della sua esistenza, con il tempo che avanzava non l’avevo più visto e quello che rimaneva di lui in me era una semplice storiella fantastica che ho inserito nel mio primo libro. Ne stampai soltanto una copia, in anonimato e lo rinominai “Le Dodici Bestie Di Morfeo”, dati dal fatto che credevo che queste creature fossero solo parti di sogni passati. Ma ora che ho davanti a me le prove posso confermare che lui è reale. Senti, Dunkel, è me che vuoi, giusto? Loro non sono ancora morti, lasciali andare via, rimarrò io qui con te, per quanto tempo tu vorrai. Io sono pronto a stare con te e tornare a essere tuo amico, come un tempo. Ma prima voglio sapere una cosa, e voglio che tu sia sincero. Tu che sai tutto di me, chi è Levi?», l’uomo vestito elegante si limitò soltanto a dire che sarebbe stato lui a dirgli tutta la verità e che subito dopo i suoi due amici sarebbero tornati nel mondo dei vivi come comuni mortali. Né Levi né Thomas avevano sentito la loro conversazione, videro soltanto i due parlare e Dunkel allontanarsi silenzioso in direzione di quello che sembrava essere un grande castello.


Le ali di Thomas scomparvero nel nulla, lasciando cadere delle piume per terra. Levi, invece, era tornato umano e pareva il più spaventato dei tre. «Levi, chi sei davvero? Qual è la tua vera identità? Ti prometto che non ti si torcerà un capello, voglio solo sapere la verità.»


Il ragazzino fece un sospiro, fermò le mani che gli tremavano, guardò negli occhi Moira e deciso diede la risposta definitiva. «Noi due siamo fratelli. I nostri genitori sono morti nell’incendio di qualche settimana fa e i poliziotti mi hanno dato il tuo indirizzo, ma io non volevo ospitalità da te. Non volevo niente da nessuno. Ora però per favore torniamo a casa? Ho paura.», il bambino venne rispedito immediatamente nel mondo dei vivi. Rimasero solo Moira e Thomas.


«Siamo arrivati alla frutta Thomas. Ho parlato con Dunkel, ha detto che voi due siete liberi, siete vivi. Non sei mai morto, semplicemente lui prende le anime delle persone che mi stanno per lasciare e le incatena a me tenendole in questo mondo. Le trasforma in animali, per questo tu eri un corvo e Levi un gatto. Io, però, devo rimanere qui.»


«No, Moira, tu non hai capito. Tu verrai con me.»


L’amico scosse il capo, guardandolo.


«Questa è la fine, mi dispiace, racconta tutto a Rebecca, vivi per me.»


Il corpo di Thomas iniziò a sparire, lui ne approfittò e lanciandosi su Moira gli strinse il volto tra le mani, baciandolo e tenendolo a sé ancora un po’. La collana poi si ruppe e Thomas sparì nel nulla, tornando di nuovo nel mondo terreno. «Questo è un addio, suppongo.», si sedette e sfilando dalla tasca l’ultima sigaretta del pacchetto che gli era rimasto, iniziò a fumarla. Diede spazio a un interminabile silenzio, riflessione e amore ch’ormai era perduto.


«Addio, ti ho amato. Alla fine, mi avete insegnato a capire questo mondo tutti quanti. Tu Thomas, mi hai insegnato ad amare anche le perdite, le sconfitte e le paure, io t’ho insegnato ad amare e ad essere vivo. Tu, Levi, mi hai insegnato che c’è sempre qualcuno meno fortunato e che forse non è vero che la cultura è la risposta a tutto, a volte anche le cose che non sono alla mia portata possono essere la risposta, io t’ho insegnato che c’è di più oltre al silenzio. Rebecca, tu mi hai insegnato a essere fiero di me, di lottare per i miei valori, io t’ho insegnato a non essere più sola. Rossella, tu mi hai insegnato a crescere, fortificarmi e farmi valere, io t’ho insegnato che c’è del bello in un mondo in cui tutto sembra andare a rotoli. Moira tu cosa m’hai insegnato? L’arte della solitudine e della speranza. Grazie a tutti e grazie a me.»


S’addormentò all’ombra di un albero in pietra.
 
   
 
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