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Autore: Cassidy_Redwyne    16/04/2024    0 recensioni
L’anonima Sheltz Town, dove Rufy e Zoro s’incontrano per la prima volta, è sul punto di diventare teatro di una rivolta.
Per salire di grado Morgan Mano d’Ascia sarebbe pronto a tutto, anche a mettere in pericolo i suoi cittadini attirando una delle flotte più potenti di tutti i mari, interessata all’antico segreto dell’isola, proprio a Sheltz Town.
I cacciatori di taglie di Riadh sono abili, spietati e senza scrupoli. E del tutto impreparati ad affrontare una flotta di tale calibro. Quello che Morgan non ha messo in conto, però, è che pirati e cacciatori di taglie potrebbero mettersi in combutta alle sue spalle. E potrebbero essere gli unici in grado di portare un po’ di giustizia.
***
Per poco non cadde a terra. Spalancò la bocca, la mascella sospesa a mezz’aria.
La faccia squadrata. Gli occhi non particolarmente svegli. I ridicoli capelli biondi.
E l’altro. Capelli corvini e lentiggini.
I pirati a cui aveva intenzione di dare la caccia avevano appena bussato alla sua porta.
***
«Voglio che Zoro si unisca alla mia ciurma» esclamò il ragazzino gioviale.
Riadh strabuzzò gli occhi. «Non se ne parla nemmeno! Giù le mani dai miei cacciatori di taglie!»
Genere: Avventura, Azione, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ciurma di Barbabianca, Marco, Morgan, Nuovo personaggio, Roronoa Zoro
Note: Lemon | Avvertimenti: Tematiche delicate
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CAPITOLO VII

I’ve got the feeling that something ain’t right
I’m so scared in case I fall off my chair

Clowns to the left of me
Jokers to the right
Here I am stuck in the middle with you”

 

«Non credere di aver vinto» sibilò Aibell, fissandolo in cagnesco.

Il pirata e la cacciatrice di taglie erano seduti ai due lati di un tavolo ad angolo, all’interno della piccola locanda del Guercio, una delle poche, per sua fortuna, dalle quali Aibell non era ancora stata bandita. Nel locale non c’erano molti clienti, essendo ormai passata da un pezzo l’ora di punta, e nell’aria risuonavano i tintinnii dei bicchieri di vetro e qualche sporadica risata.

Marco la Fenice aveva indosso una ridicola camicia a fiori sopra la propria e si era calato sul volto un altrettanto ridicolo cappello di paglia, che quell’idiota doveva aver rubato dall’emporio accanto alla locanda. Era un miracolo che ancora nessuno non l’avesse riconosciuto. Un po’ per la tesa larga e un po’ per la scarsa illuminazione, la ragazza riusciva a scorgere chiaramente soltanto il riflesso dei suoi occhi neri, che brillavano nella penombra dell’osteria.

Sul tavolo erano poggiati una bottiglia di sakè, ancora intonsa, e due bicchieri.

«Forse no» disse lui, rilassandosi contro lo schienale. Pareva perfettamente a suo agio in quella situazione. «Ma intanto ci siamo liberati di quegli stronzi.»

«Non ti sei ancora liberato di me» gli ricordò Aibell, sistemandosi meglio sulla sedia. Il fucile, appeso allo schienale, dondolò dietro di lei come un avvertimento. Cazzo, se solo avesse avuto altre munizioni con sé!

Il pirata trasse un sospiro e le scoccò un’occhiata. Pareva seccato. «Finiamola qui. Non hai speranze contro di me, mettitelo in testa. Risolviamola con una bevuta.» Approfittando del suo silenzio, allungò una mano verso di lei. «Tregua?»

Aibell lo incenerì con lo sguardo. «Se fosse stato per te, a quest’ora sarei morta dissanguata nello scantinato di casa mia. Tregua un cazzo!»

Marco scosse la testa. «Stai davvero cercando di passare da vittima?» Senza attendere risposta, continuò: «Se fosse stato per te, a quest’ora Ace ed io saremmo morti sgozzati in quello scantinato.»

Aibell sbuffò, lasciandosi cadere contro lo schienale. «Tregua» borbottò poi, fra i denti, allungandosi per stringere la mano del pirata, con la stessa allegria che avrebbe avuto se quello le avesse proposto di vendergli il fucile.

Marco non disse nulla. Anche se non poteva vederlo, Aibell avrebbe scommesso sul fatto che in quel momento l’uomo stesse di nuovo esibendo quel suo mezzo sorriso arrogante.

Ancora una volta, rimpianse di aver finito tutte le sue munizioni. Purtroppo, però, non aveva altra scelta che stare ai suoi patti. Non aveva possibilità di sparargli e sapeva di non avere speranze in un corpo a corpo. Lo scontro in cantina aveva messo le cose in chiaro e, oltretutto, dopo il volo che lui le aveva fatto fare dal tetto, era un miracolo che fosse ancora tutta intera. La gamba le bruciava come fuoco e, ogni volta che respirava, avvertiva fitte in parti del corpo che neanche pensava d’avere. Non avrebbe potuto inseguirlo, se quello stronzo fosse fuggito di nuovo. L’unico modo per non perderlo di vista era rimanere a quel dannato tavolo, anche se non aveva la più pallida idea di cosa fare.

«Questa la offro io» proruppe di colpo Marco, indicando la bottiglia, che il locandiere aveva servito loro dopo che il pirata aveva sfoderato il suo miglior sorriso e gli aveva chiesto di portargli il sakè che teneva in fresco.

Quando Aibell alzò gli occhi dal tavolo, perplessa, lui si affrettò a spiegare: «Per la faccenda di ieri sera. E il volo dal tetto» aggiunse, dopo un momento.

Aibell decise di ignorare il sottile divertimento che aveva avvertito nel suo tono di voce, e si grattò via con le unghie il sangue che le si stava incrostando sulla tempia. «Direi» borbottò poi, evitando di guardarlo, non del tutto dispiaciuta all’idea di una bevuta gratis. Quell’inseguimento le aveva fatto venire sete. «Se vogliamo davvero regolare i conti, ci vorrà ben altro che una bottiglia di sakè per arrivare alla taglia che pende sulla tua testa.»

Marco scosse piano la testa. «Non pensate ad altro, voi cacciatori di taglie?»

Aibell non ribatté. Non aveva voglia di sprecare fiato con quell’individuo. Fu mentre l’uomo procedeva a stappare la bottiglia che lei si fece d’un tratto pensierosa, gli occhi fissi sul vetro. Un’idea aveva fatto capolino nella sua mente. Un’idea allettante, per quanto rischiosa. Se fosse riuscita a reggere abbastanza, forse sarebbe riuscita a portarsi a casa tutti quei milioni, oltre alla bevuta gratis. Avrebbe solo dovuto fare ubriacare il pirata senza ritegno.

Quando vide che Marco stava versando una quantità generosa di sakè nel suo bicchiere, dopo aver riempito a malapena il proprio, Aibell assottigliò le palpebre, chiedendosi se l’uomo non avesse intenzione di fare la stessa cosa. Non appena poggiò la bottiglia sul tavolo, quindi, lei l’afferrò svelta e si affrettò a riempire il bicchiere del pirata finché il liquido non fu allo stesso livello del suo.

«Non essere timido» gli disse, lanciandogli un’occhiata d’avvertimento. Poi, colpita da un altro pensiero, chiese: «A proposito, il tuo amico dov’è?» 

«Non lo so» ammise lui, evitando il suo sguardo. «Mi auguro non in cella.»

«Andate d’amore e d’accordo, vedo» commentò lei. «Fareste bene a stare in guardia» aggiunse poi, senza neanche sapere il perché. Forse voleva che fosse chiaro che, anche se quello stronzo l’aveva scampata e adesso si stava pure facendo un goccetto, c’era la possibilità che qualcuno potesse farlo fuori da un momento all’altro. «Sheltz Town pullula di cacciatori di taglie.»

Marco sospirò. «Semmai, sono i cacciatori di taglie che dovrebbero stare in guardia.» Senza attendere risposta da lei, aggiunse: «Cos’è che non capisci? Voi siete solo moscerini, per noi.»

«Ah, sì?» Aibell inarcò un sopracciglio. «Lo vedo come hai affrontato quei moscerini, prima, nel vicolo.»

Lui scrollò le spalle. «Be’, se sono tanti possono diventare fastidiosi.»

Prima che Aibell potesse ribattere, il pirata afferrò il bicchiere e lo sollevò nella sua direzione.

«Salute» mormorò, prima di portarselo alle labbra.

Spero che ti strozzi, pensò Aibell, imitandolo.

La sensazione bruciante dell’alcol che le scendeva lungo la gola fu rigenerante. Tempo cinque minuti e si stava già versando il terzo bicchiere, dopo aver riempito nuovamente quello di Marco, che la guardava ad occhi sgranati.

«Che c’è?» fece lei, godendosi la sua espressione sorpresa, nel vedere che mandava giù l’alcol come fosse stata acqua. «I cacciatori di taglie che hai incontrato finora erano tutti astemi?»

Marco recuperò in un attimo tutto il suo aplomb. «Di solito li faccio fuori, non ci vado a bere insieme.»

Man mano che la bottiglia si svuotava, Aibell avvertì la tensione iniziare a sciogliersi, e le fitte nei punti dove aveva sbattuto nella caduta farsi più sopportabili. Solo la gamba e quel dolore bruciante rimasero lì, come avesse avuto un chiodo piantato nella carne, a ricordarle il suo obbiettivo. Era lucidissima, e aveva una voglia matta di intascare la taglia di quel pirata, non appena quello si fosse ubriacato a dovere. Se non altro, però, adesso trovava la sua presenza un po’ meno irritante.

«Come ti chiami?» fece Marco dopo un po’, sorseggiando il suo sesto bicchiere.

La bottiglia giaceva vuota in mezzo a loro.

Per un momento lei fu tentata di chiedergli se volesse un altro sputo in faccia, ma l’alcol l’aveva fatta rilassare appena.

«Aibell» disse.

«Aibell» ripeté lui, come gustandosi il suono di quella parola insieme al sakè, in un modo che ad Aibell non piacque per niente.

«Tu puoi risparmiarti le presentazioni» lo schernì, fulminandolo con lo sguardo. «So a memoria il tuo nome e quelli del tuo dannato equipaggio.»

Marco voltò di scatto il capo verso un uomo dalla pelle scura che aveva appena fatto il suo ingresso nel locale, come se lo conoscesse, poi tornò lentamente a guardarla. «Stento a credere di essere davvero a bere con una cacciatrice di taglie. Quando lo racconterò alla mia flotta, diventerà l’aneddoto del secolo.»

Aibell finì il suo bicchiere e lo poggiò sul tavolo, attirando l’attenzione del locandiere con un cenno.

«Non ti azzardare a dirlo in giro» lo mise in guardia lei. «Ne va della mia reputazione.»

Il proprietario fu presto di ritorno con un’altra bottiglia di sakè.

«E suppongo che anche questa tocchi a me» mormorò Marco, alzando gli occhi su di lei da sotto quel ridicolo cappello.

«Te l’ho detto, ce ne vorrà di sakè per arrivare a tutti quei milioni» ribatté Aibell, incrociando le braccia sul petto.

«Ho una spiegazione migliore» disse lui, protendendosi verso di lei mentre le serviva da bere, ancora una volta riempiendole il bicchiere fino all’inverosimile. «Sei una scroccona.»

Aibell lo incenerì con lo sguardo, e solo altri cinque bicchieri riuscirono a farla desistere dall’imbracciare il fucile dietro di lei e sfracassarlo sulla testa del suo insolito compagno di bevute. Poi si ricordò che era lui che doveva bere, non lei e, maledicendosi, si affrettò a versargli nel bicchiere altro sakè.

Ben presto alle due bottiglie sul tavolo se ne aggiunse un altro paio. I due bevevano piano, avvolti in un silenzio ostile. Tesa come la corda di un arco, Aibell lottava contro l’intorpidimento delle membra, concentrata com
era nel mantenersi lucida. In ogni caso, non era mai stata un tipo loquace e, anche se il suo muro di silenzio cedeva un po’ sotto l’effetto dell’alcol, non si metteva di certo a sparlare. A giudicare dalle lunghe pause del pirata, neanche lui doveva essere un chiacchierone, e Aibell trattenne a stento un sospiro di sollievo. Dover pure fare conversazione con quell’idiota sarebbe stata un’ulteriore tortura.

«Come va la gamba?» chiese Marco dopo un po’, gli occhi fissi sull’entrata della locanda, come se si aspettasse di entrare qualcuno, forse la banda di cacciatori di prima, il suo compagno, o la Marina.

Aibell gli lanciò un’occhiataccia. «Potrebbe andare meglio, se non ci avessi piantato un proiettile.»

Marco poggiò il bicchiere vuoto sul tavolo e si asciugò le labbra con l’orlo della camiciola. «Dico sul serio.»

Aibell levò gli occhi al cielo. «Insomma» borbottò poi, a mezza voce. Non era mai stata un granché a medicare le ferite d’arma da fuoco. Di solito ci pensava Alma a rimetterla in sesto, ma stavolta non aveva potuto recarsi al Food Foo, perché l’amica avrebbe preteso delle spiegazioni che lei non era in grado di darle. «Ho estratto il proiettile e fermato l’emorragia. Anche la tua ferita al braccio sembrava seria.»

Si maledisse per averlo detto. Perché lo aveva fatto? Era stato senz’altro il sakè a parlare per lei.

Marco lì per lì non rispose. Si limitò ad abbassare la manica della camicia, lasciando intravedere gli avambracci. Dopo un attimo, Aibell realizzò che era lì che lo aveva accoltellato. Non c’era neanche una cicatrice. Nella cantina aveva dato la colpa allo stordimento, ma stavolta, malgrado non fosse del tutto sobria, non c’era verso che la vista la stesse ingannando.

La ragazza era a bocca aperta. «Come hai fatto?»

Marco scrollò le spalle. «I miei poteri da uccellaccio.» Ancora una volta, Aibell avrebbe giurato sul fatto che il pirata stesse esibendo il suo solito sorriso a metà. «La prossima la offri tu» aggiunse, indicando le quattro bottiglie vuote, attraverso le quali i suoi contorni apparivano distorti e confusi.

Aibell si trattenne a stento dall’imprecare. Era ancora troppo, troppo lucido. Lanciò un’occhiata al bancone, dietro il quale il locandiere stava lavando dei bicchieri, e deglutì. Dovevano passare all’artiglieria pesante. E non aveva alcuna intenzione di sganciare un soldo.

«Solo se riesci a bere tutto» lo sfidò, voltandosi per poterlo guardare fisso negli occhi.

Le spalle del pirata ebbero un impercettibile sussulto, come se stesse ridendo tra sé e sé. «Con chi credi di parlare?»

«Ah, giusto, avevo dimenticato di non avere speranze contro di te.» Si voltò di nuovo verso il bancone e agitò un braccio, senza degnare l’uomo di una sola occhiata. «Ehi, barman! Vogliamo dieci shot di tequila, qui.» Poi si voltò a guardare Marco, sogghignando, e aggiunse: «Per cominciare.»

«Ti vedo molto sicura di te» commentò il pirata. «Vuoi davvero sfidarmi?»

Aibell levò gli occhi al cielo.

Ma sentilo, questo qui. Vedrai, quando ti porterò da Morgan ubriaco fradicio.

«Certo» rispose, tornando a guardarlo. «E voglio vincere.»
 

 
***
 

All’inizio si era trattato solo di un languorino.

Ace aveva cercato di ignorarlo, di pensare ad altro, di mettersi a guardare le persone per la strada e persino di contare i gabbiani che passavano in volo sopra l’emporio, quello che lui e Marco si erano trovati davanti appena arrivati in città, il luogo del loro appuntamento.

Ne aveva contati appena venticinque quando il brontolio allo stomaco si ripresentò, dolorosamente puntuale, e stavolta ancor più insistente.

Ace sbuffò, abbassando gli occhi sulla strada. Di Marco nessuna traccia e, se avesse continuato a rimanere lì in bella vista, come un manichino dell’emporio, avrebbe sicuramente attirato l’attenzione di qualcuno. Tanto valeva che si schiodasse di lì e andasse a riempirsi lo stomaco. Oltretutto, non sapeva neanche perché fosse rimasto così a lungo nel luogo dell’appuntamento, obbedendo agli ordini. Fu contento che Marco fosse lontano da lì e non potesse vederlo, così non avrebbe avuto modo di rinfacciarglielo.

Si staccò dal muro dell’emporio con un sospiro e si avviò a passo tranquillo per le vie animate della città, godendosi i profumi dei cibi e delle spezie dei mercatini. Non appena intravedeva qualcuno con una sciabola al fianco, si affrettava a cambiare strada, ma solo perché temeva che in uno scontro i negozianti sarebbero rimasti feriti o avrebbero perso le loro merci, non perché fosse realmente preoccupato. Non aveva nulla da temere, lui, che era capitano dei Pirati di Picche e presto si sarebbe preso anche la testa di Barbabianca. Anzi, se ci ripensava gli saliva ancora l’ira, all’idea che lo avessero spedito lontano dalla Moby, accoppiandolo con quel pirata immusonito, quand’era a tanto così dal fare fuori il vecchio.

Ace gironzolò a lungo, con la testa per aria, impegnato a leggere le insegne delle osterie, finché una di esse non attirò la sua attenzione e lo fece arrestare nel bel mezzo della strada. Asako, recitava l’insegna. Birra e arrosto di maiale, otto berry.

Ace si affrettò ad entrare, già pregustando il pranzo. Non che avesse intenzione di pagarlo, ovviamente.

Il locale era piccolo e angusto, in penombra. Qua e là, qualche cliente solitario seduto da solo ad un tavolo per due, ma per il resto la locanda era del tutto vuota. I suoi occhi corsero subito alla ricerca di un familiare volto scuro, poi si maledisse fra sé e sé. Stare in quella ciurma lo aveva davvero rammollito.

La locanda era talmente immobile e silenziosa che ad Ace sarebbe parsa un dipinto, se non fosse stato per la figura minuta di una cameriera che stava facendo avanti e indietro pulendo i tavoli vuoti, una matassa di ricci rossi che, malgrado fossero legati, impedivano al moro di scorgerla in viso.

Ace si schiarì la voce, e il silenzio nel locale era tale che bastò quel colpetto di tosse perché i pochi avventori si voltassero all’unisono nella sua direzione.

«Salve.» Per niente intimidito, s’infilò i pollici nei passanti della cintura e fece un sorriso sornione. «Fate ancora da mangiare?»

La cameriera abbandonò in fretta e furia le pulizie e gli si fece vicina. Il suo volto era tondo e grazioso, con una spruzzata di lentiggini sulle gote.

«Sì, certo» si affrettò a dire, ed Ace si accorse che l’occhio le era caduto per un attimo sul suo torace, lasciato scoperto dalla camicia, prima di tornare a fissarlo in volto. «Accomodati pure.»

Lo guidò fino al bancone, dietro il quale non c’era nessuno, ed Ace balzò agilmente su uno sgabello. Dopo un attimo di esitazione, in cui guardò con una certa insistenza lo straccio che aveva abbandonato su uno dei tavoli, la ragazza si parò dietro il bancone e gli rivolse un sorriso timido.

«Che cosa vuoi da mangiare?» domandò, con lo stesso tono con cui gli avrebbe chiesto quali fossero i suoi progetti di vita.

Ace, tutto sommato divertito dalla situazione, si voltò un attimo verso l’entrata prima di tornare a guardarla. «Quello che c’era scritto fuori. Arrosto e birra, mi pare..?»

«Subito» si affrettò a dire lei, annuendo, come se da quella risposta fosse dipesa la sua vita.

Lui stava per aggiungere il numero di porzioni che voleva della pietanza, ma lei aveva già chinato il capo e si era già avviata a passo svelto verso la cucina. Sulla soglia, però, venne bloccata da un’altra figura. Era un’anziana, notò Ace, piccola e magra, con la faccia costellata di rughe ma uno scintillio furbo nello sguardo che la faceva sembrare più giovane di quel che doveva essere.

«Che stai combinando qui?» l’apostrofò. La sua voce era rauca, pareva il grido di una cornacchia. «Non stavi pulendo?»   

La vecchia lanciò una rapida occhiata alla cameriera, che si era fatta rossa al pari dei suoi capelli, e poi a lui, seduto al bancone, e le sue palpebre si strinsero. Sotto gli occhi perplessi del moro, la vecchia si alzò sulle punte e afferrò la cameriera per un orecchio, strappandole un gemito.

«Frena i tuoi bollenti spiriti, Cora» la redarguì, lasciandola andare con uno scappellotto.

«Sissignora.» La giovane arrossì ancora di più e, dopo aver lanciato un’ultima occhiata furtiva ad Ace, batté in ritirata e tornò a fare le pulizie.

Dal canto suo, Ace si ritrovò a sorridere tra sé e sé. Sapeva di fare un certo effetto al genere femminile, e la cosa non gli dispiaceva affatto. Soprattutto se, oltre ad una notte di passione, riusciva a rimediare anche qualche pasto gratis.

L’anziana donna si fece avanti, le mani sui fianchi. Ace capì che doveva trattarsi della proprietaria, forse l’Asako dell’insegna. Era così piccola e rattrappita che arrivava a malapena allo sgabello sul quale era seduto, e dovette sollevare la testa per poterlo guardare dritto negli occhi.

«Ma guarda un po’ cosa ci ha portato il mare» mormorò, sogghignando.

Ace inclinò la testa. «Scusi?»   

«Fossi in te cercherei di dare un po’ meno nell’occhio.» Lo sguardo della vecchia corse ai pochi clienti seduti a tavola, poi a Cora, che aveva ripreso a pulire. «Attiri l’attenzione, e non solo quella delle ragazze.»

Lui scrollò le spalle, senza riuscire a trattenere un sorriso. «Non si preoccupi per me.»

«Oh, non è certo per te che mi preoccupo.» L’anziana sparì dietro il bancone, dandogli le spalle, ed Ace intravide solo le sue mani raggrinzite afferrare quelli che avevano tutta l’aria di essere avvisi di taglia sparsi sul legno e infilarli nella tasca del grembiule. «È per la mia locanda.» Poi tornò a squadrarlo. «Birra e arrosto, avevi detto?»

Ace capì che la donna, oltre ad averlo riconosciuto, doveva aver anche ascoltato la sua breve conversazione con la cameriera.

Anche io voglio arrivare con questi occhi e queste orecchie a ottant’anni.

«Sì» rispose lui, e poi sogghignò. «Ma me ne porti cinque, di arrosti.»

Una decina di minuti dopo, in cui Cora continuò a fissarlo di sottecchi, mentre puliva i tavoli senza realmente guardare quel che stava facendo, Ace ebbe finalmente davanti il tanto agognato pranzo.

Vi si tuffò, dimenticandosi ben presto delle posate e trangugiando la carne senza neanche masticarla, tanta era la sua fame. Non aveva neanche fatto colazione, quel giorno, e ventilò l’idea di ordinare altre cinque porzioni di quell’ottimo arrosto mentre attaccava l’ultimo, gli altri piatti già spazzolati e splendenti come se fossero stati appena lavati. Mentre si portava alla bocca una fetta di carne – deliziosa, pensò, tenera al punto giusto e stillante sugo – fu interrotto da uno sbadiglio. Fece appena in tempo a mandare giù il boccone che sentì la forza venirgli meno e cadde lungo disteso sul legno del bancone.

Non seppe dire quando si risvegliò, con la vecchia locandiera che gli faceva aria con un giornale, l’espressione accigliata come se non avesse idea se si sarebbe risvegliato o meno.

«Certo che ne gira, di gente strana, qui a Sheltz Town» stava borbottando tra sé, guardandolo come fosse stato uno evaso di manicomio. «Stai bene?»

«Sì, sì» si affrettò a dire lui, rimettendosi seduto. «Nessun problema.»      

Si massaggiò la testa, che gli doleva un po’ per essersi addormentato sul legno. Stava per rimettersi a mangiare quando si accorse con la coda dell’occhio che una figura, nel frattempo, gli si era seduta a fianco, e non si trattava della graziosa cameriera.

Alzò gli occhi dal piatto per osservarlo meglio. Era un uomo piuttosto basso, infagottato in una camicia nera, il profilo aguzzo incorniciato da una matassa di capelli corvini, legati sulla nuca con un codino.

Nello scorgerlo, l’anziana locandiera, che si era messa a trafficare dietro il bancone, sogghignò.

«A proposito di gente strana…» commentò, con quella voce che pareva il gracchiare di un corvo, ed Ace capì che il tizio doveva essere appena arrivato. «Guarda un po’ chi viene a trovarmi. Chi non muore si rivede, d’altronde. Come ti vanno le cose?»

«Salve, Asako.»  L’uomo sorrise a sua volta. «Non potrebbero andare meglio.»

Ace gli scoccò un’occhiata, stupito dal suo tono sicuro, ma dopo un attimo aveva già perso del tutto l’interesse per lui e si era rimesso a mangiare.

«Cosa ti porto?» riprese la vecchia, avvicinandosi al bancone, a cui arrivava a malapena.

«Riso fritto» rispose lo sconosciuto. «Per me e per lo straniero.»

Ace drizzò le antenne e, nell’alzare lo sguardo, si accorse che l’uomo dai capelli neri lo stava indicando con il pollice. Di colpo incrociò gli occhi di lui, scuri come la pece e dall’aria amichevole.

«Come sai che non sono di qui?» biascicò, pensando al fatto che, se lo sconosciuto gli avesse davvero offerto il pranzo, avrebbe evitato di darsela a gambe per non pagare com’era abituato a fare.

Lo sconosciuto scoppiò a ridere. «Conosco tutti a Sheltz Town, amico. Me ne accorgo, quando vedo una faccia nuova. Benvenuto in città.»

L’uomo gli offrì la mano, l’aria cordiale, ed Ace la strinse a sua volta, sorridendogli. Non gli era andata poi così male.

«Piacere, Ace» disse, ancora a bocca piena.

Per tutta risposta, l’uomo sorrise, scoprendo i denti. «Lo so.»

In quel momento, Asako si affacciò sulla soglia della cucina e guardò l’uomo di sottecchi. «Il cibo arriva subito, Riadh, ma tu vedi di non distruggere il mio ristorante.»

 
***
 
 
Contrariamente a quanto Aibell avrebbe scommesso, quel pirata dalla ridicola capigliatura bionda le stava dando filo da torcere. Ancora una volta. Certo, non poteva dire che quell’uomo non nascondesse delle sorprese. Per un attimo, nella mente annebbiata dall’alcol della cacciatrice, l’antipatia nei confronti del pirata si mescolò con la curiosità.

«Questi li paghi tu» preannunciò Marco, tracannando uno dopo l’altro gli shots.

Erano già alla seconda serie da dieci e il locandiere era sempre più confuso, mentre continuava a portare loro l’alcol senza fare domande.

«Te lo scordi» replicò Aibell, che quasi si strozzò nel mandare giù i suoi.

La loro lotta si era fatta così avvincente che ben presto attirò l’attenzione dei tavoli vicini, i cui avventori si avvicinarono e cominciarono a piazzare le loro scommesse, scambiandosi mazzette e incitando ora l’una e adesso l’altro.

Aibell udiva i loro discorsi sconnessi, le parole che arrivavano in un brusio confuso e attutito. Lo sconosciuto era alto e ben piazzato, decisamente più robusto di lei, dicevano, ma d’altronde quella era Aibell, conoscevano di fama le straordinarie capacità della ragazza nel reggere l’alcol.

Quando non si recava al loro tavolo, il proprietario fissava la scena dal bancone, scuotendo appena il capo. Non sembrava disturbato dalla confusione, probabilmente si augurava soltanto che tutta quella tequila gli venisse pagata.

Aibell, dal canto suo, non poteva permettersi di perdere. Anche perché non aveva un soldo.

«Be’» commentò Marco, scolandosi il tredicesimo shot. «Devo ammettere che non sei così male.»

Aibell non replicò. Sapeva che, se avesse aperto bocca, il suo tono di voce l’avrebbe tradita. Già doveva prestare grande concentrazione a non dondolare troppo sulla sedia e a non rovesciare i bicchieri quando li prendeva in mano.

Al dodicesimo bicchiere cominciò a vederci un po’ appannato, e si maledisse fra sé. Quella notte non aveva chiuso occhio e non toccava cibo dal giorno prima, ad esclusione di poche cucchiaiate della zuppa incriminata, e le conseguenze si stavano facendo sentire. Aveva creduto di potercela fare comunque, di tenere duro, di consegnare quell’uomo alla Marina, ma sentiva che stava perdendo il controllo sulla sua mente, e che presto non avrebbe più risposto delle sua azioni.

Cazzo, cazzo, cazzo!

«Non ti vorrai arrendere ora» la canzonò il pirata, sovrastato dal tifo degli avventori, notando la sua esitazione.

Aibell sperò che fosse almeno un po’ alticcio. Il cappello gli si era un po’ spostato indietro sulla testa, rivelando i suoi lineamenti e un ciuffo di sparuti capelli biondi, ed Aibell pregò che nessuno degli avventori lo riconoscesse. Quell’uomo era suo.

«Mai» rispose lei, a mezza voce, buttando giù il tredicesimo, mentre intorno a loro infuriavano i tifi e le urla, e sudice banconote passavano da una mano all’altra.

Il pirata fece il solito sorrisino storto, sprezzante ed arrogante, quello che lei detestava.

La testa le doleva da impazzire, quasi quanto la gamba, come se qualcuno le stesse piantando un chiodo nella nuca con un martello.

«Lo vedo che non ce la fai più» la prese in giro Marco, bevendo il quattordicesimo shot. Dietro di lui esplosero le grida dei clienti, già certi che la vittoria sarebbe andata a lui.

Aibell tentennò, abbassò gli occhi sul suo bicchiere ed improvvisamente ebbe una gran voglia di vomitare. Ma ricacciò il conato in fondo alla gola e si scolò a sua volta il quattordicesimo, con il tifo degli avventori nelle orecchie.

Quando alzò di nuovo gli occhi, realizzò che quel sorrisino storto non gli faceva più né caldo né freddo.

«Te l’ho detto» ripeté Aibell, incespicando nelle parole. «Io non mi arrendo.»

Al quindicesimo shot, si ritrovò a pensare che, in fondo in fondo, quel sorriso storto non gli dispiaceva.

Al sedicesimo, lo stesso sorrisetto gli provocò un fremito nel bassoventre.

Aibell si bloccò, in un improvviso sprazzo di lucidità, come fosse stata colpita da un fendente in pieno petto. Conosceva quella sensazione, per quanto non la sperimentasse da tempo immemore. E non era normale che la stesse provando lì, in quel momento, e che fosse quella persona – il pirata che l’aveva derubata del fucile e che aveva giurato di consegnare alla giustizia! – a suscitargliela. Aibell scosse vigorosamente la testa, come in un disperato tentativo di riprendersi dallo stordimento di cui era preda. Doveva fermarsi, o sarebbe andata a finire davvero male.

Ma, quando vide che Marco si avvicinava al ventesimo shot, alla vittoria, sentì la rabbia montare, e senza pensarci, si portò il diciassettesimo bicchiere alla bocca, lavando via con la tequila ogni traccia di buonsenso.

Al diciottesimo, neanche quei capelli ad ananas gli parvero più tanto ridicoli.

«Ti arrendi?»

La voce di Marco la riscosse dal torpore nel quale era caduta, mentre fissava il liquido trasparente ondeggiare nei suoi due bicchieri rimasti. Aibell guardò quelli di lui, vuoti e rivolti a testa in giù, e si grattò la nuca. Quand’era successo? Forse era stata troppo impegnata a guardargli quegli stupidi capelli.

Puntellandosi sui gomiti, il pirata si era alzato in piedi e adesso troneggiava su di lei, lo sguardo un po’ appannato. Aibell deglutì, senza riuscire a staccare gli occhi dai muscoli che s’intravedevano dalla camiciola a fiori lasciata aperta e che si sollevavano ad ogni suo respiro. Malgrado avesse bevuto fino all’attimo prima, si rese improvvisamente conto di avere la gola secca.

Intorno a loro era calato il silenzio più assoluto. Gli avventori sapevano che era giunto il momento decisivo, e non volevano perdersi nulla.

Aibell sentiva, sapeva che a Marco il suo sguardo lascivo non era sfuggito. In svariate occasioni, purtroppo, aveva dimostrato di non essere uno stupido. Malgrado gli occhi parzialmente nascosti dal cappello, sentiva il suo sguardo fisso su di lei e, in un soffio, realizzò che forse non era la sola a percepire la tensione che stava montando fra loro. Inspirando a pieni polmoni, Aibell si beò di quella sensazione, vera o falsa che fosse. Socchiuse gli occhi e fece in modo di spalmarsi ancora di più sul tavolo, assicurandosi che Marco avesse una discreta visuale sulla sua scollatura.

«Allora?» la incalzò lui, ad un soffio dal suo volto. Respirava la stessa aria di lei, adesso, intrisa di tequila. «Ti arrendi?»

Aibell aprì gli occhi, e si ritrovò agganciata a quelli di lui. Tutti, intorno a loro, stavano trattenendo il fiato, compreso il barman dietro il bancone, che tentava con scarso successo di fingersi disinteressato.

«Sì. Ti prego» rispose infine, ammettendo la sconfitta come se lo avesse avuto sopra di lei e gli stesse pregando di fotterla più forte.

La locanda esplose di colpo in un boato. Marco venne sommerso di fischi, applausi e pacche sulle spalle, ma i suoi occhi, che brillavano di una strana luce nella penombra del locale, erano fissi sulla cacciatrice.

«Ho vinto» disse, con una certa incertezza nella voce, come resosi conto che quel che stava succedendo non rientrava in nessuno dei piani che entrambi avevano architettato a scapito dell’altro. 

Aibell si alzò in piedi a sua volta, quasi rovesciando la sedia dietro di lei. Barcollava come fosse stata su una nave in tempesta e fu costretta ad artigliare prima il bordo del tavolo con le unghie e poi il bavero della camicia di Marco per non cadere lunga distesa a terra. Lui la lasciò fare. Malgrado l’atteggiamento calmo e pacato, non doveva essere messo molto meglio di lei, o almeno così sperava. Pensare il contrario sarebbe stato decisamente troppo umiliante.

Adesso Aibell era così vicina al pirata che poteva sentirne l’odore. Un odore forte, maschile e salmastro, appena coperto da quello dell’alcol, che le provocò una capriola di eccitazione nella pancia.

Si avvicinò ancora di più, ipnotizzata da quello sguardo. La sua mente era vuota, immobile come la superficie dell’oceano in una giornata senza vento. Sapeva che milioni di sensazioni giacevano sul fondale, impossibili da prevedere. Aibell non ebbe un solo attimo di esitazione. Respirò a pieni polmoni e vi si tuffò.

«Mi dispiace, non ho un soldo con me» lo informò, ad passo dalle sue labbra. «Ma posso pagarti in un altro modo.»




Chiedo venia per l’imbarazzante silenzio stampa. Mi sono successe un bel po’ di cose e questa storia è inevitabilmente passata in secondo piano. Eppure, come mi accade SEMPRE, trovandomi al pc per scrivere di tutt’altro (vedi: tesi), mi sono rimessa a leggere, a fare qualche modifica qua e là, e di colpo avevo una gran voglia di aggiornare. Non so se riuscirò ad essere costante, ma cercherò di andare avanti quando posso. Sono così affezionata a questa storia, ed è come se l’idea di averla pubblicata da qualche parte e non a marcire in una cartella del pc fosse un modo di darle giustizia. Non so se quel che ho scritto abbia un minimo di senso.    
 
Qualche parolina su questo capitolo e, soprattutto, sul finale (eheh). Scommetto che non ve l’aspettavate, eh? No, non se lo aspettavano neanche loro. Ammetto che scrivere le scene di questi due, al di là di realismo e OOC, mi diverte un sacco. Marco sperava di farla ubriacare senza ritegno e togliersela finalmente dalle scatole, Aibell sperava di farlo ubriacare senza ritegno e consegnarlo alla giustizia, ma qualcosa è andato storto nei loro piani. È una delle scene della storia che avevo in mente da sempre, così come quando lei cerca invano di fregarli, e spero di averla resa come la immaginavo nella mia testa XD Non sono sicura che Marco possa sbronzarsi per via dei suoi poteri da uccellaccio
, quindi non ho mai esplicitamente detto che fosse ubriaco, preferendo lasciare tutto alla vostra immaginazione :) In ogni caso, da qui in poi, tutto cambia. Non con l’ammore, però, non ci sarà molto romanticismo in questa fic. Comunque, l’avvertimento lemon è per la scena del prossimo capitolo, se mai arriverò a pubblicarlo.
 
Per quanto riguarda la scena di Ace… chiedo venia. Vi chiederete che cazz ci fanno dei personaggi mai visti prima (vedi: la mia AMATA Asako) così ben dettagliati, ma dovevo. Appartengono ad un’altra mia fic di One Piece scritta a quattordici anni (sulla scia delle figlie di Shanks, per intenderci) che per ovvi motivi non vedrà mai la luce del sole, ma il personaggio della vecchia Asako dovevo incastrarlo da qualche parte perché scrivere di lei mi spezza. Spero che la scena vi sia piaciuta e vi abbia lasciato un pochino di suspence. Perché, insomma, al bancone è arrivato qualcuno di moolto familiare. Chissà se gli andrà meglio che ad Aibell (anche se, insomma, ad Aibell non va poi così male).
 
Mi scuso anche per la monotonia delle ambientazioni. Vi starete chiedendo, ma quante cazz di osterie ci sono a Sheltz Town? La storia non si svolgerà tutta in una locanda, ve lo giuro ç-ç
 

Qualche curiosità random: la sfida di Aibell e Marco è ricalcata su una scena del primo film di Indiana Jones, in Tibet, non so se avete presente. Mi piace strizzare – obbrobriosamente – l’occhio alle opere che mi piacciono, se non si fosse capito.

                                                                 


Spero di tornare presto su questi schermi. Un bacio,
Cassidy

 
  
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