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Autore: Adeia Di Elferas    18/04/2024    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Antonio Giustinian aveva percorso la via verso gli appartamenti papali con la mente che frullava di idee e gli prefigurava ogni sorta di scenario. Si era lambiccato per ora, quando era stato convocato, nella speranza di immaginarsi di cosa si sarebbe parlato, in modo da prepararsi delle risposte efficaci, ma la confusione che lo attanagliava in quelle ore era così pressante da togliergli lucidità.

Sapeva che probabilmente il pontefice in quel momento era concentrato sulla questione romagnola, ma non sapeva quanto Giulio II sapesse dei progetti veneziani. Inoltre – e questo si stava dimostrando un problema anche per il Doge – la strana azione di Ottaviano Riario appoggiato dai Bentivoglio aveva provocato delle strane e inattese reazioni in alcuni romagnoli. Anche città relativamente remissive come Imola stavano alzando la cresta e si diceva che alcune avrebbero potuto rigettare autonomamente gli uomini del Valentino, rifiutandosi di accettare sia il dominio della Chiesa, sia quello della Serenissima, alla ricerca di un'agognata e folle libertà.

“Ormai ho la certezza – disse il Santo Padre, non appena Giustinian si fu levato la berretta ed ebbe messo in atto il suo miglior inchino con bacio dell'anello piscatorio – che Faenza è in mano del vostro Doge.”

“Il Doge ha solo avvallato una richiesta d'aiuto.” lo corresse Antonio, con tono umile.

“Il mio fermo desiderio – riprese Giuliano, guardando altrove – è che tutte quelle terre, che erano suddite alla Chiesa, ritornino alla Chiesa.”

Il veneziano strinse le labbra, cominciando a capire il reale motivo di quella sua convocazione. Il papa si stava dimostrando debole. Anche se la sua poteva sembrare una richiesta imperiosa, di fatto stava provando la via diplomatica perché spaventato da tutte le altre. Qualcuno aveva detto che il Della Rovere sarebbe stato un 'papa guerriero', ma se quello era l'inizio...

“Il vostro è un nobile desiderio, da vero padre della cristianità.” convenne, con finto servilismo, Giustinian.

“Ho già inviato due Cardinali, il Cardinale Soderini e il Cardinal De Remolins a Ostia, affinché spieghino a dovere anche al Duca Valentino... Al fine di... Persuaderlo a resituirci tutte le rocche che ancora tiene in Romagna.” spiegò Giulio II, giocherellando in modo inopportuno con il crocifisso che teneva al collo, quasi che le parole che gli stessero uscendo di bocca fossero cose da poco, facezie di cui in fondo non aveva voglia di parlare: “E ho ordinato al De Remolins di prendere possesso di tutte quelle rocche e governarle.”

A quell'ultima notizia, non riuscendo a trattenersi, Antonio si irrigidì. Forse era stato troppo ottimista nel pensare che quel papa sarebbe stato un papa di parole e non di fatti.

“Prego la Repubblica di non voler spingere le cose più oltre.” dichiarò, fermissimo, il Della Rovere.

Il modo in cui guardava il suo interlocutore faceva intendere quanto lui sapesse ogni cosa. Si poteva quasi vedere nelle sue pupille l'immagine vivida del Conte di Pitigliano in marcia verso la Romagna...

“La Repubblica non intende di aver tolto le terre di Romagna dalle mani della Chiesa.” iniziò a dire Giustinian, la fronte che si copriva di goccioline di sudore gelido: “Ma dai nemici di essa. Quindi la Repubblica sarà contenta che ritornino al pontefice.”

Giuliano inclinò il capo, un po' sorpreso da quella risposta. Tuttavia, ciò che il veneziano disse subito dopo gli fece prendere colore, per via della rabbia che iniziava a montargli in corpo.

“Ma quanto a quelle che sono tenute dai vicari – fece, infatti, l'oratore – che le governavano male e senza vantaggio della Chiesa, potrebbero ben restare in possesso della Repubblica meglio che di altri.”

Il Della Rovere era immobile come una statua di sale. Nella sua mente si stava combattendo un'aspra battaglia tra l'uomo sanguigno e istintivo che era stato come Cardinale – che avrebbe voluto tanto prendere a pugno il veneziano – e l'uomo assennato e pacato che doveva essere come papa.

Alla fine, fingendo di voler cambiare discorso, ma trovando solo il modo di rimarcare la supremazia del suo potere anche sul Doge, il pontefice disse: “Il Duca d'Urbino, che come sapete è qui a Roma, mi ha espresso il desiderio di lasciare il suo Stato al nipote. Venezia cosa penserebbe di questa cosa? Sarebbe uno dei tanti nemici della cristianità a cui strappare una terra, per poi tenerla sotto il controllo della Serenissima, oppure il Doge sarebbe d'accordo con questa scelta?”

Giustinian attese qualche istante, prima di rispondere, ben sapendo che le sue parole non sarebbero solo state esaminate come un esercizio di eloquenza o di arguzia, ma come una precisa dichiarazione di intenti da parte di Venezia.

“La Repubblica v'acconsentirà.” disse infine: “Purché ciò si faccia colla grazia e protezione sua.”

Giuliano strinse il morso, ma parve abbastanza compiaciuto da quel mezzo risultato. Non aveva fretta di far digerire al Doge tutte le sue decisioni, bastava che ne masticasse una per volta.

L'oratore veneziano, quindi, dopo quell'ultimo scambio si vide congedare e salutò il pontefice con un certo sollievo, sicuro di aver giocato con lui una partita dignitosa, seppur non vincente in tutto e per tutto.

Con gli abiti incollati alla pelle per il sudore profuso a causa della tensione, Antonio si avviò a passo svelto verso il suo alloggio, ma ancor prima che potesse imboccare la strada giusta, si sentì chiamare con voce tonante.

Non riuscendo a trovare una scusa valida per evitare il soldato che lo stava quasi rincorrendo, Giustinian fece un grande sorriso e un breve inchino, chiedendo: “Chi mi desidera?”

“Il Duca di Urbino.” rispose l'uomo, chiedendogli poi di seguirlo.

Il veneziano non si oppose, anzi, trovò lo spirito di gorgheggiare un gioviale: “Che fortuna! Avrei chiesto presto io un incontro con lui!” ma nel profondo l'agitazione che si era appena acquietata stava tornando a tormentarlo.

Non gli piaceva il modo in cui tutti parlavano di Guidobaldo Maria da Montefeltro come del Duca d'Urbino. Anche se lo era stato, da parecchio tempo il suo titolo non era più effettivo. Appellarlo a così era un modo come un altro per legittimarlo, malgrado tutto, e per far capire a qualsiasi interlocutore quale fosse la posizione del Vaticano.

Il Montefeltro stava aspettando Giustinian in una saletta molto piccola, ma ben affrescata, che gli era stata prestata dal papa in persona proprio per quel genere di incontri. Sul tavolo che campeggiava nel centro della stanza c'erano pezzi di formaggio – il cui aroma fece gorgogliare lo stomaco di Antonio – del vino e qualche composta di frutta. Guidobaldo, comunque, sembrava del tutto insensibile a quell'opulenza ostentata in modo tanto naturale. I suoi occhi tondi non sfioravano nemmeno le pietanze, soffermandosi invece sul volto di Giustinian.

“Mi avete mandato a chiamare...” disse il veneziano, levandosi la berretta e resistendo stoicamente a guardare di nuovo verso i formaggi che, a quell'ora, lo chiamavano come il canto di una sirena.

“Volevo esprimervi di persona la mia compiacenza per la buona riuscita dell'impresa di Faenza.” fu ciò che uscì dalle labbra dell'urbinate, benché il suo sguardo fosse ancora freddo e impossibile da interpretare: “Ma credo...”

Seguì una breve pausa, che a Giustinian parve eterna, durante la quale qualcosa, nel volto pallido e assorto del Montefeltro cambiò. Era come se, pur senza muovere un muscolo, quello strano uomo fosse riuscito a rendere il suo aspetto minaccioso.

“Ma credo che sarebbe bene che la Repubblica si fermasse qui.” decretò: “Desidero sopra ogni cosa il buon accordo tra la Repubblica e il papa.”

Che Guidobaldo fosse un amico del Doge, nessuno lo aveva mai messo in dubbio, e che il Doge lo avesse ospitato – in cambio di denaro, quello era ovvio – quando nessuno l'avrebbe fatto, era altrettanto risaputo. L'interesse dell'urbinate di un accordo tra Roma e Venezia era dunque credibile, ma il modo in cui aveva esposto il suo desiderio lasciava comunque delle ombre sulla sua equanimità.

“Il Cardinale di Volterra e il Cardinale di Sorrento hanno scritto al vostro signore – riprese Guidobaldo, questa volta in modo più scorrevole, quasi che si stesse rilassando, dopo aver affrontato la parte più dura del discorso – che ancora il Duca Valentino non s'è voluto risolvere a dare i contrassegni delle fortezze a Sua Santità, né ha voluto lasciare la galea su cui è salito a Ostia... Inizio a credere che da lì non andrà avanti, ma che sarà trattenuto.”

Giustinian, in effetti, aveva sentito dei pettegolezzi in Vaticano secondo cui il papa, di nascosto, stesse ordendo un attacco diretto a Cesare, al fine di riportarlo a Roma, ma da vero prigioniero, usando proprio la scusa dei contrassegni negati per spiccare il mandato d'arresto.

Deglutendo, il veneziano chiese: “E se questa galea andrà avanti o resterà alla secca, lo saprò da vossignoria, quando possibile?”

“Come detto, ho interesse che Venezia resti amica mia, e quindi del papa.” riassunse il Montefeltro, indicando poi la porta: “Andate con Dio, Giustinian.”

 

Fortunati aveva scritto una breve a Caterina, aggiornandola sulle questioni di Firenze, e le aveva anche fatto sapere che sarebbe rientrato a Castello nel giro di una settimana al massimo. Non gli piaceva stare lontano così a lungo, ma la politica era una cosa complessa, e se volevano avere ancora amici in città era necessario parlare singolarmente con ciascuno di loro, e a questo si sommavano gli impegni – troppo a lungo ignorati – legati al suo ruolo di piovano di Cascina.

La Tigre aveva letto con rabbia le sue parole, dato che ormai la solitudine era tornata ad avvelenarle le notti ancor più che i giorni, e non riusciva a non incolpare Francesco per la sua assenza. Sapeva di essere egoista, ma ogni ora che passava senza poterlo avere accanto a sé per lenire il vuoto che sentiva dentro di sé le sembrava un torto incredibile.

La donna aveva anche borbottato una mezza ingiuria sul finale, quando il piovano aveva aggiunto che a breve avrebbe concordato coi Salviati una data per far conoscere i loro figli a quelli della Sforza.

La giornata, a Castello, era grigia, ma non tanto fredda, per essere ormai fine novembre. Bastava tenere acceso il camino qualche ora per avere caldo fino a sera tarda e stando fuori si poteva fare esercizio tranquillamente, senza sudare troppo, ma anche senza sentirsi congelare le dita e la punta del naso.

Quella mattina, per esempio, la Leonessa aveva fatto cavalcare un po' Bernardino, sotto lo sguardo affascinato di Giovannino, che, invece, aveva preferito tirare un po' di scherma, usando una spada di legno. Anche Galeazzo si era unito a loro per quei passatempi che a Caterina piacevano enormemente, ma si era presentato in veste di mentore, affiancando la madre, più che pendendo dalle sue labbra come al solito.

La Tigre ne era stata felice, sia perché sapeva che il Riario ormai era in grado di insegnare ai fratelli più piccoli moltissime cose, sia perché vederlo così sicuro di sé la faceva ben sperare per il futuro. A diciotto anni non ancora compiuti, quando assumeva una posizione che poteva definirsi di comando, come quella, assumeva un piglio da uomo adulto e dimostrava un'ottima padronanza e un'invidiabile fermezza.

Solo Sforzino non si era unito a loro, preferendo, tanto per cambiare, i suoi libri. Una volta tanto, comunque, non aveva condotto i suoi studi in solitaria, né con Bossi, ma con il piccolo Pier Maria che gorgheggiava al suo fianco, affidatogli per qualche ora dalla balia, che aveva chiesto di poter riposare per un forte mal di schiena.

Caterina non aveva potuto negare alla ragazza quel permesso per il semplice fatto che sapeva benissimo quale ne fosse l'origine: il giorno prima Giovannino, probabilmente con la complicità di Bernardino, le aveva nascosto dei vermi nella cassapanca e la balia se n'era spaventata, facendo un movimento brusco che le aveva causato subito un forte dolore. Rincorrere poi il piccolo Medici per mezza villa non aveva aiutato una pronta guarigione. Così la Sforza le aveva rifilato uno dei suoi unguenti, l'aveva pregata di perdonare il figlio e aveva concesso il meritato riposo.

Dopo quella mattina tutto sommato tranquilla, la milanese non sapeva come impiegare il suo tempo. I suoi figli l'avevano reclamata per avere ancora una guida nei loro esercizi, ma lei aveva delegato senza repliche a Galeazzo, e si era messa a vagare senza meta. Era di cattivo umore e non aveva intenzione di riversare sui figli la sua insofferenza.

Mancavano tre giorni al compleanno di Bernardino e ancora non aveva deciso cosa regalargli. Le sembrava che tredici anni fosse un bel traguardo, per un ragazzino, specie per uno già sveglio e precoce come lui. L'avrebbe preferito più attento allo studio e un po' meno turbolento, ma era ugualmente fiera di come stesse crescendo. Andava d'accordo coi fratelli ed era anche molto affettuoso con Pier Maria, il che non sarebbe stato scontato, visto chi era stato suo padre e come era stato mal sopportato dai Riario.

Pensando che avrebbe potuto scrivere a Scipione affinché gli recuperasse qualcosa di bello e che gli sarebbe piaciuto – magari una fionda ben fatta, o un arco, o anche uno stiletto – Caterina arrivò senza rendersene conto fino al portone d'ingresso. Non si accorse subito che l'uscio era accostato e che fuori si sentivano delle voci, ma quando se ne avvide, si accigliò e si mise ad ascoltare.

“E che dite? Che dite? Che si dice in Romagna?” stava domandando la voce un po' roca di Creobola: “Ce ne andremo tutti a Forlì a breve? Un po' mi piacerebbe, sapete? Qui a volte siamo così isolati...”

“Non saprei, davvero.” rispose la voce di un giovane uomo: “Io ho solo avuto ordine di portare questa lettera... E poi vengo da Bologna...”

“Sì, ma se arrivate da là, saprete che aria tira... Voglio dire... Bologna non è Imola, ma ci si arriva in fretta!” lo riprese Creobola, con impazienza.

Già alla parola 'Bologna' la Leonessa aveva fatto un passo in avanti, ma dopo quell'ultima insistenza della serva, non resistette più.

“C'è una lettera per me?” chiese, uscendo d'impeto.

La serva, visibilmente contrariata dall'arrivo della padrona, indicò il messaggero ed esclamò: “Ma è quello che sto cercando di capire! Questo fanfarone non fa che perdere tempo in chiacchiere!”

L'altro, accigliandosi, schiuse le labbra per ribattere e probabilmente per rigirare la colpa su Creobola, ma la Tigre non aveva alcuna voglia di trovarsi in mezzo a quell'inutile fuoco incrociato, così sbuffò: “Se avete una lettera per me datemela e basta.”

Ottenuta infine la missiva, la milanese congedò l'uomo e poi guardò con severità Creobola, che, malgrado tutto, restava ancora lì immobile, il collo allungato verso il messaggio, forse nella speranza di scoprire qualcosa di più.

Non riuscendo proprio a trattenersi, la serva chiese addirittura: “Chi è che vi scrive, Madonna?”

Caterina strinse la lettera con ancor più forza e rimbeccò: “Non credo siano affari tuoi! E ora va nella stanza di mio figlio Galeazzo: ci sono le lenzuola da cambiare!”

Comprendendo che insistere sarebbe stato solo uno spreco di tempo e fiato, Creobola annuì, ma, quando ancora era a portata d'orecchio della Leonessa, borbottò tra sé qualche lamentela su quanto fosse inutile cambiare le lenzuola tanto spesso come pretendeva lei, e su quanto fosse una padrona suscettibile, intollerante e pronta a impedire a tutti di fare anche solo una semplice domanda.

Osservandone la figura che si allontanava via via da lei, la Sforza si chiese cosa la portasse a ostinarsi a tenerla con sé, quando avrebbe potuto darle un buon compenso per i suoi servigi e mandarla via. Forse era perché, malgrado le sue stranezze, si rivelava una serva utile, o forse perché era brava a sistemarle la dispensa del suo piccolo laboratorio alchemico... O forse le mancava solo la voglia di cercare lo scontro con una donna tanto strana.

Togliendosi di mente Creobola, la Tigre si incamminò verso la propria stanza, volendo leggere la corrispondenza in santa pace. Tuttavia, mossa dalla curiosità, ruppe il sigillo quando ancora era a metà strada, lesse il nome del mittente, ossia Giambattista Tonello, e poi diede anche una rapida scorsa al messaggio... E quelle poche frasi che occhieggiò la fecero subito arrabbiare.

 

Il giorno seguente, il 26 novembre, si sarebbe tenuta, lì in Vaticano, l'incoronazione di Giulio II e non c'era romano che non stesse pensando a quell'evento epocale. Anche gli stranieri che erano in città per altri motivi avevano deciso di trattenersi al solo scopo di godere dei doni che sarebbero stati elargiti in quell'occasione, quasi fosse stato un matrimonio ducale o ancor più regale.

Solo Machiavelli non riusciva a concentrarsi sull'incoronazione. Ovviamente stava seguendo tutti i preparativi e stava già anche pensando come descriverli, ma l'ultima lettera della Signoria di Firenze gli aveva inacidito tanto il sangue che ogni volta in cui provava a scrivere due parole, gli uscivano avvelenate.

Sulla scrivania aveva lettere del giorno prima e di quello prima ancora, che non aveva spedito per puro puntiglio. Firenze lo accusava di scriverne troppe? Lo accusava di mettere a rischio informazioni preziose usando troppe staffette diverse? Lo accusava di spendere troppi denari?

Ebbene, aveva deciso che da quel giorno non avrebbe più spedito lettere quotidianamente, come sarebbe stato giusto per un inviato del suo rango, ma le avrebbe scritte e poi inviate ogni tre giorni.

Giusto per far sudare un po' i Dieci e tutti gli altri, aveva fatto in modo che la cadenza delle spedizioni portasse a far partire le lettere quel giorno, in modo che il resoconto dell'incoronazione, che si sarebbe tenuta il giorno dopo, domenica, partisse solo martedì. Dopo quello scherzetto era sicuro che la Signoria lo avrebbe implorato di tornare a inviare la posta come in precedenza.

Con un sospiro profondo, sistemando meglio la candela che aveva già acceso sulla sua scrivania per via del buio arrivato ancora prima del solito a causa del brutto tempo, Niccolò cominciò a scrivere: 'Perché le Signorie Vostre non desiderino mia lettere, e anche perchè la intendino in quanti modi varii sieno passate queste cose del Duca Valentino, e dove le si truovino al presente: mando alle Signorie Vostre le alligate in diligenza per le mani di Giovan Pandolfini, il quale veduto quanto male servono le delibera mandare uno proprio'

Si morse il labbro facendo un rapido conto di quando far partire la staffetta e poi continuò a scrivere: 'Parte ad ore 22, e le Signorie Vostre lo faranno rimborsare, secondo lo avviso di Giovanni, e avendo scritto poi che io sono quì ogni dì una lettera, e al più lungo de due dì l'una, mi duole dopo molti disagi, e pericoli, ed estrema diligenza , e spesa più grave, che non sopporta né il salario che Vostra Signorie mi danno, né la facultà mia, essere incolpato di tardità, in modo che non passerà mai tre dì, quando gli straordinari non mi servino, che io spacerò uno a posta alle Signorie Vostre, ancora che la cattiva via, e le poste stracche, faccino che che altrui sia etiam da loro male servito: altro non ci è, che quello mi habbi scritto, e il Papa s'incorona domattina, come dissi, e mi raccomando alle Signorie Vostre'.

Con una certa soddisfazione, Niccolò rilesse e firmò: 'Rome die 25. Novembris 1503. Servitor N. Machiavegli'.

Stava sigillando già il messaggio, quando qualcuno bussò alla porta della sua stanza con insistenza.

Molto irritato, l'uomo gridò un 'che c'è' e non aspettò la risposta, andando subito ad aprire. Si trovò davanti uno dei servi di casa che si occupavano di lui, che gli porgeva un messaggio, dicendo che arrivava da Firenze.

Immaginando già una nuova ingiusta reprimenda da parte della Signoria, Machiavelli si scostò un ciuffetto di capelli dagli occhi, ringraziò e richiuse la porta.

Sedutosi di nuovo alla scrivania, aggrottò la fronte nel capire che la mittente era sua moglie, Marietta Corsini. Chiedendosi che mai potesse avere di urgente da comunicargli, iniziò subito a leggere e dopo appena due righe si diede dello stupido: quale marito dimenticherebbe mai che la moglie è in procinto di partorire il proprio secondogenito?

Il bambino era un maschio, ed era in salute, anzi, per dirla con le parole che Marietta stessa aveva vergato: 'Somiglia a voi, è bianco come la neve, ma gli ha il capo che pare velluto nero, et è peloso come voi, e da che somiglia voi parmi bello'.

Niccolò sorrise, non tanto perché trovasse quella descrizione particolarmente idilliaca, ma perché in quelle poche parole la Corsini gli ribadiva una cosa che già più volte gli aveva fatto capire, ossia che lei, malgrado tutto, era felice di essere sua moglie.

Andando oltre, a parte qualche notizia pratica di casa, la donna si perdeva anche in qualche battuta ironica, che, di fatto, era ciò che la faceva piacere in modo sincero a Machiavelli. Era spiritosa, sapeva rigirare le cose in modo tale da prenderlo in giro per farlo ridere, e, a volte, sapeva farlo in modo tanto serioso da farlo preoccupare, prima di fargli capire lo scherzo sotteso alle sue parole.

'Carissimo Niccolò – gli aveva scritto – voi mi dilegiate, ma non n'avete ragione, che più rigoglio arei se voi fussi qui: voi che sapete bene come io sto lieta quando voi non siete qua giù.' e poi ancora: 'Pensate come io sto contenta, che e' non trovo riposo né dì né notte. Questa è la letizia ch'i'ò del bambino'.

In chiusura, però, ribadiva la sua gioia e si augurava che il marito tornasse il prima possibile da lei.

Machiavelli si abbandonò contro lo schienale della sedia e sospirò. A Firenze, pensò, in fondo c'era ancora qualcuno per cui valesse la pena impegnarsi.

 

Caterina non si dava pace e si mise a rileggere una volta di più le parole di Tonello, che aveva scritto, parlando degli imolesi: 'Dubita quel populo che la Signoria non li metta la grinfie addosso per questa tardità se fa; horamai per tutto si dice che questa impresa è stata una cosa molto lunga e ognun dice qua che è stata intesa e governata molto male e ore se comenza a dire se Vostra Signoria fosse venuta a l'Impresa che quella haveva fatto molto miglior fructo'.

Quella dichiarazione la faceva ribollire. Lei per prima avrebbe voluto poter essere a Imola, in armatura e spada alla mano, e riprendersi le sue terre con la forza, se strettamente necessario. La sua assenza non era stata dovuta a codardia o disinteresse, ma alla sua condizione misera e dalla quale non sapeva come uscire.

'Stiamo molto pegio che non faciamo al tempo del Valentino – continuava Tonello, riportando sempre le lamentele degli imolesi – meglio saria per nui che lui fusse stato pure almanco goderemo il nostro che ora non lo potemo godere. Se vostra Signoria non ci aiuta, stiamo molto male'.

Ancora una volta la Leonessa dovette trattenere un moto di rabbia profonda. Sentiva le mani bruciare. Se avesse avuto a disposizione una lancia o anche solo una scure da guerra, avrebbe preso uno dei cavalli della stalla e sarebbe corsa di persona a San Pietro in Bagno a tagliare la testa a suo figlio Ottaviano, che aveva esacerbato quella situazione già complicata, rendendola pressoché catastrofica.

Tonello diceva poi che per tutta Bologna si parlava dei figli di Caterina, soprattutto di Ottaviano e di Cesare, ma anche di Galeazzo che, pur essendo in età, non si smuoveva di casa: 'Noi ce vergognamo per amore de Vostra Signoria che pure sono vostri fioli, omni zorno andiamo a corte da Madonna Zianevera – rivelava Giambattista, chiamando in causa Ginevra, la moglie di Giovanni Bentivoglio – se non fosse questo poco spasso che habiamo con le loro Signorie et che pure ce conforta assai, a quest'ra saressemo morti et desperati'.

“Se torni, giuro che t'ammazzo.” sussurrò la Sforza, chiudendo gli occhi per visualizzare meglio il volto del suo primogenito.

Prendendo il necessario per scrivere, Caterina cominciò a pensare a come rispondere a Tonello. Lo doveva ringraziare per l'aiuto e la lealtà, ma doveva anche fargli capire che Galeazzo in fondo era pronto, ma che gli servivano gli appoggi giusti, per poter spiccare il volo.

Aveva già la penna a mezz'aria, quando sentì bussare alla porta. Furibonda, chiese chi fosse a disturbarla, ed evitò per un soffio di bestemmiare, quando sentì che a risponderle era la voce di Creobola.

“Si può sapere che c'è ancora?” le domandò, andando ad aprirle: “Se vuoi che mi scusi per come ti ho trattata prima, sappi che sei tu che dovresti scusarti per...”

“No, no niente scuse, né mia né vostre – la interruppe la serva, coi suoi soliti modi insolenti – io sono qui solo per dirvi che alla porta si sotto c'è un uomo che chiede insistentemente di voi. A me sembra un poveraccio... Barba lunga, vestiti sporchi... Secondo me anche se parla tanto vuole solo del denaro...”

“E chi sarebbe?” chiese la Tigre, secca: “Ti ha detto come si chiama?”

Creobola si accigliò e poi rispose: “Qualche cosa come... Bacco..? Bacchino? Dice di essere di Cremona, ma di arrivare da Roma... A me sembra un poco di buono...”

“E lasciami passare!” inveì la Sforza, spostando di peso la serva, che stava in mezzo all'uscio, nel momento esatto in cui capì che quel 'Bacco' o 'Bacchino' altri non poteva essere che Baccino da Cremona.

La milanese corse come una pazza e arrivò senza fiato all'ingresso e lì, fermo sui due piedi con accanto un servo e una cuoca che gli facevano la guardia, vide proprio Baccino.

“Sei tu.” gli disse, sorridendo e correndogli incontro, senza riuscire a frenarsi.

“Madonna Sforza.” sorrise lui, allargando le braccia per permetterle di abbracciarlo, in barba agli sguardi esterrefatti del servidorame presente.

   
 
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