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Autore: Yssis    02/03/2024    0 recensioni
Fra problematiche figure genitoriali, amici-bulli molto affezionati, le splendide cotte delle scuole medie e l'affetto per sua sorella, il goffo e magro orfanello Yuuto diventerà l'arrogante regista e capitano Kidou.
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Dai capitoli...
1: Le abilità di problem solving di Yuuto lasciano a desiderare.
2: Kageyama Reiji e Kidou Honzo giocano a scacchi da tutta la vita. Yuuto però non capisce chi vince e chi perde.
3: Kidou conquista autorevolezza nella sua squadra rotolando giù dalle scale.
4: Kidou e Genda condividono il compleanno.
5: Kidou pensa che la mamma di Sakuma sia molto bella.
6: Genda chiede aiuto ai suoi amici per affrontare un evento familiare intollerabile.
7: Kageyama Reiji è un professore delle scuole medie a cui non piace portare i ragazzini in gita: tuttavia, lo fa lo stesso.
8: Gouenji è il risveglio sessuale di Kidou, ma non il suo primo bacio.
9: Yuuto organizza la festa di compleanno della sua sorellina.
10: In ogni trio c’è un duo e Genda pensava di farne parte.
11: Kidou soffre per l'improvvisa morte di Kageyama e Fudou gli resta accanto.
12: A Fudou non piacciono i ragazzi della Inazuma né quelli della Teikoku: però gli piace molto Kidou.
Genere: Angst, Comico, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Shonen-ai | Personaggi: Altri, David/Jiro, Joe/Koujirou, Jude/Yuuto, Kageyama Reiji
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Kidou Honzo sapeva di non essere una persona particolarmente intelligente.

Era dotato nella media, non aveva nessuna predilezione specifica per un ambito di studio, né passioni che gli infiammassero particolarmente l’animo. Non aveva un aspetto distintamente pericoloso o ingannevole, la sua faccia non metteva a disagio le persone né le intimoriva: sembrava un ragazzo piuttosto tranquillo, per non dire inoffensivo. Aveva un modo bonario di porsi e una parlantina sciolta, amichevole. Rideva di pancia e amava i pettegolezzi.

In realtà, aveva una dote di cui era estremamente consapevole e che imparò ad usare a proprio vantaggio sin da giovanissimo: aveva avuto sempre molto occhio per i dettagli e ancora di più per le persone.

Il suo modo di porsi, molto mite, gli permetteva di allacciare legami con persone dai più svariati caratteri, attitudini e interessi: così si informava sulle tendenze del momento, rimaneva aggiornato su cosa succedeva a scuola, nel suo quartiere, e da più grande in città, senza mettersi mai di traverso a nessuno e avendo la simpatia di tutti. Già durante le scuole medie e superiori affinò queste doti sociali, che gli permisero di arrivare, durante gli anni dell’università, ad essere una delle persone più popolari e influenti fra i suoi coetanei: era invitato a qualunque festa contasse, conosceva tutti e aveva qualche aneddoto spicy o sconvolgente su chiunque. A vent’anni aveva già la stoffa di uno che avrebbe fatto successo nella vita, era unanimemente riconosciuto che, sotto quei baffetti scuri – vezzo dell’età –, si celasse un sorriso di chi ha in mano il mondo e sa già come vuole ribaltarlo. A suo padre, persona stimata e conosciuta, i conoscenti e colleghi dicevano che sapeva il fatto suo, non c’era di che preoccuparsi.

Eppure, Honzo un poco si preoccupava: sapeva di avere il posto nell’azienda di suo padre, quando si sarebbe ritirato ne sarebbe diventato il direttore, per cui era necessario che concludesse i suoi studi e basta, non doveva per forza ambire ad essere il primo della sua classe in tutti i corsi. Tuttavia, quell’anno c’era una novità fra i banchi delle aule universitarie, un elemento anomalo che destava la sua curiosità e presto attirò la sua attenzione. Si chiamava Kageyama Reiji e per Kidou era un enigma non di poco conto… Nessuno sapeva chi fosse, da dove venisse, non aveva frequentato istituti della zona, sembrava essere spuntato dal nulla… Eppure, doveva essere ricco, per potersi permettere la loro retta.  Ed era bravo, incredibilmente bravo. Troppo bravo, rischiava di farlo sfigurare. Non che a Honzo premesse particolarmente l’essere primo, avrebbe accettato serenamente la superiorità, in termini di voti, di persone da lui conosciute, perché appunto all’occorrenza sapeva di poterle chiamare e contare sulla loro competenza. Kageyama Reiji invece era il jolly, la carta imprevedibile del mazzo: e lui disapprovava la presenza di un elemento così poco controllabile durante la partita. Oltretutto, la cosa che davvero gli mandava in cortocircuito la mente era il fatto che quello spilungone taciturno e ombroso non sembrasse in alcun modo intenzionato a farsi degli amici, instaurare legami con lui o qualcun altro della ristretta cerchia di rampolli di famiglie che contavano, in città. Dove pensava di andare, senza gli agganci giusti? Pensava davvero che la sola bravura gli sarebbe bastata? Era un atteggiamento alquanto curioso.

Eppure, era bravo, doveva riconoscerlo. E lo riconosceva senza difficoltà. Più lo osservava in aula, più il mistero che portava il nome di Kageyama Reiji lo incuriosiva. Genda Toshio sosteneva che fosse uno sbruffone arrogante, avrebbero dovuto dargli una lezione di umiltà fuori dalle aule. Kidou gli chiese di avere pazienza, voleva prima parlargli con le buone. 

Tè nero bollente, macchiato con latte alla vaniglia. Era la sua ordinazione tipica al bar dell’università, a prescindere dall’ora del giorno e dalla temperatura esterna. Un bel giorno, deciso a parlare con lui, Kidou si avvicinò al bancone del bar e ordinò per entrambi, prima che potesse parlare:

-Tè nero. Bollente mi raccomando. E se può, cortesemente, preparare a parte del latte aromatizzato alla vaniglia. Per due, grazie.-

-Eh? Ma ce l’hai con me?- Il ragazzo, occhi piccoli e neri, come pietre vulcaniche, gli sbuffò addosso, indispettito dall’atteggiamento incomprensibile del coetaneo. Kidou schioccò la lingua contro il palato e appoggiò le braccia al bancone, sostenendo il contatto visivo con evidente curiosità e un sorriso amabile, garbatissimo.

-Buongiorno. Mi chiamo Kidou Honzo, siamo nello stesso corso di lingua inglese. Se non sei di fretta, avrei piacere a scambiare due parole con te.-

-… Tsk. – Reiji lo squadrò da capo a piedi, conosceva quel ragazzo. La sua era una delle famiglie più ricche della città, avevano agganci in politica e i loro commerci si estendevano ben oltre il Giappone. Soprattutto, sembrava la persona più ebete che avesse mai visto. -Okay, Kidou. Sono Kageyama Reiji, ma, a quanto pare, sai già un sacco di cose di me. Ti dico subito però che accetto in amicizia, non sono gay.-

Kidou rise, compiaciuto. Kageyama si sentì stranito, era la prima volta che sedeva con qualcuno al tavolino del bar dell’università. Cosa mai poteva volere uno come Kidou Honzo da lui?

Quando si salutarono, Reiji considerò con una certa confusione che avevano parlato quasi esclusivamente di lezioni universitarie e di come l’aggiunta del latte nel tè, all’inglese, cambiasse il gusto della bevanda. Kidou sosteneva che smorzare le tipiche note acri e pungenti del tè, per renderne più morbido e rotondo il sapore, fosse un vezzo occidentale da veri intenditori. Kageyama aveva convenuto che fosse una questione di gusti, lui durante le scuole superiori aveva passato qualche tempo in Sud America e lì proprio non se ne intendevano di infusi, invece il viaggio in Inghilterra, che l’aveva così aiutato nella costruzione della pronuncia che tanto gli ammiravano in aula, gli aveva permesso di sviluppare l’abitudine di macchiare il tè con il latte che gli era rimasta. Il gusto puro e la forte intensità del tè erano un’esperienza che non era più riuscito ad avere allo stesso modo. A quel punto della conversazione erano arrivati altri suoi conoscenti e Kidou l’aveva cortesemente salutato, lasciandolo proseguire da solo la pausa fra una lezione e l’altra. Kageyama non era per niente sicuro che l’avrebbe rivisto, né che senso avesse avuto quell’incontro.

Eppure, nelle settimane successive numerose furono le occasioni di incontro e nessuno dei due privò l’altro di un saluto, di un cenno, seppur rapido, fra i corridoi. Kageyama d’indole era scostante e taciturno, se ne stava beatamente per le sue senza attorno persone rumorose e Kidou dava l’idea di essere una persona parecchio rumorosa. D’altronde sapeva bene quanto fosse influente e popolare, forse avrebbe potuto rivelarsi un aggancio interessante da coltivare, a livello lavorativo primariamente… Reiji sapeva bene di essere solo e un amico del genere avrebbe potuto risolvergli, a monte, tante grane. Ma di avvicinarlo non se ne parlava nemmeno, aveva sempre decisamente troppe persone attorno e lui non puntava certo a fare il cortigiano di qualche imbecille figlio di papà. Lui aveva talento e se ne sarebbero accorti: a quel punto sarebbero stati loro a venire da lui, implorando di avere la sua amicizia. Decisamente, non sarebbe stato lui ad elemosinare delle attenzioni. Kidou, dal suo canto, era molto incuriosito dall’atteggiamento di Kageyama: era indubbiamente portato e talentuoso, i voti erano pubblici e il suo curriculum scolastico svettava fra i migliori; tuttavia, non aveva frequentato istituti di scuole medie o superiori conosciuti, che spiegassero quella preparazione… Era decisamente ricco, ma sembrava un figlio di nessuno, che avesse vinto una borsa di studio? Da dove diamine veniva? Perché non sembrava intenzionato ad allacciare legami con qualcuno? Lui aveva fatto il primo passo, rivolgendogli la parola al bar, perché ora non si faceva avanti e non cercava di entrare nelle sue grazie? Kageyama Reiji era un mistero vivente e Kidou decise che l’avrebbe risolto. Aveva le risorse per farlo e tutta l’intenzione di fargli capire come ci si comportava in quegli ambienti: invero sembrava che quel ragazzo non ne avesse idea. Davvero molto curioso.

Ebbero entrambi l’occasione che aspettavano durante il torneo universitario di scacchi che prese avvio in quel periodo. Honzo deteneva un primato in quel genere di competizioni fra studenti: era un asso dei puzzle, dei giochi di logica e strategici, aveva vinto anche tornei nazionali da più giovane e in università era riconosciuto come un’autorità, unanimemente. Seguì con curiosità anche le sfide fra gli altri partecipanti, ma sapeva decretare con una certa sicurezza come si sarebbero posizionati i suoi conoscenti… Kageyama fu, anche in quel frangente, l’elemento che portava caos. Pareva agire mosso da puro istinto, senza conoscere davvero le regole del gioco a cui si stava giocando in quell’università: usciti da lì, sarebbero stati i giovani uomini più influenti della città e avrebbero avuto molte strade aperte per il successo. Davvero Kageyama pensava di cavarsela da solo? Era oltremodo strano, per non dire ingenuo, da parte sua.

Mentre lo osservava avanzare nel torneo, battendo implacabilmente persone abili, di attestata bravura, Kidou sentì mutare la propria curiosità in interesse: Kageyama non era semplicemente un ragazzo ostile e intelligente, come gli era parso in prima battuta. Attraverso il gioco degli scacchi, dimostrò di avere una mente strategica, di possedere freddezza e lucidità di pensiero, nonché una notevole resistenza allo stress prolungato. A Honzo ciò che vedeva adesso gli piaceva e, ancor prima di trovarsi a fronteggiarlo, sapeva già che voleva lavorare con lui: aveva vinto.

In finale si trovarono uno contro l’altro. Giocarono per dieci ore, fu una partita durissima. Vinse Kageyama. Appagato dal trionfo, ma esausto per l’elevato tasso di concentrazione che aveva richiesto, Reiji si ritirò spintonando tra la folla di curiosi e appassionati che avevano assistito al loro incontro. Non si fermò neanche per le foto e il giorno successivo, nel giornalino universitario, era riportato l’articolo che raccontava la partita che avevano disputato, recante solo la foto della coppa, senza il vincitore. (C’era però l’intervista che aveva rilasciato Kidou, il re degli scacchi destituito dal suo trono, e il titolo riportava una frase che aveva pronunciato “ Ho imparato più dalla sconfitta di oggi che dalle scorse dieci vittorie ”) Reiji era andato a ritirare il proprio premio di nascosto, settimane dopo, quando nessuno ci pensava più. Ma quel giorno aveva fatto in tempo a cercare per un momento lo sguardo del suo sfidante: aveva immaginato di vedere grande afflizione, disperazione totale sul suo volto - lui che era stato privato, dopo tanto tempo, del titolo di campione di scacchi dell’università. Invece Honzo aveva sulle labbra quell’incomprensibile, ridicolo, sorriso deficiente. Era decisamente uno sciocco.

*
Honzo non era il genere di persona che si preoccupava troppo di quello che pensava la gente di lui: anzi, spesso, il fatto che lo sottovalutassero, che lo ritenessero un soggetto innocuo, non particolarmente intelligente, andava infine a suo vantaggio. Invero sapeva di non essere molto dotato, conosceva gente molto più abile di lui in svariati campi, e quella era la sua vera forza: conosceva tante persone, il patrimonio di contatti da cui poteva attingere era ampio e sapeva accrescerlo, coltivarlo con cura. Conosceva tutti, quantomeno tutti quelli che contavano, e dispensava favori, intrecciando legami personali, che all’occorrenza gli sarebbero stati utili. Fu per questo motivo che la sconfitta al torneo di scacchi non lo colse affatto impreparato né lo turbò in modo specifico: aveva percepito che Kageyama Reiji fosse una persona interessante da avere attorno a sé e quell’incontro ne fu la prova inconfutabile. Decise di rendere più chiara ancora la situazione a Kageyama, cominciando ad invitarlo ad eventi sociali di loro coetanei, a coinvolgerlo in attività lì in università, presentargli gente, trattenerlo attorno a sé.

Reiji era disorientato ed intimorito, quel Kidou gli sembrava un idiota: era contento di aver perso contro di lui? Forse finalmente aveva riconosciuto il suo talento e cominciava a trattarlo come meritava… Sì, poteva essere… Però Kageyama era abituato a sentirsi minacciato e difficilmente si fidava, quel Kidou si comportava in maniera piuttosto strana… Tanto fece Kidou, intenzionato ad averlo nella sua cerchia di persone fidate, da vincere infine le sue riserve: accarezzando l’ego di Kageyama Reiji, lo introdusse nel suo mondo e, quando si laurearono – Kageyama con voti decisamente più alti di Kidou – Reiji aveva già intessuto tutta una serie di contatti e conoscenze in ambito politico, che gli valsero dei favoritismi quando iniziò a farsi strada nel mondo adulto della loro città. Indubbiamente Kageyama era bravo, molto bravo, i suoi meriti vennero riconosciuti rapidamente: altrettanto indubbiamente però l’investimento che Kidou fece su Kageyama si rivelò vincente, dai tempi dell’università si era convinto che scommettere su di lui fosse una mossa valida e il tempo gli diede ragione. Kidou poteva vantare di avere fra i suoi collaboratori e uomini più fidati il nome di Kageyama, al contempo Kageyama sapeva che aveva le spalle protette dal nome dei Kidou.

Honzo sentiva che Reiji teneva per sé molti segreti in merito al suo passato, c’era qualcosa in lui di estremamente ferito, che lo rendeva infantile ed impulsivo: sapeva che non era granché abile nei rapporti umani e che senza di lui non avrebbe fatto tutta quella strada, ma andava fiero dell’investimento che aveva fatto, raccomandandolo alle persone giuste, e tutto sommato sotto sotto la sua emotività gli faceva pietà in certi momenti. Kageyama, nonostante passassero gli anni, continuava a credere che Kidou fosse un idiota, ma molto influente, e riconosceva la sua intelligenza nel circondarsi di persone giuste. Gli generava collera pensare che il suo privilegio gli permettesse di usare quelle doti senza doversi curare d’altro e in cuor suo, rabbiosamente, pensava di essere molto meglio di quel figlio di papà con quel sorriso idiota e l’aria perennemente distratta: erano nella stessa posizione solo perché Honzo era nato nella famiglia giusta, ma se fosse stato al suo posto non avrebbe fatto tutta quella strada, no di certo. Non era così intelligente da cavarsela… Malgrado ciò, a Reiji metteva talvolta anche soggezione: con gli anni si era accorto che, al momento giusto, Kidou era in grado di tirare fuori dal cilindro il coniglio cattivo, come per magia, conservando un’espressione gaia, benevola, del tutto incapace di nuocere. Nondimeno, aveva visto quanto sapesse nuocere, altroché: era un bene che Kidou avesse deciso di essere suo amico e non suo nemico, la sua influenza sugli altri aveva un che di insensibile, di imperturbabile, che Kageyama rispettava. E, al contempo, in fondo al suo cuore, là dove non accedeva nessuno, nemmeno se stesso, quell’aspetto del carattere del suo amico un po’ lo spaventava, un po’ era motivo di invidia. Fra loro c’era stima reciproca e ammirazione formale: anche negli anni successivi all’università si frequentarono molto, principalmente per lavoro.

*

Fin dai tempi dell’università, Kidou era emotivamente e romanticamente alle prese con Sachi Mori, una giovane bella, ben proporzionata, ma piccola, così piccola, da sembrare disegnata. Suonava il pianoforte, studiava poesia, amava fare lunghissime passeggiate in riva al mare e aveva una voce d’angelo. Kageyama aveva una sopportazione ridicola per le chiacchiere fine a se stesse, ma quelle che vertevano sul cantare le virtù femminili erano in assoluto le più insignificanti e snervanti, per lui. Nonostante ciò, passò anni a sentire i discorsi infiammati di passione di Kidou, di come intendeva corteggiarla, farle regali costosi, essere gentile e piacente nei confronti della sua famiglia, così da poterla un giorno portare all’altare. A Kageyama – e pure ad altri conoscenti di Kidou, è doveroso ammetterlo – certi atteggiamenti di lei suonavano come un campanello di allarme già durante il fidanzamento, ma sembrava che Honzo avesse messo su dei paraocchi e non volesse accorgersi di alcuni dettagli alquanto sospetti… Il giorno del fatidico “sì” arrivò e Kageyama lo visse come l’ennesima penosa prova che la vita gli riservava, ma il gioco ne valeva la candela: Kidou aveva quello stesso mese esercitato la propria influenza politica, in quanto primo finanziatore dell’istituto, affinché Kageyama ricevesse l’incarico di dirigente della Teikoku Gakuen. Accettare di essere presente al suo matrimonio era il minimo che potesse fare e, mentre alla lussuosa festa che avevano allestito dopo la cerimonia osservava i vari commensali danzare, pensò di essersi finalmente liberato di quella fastidiosa spina nel fianco che erano le conversazioni su Sachi.

Così chiaramente non fu, anzi iniziarono i guai. Lui non aveva mai visto di buon occhio quella ragazza, così magrolina e bassina che, rimanendo in piedi, sfidava le leggi della gravità, aveva sempre visto qualcosa di civettuolo e interessato nel modo che aveva di farsi corteggiare da un ragazzo influente e ricco come Kidou, ma il suo amico non aveva dato ascolto alle sue raccomandazioni e Kageyama se l’era guardata bene dall’insistere. “In fondo a me cosa importa se Honzo intende rovinarsi con un matrimonio infelice, in cui sarà cornuto a vita? Non sono certo fatti miei”. Nonostante tutto però, Kageyama era una persona d’indole molto impulsiva e si infiammava facilmente; così, dopo essersi sorbito per un tempo non quantificabile sproloqui di lodi e lodi sulla fanciulla in questione, non mancava mai, con un commento acido e disilluso, di fargli notare quanto fosse ambiguo e sospetto un certo suo comportamento, piuttosto che una frase di lei che l’amico gli aveva riportato.

Infine, il fatto: Honzo colse in flagranza di adulterio Sachi e il suo amante. Ferito vivamente, scosso nel profondo, intimò ad entrambi di uscire dalla sua casa e il giorno dopo avviò con l’avvocato le pratiche per il divorzio. Il suo cuore era a pezzi e Kageyama, per quanto intimamente soddisfatto di aver avuto ragione, gli stette accanto: provava molta pena per quell’uomo che si fatto fregare come un pollo, oltretutto venne fuori che insieme all’amante gli avevano clonato la carta di credito e svuotato un conto che suo padre gli aveva aperto dopo il matrimonio, apposta per provvedere alla nuova famiglia che avrebbero formato lui e Sachi. Insieme. Fuor di dubbio, lei era stata una stronza. E Kidou un idiota. Nel complesso era una batosta considerevole. Quello, in sintesi, era il pensiero di Kageyama, che in quel periodo si poté fregiare del titolo di “migliore amico e fidato confidente”. Sempre più patetico e sciocco, quel Kidou.   

*

Come un fulmine a ciel sereno, senza che fosse da nulla preannunciato, il pensiero della necessità politica e sociale di un erede a cui lasciare l’attività irruppe nella mente di Kidou. Era un pensiero scomodo, perché significava rimettersi in gioco nel cercare di formare una famiglia, perché richiedeva impegno, non solo emotivo: era un pensiero spaventoso, che gli toglieva energie. E che, purtroppo, si faceva sempre più ingombrante nella sua mente. Kidou per sua natura si divertiva così tanto a lavorare, che aveva fatto del suo lavoro la sua prima e principale fonte di vita sociale: questo fatto rendeva ai più estremamente faticoso capire chi considerasse amico davvero e fino a che punto si stesse divertendo o stesse invece “solo” lavorando. Si può dire che Kidou Honzo lavorasse e basta, oppure che non prendesse mai sul serio il lavoro, né qualsiasi altra cosa facesse per rilassarsi, semmai sapesse effettivamente come rilassarsi. Era molto enigmatico il suo modo di fare e persino il personale domestico, che aveva a che fare con lui quotidianamente, faticava a districarsi fra i suoi sorrisi piacenti e i suoi modi di fare sempre così cortesi.

A onor del vero, non confidò mai quel turbamento che aveva iniziato ad annerirgli le giornate: fu Kageyama che, con calcolata naturalezza e una spontaneità che sfiorò il magico in quanto a tempismo, avviò per lui la ricerca che, da solo, avrebbe faticato a condurre, in quanto avrebbe dovuto spendere tempo ed energie mentali ed emotive che, in quel periodo, proprio non aveva. Kageyama in qualche modo lo sapeva, perciò provvedeva in autonomia, con professionalità e riservatezza: qualità che gli aveva sempre riconosciuto e che, anche in quel caso, non mancò di dimostrare. Aveva la sua piena fiducia e tanto bastava ad entrambi: Reiji procedeva concedendosi ampie libertà, perché consapevole di avere carta bianca nelle decisioni e Honzo, a fine giornata, distendendosi nel letto, sentiva la mente alleggerirsi al pensiero che, presto, ci sarebbe stato qualcuno in quella casa, che l’avrebbe chiamato “papà” e sarebbe stato contento di essere lì.

Iniziò, quasi per gioco, a figurarsi quel bambino, ma non nell’aspetto, quello davvero non gli importava, bensì in cose molto più fuggevoli: lo scalpiccio dei passi che avrebbe prodotto su per le scale, il movimento delle mani con cui avrebbe imparato a maneggiare le posate europee per mangiare a tavola, il modo in cui avrebbe pronunciato il proprio nome – il suo nome, che avrebbe condiviso con quel bambino, il quale, crescendo, lo avrebbe portato avanti, con tutti gli onori e oneri. Sarebbe andato tutto per il meglio, avrebbero avuto tutto il tempo: quel bambino per imparare e lui per insegnargli. Il bambino avrebbe ricevuto la migliore istruzione, a partire dalla Teikoku Gakuen, diretta magistralmente da Kageyama… La sua azienda e i suoi profitti sarebbero stati al sicuro. Lui sarebbe stato al sicuro. Cercare di riallacciare un legame con una donna avrebbe comportato un investimento emotivo troppo oneroso, era fuori discussione: invece, da una creatura così piccola, bisognosa e fragile come solo un orfano può essere, poteva aspettarsi solo gratitudine e felicità per essere stato condotto in un ambiente come quello che gli offriva. Non gli avrebbe fatto mancare niente, lo avrebbe cresciuto nell’agio e in salute, insegnandogli ad accontentarsi solo del meglio, e avrebbe ottenuto in cambio lealtà e riconoscenza. Sarebbe stato attento alle fasi del suo sviluppo, l’avrebbe accompagnato e condotto lungo strade ben tracciate e sicure, l’avrebbe protetto. A dire la verità, Kidou Honzo non era del tutto sicuro di sapere quali fossero gli step da seguire, il programma era poco definito per quanto riguardava i primi anni di formazione e preparazione di quel bimbo in arrivo. Lui se lo figurava già, adulto e responsabile, a discorrere di affari con i suoi colleghi indossando un bel completo scuro: sarebbe stato disinvolto e sicuro di sé, veloce nel pensiero e capace di quella velata malizia che era uno strumento indispensabile per sopravvivere nel nido di serpi in cui avrebbe lavorato quotidianamente. Però chiaramente quell’uomo non esisteva ancora, l’avrebbe affinato a dovere con il tempo: per i primi anni, in cuor suo sapeva di volersi affidare a Kageyama e sembrava che il suo amico non fosse in disaccordo in merito a quella prospettiva, anzi malcelava un certo soddisfatto entusiasmo ogni volta che raccontava qualcosa. Era un valido insegnante e senz’altro era più abituato di lui ad avere a che fare con bambini e ragazzi in età scolare: Honzo alla sola idea si sentiva alquanto disorientato. Che cosa avrebbe dovuto dire, per metterlo a suo agio? Che cosa avrebbe dovuto fare, per rassicurarlo e tranquillizzarlo? Necessitava di ogni tipo di cure, un piccolo individuo come quello che si figurava: abbastanza grande da essere autosufficiente in certe dinamiche fisiologiche, ma abbastanza piccolo da essere educato secondo certi parametri e aspettative. Decisamente, Kageyama avrebbe saputo come aiutarlo. E poi, a tempo debito, lui stesso si sarebbe occupato in prima persona della preparazione effettiva del suo erede al lavoro in azienda. Nel frattempo, si sarebbero già creati spontaneamente quei legami emotivi che soggiacciono alle relazioni padre-figlio, almeno così pensava. In fondo, dopo tanti anni di convivenza, non c’era modo per cui non si volessero bene e non si fossero conosciuti a dovere: era naturale e rassicurante , per una persona come lui che - avendo sigillato il proprio cuore ad ogni possibile nuovo fendente da parte di avventrici interessate solo al guadagno - si dedicava esclusivamente e soltanto al lavoro. Curava i propri affari come se ne andasse della sua vita, ampliando il proprio patrimonio e coltivando grandi aspettative nei confronti dell’erede che, da lì a poco, avrebbe iniziato a educare per sedere, un giorno, alla scrivania che adesso occupava lui.

Com’era nei piani, la procedura di adozione fu rapida da sbrigare. Kageyama, con la sua delega, si occupò pressoché di tutto e lui si trovò ad apporre le firme necessarie a concludere la pratica il giorno stesso in cui portò a casa Yuuto. Kageyama gli aveva promesso un fanciullo intelligente ed educato, di principio dotato di tutta una serie di attitudini che, con il tempo e l’educazione, sarebbero state fortificate al meglio. Così fu, in effetti: Yuuto era parecchio rapido nei ragionamenti, imparava velocemente e aveva un certo intuito per le situazioni in cui si poteva arrischiare e quelle per cui invece era necessario che rimanesse al suo posto. Nonostante le condizioni di degrado in cui aveva vissuto per i primi anni, dimostrò una propensione innata per le buone maniere e la sua condotta impeccabile fu sempre motivo di lode da parte di insegnanti e conoscenti. Si dedicò fin dalle elementari con costanza allo studio, portando eccellenti risultati, e nello sport, fatto che Kageyama apprezzava profondamente senza farne mistero: affermava che fosse importante per lo sviluppo psico-fisico di un leader rispettabile e il signor Kidou si fidava, non aveva motivo di dubitarne d’altro canto. Avrebbe preferito che il ragazzo si dedicasse alla musica e in effetti cercò per qualche tempo di impartirgli delle lezioni di violino da un maestro, ma era evidente quanto Yuuto fremesse per il pallone e, nonostante il suo lieve scetticismo per i tanti vantaggi che avrebbe comportato l’inzaccherarsi di polvere su un campo di gioco e sudare tanto per correre dietro ad una palla, alla fine si fece convincere e lasciò che il ragazzino si dedicasse alle competizioni scolastiche. Male non potevano fare e c’era sempre Kageyama a badare a lui, non era preoccupato.

*

I primi tre anni che Yuuto passò a casa Kidou furono anni in cui padre e figlio ebbero poche occasioni per passare del tempo insieme. Il bambino era molto intimidito e impacciato, aveva bisogno di una guida costante anche per le cose più banali e a lui provvedevano Kageyama e il personale di casa. In particolare, il signor Kidou aveva assegnato a uno dei suoi più fidati maggiordomi, il signor Hakamada, il compito di vegliare sul bambino e provvedere a tutte le sue necessità, comprese quelle di spostamento. Fuori casa, contava sull’intervento e l’occhio vigile di Kageyama, che in effetti era molto presente e affidabile: si offrì persino di portarlo qualche mese con sé in giro per l’Europa. Anche lui avrebbe passato gran parte di quell’anno all’estero ma, diversamente dal professore, avrebbe avuto difficoltà ad avere con sé il bambino e il suo aiuto in quel frangente si rivelò provvidenziale. Così, per i primi anni, Honzo si premurò di tenersi estremamente aggiornato su tutto quello che riguardava la vita di suo figlio, ma rare furono le occasioni di incontro diretto fra i due.

Quando l’insegnante a scuola diede come compito in classe il tema “illustra la tua famiglia”, il disegno di Yuuto fu al centro di un dibattito interessato che coinvolse numerosi insegnanti e che arrivò persino sulla scrivania del preside – da dove scomparve prontamente, senza lasciare traccia. Il foglio in questione era diviso in tre parti, mediante delle righe verticali disegnate con precisione: nella parte destra c’era disegnato un uomo alto, vestito di scuro, che guardava correre un bambino fra dei birilli e al lato, sul fondo, c’era una cesta di palloni di calcio. Nella parte sinistra c’era un uomo con la barba e la cravatta rossa che, seduto alla scrivania, scriveva su alcuni fogli. Sulla scrivania c’era anche una tazza di tè fumante e un computer. Alla parete c’erano appesi dei quadri molto colorati. Infine, nella parte centrale, c’erano due bambini che si tenevano per mano, lei aveva gli occhi blu come il cielo, lui portava i pantaloncini e in mano aveva un giornalino. Sopra di loro splendeva un sole sorridente con i raggi leggermente obliqui. Honzo non lo vide mai.

Terminato quel soggiorno prolungato all’estero, tornò a casa e ci trovò un bambino molto cresciuto, cambiato in meglio per tanti versi. Si atteggiava con più confidenza, parlava con disinvoltura ed era un vero damerino durante le occasioni sociali. Mostrava però di essere ancora alquanto intimorito dalla grande casa in cui abitava e Honzo sentì che, in quanto padre, doveva intervenire. Non poteva chiedere a Kageyama di occuparsi anche di quello, faceva già moltissimo e gli era riconoscente, ma quella casa era il suo orgoglio e, visto che anche Yuuto lo sarebbe stato, era necessario che si sentisse a casa, sotto quel tetto. Invero, non era pronto a ridurre drasticamente i suoi impegni lavorativi, c’erano ancora molte cose di cui doveva occuparsi - Yuuto era piccolo d’altronde – ma decise che il tempo che avrebbero trascorso insieme, per quanto poco, sarebbe stato un tempo in cui si sarebbe messo a disposizione del bambino per accrescere la sua confidenza in casa. All’inizio non fu semplice, perché Yuuto sembrava intimorito dalla presenza paterna, voleva renderlo orgoglioso ed era evidentemente molto impegnato a fare bella figura, a splendere davanti ai suoi occhi. Questo dava grande soddisfazione e appagamento all’adulto, ma a volte la fragilità che dimostrava quel bambino lo turbava. Yuuto sembrava accordare a chiunque il potere di cambiarlo: in meglio o in peggio non faceva differenza, a patto che si prendessero cura di lui.

Un giorno di festa, all’improvviso, nel pomeriggio aveva iniziato a nevicare: Yuuto aveva domandato il permesso per uscire a giocare a Hakamada, ma il suo maggiordomo gli aveva risposto che doveva ottenere l’autorizzazione del padre, il quale era rimasto lungamente chiuso nel suo ufficio per una chiamata importante. Yuuto aveva atteso pazientemente, con il nasino incollato alla finestra, a guardare i grossi fiocchi di neve che imbiancavano il suo giardino e il cancello. Quando finalmente suo padre era uscito dall’ufficio – zona lavoro inaccessibile per il piccolo – e aveva capito quanto a lungo lo avesse aspettato, senza fare i capricci o lamentarsi in qualsiasi modo, colto da un moto di orgoglio e affetto aveva deciso che l’avrebbe accompagnato lui stesso per una passeggiata di fuori, sotto la neve, e avrebbero preso una cioccolata calda in pasticceria, se a Yuuto piaceva l’idea. -Eccome se mi piace! Grazie papà.-, aveva risposto, contento di poter indossare i guanti colorati e super morbidi che avevano comprato proprio in vista delle nevicate di quell’anno.

Di ritorno da quello strano, ma piacevole e distensivo pomeriggio, Honzo aveva deciso di allungare leggermente la strada, per mostrare al figlio la scuola dove, tanti anni prima, aveva frequentato le elementari. Yuuto aveva mostrato molta curiosità per il racconto e aveva azzardato qualche domanda, ma, quando si era accorto della strada in salita che avrebbero dovuto percorrere per tornare alla loro abitazione, si era fatto silenzioso e aveva iniziato a prendere per bene fiato, come gli aveva insegnato il suo allenatore. Quando, salendo lungo la via di casa, avevano iniziato a intuirsi le lunghe pale di legno del cimitero buddista lì vicino, il bambino si era accostato al corpo dell'adulto. Era abituato alle storie di fantasmi, come lo sono tutti i bambini, ma il cimitero lo terrorizzava, era evidente. L'uomo aveva osservato la sua espressione impaurita, non aveva detto nulla - non aveva saputo cosa dire né come dirla - gli aveva sfiorato la mano con la propria. Aveva avvertito in quel momento l'immensa angoscia del bambino - era tanto piccolo e magrolino da potergli sentire il batticuore anche a quella distanza. Aveva provato una vertigine di inadeguatezza che aveva ricacciato in fretta, prima che gli invadesse la mente. Preso un respiro profondo, senza darsi il tempo di pensare, aveva allungato le dita e gli aveva afferrato il polso. Aveva stretto forte la mano del bambino dentro la sua. Era rimasto in apnea e aveva sentito distintamente Yuuto trasalire: era la prima volta che suo padre lo prendeva per mano in quel modo. Era… piacevole. Senza guardarsi, avevano continuato la salita ed erano infine rientrati in casa, lasciandosi la città imbiancata alle spalle.

*

C’era un ampio salone al piano terra, in casa Kidou, che Yuuto considerava “zona da adulti”, perciò off-limits. In effetti nessuno gli aveva mai detto una cosa del genere, anzi il personale domestico era fin da subito stato molto accogliente e tutti avevano cercato di renderlo confidente nel muoversi in casa, che era la sua casa, adesso. Ciò nonostante, quella era una zona che suo padre frequentava quando invitava qualcuno a casa – e ciò accadeva spesso, molto spesso. In effetti suo padre c’era, ma era come se non ci fosse mai: quando tornava dall’ufficio spesso già era in compagnia di colleghi, si chiudevano in quell’ampio salone e discorrevano per ore, si facevano servire il tè o alcolici, a seconda dell’orario. Spesso da quella stanza Yuuto sentiva provenire della musica: in un primo momento aveva ritenuto davvero possibile che ci fosse un’orchestra dal vivo che suonava per gli ospiti di suo padre, poi un giorno aveva esposto quella sua convinzione a Hakamada, il quale, professionalmente, senza scomporsi, gli aveva spiegato che si trattava di un grammofono d’epoca. Di fronte all’espressione più confusa di prima del bambino, l’aveva accompagnato nel salone e gli aveva mostrato di cosa si trattasse in realtà. A Yuuto non era stato distrutto nessun sogno: quello strano aggeggio che emetteva musica era ancora più affascinante del pensiero di un’intera orchestra che suo padre magicamente tirava fuori dal cassetto all’occorrenza. Era anche più estetico e comodo da pulire. Hakamada, a sentire quelle osservazioni, dovette mordersi un labbro per non sorridere vistosamente.

In ogni modo, musica a parte, quel salone era sempre frequentato dagli adulti e Yuuto difficilmente ci metteva piede, quando aveva bisogno di qualcosa si rivolgeva ad Hakamada e poi c’era sempre Kageyama a scuola. Una sera, tuttavia, si era già fatto tardi e a quell’ora il personale di casa si era ritirato, Yuuto era alle prese con una forte emicrania e proprio non riusciva a prendere sonno. Si preoccupò di rivestirsi, per non farsi vedere dai colleghi di suo padre in pigiama, rischiando di fargli fare brutta figura, e scese le scale facendo ben attenzione a dove metteva i piedi. Di fronte alla porta della stanza prese un respiro profondo, davvero non sapeva come fare con quel mal di testa, e si decise a bussare. La sorpresa di Honzo fu grande quando, accogliendo la richiesta di ingresso, si vide spuntare la testolina di dreads sciolti di suo figlio, con ancora su una polo e dei pantaloncini, e gli occhietti stretti stretti, evidentemente doloranti.

-Yuuto – lo chiamò subito, alzandosi dal divano. Il bambino notò come tutto intorno nella stanza fosse calato il silenzio e si chinò immediatamente, per salutare i presenti: -Buonasera a tutti. Scusate il disturbo.-

Si sollevò un coro di saluti per quel bimbo, molti lo vedevano per la prima volta, e Honzo constatò compiaciuto che sicuramente Hakamada l’aveva messo a letto in pigiama, ma per venirgli a parlare Yuuto aveva avuto l’accortezza di rendersi di nuovo presentabile. Davvero bravo. Gli andò vicino, evidentemente non era sceso per salutare i suoi colleghi. Yuuto infatti lo stava richiamando: - Scusa, papà, posso chiederti una cosa, per favore?- Nel mentre che suo padre gli si avvicinava, Yuuto notò che, davanti a lui, c’era un tavolino su cui era esposto uno spettacolare puzzle tridimensionale rappresentante la Torre di Porcellana cinese. I suoi occhi si illuminarono tanto da rendere fisicamente impossibile per suo padre non notarlo: si volse appena di spalle, per capire cosa avesse tanto animato il suo sguardo, e sorrise. – Ti piace il puzzle della padoga di Nanchino? Me l’ha regalata un mio amico: sai, ha fatto una grande donazione alla città e con quei soldi la ricostruiranno. La vera Torre di Porcellana, ovviamente. Ci vorrà qualche anno, ma quando saranno ultimati i lavori potremmo andare a vederla insieme: se ti fa questo effetto il modellino…- Yuuto chiese il permesso di potersi avvicinare per vederla meglio e suo padre lo lasciò passare. Il bambino aveva tutti gli sguardi dei presenti in sala su di sé, per cui fece ben attenzione a camminare dritto e non inciampare nel pesante tappeto, ma quel modellino era davvero affascinante. Si affiancò al tavolino e fissò con occhi grandi tutti i dettagli: era impressionante.

-E’ bellissimo – proferì – Saranno cinquecento pezzi!-

-Trecento in realtà, ma ci sei andato vicino. – In quel momento parve ricordarsi che in effetti il bambino sarebbe già dovuto essere a letto a quell’ora e lo richiamò: -Cosa mi dovevi chiedere, Yuuto?-

Venne fuori che il forte mal di testa che provava era uno scoppio di febbre alta: domandando scusa per l’inconveniente, il signor Kidou congedò i suoi ospiti e si occupò di mettere a letto il figlio con un antipiretico e del ghiaccio sulla fronte. Erano in piena stagione delle piogge e Yuuto non aveva una costituzione particolarmente forte, a quanto pareva. La mattina seguente Honzo aggiornò il personale domestico della situazione e si raccomandò di avvisare la scuola: finché non si fosse ripreso, Yuuto sarebbe rimasto a casa. A maggior ragione quella mattina che fosse lasciato riposare: dopodiché si recò a lavoro, ma continuò ad avere sotto gli occhi lo sguardo affascinato del bambino di fronte al puzzle dell’antico edificio cinese. Decise che, tornato a casa, avrebbe fatto un tentativo. In effetti, perché non ci aveva ancora pensato?

Fu a casa già per pranzo: trovò Yuuto nelle sue stanze, sonnecchiante sul divano, che sfogliava alcuni giornalini. Il bambino gli andò subito vicino per salutarlo e dal suo atteggiamento parve preoccupato. Aveva timore che suo padre fosse in collera con lui, per averlo disturbato la sera prima, invece lo trovò di buon umore. Raramente pranzavano insieme e, nonostante la febbre non fosse ancora bassa, Yuuto volle scendere di sotto con suo padre. Bevve del latte caldo, spiando l’espressione del padre di sottecchi, come se temesse da un momento all’altro un rimprovero. All'opposto, Honzo mangiò con appetito, dopodiché gli chiese come si sentisse e se avesse voglia di salire di sopra con lui. “ Ti voglio mostrare una cosa, credo proprio che ti piacerà ”: così gli disse e quelle parole a Yuuto sembrarono una promessa di cura e amore.

Gli batteva forte il cuore, quel giorno quando per la prima volta suo padre gli diede accesso alle sue stanze private, al piano superiore: erano camere speculari a quelle di Yuuto, ma il bambino non ci era mai entrato, fino a quel momento. Tendenzialmente suo padre ci si ritirava quando lavorava in casa e non aveva ospiti, il che succedeva di rado, e in quelle occasioni difficilmente anche il personale domestico lo disturbava, Yuuto non si era mai permesso. La prima stanza era una zona giorno simile a quella che avevano allestito per lui: scrivania, libreria, divano, tappeto, quadri alle pareti… C’era anche un mappamondo e una bellissima lampada a terra di vetro soffiato, coloratissimo nonostante la giornata grigia e la poca luce che passava dalle finestre. Yuuto individuò una porta, che sicuramente portava alla zona notte, dunque alla camera da letto e al bagno. Cosa doveva mostrargli suo padre?

Honzo, intuendo la sua curiosità da come si guardava attorno, si avvicinò alla libreria e gli fece cenno di fare lo stesso. Il bambino lo imitò e, seguendo il cenno di suo padre, cercò di sollevare dallo scaffale il libro che gli indicava. La sua sorpresa fu grande quando si accorse che si trattava di un interruttore e, come nei film, si aprì un passaggio nel muro. Emise uno squittio di sorpresa, questo davvero non se lo aspettava: suo padre sembrava gongolare, si era forse addormentato prima di pranzo e stava sognando? Curioso di capire come sarebbe proseguito quel sogno, seguì il padre nel passaggio magico nella libreria. Si ritrovò in una stanza semplice e sorprendente al tempo stesso: c’erano delle finestre, innanzitutto, e una porta; dunque, forse non era una camera poi così segreta… L’entusiasmo di Yuuto però non venne smorzato da quella consapevolezza, perché ciò che era presente nella stanza era davvero elettrizzante: tavoli e tavoli, di diverse altezze e lunghezze, pieni di puzzle ancora da completare. Alcuni erano quasi conclusi, altri appena imbastiti, alcuni rappresentavano paesaggi naturali, altri proprio non avrebbe saputo dirlo, alcuni sembravano addirittura delle mappe. I più erano tradizionali, in due dimensioni, alcuni più piccoli erano tridimensionali e avevano delle strutture di supporto che favorivano l’assemblaggio dei pezzi. Alcuni puzzle già completi addobbavano le pareti, incorniciati. E poi ancora tavoli da gioco, ce n’erano di tutti i tipi: dama, scacchi, Catan, Schyte, Risiko e ancora rompicapi in legno, solitari in tessere o in carte, enigmi da montare, mahjong e tanti altri. Yuuto si sentì sopraffatto dalla sorpresa, quella stanza era una vera palestra per il cervello!

-Quando ho visto che espressione deliziata hai fatto, notando il puzzle 3d, l’altra sera, ho pensato che dovessi mostrarti questo posto. Ti piace? – Yuuto annuì e cominciò a girare per la sala, sotto lo sguardo vigile dell’adulto. All’ennesimo tavolo rimasto in piedi grazie al miracoloso, perché tempestivo, intervento di Honzo, un attimo prima che si ribaltasse, dato che Yuuto si aggrappava con le mani al bordo per sollevarsi e vedere cosa c’era sopra, decise che era quantomeno urgente procurarsi uno sgabello per il bambino, in modo che avesse accesso ai tavoli da gioco e di lavoro ai puzzle, senza che ogni volta si dovesse sventare un disastro. Dato che, a giudicare dalle gote rosse del bambino, pareva che la febbre si fosse alzata, optarono per un semplice memory, tanto per cominciare.

Seduto a gambe incrociate di fronte a suo padre, Yuuto sperimentò un nuovo tipo di entusiasmo: comportava, così come gli allenamenti di calcio con il Comandante, una sensazione costante di ansia performativa, una perenne convinzione di avere uno sguardo giudicante addosso, pronto a sgridarlo per ogni minimo errore, ma anche a lodarlo per ogni corretta azione svolta. Lo volevano brillante e deciso, intelligente e veloce, consapevole e risoluto. A volte Yuuto aveva la sensazione che fossero la stessa persona in corpi diversi.

*

Kidou Honzo era tutto fuorché uno stupido, invero notava moltissime cose: semplicemente, non ne dava prova fino al momento opportuno. Aveva limpidamente preso consapevolezza di quanto Yuuto si fosse legato a Kageyama, di quanto lo adorasse e stimasse e cercasse costantemente la sua approvazione. In prima battuta il signor Kidou era stato favorevole a questa dinamica, non era mai stata sua intenzione occuparsi di un bambino e quello che, tre anni prima, aveva portato a casa era solo un bambino, nulla di più, nulla di meno. Ma quel bambino era la sua scommessa più grande: formare un erede per il suo impero aziendale senza dover ricorrere a investimenti emotivi intensi come formare una famiglia e contrarre nuovamente matrimonio. Kageyama, nell’occuparsi dei primi anni di formazione di quell’erede, non poteva permettersi di perdere di vista l’obiettivo; che se ne occupasse dunque, che passasse pure tanto tempo con Yuuto, ma a patto di avere ben chiaro che stava lavorando ad un suo progetto.

Così pensava Honzo mentre, nei giorni di convalescenza di suo figlio, lo intratteneva in casa con i puzzle e i giochi di strategia: d’altronde di fare sport non se ne parlava nemmeno. Ne ammirava il pensiero veloce e la propensione al problem solving, seppur talvolta alquanto fantasiosa, ma sempre sorprendente, considerata poi la giovane età. Si applicava con una costanza e dedizione notevoli e mostrava una smania tutta particolare per il completamento degli enigmi: come se, intimamente, volesse far ordine nel mondo intricato e grande che un giorno gli si era parato davanti agli occhi, senza preavviso. I puzzle invece lo rilassavano: cercava l’armonia delle linee e dei colori, sperimentava le combinazioni possibili dei pezzi che gli scivolavano fra le dita sottili, ma qualcosa si faceva più sfumato nel suo sguardo quando trovava il giusto incastro.

Il signor Kidou lo osservava con attenzione e Yuuto mostrava di essersi abituato a essere guardato con spirito indagatore: erano anni ormai che Yuuto sperimentava su di sé lo sguardo di chi faceva delle valutazioni sulle sue prestazioni e caratteristiche. Tuttavia Honzo non aveva una propensione affettiva così elevata da condurlo su quel tipo di considerazioni e valutò solamente quanto potenziale ci fosse nel modo che possedeva il bambino di condurre il proprio pensiero.

Un tardo pomeriggio, mentre erano così assorti nei loro giochi, ricevettero in casa la visita di Kageyama. Voleva sapere come stesse il bambino, dato che era da parecchi giorni che non si presentava a scuola. Quando Yuuto se lo trovò sulla porta della stanza dei puzzle di suo padre, esitò un momento prima di alzarsi e salutarlo: stavano giocando a dama con suo padre e toccava a lui muovere, non avrebbe dovuto distrarsi. Kageyama notò la sua esitazione, durata solo pochi secondi e spezzata dall’iniziativa di Honzo, il quale per primo si alzò dalla postazione, interrompendo il gioco per accogliere l’amico. Il piccolo Kidou, rassicurato, si avvicinò così a sua volta all’allenatore, contento e ossequioso. Kageyama si sentì pervaso da una sensazione di sollievo che al contempo provocò in lui del turbamento: come se avesse avuto un braccio stretto dentro una pressa e avesse sentito la pressione allentarsi e in quel momento avesse realizzato quanto fosse stato fino ad allora in tensione. Non si occupò di trovare un nome all’emozione che stava provando e accettò con pacatezza le rassicurazioni del genitore sullo stato di salute del figlio. Lo sguardo di Yuuto gli dava le vertigini. Così, come in trance, ascoltò il bambino raccontargli di tutti i nuovi giochi che suo padre gli aveva mostrato e le idee che ne aveva tratto per alcuni schemi di gioco. Chiese il permesso a suo padre di andare un momento in camera sua a recuperare il quaderno di appunti e Honzo glielo concesse con un gesto vago, poco interessato.

Kageyama, dal modo in cui si sentiva guardato dal signor Kidou, percepì che voleva parlargli e sentì di nuovo uno strano formicolio di distensione – come in seguito a una pressione intensa e prolungata – quando Yuuto gli chiese se volesse accompagnarlo e cercò di prenderlo per mano. Naturalmente non afferrò quelle dita nelle proprie, ma lo anticipò fuori dalla stanza e Yuuto attraversò il corridoio della propria casa, nel tratto che separava le sue stanze da quelle di suo padre, accompagnato da una figura conosciuta che – realizzava in quel momento per la prima volta – accedeva anche al piano superiore. Dovevano tenersi reciprocamente in grande considerazione, il suo papà e il suo allenatore. Era contento che fosse venuto a vedere come stava, significava che era preoccupato per lui: temeva che dicendoglielo sarebbe sembrato debole – eccessivamente emotivo - e tutto sommato Kageyama voleva vedere i nuovi schemi di gioco a cui aveva pensato, non doveva farsi distrarre da pensieri di altro tipo.

D’altronde Kageyama era sollevato dal constatare che Yuuto stesse, tutto sommato, piuttosto bene e avrebbe voluto già dal giorno dopo vederlo tornare sul campo da gioco: aveva la strana sensazione che Honzo glielo stesse tenendo lontano. Non fu però così incauto da lasciarlo intendere, né a lui né al bambino. Sarebbe stato oltremodo sconveniente.

Quando tornarono nell’altra stanza, dove li aspettava il padrone di casa, trovarono quest’ultimo vicino alla postazione della scacchiera: ne aveva allestita sul tavolo da gioco una davvero preziosa, che Yuuto non aveva ancora mai visto. Era una scacchiera professionale con pezzi intarsiati, decorati in modo molto piacevole alla vista e al tatto. Le pedine in legno avevano un’anima piombata e un rivestimento di velluto sul fondo. Sembrava molto costosa. Yuuto sbarrò gli occhi dalla sorpresa e si avvicinò subito al tavolo da gioco, senza osare toccare le pedine per paura di farle cadere: il suo sguardo parlava da solo del fascino che esercitava su di lui ciò che vedeva. Anche Kageyama parve sorpreso, ma mantenne il solito contegno e si avvicinò alla postazione da gioco. Conosceva bene quella scacchiera, l’aveva regalata lui a Kidou in occasione della laurea. Kageyama muoveva il nero, Kidou pertanto mosse per primo.

Fu una sfida lunga: dopo quattro ore, Kageyama fu condotto alla resa. Yuuto era ancora giovane e inesperto delle tattiche di gioco degli scacchi, per cui non lo notò ma, fin dalle mosse di avvio, era chiaro che Kageyama giocasse ambendo a pareggiare, non certo a vincere. Nonostante il nero fosse notoriamente il “fortunato”, lasciar avviare il gioco al bianco dava vantaggi considerevoli: entrambi ne erano consapevoli e Kidou muoveva le proprie pedine sapendo di star chiudendo a Kageyama ogni varco. Yuuto si spostava da un lato all’altro del tavolo da gioco, sporgendosi per guardare i due adulti e spiare i loro ragionamenti attraverso i loro sguardi. Suo padre era molto più loquace del suo allenatore, lo faceva stare sulle sue ginocchia e gli spiegava la logica dietro agli spostamenti dei singoli pezzi. Kageyama stava in silenzio, piegava le dita lunghe e ossute e sembrava che il suo cervello andasse a mille all’ora: Kidou ammirava quella velocità, ma sapeva di non riuscire ancora a starci dietro. Magari un giorno, quando sarebbe stato grande anche lui…

In definitiva, Yuuto era convinto al cento per cento che sarebbe stato Kageyama a vincere quella sfida. Era l’uomo più intelligente che conosceva, le sue strategie erano assolutamente perfette e non sbagliava mai. No, Kageyama non sbagliava mai. Né perdeva mai. Non avrebbe potuto perdere neanche contro suo padre. Tuttavia, su quella scacchiera, ancora una volta, come sempre d’altronde quando si trovavano l’uno di fronte all’altro, la posta in gioco fra Kageyama e Kidou non era semplicemente la buona riuscita di una strategia né tantomeno intendevano passare qualche ora in dilettevole e amichevole attività di svago... Si giocavano la visibilità, il grado di autorevolezza di fronte a quegli occhi grandi e attenti del bambino che era entrato in punta di piedi nelle loro vite, ambito e desiderato trofeo che entrambi avevano intenzione di ostentare.

Kidou accettò di buon grado il patteggiamento e la resa dello sfidante, con quel suo sorriso cordiale e pasciuto gli strinse la mano e lo ringraziò per la stimolante partita. Era tanto intimamente gongolante ed esteriormente placido da dare la nausea a Kageyama, che si rivide davanti, adesso epifanica, la scena di tanti anni prima: lui che, seppur vincendo, scappava dalla folla, come un ladro, un impostore e Kidou che, seppur perdendo, rimaneva a farsi acclamare e intervistare, come un re, un protagonista. Ai tempi dell’università, Reiji era rimasto stranito dalla sua reazione, quel giorno: era stato così pacato, così sportivamente ineccepibile, così… Così superiore . E adesso, dopo tanti anni, l’aveva chiuso in trappola come un topo, per di più di fronte a Yuuto.  Kageyama si sentì rodere dentro dal desiderio di rivincita, dall’ustionante sensazione di disfatta che lo pervase togliendogli per un momento il respiro.

Yuuto era visibilmente entusiasta e domandò se potevano spiegargli le strategie che avevano attuato. Con un sorriso brillante, che sapeva umiliare, Kidou propose che fosse Kageyama a spiegare al più piccolo il loro gioco e ricreare qualche passaggio, mentre lui scendeva di sotto a dare istruzioni per la cena. Kageyama si sarebbe fermato con loro, naturalmente? E Kageyama conosceva Kidou da parecchi anni, sapeva che quella non era sul serio una domanda: così lasciò che il bambino si sedesse davanti alla scacchiera e, mettendosi di fronte a lui, cominciò a illustrargli il modo in cui suo padre l’aveva battuto. Il colpo di grazia glielo inflisse poco dopo, quando, ritornando nella sala e trovandoli intenti nel gioco, lo sentì commentare, rivolto al bambino: -Hai visto, Yuuto? Il tuo allenatore è una mente decisamente brillante, una delle persone migliori che io conosca nel gioco degli scacchi. Dato che c’eri tu a guardare, non poteva certo far sfigurare il tuo papà… Conosce perfettamente il mio modo di giocare, lo sa ricreare anche senza che ci sia io a muovere le pedine.- C’erano così tante cose sottese e implicite… Kageyama avrebbe voluto ringhiare. Invero il suo cuore si fece pesante vedendo come gli occhi di Yuuto brillarono in direzione del padre.

Cenarono discorrendo con cordialità: mentre i due adulti rimanevano a tavola a parlare, Yuuto si mise a lato e si appisolò su una poltrona. Non sentì cosa i due si dissero, ma anche li avesse ascoltati, non avrebbe percepito tensione né accese discussioni: la sfida a scacchi era stata più che eloquente, per entrambi. Quel bambino sarebbe diventato un Kidou, stavano collaborando a quel fine comune e per farlo avrebbero investito le loro maggiori risorse.

Yuuto sognò se stesso: stava facendo i compiti in presidenza, alla Teikoku, nel banco che Kageyama aveva allestito vicino alla propria scrivania. Sollevando lo sguardo dal foglio, si accorse che Kageyama aveva un volto molto provato, segnato dalla stanchezza. Tuttavia non disse nulla. Quando però l'adulto si addormentò in poltrona, evidentemente nell'attesa che lui finisse i compiti, il piccolo Kidou non lo svegliò. Rimase invece a guardarlo, in silenzio, dalla sedia: notò sul viso del suo allenatore, in quella posa abbandonata, che non aveva mai visto prima, qualcosa che lo riempì di un sentimento che non capiva. Avrebbe voluto liberarsi di quel pensiero, oppure svegliarlo e confidarsi, raccontargli tutto. Farsi spiegare. Kageyama aveva una spiegazione per tutto. Eppure si trattenne e rimase fermo al banco, la matita sospesa in aria. I capelli di Kageyama erano sfuggiti alla presa dell’elastico e cadevano, scuri e disordinati, sulle sue spalle. Yuuto abbassò gli occhi sul quaderno e seppe in quel momento che ciò che provava era tristezza. Una tristezza così gigantesca da proiettargli un'ombra tutto intorno a lui. Vedeva tutto buio.

Quando si svegliò, Hakamada l’aveva messo a letto, Kageyama era già andato via e suo padre si era ritirato per la notte. Gli occhi lucidi del bambino vagarono per la grande stanza, lungo i muri spogli, e si arrampicarono su per il camino. Per un momento desiderò forte che Kageyama scendesse giù da lì e gli spiegasse tutto. Innanzitutto perché non l’aveva adottato lui, anziché quel Kidou. E se era vero che, come aveva suggerito suo padre, si era fatto battere di proposito. Perché lo aveva fatto? Oppure era una bugia, e suo padre era davvero più bravo a Kageyama, nel gioco degli scacchi?

Stringendo il proprio peluche di pinguino al petto, Kidou Yuuto decise che sarebbe diventato bravo, molto bravo a quel gioco e, una volta adulto, avrebbe lanciato una sfida sia a suo padre, sia al signor Kageyama. Li avrebbe battuti entrambi e li avrebbe costretti ad essere sinceri, a dirgli come stavano le cose davvero.

author's corner
Purtroppo il canon non ha dotato il padre di Yuuto di un nome, quindi mi sono presa l'onore di battezzarlo.
Presento a tutti Kidou Honzo!
Non sono gay. VI ASSICURO che non sono gay. Honzo e Reiji NON hanno mai avuto una relazione sentimentale o sessuale. CREDETEMI
Anche perché in realtà Honzo non ha sentimenti, quindi non è difficile crederlo eheh
Yuuto meritava così tanti bacini da star male, ma fra due papà non ne ha uno buono

  
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