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Autore: Adeia Di Elferas    09/03/2024    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“E siete certo che vostra madre sia di questo avviso?” chiese Giovanni Bentivoglio, guardando di sottecchi Ottaviano Riario che, quel giorno, era riuscito a strappare un incontro con lui e coi suoi figli, Alessandro ed Ermes.

Il figlio della Tigre, che aveva già fatto uno sforzo immane a presentarsi davanti a quel consesso, avvampò, diventando rosso come il fuoco e balbettò: “Io... Io non... Io non ho bisogno di... Sono un uomo adulto!” sbottò poi, ritrovando una certa fluidità nell'eloquio: “Non ho certo bisogno che mia madre mi dica cosa devo o non devo fare!”

“Lo capisco...” fece il signore di Bologna, lanciando uno sguardo un po' teso ai propri figli, ma poi rivolgendosi ancora al Riario: “Ma quello che ci chiedete non è cosa da poco...”

“Ora che mio cugino Giuliano è papa, non c'è nulla da temere!” insistette Ottaviano, scostandosi con un movimento infastidito del capo una ciocca di capelli scuri dagli occhi appesantiti da occhiaie che si trascinava ormai da mesi: “Datemi una condotta e dei soldati e riprenderò la Romagna!”

“E noi che ci guadagneremmo?” chiese Ermes, le braccia incrociate sul petto, ma uno scintilla nello sguardo che al fratello Alessandro non piaceva per niente.

“La Romagna e Bologna diventerebbero amiche in eterno.” assicurò il Riario, con un entusiasmo a dir poco infantile: “E con mio cognato a San Secondo, anche il parmigiano sarebbe al vostro fianco.”

“E questo ci proteggerebbe dalle ingerenze di Venezia?” domandò Giovanni, scurendosi in volto.

Il Riario deglutì rumorosamente, quasi sentendosi scoperto. Era possibile che i Bentivoglio sapessero del suo accordo segreto con Venezia? Ma, anche se così fosse stato, che cosa avrebbero avuto da temere?

Al Doge aveva promesso, in cambio di qualche favore per suo fratello Cesare e di una manciata di uomini – e della protezione, ovviamente, della Serenissima – che se lui fosse morto, in un lontano futuro, senza eredi, Imola sarebbe diventata veneziana. Ovviamente, una volta ripresa la Romagna, il suo intento era quello di seminare in giro il maggior numero di eredi possibili, dunque quel patto non rischiava in alcun modo di andare a ledere Bologna...

Eppure, quando parlò, lo fece con la lingua attorcigliata e la gola secca: “Certo che proteggerebbe Bologna da Venezia... L'Emilia e la Romagna, protette da Roma, sarebbero fuori dalla portata di un Doge anche più intelligente e potente di Loredan...”

Giovanni fece un lungo sospiro, apparentemente non molto convinto dalle parole del Riario. Era stanco, ormai, di averlo a Bologna, anche perché, malgrado sulla carta quel giovane uomo avesse un foraggiamento fisso da parte della madre, di fatto, su pressioni non solo della nuora Ippolita Sforza, ma anche di alcuni consiglieri che vedevano di buon occhio un riavvicinamento alla Tigre di Forlì per mezzo del figlio, il Bentivoglio si era trovato a sborsare un sacco di soldi per coprire i suoi pasticci e finanziare i suoi vizi. Aveva capito ormai da un po' e a sue spese – nel senso meno metaforico possibile – che era più conveniente, per esempio, pagare una meretrice per il divertimento del Riario, piuttosto che lasciarlo andare per bordelli a seminare problemi, così come gli era ormai chiaro quanto fosse più semplice trovargli alloggio, e vitto, con una notevole quantità di vino assicurata, piuttosto che vederlo angustiare tutti i nobili della città, dovendo poi ripagare ai suoi danni per evitare incidenti diplomatici e proteste.

Sapeva che la Leonessa, in fondo, aveva in animo di riprendersi con le armi Imola e Forlì, dunque perché non dare lo slancio a quell'impresa, cogliendo anche al volo l'occasione per togliersi dai piedi quell'ingombrante e molesto spilungone tutto curvo e con la pancia da avvinazzato?

“Vi faremo sapere.” concluse comunque Giovanni, senza sbilanciarsi: “Dobbiamo valutare bene le nostre forze e capire quando agire, se mai decidessimo di agire...”

Ottaviano deglutì, il pomo d'Adamo che correva su e giù nella gola, ma poi, non trovando appoggiò né in Alessandro – che teneva lo sguardo basso – né in Ermes – che gli faceva paura – preferì annuire e commentare a bassa voce: “Pensateci e vedrete che la mia offerta vi conviene.”

Il Bentivoglio fece un breve cenno con il capo, che non indicava né accordo né disaccordo, e poi pregò una delle guardie di scortare fuori il suo 'carissimo ospite'.

“Non mi sembra una cattiva idea.” disse subito Ermes, non appena lui, il fratello e il padre furono di nuovo soli: “Lui ci servirà come bandiera. Anche se è un incapace, se potremo portare l'araldo dei Riario Sforza, sarà più facile...”

“Tu vorresti prenderti Imola e tenertela per te!” lo canzonò Giovanni, scuotendo il capo: “Se faremo questa cosa, la Romagna resterà alla Sforza.”

“Ma non potrà dimenticare il debito nei nostri confronti.” si incaponì il figlio, il cui volto pallido era contratto in un'espressione che tradiva una rabbia non commisurata ai toni del discorso che si stava facendo: “Quella donna non ha nulla, adesso, non ha armi, né uomini, né pezzi d'artiglieria: ha solo un figlio che è un imbecille, ma che ci potrebbe servire. Mi sembra uno scambio equo, a patto che la Romagna resti una nostra pertinenza, anche se solo ufficiosamente.”

“Ippolita crede che non dovremmo dare alcun peso a quello che dice Ottaviano Riario.” si intromise Alessandro, sempre tenendo lo sguardo basso e le mani strette dietro la schiena.

“E perché mai? È un uomo fatto. Anche se è un idiota, parla per conto di sua madre.” fece notare Ermes, irritato.

“E perché mai tua moglie dice di non dar peso alle parole di Ottaviano?” chiese invece Giovanni, fissando il figlio: “Se non conta nulla, perché gli stiamo pagando vino, donne e alloggio da che è qui?”

“Lui ci serve come tramite per arrivare a Caterina Sforza, questo è vero.” cominciò a dire Alessandro, cercando di soppesare il più possibile le parole: “Ma non dovete scordarvi che è lei che deve darci il suo benestare. Ottaviano adesso sta cercando di agire in opposizione al volere della madre. Non è partita da lei, questa proposta...”

“Io invece dico che dobbiamo accettare!” sbottò Ermes, che si vedeva già con la spada in mano, in sella al suo cavallo migliore: “Scendiamo a Imola e mandiamolo avanti come un simbolo. Ci prendiamo la città e se quella lupa di Caterina Sforza la vorrà, io non mi tiro indietro... Dicono che sia ancora molto bella e quindi...”

Mentre il fratello faceva dei gesti volgari che lasciavano ben intendere cosa avrebbe voluto fare con la Tigre di Forlì, Alessandro alzò un po' la voce e ribadì: “Se assecondiamo Ottaviano, la Sforza non si fiderà più di noi.”

“Ippolita ne è sicura?” indagò Giovanni, sempre più pensoso.

“Sì.” affermò, senza timore di smentita, il figlio.

“La verità è che tua moglie ti ha reso uno smidollato...” sbuffò Ermes: “Corri tutto il giorno dietro le sue sottane... Non so cosa ti faccia, quando siete soli, ma deve essere brava, perché da che vivete davvero more uxorio, tutto quello che lei dice o pensa diventa quello che tu dici o pensi...”

Alessandro si trattenne a stento dal reagire alle insinuazioni del fratello, che gli aveva anche ricordato i lunghi mesi in cui, anni prima, lui per rispetto alla sua giovanissima sposa, aveva preferito lasciarla libera, senza pretendere la consumazione del matrimonio. Di certo, pensava, al suo posto Ermes non sarebbe stato nemmeno sfiorato dall'idea di premurarsi con una simile gentilezza...

“Dicci, adesso è lei che porta le brache, in casa tua?” insistette Ermes, che, era evidente, cercava uno scontro aperto, forse per sfogare un po' di rabbia repressa: “Il prossimo figlio lo partorirà lei, o stavolta sarai tu a girare per il palazzo con il pancion...”

“Smettila!” gridò Giovanni Bentivoglio, alzando una mano, quasi volesse colpire il figlio insolente come faceva quando era un bambino: “Dai tanto fiato alla bocca e basta! Taci!”

Ermes, suo malgrado, si morse le labbra e non parlò più, anche se continuò a fissare Alessandro con un'aria infingarda che diceva più di mille parole.

“Ci ragionerò sopra – concluse il signore di Bologna – e poi vi farò sapere le mie decisioni.” e, detto ciò, congedò entrambi i figli, ritirandosi nelle sue stanze, sentendosi più stanco di quanto non sarebbe stato dopo aver vangato un campo o guidato un esercito in battaglia.

 

Caterina aveva dato il permesso a Bernardino di restare in città qualche giorno, presso Scipione. Il ragazzino aveva insistito, quando il Riario aveva scritto proponendo sia a lui sia a Galeazzo – e anche a Sforzino, se avesse voluto – di passare con lui un po' di tempo, approfittando del fatto che Fortunati avrebbe dovuto recarsi a Firenze per alcune questioni e poi da lì andare a Cascina per almeno una settimana se non di più. Scipione non aveva citato Giovannino non perché non avesse voglia di trascorrere del tempo anche con lui, ma solo perché, a quanto si evinceva, aveva intenzione di concedere ai fratellastri più grandi degli svaghi troppo da adulti, per un bambino di nemmeno sei anni.

Galeazzo aveva declinato l'offerta, così come Sforzino, mentre il Feo si era subito lanciato in camera a preparare un piccolo bagaglio, e così era partito assieme a Francesco, con gli occhi che già brillavano nel pensare a quanto si sarebbe divertito in città.

La Tigre era stata abbastanza felice di lasciarlo andare. Si rendeva sempre di più conto che Bernardino era un piccolo leone in gabbia, in quella villa spersa nella campagna, e che la compagnia dei fratelli non sempre gli bastava.

Se Sforzino era una sorta di santo, interessato solo al cibo e agli studi, e Galeazzo dimostrava di voler mantenere, almeno per il momento, un rigore ferreo nella sua condotta di vita, il Feo era molto più irrequieto, e dunque valeva la pena, ogni tanto, lasciarlo sfogare.

La madre gli aveva dato in accompagnamento una lettera di ringraziamento a Scipione, in cui si offriva anche di pagare tutte le eventuali spese del soggiorno, e si raccomandava di non dare troppi freni a Bernardino – immaginava benissimo che sarebbero andati per osterie e bordelli e non aveva intenzione di fermarli, se questo significava far stare tranquillo il ragazzino per qualche tempo – ma di tenerlo comunque il più possibile al sicuro, visto il periodo confuso che anche Firenze stava vivendo.

Così, partito il piovano e il figlio più turbolento, alla Leonessa restava solo di occuparsi di Giovannino, che comunque trovava grande compagnia in Galeazzo, e di Pier Maria che, il più delle volte, era sotto la custodia amorevole della balia. In quel modo l'unico vero pensiero che le restava erano i suoi maneggi.

Le prime risposte alle lettere inviate all'indomani della notizia dell'elezione di Giuliano Della Rovere cominciavano ad arrivare e Fortunati era partito a malincuore per Firenze anche per quello.

Se da un lato era importante che lui andasse in città per prendere accordi de visu e per raccogliere informazioni sulla posizione della Repubblica, dall'altro temeva molto il lasciare da sola la Sforza, perché sapeva quanto, a volte, sapesse prendere decisioni anche drastiche e in fretta, se non aveva qualcuno con cui confrontarsi. La donna l'aveva rassicurato sul fatto che si sarebbe confrontata con Galeazzo, in caso di bisogno, ma il piovano si permetteva di restare dubbioso.

Quel giorno c'era un pallido sole e dopo aver lasciato Galeazzo e Giovannino nella corte interna, Pier Maria a pisolare con la balia, e Sforzino a studiare con frate Lauro, Caterina si era chiusa in camera e aveva aperto la finestra, lasciando che l'aria fragrante di quell'inizio di novembre riempisse la stanza. Faceva freddo, ma almeno quella brezza che profumava di bosco la teneva sveglia e vigile.

Aveva alcune lettere arretrate, ma se le era tenute tutte per quel momento. Sapeva che non potevano contenere messaggi urgentissimi, perché aveva spiegato alle sue fonti come marcare già dall'esterno un messaggio che andasse letto all'istante, e dunque voleva essere tranquilla e a pancia piena, prima di mettersi a leggere e a pensare una risposta per ciascuno.

Rabbrividendo, infine, all'aria fredda di novembre, la donna richiuse la finestra e si mise definitivamente alla scrivania. Rimpianse di non aver portato con sé una brocca di vino, ma si promise che, se il contenuto delle lettere l'avesse permesso, si sarebbe rilassata più tardi nella sala delle lettura con un calice di liquore.

Il primo messaggio che volle leggere era di Alessandro Sarti, e arrivava da Roma. Il tracotante – lei ormai lo definiva così, seppur forse a torto – inviato che un tempo era stato amico ed editore di Agnolo Poliziano le consigliava di scrivere al Cardinale Ascanio Sforza e di far scrivere una lettera anche al Cardinale Sansoni Riario, ma magari vergata dalla mano di Ottaviano. Il papa era stato eletto da pochissimi giorni, quello era vero, ma secondo il fiorentino era indispensabile far pressione ai parenti porporati in modo che a loro volta ricordassero al pontefice tutte le belle promesse profuse le settimane addietro.

Dopodiché Sarti passava a ricordarle una questione molto più veniale, secondo lei, ma che evidentemente per lui stava assumendo un'importanza sproporzionata.

'Priego Vostra Signoria me facia dare dui ducati; li quali mi presto Nicolo Malchiavelli per la via; perche mi mancavano li denari a pagare le poste – scriveva Alessandro – perche le poste erano più care et ogni posta volevano dare uno famiglio a cavallo che costava septe carlini...'.

Quei due ducati da rendere a Machiavelli – spesi, per altro, ne era certa, per incapacità di Sarti di trovare delle poste più economiche – se li era completamente dimenticati. Il tono usato dal suo inviato nel richiedergli la infastidì immensamente, così tanto che per un breve istante la milanese si chiese se non fosse lei, quella a non saper dare il giusto peso alle cose.

Quale che fosse la verità, la Tigre resistette all'impulso di strappare la lettera solo perché vide nella riga seguente si citava il Valentino.

'El Duca al presente e in palagio – rivelava Sarti, rivelando che Cesare Borja, alla fine, non era più confinato a Castel Sant'Angelo – et ognì dì parla cum lo Papa, et al presente pare che sia favorito: per sua securita el papa li ha dato ostia ne le mani: de quello seguira avisaro Vostra Signoria alla quale sempre me recomando.'.

Con il cuore che batteva più rapido, quasi che sapere il Valentino fuori dal castello equivalesse a vederselo arrivare alla villa da un momento all'altro, la Leonessa si affrettò ad aprire un'altra lettera, forse nella speranza di leggervi tutt'altro, magari, per fare un esempio innocente, che il Borja fosse morto.

La seconda missiva che aprì fu quella di Clechi, sempre da Roma. Purtroppo, già dalle prima parole si evinceva che la versione di Sarti era corretta.

'Aviso la Signoria V.a como al presente Valentino sta alogiato in palazo con el cardinale de Salerno pur secreto ha hauto hostia – a Caterina scappò una risata amara: era così un segreto che il Valentino avesse ricevuto la città di Ostia, che a quanto pareva lo sapevano già tutti – e fornita da li soi et avanti se intrasse in conclavi, e questo intendo gli ha dato San Piero ad Vincula per secureza sua, ho che e Papa non so a che reuscira, io non ho ancora possuto cavar constructo alcuno dal decto Valentino et fa ben quel che puo per haverneli'.

La Sforza, senza accorgersene, aveva cominciato a passarsi tra le dita di una mano bordo un po' sdrucito della manica, assorta e sempre più spaventata. Non le piaceva né il fatto che Cesare fosse libero, né che avesse Ostia, né, soprattutto, che avesse degli evidenti accordi con Giuliano.

'Pu fine a qua – continuava il Clechi, che dimostrava, secondo la Tigre, una maggior buona volontà rispetto al Sarti – non intendo chel gli abia hauto et io ancora lavoro per vedere se posso fare qualche cosa; ho inteso ma non lo so certo che San Giorgio in questa electione del Papa ha dato la Casa de la signoria Vostra al Cardinale di Bologna; presto si sapra se e vero'.

La milanese ricordò in un lampo il palazzo Riario di Roma. Ricordò soprattutto di quanto fosse stata infelice tra quelle stanze. La sola memoria di Girolamo che andava a cercarla quasi ogni notte, della sensazione claustrofobica vissuta lì, del dolore anche fisico provato ogni volta, le bastò per non provare alcun dispiacere nel sapere che quel palazzo, forse, fosse stato sacrificato in cambio di favori.

Inoltre, pensò con amarezza, era di proprietà di Ottaviano, sulla carta, e nessuno aveva ancora, che lei sapesse, ritirato l'esilio invocato sul Riario, in quanto erede di Girolamo, quando era ancora solo un bambino.

Clechi poi parlava del campo dei francesi, descrivendolo come ormai in rotta, con i soldati forse diretti a Gaeta. Diceva anche che il papa aveva dato in sposa la figlia del Valentino al Prefetto, ma di questo non era sicuro, anzi, era apertamente scettico, anche ammetteva la possibilità che fosse vero 'perche Valentino l'ha facto Papa con le sue voce spagnole'. E infine chiudeva ribadendo che, se ci fosse stato altro di nuovo di cui avvisare, l'avrebbe fatto subito.

Mettendo da parte la pagina un po' spiegazzata, recuperò il messaggio forse più breve o, quanto meno, scritto sul foglio più modesto. Quel dettaglio in parte la raddolcì. Non sapeva nemmeno lei dire il perché. Forse perché il cremonese non le aveva mai chiesto nulla, cosa che non si poteva dire di altri uomini a lei legati, o forse perché per qualche istante era ritornata con la mente ai momenti passati insieme a Ravaldino, a quella vita un po' scomoda, ma che lei aveva a suo modo amato, agli addestramenti nel cortile, alle partite ai dadi coi soldati, a tutto quel mondo che aveva sentito molto più proprio rispetto a quello che si era ricreata nella villa di Castello.

Anche il tono del messaggio la riportò a usi e costumi da soldato. Erano poche righe, vergate nella grafia un po' insicura di Baccino. Il giovane le descriveva Roma, le parlava del nuovo papa, confermava, una volta di più, che Cesare era uscito dal castello, e poi ammezzava un'insinuazione, riguardo al fatto che il pontefice stesse parlando un po' troppo della sua sventurata nipote, Maria Giovanna Della Rovere, e della necessità di trovarle un marito, approfittando del fatto che l'amante non l'avesse già resa di nuovo madre.

Quest'ultimo inciso, però, alla Sforza non fece né caldo né freddo, specie dopo le frasi scritte appena sopra, in cui si parlava del Valentino.

Sempre più frastornata e spiazzata dalle notizie sul Borja, la milanese sperò che nell'ultima lettera, scritta da un suo inviato che aveva preso contatti anche con l'Abate di Galatea, che era in buoni rapporti con Guidobaldo Maria da Montefeltro, ci fosse qualcosa che potesse almeno in parte rasserenarla.

La sua spia diceva che il Duca di Urbino – seppur ancora in gran travaglio per riavere le sue stesse terre – si era detto una volta di più favorevole ad aiutarla. Il Montefeltro, in quelle settimane, aveva ottenuto un accordo per un anno di ferma e un anno di rispetto con Venezia, che lo teneva a provvigione con diecimila ducati. Guidobaldo, in cambio, aveva reclutato attivamente per il Doge circa duemila fanti. Con ottomila venturieri aveva riconquistato la rocca di Senigallia, Santarcangelo e Savignano, sul Rubicone. Sembrava avesse preso anche Verucchio, Roncofreddo, Monturano e Carpineta.

L'urbinate si era spinto fino ai dintorni di Cesena, saccheggiando Bertinoro e spaventando il contado di Forlimpopoli. Era stato fermato da una ferita alla schiena vicino a Cesena, durante una scaramuccia contro gli uomini di Imola da Imola, Guglielmo Tempione e Giovanni Spiga. Aveva aiutato il Pandolfaccio e poi si era fermato per attendere l'esito del Conclave, avvicinandosi sempre di più alla causa della Tigre.

Malgrado quelle notizie, di per sé, fossero molto buone, la Sforza si trovò a soffrire indicibilmente per la propria immobilità. Leggere di battaglie, di conquiste, di marce su questo o quel territorio, la poneva inesorabilmente davanti alla realtà delle sue giornate. Scriveva lettere, faceva ipotesi, si sforzava di immaginare una strategia futura... Ma le mancava la spada, le cavalcate, l'odore dell'alba prima di un attacco, perfino la paura dello scontro e poi, soprattutto, l'indolente stanchezza che ne seguiva...

Rimise in ordine le quattro missive che aveva davanti e, malauguratamente, per cercare di non pensare a quanto le mancasse la vita militare, rilesse uno stralcio di quanto scritto dal Sarti, e le immagini di battaglie e duelli vennero in fretta sostituite con ricordi ben peggiori.

Per sottrarsi alla sensazione, più viva che mai, delle mani del Valentino che la ghermivano, costringendola a sottostare a lui, come le era successo centinaia, migliaia di volte con Girolamo Riario, la donna lasciò di scatto la scrivania e andò a cercare uno qualsiasi dei suoi figli per distrarsi.

Solo mentre raggiungeva Galeazzo nella corte interna la Leonessa tornò con il pensiero ai commenti di Baccino riguardo alla necessità di Giulio II di trovare presto uno sposo per la nipote Maria Giovanna.

Di certo la scelta sarebbe ricaduta su qualche figlio di qualche prelato, pensò la Sforza, qualcuno, magari, di bocca buona che sperava in una moglie fertile, magari un vedovo, qualcuno già anziano, che vedesse in quella giovane donna un discreto indennizzo per qualche favore erogato in Conclave...

Tuttavia... Mentre osservava attenta le mosse precise e svelte di Galeazzo, che roteava in aria un bastone fingendo che fosse una spada, deliziando Giovannino che lo osservava come se stesse assistendo a un vero e proprio spettacolo, Caterina fu colta da un dubbio atroce, che, però, le sembrò quasi subito assurdo.

Per una frazione di secondo aveva pensato che suo figlio Galeazzo potesse essere coinvolto nel progetto del Della Rovere. Non aveva molto senso, però. Giuliano non poteva certo imporle di consegnargli il figlio, e, senza dubbio, a Roma ci dovevano essere partiti molto più vantaggiosi, per Maria Giovanna...

Eppure, qualcosa, qualcosa di minuscolo, nel cervello della Tigre aveva cominciato a dibattersi. Il Riario era dell'età giusta, era di bell'aspetto – questo, ne era certa, si sapeva anche a Roma – e nei pochi contatti che aveva avuto con il mondo esterno alla famiglia, aveva avuto modo di mostrarsi come un giovane uomo capace ed equilibrato.

Le braccia incrociate sul petto, osservò il suo erede designato ancora per un po', occhieggiando a volte verso il piccolo Medici, che si faceva ogni giorno più bello e robusto, e poi tornò in casa, pensosa.

Voleva scacciarsi dalla mente l'ipotesi che Galeazzo potesse, in qualche perverso modo, rientrare nei progetti matrimoniali di Giuliano Della Rovere, ma più si sforzava di farlo, più le sembrava una teoria credibile.

Per assurdo, si mise a pensare che se fosse stato Bernardino, quello richiesto, sarebbe stato più semplice. Lui stava già dimostrando una certa disinvoltura, e forse sarebbe addirittura stato felice di una moglie più vecchia e più navigata di lui, ma, ovviamente, non solo era davvero troppo giovane per un matrimonio, ma non era nemmeno un Riario, e probabilmente il cognome interessava molto al papa.

Anche Ottaviano non avrebbe dato problemi, perlomeno a lei... Tuttavia la sola idea di mettere scientemente una donna nelle mani del suo primogenito allo scopo di farle passare con lui tutto il resto della vita le metteva i brividi. Era stata capace di molte cose orribili, ma quella la disgustava più di ogni altra.

Arrivata in stanza, vagabondò per qualche minuto dalla porta alla finestra e viceversa, e poi sentì la solitudine sopraffarla. Anche se nel corso della sua vita aveva spesso cercato dei momenti solitari, andando nei boschi, per esempio, in quel momento avrebbe desiderato più di ogni cosa avere vicino qualcuno che la potesse capire e ascoltare.

Fortunati non c'era, e forse era un bene, perché lui, per quanto la sostenesse e l'amasse, non sarebbe mai riuscito a entrare appieno nella sua visione del mondo. Frate Lauro era da escludere. I suoi figli, poi, non erano da prendere in considerazione, perché non aveva intenzione di parlare con il riservato Galeazzo o il taciturno Sforzino di argomenti che avrebbero trovato anche imbarazzanti, tanto meno poteva confrontarsi con un bambino come Giovannino su temi complicati come la politica o il tormento interiore che provava costantemente nel sapersi isolata dal mondo, mentre gli altri signori d'Italia imbracciavano le armi.

All'improvviso, sorprendendo se stessa per prima, scoppiò a ridere. Il motivo di quell'improvvisa ilarità, che poi si spense di colpo da sola, fu rendersi conto che lei per prima aveva paragonato, nella sua mente, Bernardino a un leoncino in gabbia, motivo per cui gli aveva permesso di raggiungere Scipione a Firenze, quando invece era lei la vera Leonessa in gabbia.

Sentendo mancare il fiato nei polmoni, avvertì un brivido lungo la schiena. Era come se non fosse mai uscita dalla sua cella posta nelle viscere di Castel Sant'Angelo. Il suo corpo ne era uscito, ma la sua mente era ancora là. Erano stati troppi giorni, troppe settimane... La cicatrice che quella prigionia le aveva lasciato era molto più profonda di quella che le deturpava una coscia, a ricordarle per sempre della sanguinosa ultima battaglia della sua vita, della caduta di Ravaldino, della sua cattura...

Respirando ora a grandi boccate, come se stesse annegando, si sedette sul letto e si prese la testa tra le mani. Il cuore le batteva così forte da darle l'impressione che potesse squarciarle il petto in due.

Subdolo e viscido, il ricordo del Valentino e di quello che le aveva fatto riemerse dalle viscere della sua memoria, sempre pronto a riaffiorare sfruttando un suo momento di debolezza.

Se panico non fosse stato il termine esatto per descrivere quella sensazione tremenda che la stava quasi facendo impazzire, allora Caterina non avrebbe saputo come altro descriverlo. Quel terrore che rendeva inabili a respirare, a muoversi, a pensare che veniva suscitato, nella mitologia antica, dall'urlo del dio Pan doveva essere uguale a ciò che lei stava provando in quel preciso istante.

Chiuse con forza gli occhi. Era sudata fradicia, aveva la nausea e le vertigini. Cercava un appiglio, nella sua mente, per salvarsi da quell'abisso, ma era difficile, difficilissimo.

Deglutendo un paio di volte, si costrinse a riaprire gli occhi e cominciò a imporsi un respiro più lento. Non riusciva a smettere di dirsi che avrebbe preferito morire in battaglia, quando ancora era al pieno delle sue forze, quando ancora sapeva quale fosse il suo posto nel mondo, con la spada in mano, lottando come la guerriera che era sempre stata. Se fosse stato così, si sarebbe risparmiata le violenze del Borja, la prigionia che l'aveva quasi fatta impazzire, e perfino il difficile ritorno a una vita quasi normale...

Sentendo il panico trasformarsi pian piano in rabbia, la donna si trovò a maledire il Valentino, che l'aveva voluta schiava, piuttosto che morta. Lo maledisse per il modo in cui aveva condizionato quello che era ora la sua vita. Lo maledisse per come le stesse rendendo ancora, a distanza ormai di anni, avvicinare un uomo, che non fosse quel santo di Fortunati, senza sentirsi ancora le sue mani addosso.

Vagando con lo sguardo per la stanza, in cerca di un appiglio stabile per sviare i pensieri, si trovò a guardare la piccola pigna di lettere che aveva letto poco prima, e ripensò a Baccino.

Forse non era il ragionamento più adatto da fare in quel momento, ma si trovò a valutare tra sé che forse con il cremonese non avrebbe avuto problemi, così come con Francesco. In fondo con quel giovane uomo aveva condiviso dei momenti importanti e con lui aveva creato un legame molto forte, malgrado all'apparenza era sembrato fosse stato uno dei tanti.

Si aggrappò ai ricordi che aveva di lui, alle notti sui camminamenti della rocca di Ravaldino, con il gelo che arrossava loro i volti e la neve che li sferzava, ricordava il suo bel volto e il suo corpo attraente, non aveva mai dimenticato il presentimento che cedere all'impulso di farlo suo l'avrebbe in qualche modo legata a lui per sempre... E Baccino, dal canto suo, era sempre stato gentile e corretto, con lei. Aveva dimostrato di amarla, anche dopo la caduta del loro piccolo mondo.

Alzandosi di prepotenza dal letto, la Tigre si mise alla scrivania. Si asciugò le guance dalle lacrime che non si era accorta di aver pianto, e prese un foglio pulito, stendendolo con cura davanti a sé.

Intinse la penna e poi, pur non volendo, sentì gli occhi pizzicare e dovette stare attenta a non bagnare la pagina con nuove lacrime, mentre iniziava la lettera scrivendo: 'Baccino, mio soldato amatissimo'.

Lo ringraziò per averla tenuta informata delle faccende di Roma, gli chiese se avesse bisogno di qualcosa, gli promise di non abbandonarlo mai nel bisogno, e poi, in chiusura, non riuscendo a trattenersi, concluse con un accorato: 'Quanto vorrei che tu fosse qui cum me'.

Rilesse e fu tentata di cancellare l'ultima parte o addirittura di riscrivere daccapo la lettera per darle un tono diverso, meno mesto, meno disperato, ma si trattenne. Firmò e sigillò.

Allargò un po' le spalle e poi, facendo del suo meglio per riacquistare la metodica disciplina con cui aveva affrontato tante volte gli impegni di Stato, prese la prima lettera che le capitò a tiro, e cominciò a rileggerla, per poi scrivere la relativa risposta.

Per quanto sfinita, più nell'animo che nel fisico, arrivò al momento di coricarsi per la notte molto più tranquilla di quanto non avesse sperato e, quando finalmente si assopì, cadde in un sonno pesante e completamente privo di sogni.

 

   
 
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