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Autore: Deruchette    21/04/2024    1 recensioni
[La storia segue lo svolgersi degli eventi dall'epilogo di "Hunger Games" all'epilogo di "Mockingjay"]
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Katniss e Peeta, gli Innamorati Sventurati del Distretto 12, i vincitori della 74esima edizione degli Hunger Games.
La loro storia è sotto gli occhi di tutti ma solo in pochi sanno che, in realtà, si tratta solo di finzione. La mossa strategica che li ha portati via dall'arena è costretta a continuare anche adesso che il sipario inizia a calare sull'ultima edizione dei giochi.
E se ad un certo punto la finzione si trasformasse in realtà?
Cosa succederebbe se gli Innamorati Sventurati fossero realmente innamorati?
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Dal capitolo 6:
"È evidente, chiaro come il sole, che è tutto cambiato. Che il ragazzo che all’inizio di quest'avventura consideravo un semplice amico, un alleato, adesso è diventato qualcos’altro. Per settimane mi sono chiesta se non fosse sbagliato nei suoi confronti recitare la parte della brava fidanzatina conoscendo la reale portata dei suoi sentimenti, sapendo che io non provavo la stessa cosa. Non sarebbe tutto più semplice se ti amassi?, la domanda che ronzava costantemente nella mia testa.
Ora lo so. Non solo è più semplice, più normale. È diventato anche necessario. Necessario come l’aria che respiro."
Genere: Drammatico, Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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In The Still Of The Night - 46

Salve, lettori.
Lo so, è passato molto tempo dall’ultima volta e forse vi siete anche dimenticati dove eravamo rimasti… ma eccoci di nuovo qui.
Come ultima cosa, prima di lasciarvi alla lettura, mi voglio scusare con voi per l’enorme ritardo con cui torno a pubblicare.
A più tardi, nelle note a fine capitolo ;)

 

 

 

In the still of the night

 

 

 

 

46.

 

La nascita del piccolo Finnick ha portato un’ondata di gioia e positività in tutto il Distretto 12. Nei giorni successivi non si fa che parlare d’altro, persino mentre attraverso la zona delimitata dai cantieri per raggiungere la recinzione sento il vociare allegro di chi commenta la notizia. La nascita del bambino non fa altro che rimarcare ciò che fino ad ora abbiamo solo intuito: che dopo la morte e la guerra, c’è ancora lo spazio per la rinascita e la felicità.
È più o meno il concetto che il dottor Aurelius mi suggerisce almeno una volta durante le nostre sedute telefoniche, e me lo ricorda anche adesso che stiamo per giungere al termine dell’ora.
Le nostre sedute si svolgono tramite telefono, data la mia impossibilità di lasciare il Distretto 12, e grazie al piccolo schermo di cui è dotato l’apparecchio, molto in voga a Capitol City, riusciamo quasi ad illuderci di trovarci insieme nella stessa stanza. Aurelius, l’aria allegra e spigliata caratterizzata anche da un paio di occhialini rotondi e da un papillon colorato, si trova nel suo studio a Capitol City; io, invece, sono nella stanza che Peeta ha da tempo scelto di adibire a laboratorio di pittura.
Il mio terapeuta, dopo aver inserito in mezzo al discorso l’arrivo del piccolo Odair, mi chiede se non sia rimasta felice per la sua nascita. Tutta Panem è felice, ma dalla faccia che ho assunto, a suo dire, sembro l’unica scontenta. Ma non è così.
- Sono contenta, sì. Ovvio che sono contenta…
- Ma? Sento che c’è un “ma”, nella tua frase, che cerca di nascondersi – aggiunge, sporgendosi verso lo schermo.
- È triste, Aurelius – dico. Distolgo lo sguardo dallo schermo per posarlo sull’angolo della scrivania. – Finnick… il bambino crescerà senza suo padre. È triste crescere senza padre. Io ci sono passata, so cosa si prova.
- Già, è triste – commenta, annuendo con la testa. – E non sarà neanche facile, non posso negarlo. Lo hai appena detto, cara: crescere senza un padre accanto è una dura sfida… ma noi non dobbiamo mai sottovalutare il bagaglio di ricordi che ci trasciniamo dietro. Finnick non avrà accanto suo padre, ma Annie gli ha dato il suo nome proprio per non farglielo mai dimenticare. Ed il piccolo avrà sua madre accanto, e tantissime altre persone che potranno raccontargli che grande uomo era suo padre. Gli spiegheranno il motivo per cui non è con lui, e capirà.
Se ne esce poi con una domanda posta quasi a bruciapelo che mi fa rabbrividire. È quel genere di domanda che, finora, non mi ha mai posto e che ho temuto con tutta me stessa potesse accadere da un momento all’altro. Quel momento è arrivato, alla fine, e non potrebbe essere altrimenti dato il tipo di argomento che abbiamo appena affrontato.
- Quando proverete di nuovo ad avere un bambino?

Mai. Ecco quando: la risposta è semplice ed immediata, ma non la esprimo ad alta voce. Lascio che Aurelius la intuisca dal mio viso e dalla mia espressione. E la intuisce, lui, perché sposta le mani dal suo pancione coperto dal panciotto colorato e si toglie gli occhialini, sfregandosi le palpebre con le dita.
- Dovevamo affrontare lo scoglio, Katniss, prima o poi. Lo scopo della terapia è proprio questo, d’altronde: devo aiutarti ad affrontare il passato e… non osare riagganciare, signorina. Allontana subito quel dito.
Aurelius, nonostante si sia tolto gli occhiali, ha notato la mia mano che si è avvicinata alla tastiera per premere il tasto che avrebbe interrotto la chiamata. Sentendomi come una bambina appena colta a rubare dal barattolo dei biscotti, ritraggo la mano. Lui inforca di nuovo gli occhiali e torna a sorridere.
- Dicevo, cara Katniss, che evitare di affrontare la balena bianca non può far altro che aggravare la situazione. Sarà sempre più ostico, dopo. Quindi, ti rifaccio la domanda e vorrei che tu mi rispondessi sinceramente: tu e Peeta quando proverete di nuovo ad avere un figlio?
- Non voglio avere figli – rispondo di scatto.
- Perché no?
Stringo le labbra. Quando vede che continuo a non rispondere, inizia ad affrontare il silenzio nel modo in cui faceva sempre durante le nostre prime sedute, quando io non aprivo bocca e mi limitavo ad ascoltare i suoi lunghi monologhi. Un’ora, due ore… alla lunga diventava snervante, ed alla fine ho ceduto. Ho parlato. Stavolta però torno indietro, torno a chiudermi nel mio silenzio e lo lascio discutere come se fosse da solo nella stanza. È normale avere paura, dice, è normale essere spaventati e addolorati per ciò che è accaduto, ed è naturale crearsi una corazza per cercare di proteggersi da tutto questo. Ciò che non è normale, però, è cercare di precludersi la felicità futura per ciò che è successo nel mio passato.
- Sai, non sei la prima paziente che ho avuto in terapia per la perdita prematura di un figlio… – confessa Aurelius. Sono l’unica che ha perso un figlio non ancora nato per colpa degli Hunger Games, però, penso mentre Aurelius continua il suo monologo. – Ne ho seguite molte, in verità, e a tutte loro ho dato un consiglio. Uno solo, ma sufficiente ed efficace, al contrario di tanti altri che con portano a niente. È lo stesso consiglio che sto per dare anche a te.
Il consiglio che Aurelius dà a me, e a tutte le altre donne che hanno affrontato il mio stesso lutto, è riprovare ad avere un figlio.
- Perché? – chiedo, uscendo dal mutismo. – Per rimpiazzarlo?
- No, Katniss – si affretta a dire lui. – Non per rimpiazzarlo, no. Nessuno può rimpiazzare un figlio. Per sopravvivere.

Sopravvivere.
Dopo quella seduta, Aurelius non è più tornato sulla questione ed io mi sono guardata dall’accennarla anche solo per sbaglio. La questione è rimasta in sospeso. In sospeso, ma non di certo dimenticata. Anzi, ha sorbito l’effetto contrario: non riesco a dimenticarla. Continuo a riflettere su ciò che mi ha detto anche ora che sono passati giorni da quella seduta, quasi intere settimane ormai. Aurelius ha messo un tarlo nella mia mente difficile da schiodare via.
Ed è ancora più difficile distogliere l’attenzione dal tarlo quando, con l’arrivo dell’ultimo treno, giungono diverse lettere. Una di queste, indirizzata sia a me che a Peeta, ce la manda Annie: dentro la busta ci sono diversi fogli scritti a mano e una fotografia. È la prima volta che osserviamo il volto del piccolo Finnick ed è un colpo al cuore, perché è dannatamente simile a quello del suo papà. Di diverso ha solo il colore dei capelli, più scuri come quelli della sua mamma. Nella foto, Annie lo tiene in braccio e sorride all’obiettivo mentre lui dorme.
Peeta è costretto a ripetermi più volte una frase, contenuta nella lettera, quando distogliere gli occhi da quel visino addormentato diventa praticamente impossibile. Una strana sensazione mi invade le viscere.
- Annie dice che Johanna le sta dando una mano col bambino.

Povero bambino!, penso. Ma nonostante l’ilarità nell’immaginare una Johanna alle prese con un neonato, il tarlo resta. Diventa più grande, anzi.
E lo diventa ancora di più quando, una decina di giorni dopo l’arrivo della fotografia, anche al Distretto 12 si inizia a respirare un’aria colma di gioia: anche il Distretto 12 accoglie un nuovo nato.
I neogenitori sono Alec, un ragazzo del Giacimento che ho sempre e solo conosciuto di vista, e Labela, che invece proviene dal Distretto 13. La loro assomiglia ad una storia da fiaba: si sono conosciuti un anno fa, quando il 13 accolse gli sfollati provenienti dal 12. Labela ed Alec si incontrarono subito, dato che lei faceva parte del gruppo incaricato di accoglierli e di mostrare i loro nuovi alloggi, e tra loro scattò il tanto criticato “colpo di fulmine”. Si sono sposati dopo nemmeno due mesi… e dopo nemmeno un anno di matrimonio, è nato il loro primo figlio.
Io e Peeta andiamo a trovarli a casa loro due giorni dopo la nascita del bambino. Abitano a cinque case di distanza dalla nostra, nel Villaggio dei Vincitori, e sono stati alcuni dei primi abitanti a tornare qui. Alec è voluto tornare, e Labela lo ha seguito. Per lei è stato un cambiamento notevole, dato che ha abitato per la maggior parte della sua vita nei livelli sotterranei del Distretto 13, ma non tornerebbe mai indietro. Una vita all’aria aperta è tutto ciò che aveva desiderato: quello, ed ovviamente mettere su famiglia.
La mamma di Alec ci accoglie sulla porta, felicissima di essere diventata nonna e di guidarci nel salottino dove si trova sua nuora. Ci dice che Alec è già andato al lavoro, giù ai cantieri. Labela, nonostante accusi i segni della notte passata insonne, non smette di sorridere.
- Non fatevi ingannare da questo faccino dolce: non ha fatto che urlare per tutta la notte – ci dice, riferendosi al figlio che dorme, beato, con la testa posata contro il suo seno.
Peeta è il primo ad avvicinarsi a lei per osservare meglio il nuovo arrivato; i suoi occhi sorridono forse più delle sue labbra, incantato da ciò che vede. Io rimango in disparte, incerta, con le mani ancora impegnate a sorreggere il cesto pieno di pane e dolci che Peeta ha preparato per Labela. Sento di nuovo quella strana sensazione al basso ventre, quella che ho provato quando ho visto la foto del piccolo Finnick, solo che stavolta è più forte. Ed è ancora più forte, quasi fastidiosa, quando Labela mi chiede se voglio prendere in braccio il suo bambino.
Labela dice che pesa più di quattro chili, ma quando lo posa sulle mie braccia sembra non pesare niente, ed è così profondamente addormentato da non accorgersi di non essere più accanto alla madre. La sensazione è più forte, ora, ma passa inosservata, surclassata da un senso di disagio e di irrequietezza. Ho paura di farlo cadere, ma so che non potrebbe mai accadere: non potrei mai fargli del male. Non potrei mai, mai fare qualcosa di male ad un bimbo così piccolo. I capelli neri gli ricoprono tutta la testa ed è buffo, perché ne ha tanti… tantissimi. Ed ha le ciglia scure. Sorrido, estasiata. E capisco cos’è che rappresenta la strana sensazione che sento alle viscere.

Desiderio.
E desiderio è anche ciò che mi suggerisce lo sguardo di Peeta, fisso su di me che stringo in braccio il figlio di Labela e Alec.
Lo sguardo di Peeta è il motivo principale che mi spinge a trascorrere il resto della giornata nei boschi, al di là della recinzione, ma non è l’unico. Ho bisogno di fare chiarezza sulla marea di sensazioni che mi hanno avvolta, sul desiderio che ho capito essere vivo e acceso, bruciante, dentro di me, nonostante i miei ostinati tentativi di reprimerlo, e devo fare chiarezza sul tarlo che il dottor Aurelius ha voluto fissare nella mia mente. Devo essere da sola per fare chiarezza, devo prendermi il mio tempo, e forse una giornata intera non sarà sufficiente per venire a patti con me stessa.
Non lo è, infatti.
Torno a casa dopo ore di solitudine, quando l’ora di cena è passata da un bel pezzo, quando il sole è ormai tramontato ed il cielo è acceso di arancio vivo, quell’arancio che presto diventerà blu con l’avanzare della sera. È l’arancio che piace tanto a Peeta, quello dei tramonti. È il suo colore preferito.
La cucina è accesa di arancione quando entro, carica delle mie armi e del peso della sacca di tela piena di scoiattoli; due conigli pendono dalla cintura dei pantaloni. Poggio il bottino di caccia sulla parte di tavolo rimasta libera, quella non occupata dall’impasto del pane che Peeta sta lavorando. Lui mi osserva, attento ad ogni mio movimento; posa lo sguardo sui conigli e sugli scoiattoli mentre sparge dell’altra farina sull’impasto.
- Ti ho lasciato la cena in caldo – dice.
- Grazie. Faccio prima una doccia, però – è stata una giornata calda, ed io mi sono mossa molto. Ho camminato molto per schiarirmi le idee, eppure non ho ottenuto il risultato sperato. Se possibile, sono ancora più confusa di prima.
Passo accanto a Peeta per raggiungere le scale e la sua mano mi blocca, prendendomi per un braccio. – Stai bene? – chiede.
Annuisco.
- Se c’è qualche problema, Katniss… sai che puoi parlare con me.

Sì, lo so. Certo che lo so. Ma non posso dirti nulla per ora, Peeta, anche se ti amo e anche se è qualcosa che riguarda anche te. È qualcosa che riguarda il nostro futuro insieme… ma non posso parlartene adesso. Non sono ancora consapevole di ciò che voglio, di ciò che desidero. Devo prima capire me stessa. Scusa. Scusami.
Ecco ciò che vorrei dirgli, è questo ciò che sento in mezzo alla bufera dei miei pensieri e dei miei sentimenti. Eppure, nonostante ciò, l’unica cosa che gli dico è: - Non c’è nulla che non va.
Peeta non ci crede nemmeno per un secondo, ma se lo fa andare bene.

 

Per settimane intere, per mesi, vivo in questo limbo fatto di pensieri e di dubbi. Riesco a distaccarmi abbastanza da essi da occupare normalmente le mie giornate: vado a caccia, sbrigo le mie faccende in casa, prendo parte a lunghe discussioni con Peeta e lo accompagno spesso quando iniziano i lavori di ricostruzione della panetteria. Riesco a mostrarmi allegra, per quanto io non lo sia mai stata davvero, e spontanea, anche se la mia spontaneità non ha mai ripagato molto. Provo a non far trasparire il tumulto di emozioni che ho dentro, ed il più delle volte ci riesco. Quando sono da sola, invece, le mie barriere cedono e torno ad essere taciturna, chiusa, e pensierosa. Il tumulto di emozioni che ho dentro mi invade totalmente, mi impedisce di capire cosa è giusto e cosa è sbagliato. Mi impedisce di capire davvero cosa voglio, e cosa non voglio affrontare.
In questo dovrebbero aiutarmi le sedute che continuo ad avere ogni settimana col dottor Aurelius, ma da una parte preferisco non tornare con lui sul discorso legato alla maternità. Perché è questo il motivo che non mi fa dormire la notte, che mi impedisce di accettare appieno la consapevolezza a cui sono giunta e che mi destabilizza, talmente è grande la potenza con cui mi ha assalita.
La maternità.
Il desiderio di avere un altro bambino.
È un desiderio così forte da non poter essere ignorato. Non posso semplicemente metterlo a tacere e nasconderlo in un angolino del mio cuore e del mio cervello, a seconda della fonte da cui prende forma. Non posso più far finta che questo desiderio non esista, e non posso più negare il fatto che prima o poi sarebbe sopraggiunto. Nonostante ciò che ho pensato e ciò che ho detto nell’ultimo anno, e nonostante il dolore che sopraggiungeva ogni volta a rimarcare le mie ferree decisioni, il desiderio ha prevalso sopra ad ogni cosa. Sopra al dolore, sopra alla ragione… sopra ad ogni certezza.
Ho capito di volere un altro figlio.
Ho capito di voler seguire il consiglio del dottor Aurelius, e forse è per questo che scelgo di non metterlo al corrente. So già cosa mi direbbe di fare: di andare avanti. Di proseguire con le mie intenzioni. E, magari, di mettere anche Peeta al corrente delle mie intenzioni, perché Peeta non sa ancora nulla nonostante sia passato del tempo. E di occasioni ne ho avute in abbondanza per parlargliene, ma mi sono sempre frenata.
Non ho paura della reazione di Peeta. Non ho paura di lui: so che sarebbe il ragazzo più felice della terra davanti alla prospettiva di diventare padre. Ho visto il modo in cui osservata, colpito, il bambino di Alec e Labela, ho visto i suoi occhi sorridere davanti alla fotografia del figlio di Finnick e Annie. Ed ho un ricordo vivissimo dei suoi sorrisi, delle sue carezze, delle attenzioni particolari che riservava alla nostra bambina mai nata. Mi sono sentita la persona più crudele del mondo quando gli confessai che non avrei mai più voluto avere altri figli, sapendo quanto fosse grande, in lui, il desiderio di riprovarci. So che quel desiderio è ancora forte in lui, non è svanito in questi mesi.
No, non è di Peeta che ho paura.
E la scusa di non voler far crescere un bambino nel mondo in cui viviamo, ormai, non regge più. Gli Hunger Games non ci saranno più. Tutti i bambini che nasceranno da ora in avanti non avranno più motivo di avere paura. Nessun genitore dovrà più avere paura di perdere il proprio figlio, estratto durante la mietitura.
Ciò che temo più al mondo non è perdere mio figlio per dei giochi della morte che non si terranno più. Ciò che temo più al mondo è perdere di nuovo mio figlio nello stesso, identico modo in cui ho perso il primo. La prima. Ciò che temo di più al mondo è provare ciò che ho già provato: innamorarmi di una creatura che non potrò conoscere davvero prima della sua nascita, e perderla prematuramente perché il mio corpo non è in grado di proteggerla e di crescerla come dovrebbe. Ho paura di dover dire di nuovo addio a mio figlio prima di poterlo stringere tra le mie braccia.
È una paura irrazionale, la mia, un terrore grande ed antico quanto la vita stessa. È una paura a cui non posso dare sollievo e a cui non posso trovare una vera motivazione per scacciarla. Al 13, nei giorni trascorsi in ospedale dopo essere stata fatta fuggire dall’arena, mi dissero che nonostante l’aborto non avevo subito danni all’apparato riproduttivo, e che quindi avrei potuto avere altri figli. Non mi hanno detto di non provarci mai più, o che sarei potuta incorrere in complicanze irreparabili se avessi scelto di affrontare una nuova gravidanza. Semplicemente, hanno detto che sto bene e che il mio corpo è in grado di dare alla luce un bambino senza complicanze.
La paura di perderlo, di abortire ancora, è una paura mia, interamente mia. È una paura mentale. E forse non basteranno le parole di dieci medici a farmela passare. Forse, questa paura è abbastanza potente da rendere vano tutto il resto, capace di surclassare anche il desiderio e le buone intenzioni.
Questa paura è capace di mettere a tacere tutto quanto. È capace di ergere una barriera intorno a me, abbastanza alta e solida da proteggere me stessa e capace di proteggere persino la figura ipotetica del bambino che non posso perdere, che non posso rischiare di mettere al mondo per non vederlo mai crescere davanti ai miei occhi.
La figura ipotetica del bambino che non potrò mettere al mondo torna a farmi visita quasi ogni notte, nei sogni che non mi fanno riposare serenamente e negli incubi in cui affronto di nuovo l’inaffrontabile e che mi fanno urlare, sia da addormentata che da sveglia. Stanotte, poco prima di riuscire a svegliarmi con un sobbalzo, il sogno mi ha trascinata in un posto buio, enorme, in cui risuona il pianto incessante di un bambino. Percorro questo posto in lungo e in largo, alla ricerca della fonte del pianto, ma per quanto ci provi non trovo nessun bambino. E il pianto diventa sempre più forte, più straziante, quando prendo la direzione sbagliata. E le direzioni, qui, sono tutte sbagliate. E non trovo niente. Non trovo mai niente…
Mi appoggio su un gomito e cerco di tornare a respirare normalmente. Premo una mano sugli occhi, sfinita dal sogno. Mi sento sfinita, ed ogni notte che passa questo senso di sfinitezza non fa altro che aumentare, per colpa di questi sogni. Quasi rimpiango gli incubi sanguinolenti che mi fanno rivivere gli Hunger Games. Per quelli, almeno, non posso farci nulla: sono i ricordi delle atrocità che ho visto, e ogni volta mi ripetono, mi ricordano, che non se ne andranno mai del tutto. Posso accettarlo, da un lato, così come sto cercando di accettare che non è stato per causa mia se in tanti hanno perso la vita nell’ultimo anno. Non sono stata io ad ucciderli.
Ho sete. Cerco con lo sguardo il bicchiere d’acqua che tengo sempre sul comodino, ma sulla superficie del mobile c’è solo Ranuncolo. Niente acqua. Mi giro per vedere se ce n’è un po' sul comodino di Peeta, ma oltre a non trovare ciò che cerco, scopro che neanche lui c’è. Le lenzuola nella sua parte di letto sono scostate ed ammucchiate. Forse è andato in bagno…
Ma non è in bagno. In realtà non è in nessuna delle stanze del piano superiore. Peeta si trova nello studio: ho notato la luce accesa mentre ci passavo davanti, diretta in cucina per recuperare il mio bicchiere d’acqua. Di ritorno, mi soffermo davanti alla porta socchiusa ed attraverso lo spiraglio riesco a vederlo, immerso totalmente nel suo lavoro: ha una tela davanti a sé, e non riesco a vedere nulla di ciò che ci sta disegnando sopra. Deve essersi svegliato con un’immagine davanti agli occhi, è per forza così. Non è la prima volta che si alza nel bel mezzo della notte per mettere su tela i sogni che lo hanno investito durante il sonno. I dipinti che nascono dalle sue incursioni notturne sono tremendamente tristi, ma indubbiamente belli.
Indecisa se entrare o meno, rimango ad osservarlo senza cercare di farmi notare. Mi stringo meglio addosso la vestaglia, anche se inizio a sentire ugualmente freddo. Le notti iniziano a diventare più fredde con l’arrivo dell’autunno, ma non credo che sia per questo che ho i brividi. Andrebbe molto meglio se smettessi di andare in giro scalza…
- Meow!
- Ah!
Scatto via, lontana dalla porta. Mi guardo attorno e riesco giusto a cogliere il guizzo della coda di Ranuncolo prima che questo scappi via dalla mia visuale. Contemporaneamente, Peeta spalanca la porta.
Giuro che prima o poi lo faccio arrosto, quel gatto.
- Che fai qui? – mi chiede Peeta, sorpreso. È sorpreso di trovarmi sveglia o di trovarmi lì davanti?
- Io… avevo sete – bisbiglio. È una mezza verità, la mia. – Non eri a letto…
- Ho fatto un sogno, in realtà – mi guarda e si gratta la testa come se fosse a disagio, nel rivelarmi il perché si trovi nel suo studio in piena notte. Lo sapevo già, però. – Non volevo aspettare per paura di dimenticarlo, e così… sono sceso.
Sorrido. - È stato un bel sogno almeno? – oppure era un sogno orribile, come i miei?
- Perché non entri e non giudichi tu stessa? – propone, tendendo una mano sporca di carboncino verso di me.
Dopo aver afferrato la sua mano, lascio che Peeta mi guidi fin dentro lo studio che conosco a memoria per tutte le volte che ci sono stata, sia durante le sedute di terapia che seguo con Aurelius, sia durante le ore che ci trascorro all’interno quando Peeta è immerso nella sua pittura. Mi lascio condurre da lui fino a che non mi ritrovo davanti la tela su cui è stato occupato fino a poco fa, quando Ranuncolo mi ha quasi teso un agguato. La tela è quasi totalmente bianca, se non fosse per quelle parti su cui Peeta ha tracciato un leggero disegno a carboncino. Niente tempere, stasera, niente colori: solo carboncino.
Sulla tela, Peeta ha tracciato la sagoma di una ragazza distesa su un manto d’erba ricoperto di fiori. La ragazza sorride, anche se ha gli occhi chiusi, ed ha le braccia spalancate. Sembra addormentata.

È questo il sogno che stavi facendo?
Peeta annuisce e scopro di non averla solo pensata, questa domanda, ma di avergliela proprio posta ad alta voce.
- Credo di averti sognata in mezzo al Prato, anche se non sono riuscito a riconoscerlo appieno…

Il Prato. Il luogo dove giocavano i bambini del Giacimento, il posto dove ho giocato anche io da piccola e dove, dopo la morte di papà, ho cominciato a dirigermi per raggiungere il punto più vicino della recinzione da superare per andare nei boschi. Ci ho trascorso pomeriggi interi insieme a Peeta, su quel Prato, quando la nostra storia d’amore non era altro che mera finzione.
- Che fiori sono? – domando. Ne tocco uno, e la punta dell’indice si colora di nero.
- Non sei tu l’esperta di piante? – mi prende in giro Peeta. – Sono denti di leone.
Non li avevo riconosciuti, così in bianco e nero, ma adesso che Peeta me lo ha detto riesco a vederli a colori, come se li avessi davvero davanti agli occhi. Vedo le loro corolle gialle, vedo il mare di verde trapuntato di giallo in cui si trasformava sempre il Prato durante la primavera ed immagino che sia questo il luogo in cui mi ha sognata Peeta stanotte. Immagino che sia questo, il posto in cui vorrei essere proprio adesso.
Peeta ha ricreato il Prato così com’era prima che cause di forza maggiore lo trasformassero in una enorme fossa comune per ospitare i resti degli abitanti del Distretto 12. Non è altro che un cimitero, adesso: un cimitero che si è ricoperto nuovamente di fiori, nonostante nessuno ci abbia seminato nulla sopra. La natura ha fatto tutto da sola… ha ripreso possesso di ciò che spettava a lei di diritto.
Anche i denti di leone sono tornati. Il dente di leone che fiorisce a primavera. Il giallo brillante che significa rinascita anziché distruzione, il giallo brillante che torna a manifestarsi per ricordarci, ancora una volta, che dopo la morte può esserci spazio per la vita.
Sto piangendo, e me ne accorgo tardi, quando Peeta mi ha già stretta nel suo abbraccio e cerca di capire per quale motivo io sia scoppiata a piangere in maniera così repentina davanti ad una tela incompleta. Una tela che, inconsapevolmente, mi suggerisce ciò che devo fare, ciò che sto così disperatamente cercando di seguire e che ho così disperatamente paura di realizzare.
- Stai bene, tesoro? Che succede? – lo sento borbottare.
Ci metto un po' a bloccare i singhiozzi che mi impediscono di parlare, ma ce la faccio, alla fine. Riesco a controllarli quel che basta per dirgli ciò che devo. A che serve rimandare ancora? A cos’è servito rimandare fino ad oggi?
- Proviamoci… - dico.
- Cosa dobbiamo provare? – domanda ancora Peeta. Segue col pollice la scia delle mie lacrime.
Lascio che siano i gesti a rispondere invece delle parole: i gesti, tra di noi, funzionano sempre così bene. Afferro il suo pollice, stringo la sua mano tra le mie e poi, lentamente, la faccio scivolare in basso, sempre più in basso, fino ad arrivare alla pancia. Poggio la sua mano sul punto che ha toccato così tante volte, l’anno scorso, quando la nostra bambina mai nata scalciava e si faceva spazio all’interno del mio corpo. Poggio la sua mano su quel punto anche se tremo, ed anche se temo di provare di nuovo quelle meravigliose sensazioni. Ho paura, ma voglio farlo lo stesso.
Perché se non lo facessi, sento che potrei pentirmene per tutto il resto della mia vita.
Peeta sgrana gli occhi, intuendo il perché mi stia toccando la pancia. Stringe tra le dita la mia vestaglia, e posa la mano libera sul mio viso. – Vuoi… davvero?
Annuisco. Altre lacrime scendono dai miei occhi e sono costretta a chiuderli per cercare di frenarle, ma è impossibile frenarle. Continuo a piangere, e Peeta mi stringe contro di sé, cullandomi nel suo abbraccio per tentare di calmare il pianto, o solo per assecondarlo.
Non so perché lo fa. Io so solo che sto bene quando mi abbraccia. So che le sue braccia mi fanno stare bene, e questo per me è sufficiente.
- Ho paura – ammetto con la faccia premuta sulla sua maglietta. – Che… che possa succedere ancora… non voglio che-
- Sssh – mi interrompe Peeta, stringendomi ancora di più nel suo abbraccio. – Nessuno ci porterà più via il nostro bambino. Nessuno, Katniss. Te lo prometto – le sue mani si stringono sulle mie guance e mi invita a sollevare il viso verso il suo. Asciuga con i pollici le mie lacrime, posa le labbra sulla punta del mio naso. – Mi credi, Katniss?
Annuisco. Poso le mani sulle sue e le stringo appena.

 

Viola al mattino.
Blu al pomeriggio.
Arancione alla sera.
Verde alla notte1.
Sono questi i colori che mi stanno aiutando a riprendere in mano la mia vita. Sono questi i colori che focalizzo sempre nella mente quando sono triste, o quando lo sconforto prende possesso del mio essere. Sono questi i colori che mi aiutano ad affrontare i momenti bui, i momenti difficili, e sono sempre questi i colori che ho ben fissi davanti agli occhi quando capisco che voglio di nuovo provare ad avere un bambino.
Sono questi i colori che mi aiutano ad accogliere una nuova vita.

 

 

 

 

 

_______________________________

1Purple in the morning, blue in the afternoon, orange in the evening. And green at night. Just like that. One, two, three, four.” È la citazione tratta da Requiem for a dream di Aronofsky. Ricordo che la prima cosa che ho fatto per scrivere gli ultimi due capitoli sui colori è stata proprio cercare qualcosa che potesse aiutarmi con i collegamenti. Non avevo alcuna idea di quali colori usare. E quando ho trovato questa citazione ho visto che gli ultimi due, l’arancione e il verde, sono i colori preferiti di Katniss e Peeta.
Neanche a farlo apposta.
Ormai manca un solo capitolo alla fine.
Siete pronti?

D.

   
 
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