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Autore: Adeia Di Elferas    10/02/2024    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Machiavelli aveva provato un brivido profondo, nell'entrare a Castel Sant'Angelo. Aveva sentito parlare di quella fortezza, di quella prigione anzi, migliaia di volte, eppure non era mai riuscito a immaginare la sensazione surreale che avrebbe provato nel varcarne l'ingresso.

Lì, si sapeva, era stata tenuta in catene per mesi la Tigre di Forlì e sempre lì, anche se non nelle carceri, si era tenuto il matrimonio tra Bianca Riario e Troilo De Rossi, uno sposalizio che aveva fatto cronaca, ma che era stato dimenticato in fretta, specie dai romani, che nell'arco di una manciata di settimane avevano dovuto fare i conti con la morte di Alessandro VI e poi di Pio III, per prepararsi, infine, a un nuovo Conclave.

Ogni passo che aveva fatto, aveva stretto la gola di Niccolò e aveva fatto correre più veloce il suo cuore. A unirsi all'enorme emozione di trovarsi in quel luogo ammantato di fascino, c'era la consapevolezza che a breve avrebbe incontrato di nuovo Cesare Borja. Il suo impero era crollato e di certo, rispetto all'ultima volta in cui l'aveva visto, l'avrebbe trovato abbattuto e stanco, ma quell'uomo straordinario che nella vita aveva avuto solo due enormi sfortune – ossia non avere alleati validi e incontrare sulla propria strada quella sciagura di Caterina Sforza – era e sarebbe sempre rimasto, per lui, l'emblema di tutto quello che un Principe avrebbe dovuto essere. Bello, elegante, istruito, splendente in armatura così come in abito da ricevimento, con una voce carezzevole e dei modi a tratti così apprezzabili da far dimenticare anche gli scatti d'intemperanza...

Si sentiva un privilegiato, ad avere avuto il permesso per quell'incontro. Quasi non aveva creduto alle sue orecchie, quando la sua richiesta di un abboccamento era stata accettata da chi di dovere. Si era convinto che uomini come il Della Rovere si sarebbero opposti fino allo sfinimento a un incontro tra il Valentino e un rappresentante di Firenze, vista la delicatissima situazione generale...

“Prego.” la guardia che l'aveva scortato fino a destinazione allargò il braccio e gli indicò un lungo corridoio, che terminava con un portone fiancheggiato da due altri soldati.

Non erano nei sotterranei, ma poco ci mancava. La luce che arrivava dall'esterno era pressoché nulla, mentre quella delle torce era così forte da dare quasi fastidio agli occhi. C'era odore di umidità e di stantio, qualcosa che ricordava una casa di cura che Niccolò aveva visto da ragazzino, durante un'epidemia, ma allo stesso tempo la percezione prevalente era quella di stare in una cantina.

I passi che lo dividevano dalla porta indicatagli dalla guardia risuonavano sinistri in quel silenzio rimbombante e irreale. Fu un sollievo arrivare in fondo e potersi presentare ai due soldati, rompendo quella coltre impenetrabile di mutismo.

Uno dei due fece scattare la serratura, ma, prima di aprire l'uscio, sussurrò: “Se vi doveste trovare in difficoltà, gridate e accorreremo subito.”

Deglutendo, Machiavelli annuì e provò a dire: “Non... Non credo che servirà, comunque... Grazie.”

“Non si può mai sapere, con certi prigionieri.” ribatté il soldato, facendo finalmente scattare la serratura e schiudendo la porta.

Niccolò si sentì quasi spingere dentro la stanza, e poi udì l'uscio richiudersi con forza. Gli ci volle qualche istante per abituarsi alla penombra, così marcata rispetto alla luce del corridoio, e all'odore strano che gli entrava nelle narici a ogni respiro. Era quasi odore di stalla, ma aveva un qualcosa di più pungente. Solo dopo qualche istante si rese conto che si trattava dell'odore di un uomo che stava chiuso in una stanza da giorni senza poterne uscire, avendo solo un secchio per i proprio bisogni corporali.

Sbattendo le palpebre qualche volta, riuscì finalmente a mettere a fuoco, ma colui che vide, in un primo momento, non gli ricordò affatto lo scintillante e galante Duca di Valentinois.

Magro, magrissimo anzi, un po' curvo, con addosso una veste larga e sgualcita, con i capelli lunghi fino al collo e arruffati, con le guance scavate, coperte dal fine reticolo delle cicatrici luetiche quasi rilucenti, con gli occhi cerchiati di nero e le labbra livide... Era tutto lì, ciò che era rimasto del figlio del borioso Alessandro VI?

Cesare, che da settimane non faceva che guardarsi le spalle e temere tutti, quando vide il profilo da gallina petulante di Machiavelli si sentì come catapultato in un tempo remoto, un tempo che forse non era nemmeno mai esistito. Quel fiorentino l'aveva visto quando il Mondo era in sua mano, l'aveva visto vestito di seta, piume e pietre preziose...

Raddrizzando un po' la schiena e sforzandosi di assumere un'espressione rilassata e cordiale, il Borja allargò la mano e disse: “Messer Niccolò, accomodatevi.”

Fu tanto l'onore di vedere che un uomo così importante ricordava il suo nome, che Machiavelli non ebbe il coraggio di far presente che non c'era nulla in quella cella, per lui, per accomodarsi, così disse solo: “Non preoccupatevi, resto in piedi.”

Il Valentino annuì e poi, sistemandosi un po' gli abiti, cominciò a chiedere il motivo di quella visita e a domandare come fosse Roma in quei giorni, soggiungendo: “Io... Io ho preferito stare qui, per sicurezza mia, intendete... Con quel che combinano qui fuori... Da che mio padre è morto, Roma è un circo, un vero circo...”

Niccolò restò un attimo in silenzio, guardando il giovane uomo che aveva davanti. Per la seconda in pochi minuti ebbe la sensazione di non trovarsi più davanti il grande Duca di Valentinois, ma solo un carcerato comune, avviato, per di più, alla pazzia. Tuttavia gli rispose, con voce calma, come avrebbe fatto con un anziano, e si tenne sul vago, nel parlare di Roma.

Il Borja si schiarì la voce. Aveva compreso la reazione del fiorentino e non gli piaceva. Lui per primo, a volte, aveva la percezione di essere prossimo a impazzire, ma quella era la sua occasione per dimostrare a tutti quanti, tramite il resoconto che, per certo, Machiavelli avrebbe fatto, che non era affatto un uomo perduto, che era ancora lo stesso di prima e che sarebbe tornato in auge, se solo qualcuno l'avesse aiutato a uscire da quelle dannate quattro mura.

Così, come se il vero Cesare avesse finalmente ripreso il posto del fantoccio che ne portava le sembianze, il Valentino riprese a parlare, ma questa volta con tono sicuro, con ampi gesti, e con lo sguardo fiero di qualcuno che sapeva perfettamente che alle proprie parole sarebbero seguiti dei concreti fatti. Elencò i grandi progetti che aveva, esponendoli come se fosse stato già tutto deciso assieme a una schiera numerosissima di alleati. Gli obiettivi della sua prossima campagna sarebbero stati tantissimi: la Romagna, la Lombardia, perfino Napoli...

Ovviamente, diceva il Valentino, per ottenere il tutto senza grande sforzo, sarebbe bastato un nuovo papa a lui favorevole, ma per quello non c'era motivo alcuno di preoccuparsi. Aveva già unto ingranaggi e incoraggiato i Cardinali più timidi: dal Conclave sarebbe uscito un pontefice a uso e consumo di Cesare Borja.

Niccolò ascoltava in silenzio e se, all'inizio, lo scetticismo aveva facilmente prevalso, più la voce del Duca si faceva soave e convincente, più le sue resistenze fondate sulla logica e il buon senso cadevano. Sembrava tutto semplice, tutto ovvio, tutto quasi noiosamente banale.

Quando il Valentino concluse il discorso con un lapidario 'e poi ci occuperemo anche dell'Imperatore', il fiorentino era interamente assorbito dai suoi mirabolanti progetti e provava una tale frenesia che avrebbe voluto vedere immediatamente i risultati di ragionamenti tanto fini e gloriosi.

“Com'è Roma, in questi giorni?” chiese a quel punto Cesare, sicuro che Machiavelli non avrebbe più fatto finta di non sentire la domanda: “Da questa stanza fatico a vedere coi miei occhi, sapete...”

Niccolò annuì e, con la voglia di aiutare quell'uomo eccezionale, si trovò a riferire di come quel giorno sarebbero finite le esequie di Pio III, ma che, al momento, il Conclave era rimandato di qualche giorno, in attesa che l'Alviano e gli Orsini lasciassero la città, com'era stato ordinato da Giuliano Della Rovere. Gli parlò del Baglioni, ancora alloggiato in Borgo e che il campo dei francesi era ancora in subbuglio. Gli riferì che Pesaro sembrava tornata a Giovanni Sforza, che Pandolfo Malatesta si stava riprendendo Rimini, che un Manfredi era di nuovo a Faenza e che Antonio Maria Ordelaffi si era incapricciato di Forlì.

Arrivò perfino a riferire di quanto stesse facendo il Cardinale Sansoni Riario per favorire il Della Rovere e, così, favorire i cugini Riario, ma toccato quell'argomento si bloccò, rendendosi conto che parlarne sarebbe stato come mettere in dubbio la veridicità di quanto affermato dal Borja stesso riguardo alla prossima elezione di un papa a lui favorevole.

“Credete che faranno papa il Della Rovere?” nella voce di Cesare non c'era più alcun tentativo di recita.

“Sta creando una fitta rete di favori...” ammise, controvoglia Niccolò.

Come un bambino, il fiorentino, non volendo una delusione, cercava di negare a se stesso la realtà dei fatti, ma ora capiva che le parole del Borja erano state, per buona parte, solo una lista di fantasie e speranze.

“E perché mai Sansoni Riario lo appoggia così tanto? Che vuole? Altri soldi? Altre cariche? Quel gufo è magro come un bastone, non beve quasi fino, non spende quasi nulla in abiti e credo che non abbia mai nemmeno pensato di comprarsi la compagnia di una donna, né di un ragazzo... Ha solo la passione per l'arte, ma, coi soldi che già ha, potrebbe comprarsi i servigi di mille scultori, se volesse...” borbottò il Duca tra sé: “Che può desiderare, un uomo che ha già tutto quello che vuole?”

“Vuole favorire Madonna Sforza, facendo rientrare i figli di lei in Romagna.” si trovò a dire Niccolò, prima di potersi trattenere.

Nel sentir nominare la Tigre di Forlì, Cesare si irrigidì di colpo e il suo viso di fece scuro. I suoi occhi erano cupi, quasi che stesse rivedendo un fantasma davanti a sé. In effetti la sua mente gli stava riproponendo un'immagine rimasta sempre indelebile nella sua memoria, una scena che a volte lo tormentava nei suoi incubi: Caterina Sforza, beffarda e arrogante, in piedi sui bastioni della rocca di Ravaldino, che lo fissava e lo derideva pubblicamente, prendendosi gioco di lui come avrebbe potuto fare con uno qualsiasi dei ragazzini che si prendeva come amanti.

Rimembrava ancora alla perfezione il panico che si era creato tra i suoi soldati quando, dopo averla creduta morta per delle esplosioni, l'avevano rivista viva e vegeta, quasi fosse una strega tornata dal mondo dei morti, un'entità impossibile da uccidere, perché già morta, eppure ancora vivente...

Gli spettri di quel passato erano gelidi come come artigli di ghiaccio e il loro fiato algido lo fecero rabbrividire.

Gli ci volle qualche istante per ricordare che Machiavelli era lì, davanti a lui, in attesa di un suo cenno o di una sua parola, come un cagnolino adorante.

Avrebbe voluto mostrarsi spavaldo, fare un commento sprezzante, umiliare quella donna che aveva in parte sancito l'inizio della sua fine, ma quando la voce finalmente gli uscì dalla gola, l'unica cosa che riuscì a gracchiare fu: “Dove si trova adesso..?”

Niccolò comprese subito che il Borja stava pensando alla Leonessa di Romagna. Per quanto lui lo ritenesse l'uomo del Fato, l'uomo capace di ricreare un Impero Romano, sapeva che l'incontro con la Sforza era stato un punto di non ritorno. Per quanto il fiorentino non provasse alcuna simpatia per la milanese e poca stima, non poteva negare che, forse, la Tigre era stata una gigante, in confronto al Valentino.

“Si trova a Castello, nei pressi di Firenze, in una villa che le ha lasciato il suo terzo marito come eredità per il figlio più piccolo.” spiegò quindi Machiavelli, cercando di essere preciso, ma di non dare alcuna inflessione alle proprie parole.

“E... Voi l'avete vista?” chiese Cesare, con la voce incerta.

“No.” rispose Niccolò, sicuro che fosse meglio non dilungarsi troppo nel parlare di quella donna.

Che senso avrebbe avuto raccontare degli episodi in cui ne aveva incrociato lo sguardo, al processo per la custodia del piccolo Giovannino Medici? Anzi, si malediceva per averla nominata.

Tuttavia, quel tentativo di sviare il discorso con un no lapidario servì a poco. Il Duca aveva chiuso le palpebre e si era rintanato in uno strano silenzio. Le labbra si muovevano appena, come se stesse ricordando qualcosa, forse un discorso, forse altro, e le sue mani restavano lungo i fianchi, scosse da un lieve tremore.

A quella reazione, Niccolò si innervosì con il Borja e poi si arrabbiò con se stesso. Era gelosia, quella che provava e non voleva ammettere con se stesso di essere geloso di Caterina Sforza perché il suo ricordo, lontano e sfumato, distoglieva da lui l'attenzione del Valentino, un uomo straordinario, che era riuscito a incontrare per pura fortuna.

Più osservava Cesare, più si convinceva che i ricordi non fossero quelli legati alla guerra e alla loro faida, ma a quello che era successo dopo. Avevano tutti un gran daffare a dire che il Duca si era imposto sulla Tigre, traendone piacere come più gli aggradava, colpevolizzandolo, dicendo che una prigioniera di quella risma non andava trattata come una comune meretrice. Invece Niccolò aveva da sempre il sospetto recondito che la Leonessa fosse stata la prima a offrirsi. Lei, che era sempre stata così desiderosa di cedere il proprio corpo a qualsiasi uomo le capitasse a tiro...

Con una rabbia difficile da nascondere, il fiorentino provò a girare il discorso a suo vantaggio, e sbottò: “Avete ragione a essere ancora colmo di collera verso quella donna! Vi ha rallentato, vi ha creato solo problemi, e con le sue spire da Messalina vi ha confuso e vi ha...”

“L'avevo rinchiusa qui, a Castel Sant'Angelo, alla fine, quando l'ho portata a Roma.” disse all'improvviso Cesare, con un filo di voce, ma zittendolo: “L'avevo fatta mettere in una delle celle più profonde, una delle peggiori, dove nemmeno i ratti arrivano...”

Niccolò deglutì, non sapendo cosa dire. Il Borja gli stava dando le spalle, in quel momento e pareva chiuso in un suo mondo.

Quando il Duca riprese a parlare, lo fece gridando, facendo sobbalzare Niccolò: “Eppure ne è uscita viva! Sta in una villa! E io sono qui a elemosinare un pranzo e una cena al giorno! È là con i suoi figli, a dormire e mangiare e bere e andare a caccia..! Quanti amanti ha? Lo sapete voi, fiorentino? Quanti uomini ha, adesso?”

Machiavelli scosse piano il capo, spaventato da quello scatto furibondo. Si chiedeva come mai le guardie là fuori non entrassero ad aiutarlo. Temeva già una seconda ondata di grida, quando invece il Borja si acquietò di nuovo e tornò a parlare in un bisbiglio appena udibile.

“Ha il mal francese?” chiese, sfiorandosi assorto le proprie cicatrici sul volto.

“Non lo so... Non che io sappia.” rispose l'altro, confuso.

Quella notizia parve contrariare molto il Duca. In effetti il medico che lo aveva seguito quando aveva avuto le peggiori recrudescenze della sua malattia gli aveva detto che non sempre chi giaceva con un malato di mal francese si ammalava a sua volta... Gli aveva parlato di fasi attive e inattive della malattia, ma all'epoca gli aveva dato poco ascolto.

Ora, però, provava una rabbia quasi incontrollabile al pensiero di non essere nemmeno riuscito a condannare a quella punizione eterna la sua nemica. Aveva fantasticato tra sé, aveva sperato di saperla, un giorno, sfigurata e preda delle febbri, magari addirittura in fin di vita, come capitava a tanti... Aveva sperato di ottenere dalla vita almeno la soddisfazione di trascinare lentamente nella tomba quella gran meretrice di Caterina Sforza, e invece...

“Comunque, se volete posso provare a informarmi e...” tentò Machiavelli, per incoraggiare Cesare a dire qualcosa.

“Non voglio mai più parlare di quella strega.” concluse invece il Borja, con sguardo cattivo e con le mani strette a pugno: “E sono stanco anche di parlare con voi.”

Incassato l'ultimatum, Niccolò chinò appena il capo e mormorò: “Mi date il permesso, se mi sarà concesso dai Cardinali, di venire di nuovo a trovarvi?”

Il Valentino avrebbe voluto negare seccamente, ma si rese conto che uno come quel fiorentino gli serviva. Aveva bisogno di notizie da Roma, da fuori Roma, dall'Italia, e poi aveva anche bisogno di un essere umano con cui scambiare due parole. Così annuì e poi gli voltò le spalle, per fargli capire che il colloquio, quella volta, era davvero finito.

Niccolò colse al volo l'antifona e bussò affinché gli riaprissero la porta. Fece la strada dalla cella all'uscita di Castel Sant'Angelo in silenzio, malgrado le domande di cortesi che la guardia gli rivolse, e non appena si lasciò alle spalle l'incombente castello, quasi si mise a correre, per tornare al suo alloggio.

Si mise subito alla scrivania e iniziò a vergare una lettera per i Dieci di Balia colma di ammirazione per il Borja, ma quando la rilesse si rese conto che le sue sembravano solo le parole di un pazzo. Si mise a strappare tutto e ricominciò. Gli ci vollero vari tentativi, finché, dopo un lungo ragionamento, si trovò a scrivere una lettera che parlava di Roma, dei maneggi per il Conclave e delle notizie che da tutta Italia erano arrivate fino all'Urbe.

Solo nella seconda metà della missiva, quasi fosse una cosa in più, un qualcosa di cui stava per scordarsi, aggiunse una frase, una sola e unica frase, su Cesare: 'El Duca – scrisse, misurando il più possibile entusiasmi e personalismi – si sta in Castello, ed è più in speranza che mai di fare gran cose, presupponendosi un papa secondo la voglia degli amici suoi'.

Già alla riga dopo, tornò a parlare dell'Alviano, degli Orsini e di tutto il baccarat che stava gettando Roma nello scompiglio tipico di ogni Conclave.

 

Quel 28 ottobre a Castello diluviava e Caterina aveva dovuto riprendere in modo fermo Bernardino e Giovannino affinché non uscissero a giocare sotto la pioggia. Galeazzo era stato fondamentale nell'aiutarla a calmare i due figli più piccoli, perché era riuscito subito a ottenere la loro attenzione mettendosi a spiegare come avevano sistemato le fortificazioni di Ravaldino molti anni prima. Per i fratelli minori, sentire il Riario raccontare di come lui stesso avesse preso parte attiva alla posa in opera e ancor prima alla progettazione di rivellini e bastioni era qualcosa ancor più appassionante di uno sfrenato gioco all'aria aperta.

La Tigre, quindi, aveva controllato che Sforzino fosse con frate Lauro, intento a discorrere di un qualche Santo sulla cui santità ancora si discuteva, e poi era passata a vedere come stesse Pier Maria.

In quei giorni gli stava nascendo un nuovo dentino ed era più nervoso che mai. La balia era una santa e lo accudiva con amore, ma anche gli impacchi imbevuti della pozione apposita preparata dalla Sforza sembrava non sortire grandi effetti.

“Ancora nulla?” chiese la donna, affacciandosi sulla porta della stanza del piccolo De Rossi.

La balia scosse il capo, mentre premeva ancora un po' la pezza umida sulla gengiva in fiamme del piccolo che, ancor più sollecitato da quel gesto, ricominciò a piangere disperato.

“A quanto pare è molto difficile anche avere un anno...” commentò Caterina, con un sorriso un po' triste, avvicinandosi al nipotino.

Questi, come spesso accadeva davanti alla nonna, cercò di limitare le lacrime e la fissò con intensità. I suoi colori chiari e il taglio degli occhi le ricordavano sempre molto quelli di Bianca, e tanto bastava per farle sentire la figlia meno lontana.

La Riario, poi, di recente le aveva scritto per chiederle una volta di più se fosse disponibile ad accoglierla per qualche mese, quando fosse stato il momento. A breve lei e Troilo avrebbero cominciato a mettere in giro la voce di una gravidanza e, quando non fosse stato più possibile nascondere l'assenza del pancione, la giovane avrebbe trascorso un po' di tempo dalla madre e dai fratelli. Ovviamente la Leonessa attendeva con trepidazione quel momento.

Anche se a volte con Bianca non si era capita e anche se a tratti le ricordava, nei modi e nei ragionamenti, sua madre Lucrezia, rendendogliela un po' distante, le mancava e aveva desiderio di passare con lei del tempo. Inoltre era curiosa di avere notizie di San Secondo e capire se il matrimonio in cui sua figlia si era lanciata con un entusiasmo invidiabile si stesse rivelando all'altezza delle aspettative. Dalle lettere che la giovane scriveva, sembrava di sì, ma dal vivo sarebbe stato ancora più soddisfacente sentir parlare di quell'uomo e della loro felicità coniugale. In fondo, quell'unione era una delle più grandi vittorie, per la Tigre. Aveva lottato per anni, a volte rischiando anche molto, pur di lasciare sua figlia libera di scegliere e vederla scegliere il meglio per sé era il premio migliore possibile.

“Fammi vedere...” disse, aprendo con cura la bocca di Pier Maria e studiando a fondo la gengiva arrossata, in cui si intravedeva il bianco perlaceo del dentino che stava spuntando: “Più tardi vado a controllare se le erbe che ho messo a macerare sono già pronte... Preparo un infuso più potente. Gli fa così male perché s'è infiammato troppo... Magari oggi dagli da mangiare solo cose molto morbide e fresche...” concluse, rivolgendosi alla balia che, annuendo subito, espresse a voce alta il suo rammarico per l'assenza di ghiaccio.

“Se almeno nevicasse un po'...” sospirò: “La neve gli darebbe sollievo...”

“Sarebbe bello.” convenne la Leonessa: “Intanto puoi chiedere a uno dei servi se ti raccoglie un po' di acqua piovana. È molto pesante, quindi deve essere molto fredda. Già quella gli darà un po' di sollievo...”

Con quell'ultimo consiglio, Caterina lasciò la stanza e si avviò verso la propria camera da letto. Si era trascinata per giorni la lettera che sua nipote Ippolita le aveva chiesto di scrivere, indirizzandola a Ottaviano e colmandola di consigli materni. Quelle righe dovevano servire a indirizzare soprattutto la stessa Ippolita e, di conseguenza, i Bentivoglio, e dunque era molto importante scriverla nel modo corretto.

Mentre pensava tra sé che il 30, quindi nel giro di due giorni, sarebbe stato il compleanno di Bianca, Caterina raggiunse le sue stanze e aprì lentamente la porta. Era stata convinta di trovarvi Fortunati, dato che non l'aveva visto da almeno un paio d'ore, e invece non c'era nessuno.

Non avendo voglia di andare a cercarlo, la donna si convinse che non c'era più modo di posticipare la stesura della missiva su cui tanto aveva ragionato e così si mise alla scrivania.

Innanzitutto volle rispondere a una questione lasciata aperta proprio da Ottaviano in uno dei suoi ultimi messaggi. Il figlio le aveva chiesto dei soldi, ma lei, per il momento, non intendeva mandargliene ancora, dato che sapeva che in buona parte sarebbero finiti a finanziare solo i suoi vizi, così scrisse, ben consapevole che comunque anche Ippolita e forse altri avrebbero letto quelle parole: 'Ill.mo fiolo mio car.mo quella ne scrive li manda quelli danari li ho promisso se Antenoro fusse stato qui o ritornato como se credeamo che dovesse tornar o scrivere il successo, vi haressemo già mandati li dinari como per un altra mia vi ho avixato: pur io faro quanto potero per expedrime et mandarolli.'.

Si prese quindi qualche minuto ancora per pensare e alla fine si schiarì la voce, intinse la punta della penna dell'inchiostro e ricominciò a grattare sulla pagina: 'Circha la littera vi manda lo faro ma si maraveglamo che vi lasati cundurre che habiati essere sugetto a niuno ne star a sindichato di quell vi e scripto; quello si fa per vui non per altro pero niuno non se ha ne impazarse ne a guardarvi quello faciti'.

La donna rilesse e pensò che quell'incipit sarebbe stato accolto da suo figlio con un sorriso colmo d'ironia. Da un lato era certa che Ottaviano avrebbe voluto davvero che lei si impicciasse di ogni sua mossa, perché quello avrebbe significato che, in qualche modo, era interessata a lui. Scrivendo che lo rassicurava esattamente del contrario lo avrebbe di certo fatto ridere, ma in modo amaro.

Con un sospiro riprese: 'guarda de chi ve fidati ne che ve consiglia, sapeti li pestiferi umori vano atorno se ve lasati guidar da tal forsi vi sara facto la beretta in su li ogi per risvegliave anchora da roma sono avixato per un altra mia: vui siti grande et haviti tempo positi conoscere le persone dil mundo.'.

Stavolta fu la Tigre a non trattenere un sorriso amaro. Ottaviano era adulto, era vero, eppure per lei restava il ragazzino infido e rancoroso che era stato a quindici anni...

'Non altre a vui me ricomando vi ricordo vi sono matre et de la promessa facta; io atendaro a la mia; atendite vui ala vostra fede' questo doveva essere il cuore della lettera, un modo per ricordare agli alleati che il loro aiuto non sarebbe stato dimenticato, ma solo in caso di reciproca buonafede.

Tentennò un attimo e poi scrisse: 'de l'Ordelaffo me piace asai tanto che el ferro e caldo si debbe battere; non perditi tenpo che el favore e una gran cossa in questa inpresa: et questo consiste solo in el cominzare. Siche solicitati.'.

Scrisse qualche parola di commiato e aggiunse: 'me ricomando per mille volte' e chiuse definitivamente con un: 'Florencie 28 Octobre 1503. Caterina Sf. manu propria'.

Lesse e rilesse e alla fine sigillò. Innervosita dal silenzio che in quella stanza sembrava amplificato dallo scrosciare della pioggia, si alzò dalla sedia e uscì dalla stanza. Vagò per la villa, cercando Fortunati, ma senza chiedere a nessuno dove l'uomo fosse.

Solo quando passò vicino al portone d'ingresso lo vide, inumidito dall'acquazzone e intento a parlare fittamente con lo stalliere.

“Che succede?” chiese Caterina, insospettita soprattutto dalla presenza del ragazzo alla villa, dato che non lasciava quasi mai la stalla, nemmeno di notte.

“Ci hanno consegnato dei cani da caccia.” rispose subito il piovano: “Mi stavo accordando con il nostro stalliere per la loro cura... Non sono pochi: mezza dozzina.”

“E chi li avrebbe mandati?” chiese la Leonessa, trasecolando.

Francesco si immobilizzò un secondo e poi, forse più per la presenza dello stalliere che per pudicizia, parafrasò il suo pensiero dicendo: “Un tuo vecchio ammiratore.” e le porse una lettera un po' sgualcita.

La Tigre non poteva arrabbiarsi con il fiorentino per non avergliela consegnata prima: lei stessa aveva chiesto che le missive di quel tipo non arrivassero a lei, perché spesso la innervosivano.

Incuriosita, però, la prese subito e lesse. Non si ricordava minimamente di quell'uomo che scriveva di essere stato il suo amante, anche se solo per una notte, e un suo fedelissimo soldato, ma trovò piacevoli le sue parole e lusinghiero quel dono che, riportava la lettera, doveva essere un segno della sua fedeltà mai tradita.

La cosa migliore, comunque, era che il vecchio amante non si firmava né pretendeva alcunché in cambio di quel regalo tanto generoso.

“Io non vado a caccia coi cani, però.” disse, scontrosa, rendendo la lettera al piovano: “Sono sempre andata a caccia da sola e...”

“Aspettate di vederli – sorrise lo stalliere, sinceramente conquistato – appena uno di loro vi farà le feste, cambierete idea.”

La donna guardò a turno i due uomini, che annuivano con dei sorrisi distesi e allegri, quasi che l'arrivo di una piccola muta di cani da caccia bastasse a spazzar via qualsiasi preoccupazione o pensiero. Per qualche istante la Tigre si chiese se quella strana fosse lei o loro, ma alla fine lasciò perdere e non si domandò più nulla.

“Appena smetterà di piovere – concesse – andrò a vedere questi cani. Chissà mai che in mezzo non ve ne sia qualcuno di davvero bravo... Mio padre, a Milano, ne aveva un paio che sapevano fiutare l'uccellagione a una distanza ragguardevole...”

   
 
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