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Autore: lucille94    23/04/2024    0 recensioni
Quando il suo nome diventa improvvisamente famoso in tutta Italia, Clarice Orsini è una ragazzina di quindici anni appena, poco più di una bambina. Ha folti capelli rossi, occhi verdi a tratti malinconici; è d'animo mite, ingenua per l'età giovanissima, chiamata dal destino - o piuttosto dalle ambizioni dei famigliari - a un ruolo per cui non è pronta, a un marito che non potrà mai comprendere fino in fondo: Lorenzo de' Medici, più tardi soprannominato il Magnifico.
Ciononostante, Clarice non è debole, perché per sostenere la pressione di un marito come il suo ci vuole coraggio, tenacia e dedizione.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Mentre a Roma Clarice si beava di nuove e inebrianti sensazioni, Lorenzo a Firenze era nel pieno dei preparativi per la sua giostra. Non era affatto un evento insignificante, anzi, tutto il contrario: la città agognava un po’ di svago da tanti anni, dopo la guerra innescata dalla congiura contro Piero suo padre. Ora, cessati i venti ostili, tutti si preparavano alla giostra, in ossequio alla tradizione di giochi cavallereschi che potevano illudere i ricchi mercanti, almeno per un giorno, di essere nobili e valorosi eroi da ciclo bretone.

Ogni buona famiglia voleva schierare il proprio paladino: c’erano i Pitti, c’erano i Vespucci, i Bracciolini, i Pazzi, e tutti ambivano al premio con uguale brama. Il rischio di sfigurare era dietro l’angolo, perciò Lorenzo pensò e operò in grande: lo stendardo fu commissionato al Verrocchio, i migliori cavalli furono chiesti in prestito ai signori più influenti della penisola. Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano e alleato prezioso della Repubblica fiorentina; Ferrante d’Aragona, unico sovrano in Italia che potesse fregiarsi del titolo di re; Federico da Montefeltro, duca ma soprattutto condottiero e, non ultimo, padrino di battesimo del primogenito di Piero de’ Medici. Lorenzo scrisse più lettere nei primi di gennaio che in molte occasioni precedenti, e ne ricevette altrettante. Si barcamenava alla scrivania del padre mentre lui stava a letto in preda ai dolori estenuanti dati dalla gotta. A sera, però, si prendeva la rivincita delle fatiche diurne con passatempi più piacevoli.

La sua brigata era composta per lo più da giovanotti più grandi di lui, alcuni dei quali già ammogliati, altri irriducibilmente scapoli. I più degni di nota erano certamente Lugi Pulci e Braccio Martelli, rispettivamente di trentotto e ventisei anni. Il primo era il discendente di una nobile famiglia caduta in disgrazia e doveva gran parte delle proprie fortune a Lucrezia Tornabuoni, che l’aveva preso sotto l’ala per la sua produzione poetica irriverente a lei molto congeniale. Era un uomo fatto, eppure ancora celibe, con il naso diritto e lungo, la fronte spaziosa e gli occhi chiari. Aveva sempre la parola pronta ed era, come la sua poesia, incline agli scherzi e a divertimenti discutibili. Il secondo, altro rampollo di famiglia nobile, era da poco sposato a una Pazzi, ma non per questo si dedicava a una vita costumata e, anzi, era spesso l’apripista di certe spedizioni notturne cui i compagni più giovani prendevano parte sull’onda del suo entusiasmo.

C’era anche Sigismondo della Stufa, un ragazzo ventiduenne, amico di più lunga data di Lorenzo e a lui più vicino per età; aveva i capelli castani e gli occhi cristallini di un animo fedele e ponderato, ma, trascinato dalla brigata, non si tirava indietro qualora si paventasse qualche impresa. Parimenti amici di vecchio conio erano Dionigi Pucci e Gianfrancesco Venturi, di ventitré e venticinque anni, che si distinguevano dai precedenti per l’appartenenza a famiglie di mercanti: il primo era spigliato fino alla spudoratezza e non brillava per creatività artistica, disinteressato com’era alle materie poetiche e più legato al mondo economico che era il pane di suo padre e dei suoi zii; il secondo, biondo come biondi erano tutti i suoi parenti per parte di madre, era il saccente della combriccola, l’anima polemica, l’indisponente, ed era in costante competizione con Lorenzo in ogni campo, senza però che questo intaccasse il loro rapporto.

A Firenze tale brigata era famosa e il cipiglio scorbutico di Piero, quando ne parlava, tradiva tutta la disapprovazione di un padre che vede uscir di casa il figlio e non vuole immaginare a quali bagordi andrà incontro.

La scena si ripeté per l’ennesima volta alla conclusione della cena del dì 30 gennaio 1469. Mentre Piero addentava pacifico un boccone di pane a fine pasto e tendeva la mano alla coppa d’acqua che gli avrebbe tolto quel po’ di sete che aveva, vide Lorenzo alzarsi e scrollarsi le briciole dalla giornea pesante che aveva tenuto addosso dopo essere tornato da una passeggiata con Giuliano. Lucrezia notò il guizzo nello sguardo di suo marito, ma ritenne fosse meglio tenere la bocca chiusa.

«Dove vuoi andare con questo tempaccio, tu?» disse all’improvviso, presentendo già una risposta che non si fece attendere. «Vo coi compagni a rinfrescarmi», fece Lorenzo, incorreggibile, rimettendo la sedia al posto e afferrando, come un ladro la refurtiva, una mela verde.

Piero non rimase impassibile. «Sicché vorresti andar di fuori con la neve a mezza gamba e la tramontana?»

«Vo anch’io!» esclamò Giuliano, balzando in piedi con gli occhi scintillanti; sua madre, con un solo cenno della testa, lo rimise letteralmente al suo posto. Lorenzo, vedendo che la resistenza dei genitori non poteva più porre tanto freno alle sue scorribande, sogghignò e si avviò verso la porta gongolando. Prima di lasciare la sala, si volse e: «Arrivederci a domattina!», quindi chiuse la porta dietro di sé.

Indossò un mantello pesante e un berretto che gli riparasse anche le orecchie; affacciandosi su via Larga, gettò un’occhiata a destra e una a sinistra. La sua attenzione cadde immediatamente su un gruppetto di persone che sostava dall’altro lato della traversa su cui si affacciava il lato nord del palazzo. Rabbrividì muovendo il primo passo: sebbene indossasse gli stivali, infatti, il freddo gli penetrò fin nelle ossa facendolo esitare. Tirò bene il mantello sul collo e, testardo, si incamminò nella neve. Il gruppetto, che nel frattempo si era accorto di lui, lo guardava avvicinarsi. Nella penombra – nessuna fonte di luce era loro necessaria per raggiungere una meta ben conosciuta – era impossibile riconoscere i visi di ciascuno, ma Lorenzo si orientò indovinando dall’altezza e dalla stazza la loro identità. Quando fu ormai a breve distanza, si accorse che erano quattro.

«Dov’è Luigi? Abbandona l’impresa?» fu dunque la prima cosa che disse, una volta giunto presso di loro. Sorse una risatina sommessa, poi: «Ha l’umor nero in questi giorni e non gli va di divertirsi», rispose la voce ancora acuta di Dionigi. Lorenzo storse la bocca in una smorfia di dispetto. «Peccato! Mi sarebbe piaciuto dire di esser sesto tra cotanto senno1

«Lascialo perdere, vedrai che domattina se ne sarà già pentito», ribatté prontamente un altro, cingendogli le spalle. Era Braccio Martelli, il maggiore tra tutti per età, con la sua disinvolta andatura da capobrigata. Lorenzo gli tenne dietro incespicando nei cumuli di neve che erano raccolti a lato della strada.

Si diressero senza indugi verso l’Arno, a sud, attraverso il rione di Santa Croce. Sulle rive del fiume, non tanto distante dalla grande chiesa di Santa Reparata, sorgeva la Taverna della Baldracca, dove loro erano accolti sempre come avventori abituali. Il brutto tempo rallentò leggermente la passeggiata e non fece altro che accrescere il desiderio di un posto caldo, di vino e di divertimento. Fu Sigismondo ad aprire la porta della taverna: i cinque ridevano di cuore per l’ultima frecciatina scoccata dalla lingua tagliente di Giovanfrancesco Venturi. I rampolli delle migliori famiglie fiorentine sfilarono tra ubriaconi e sgualdrine andando a occupare un piccolo tavolo nell’angolo vicino alle scale: questo avrebbe permesso loro di salire agilmente al piano di sopra al momento giusto.

Dionigi Pucci ordinò vino per tutti e Braccio brancò una ragazza che, fingendo noncuranza, gli era passata accanto. Prese a baciarla appassionatamente, poi, a un tratto, la fece scivolare sulle gambe di Sigismondo, che lo imitò senza bisogno di ulteriori incitamenti. Lorenzo lanciò un urlo di approvazione e tutta la brigata gli si associò con applausi e commenti decisamente spinti. La ragazza sorrise lasciva e si spostò in braccio a Dionigi, baciandolo per terzo; quindi toccò al Medici che, avendola aspettata con impazienza, le diede il bacio più lungo e intenso. Nel frattempo giunsero due serve con calici e fiaschetti: una la ghermì Gianfrancesco, l’altra Sigismondo.

«Questa», esclamò il primo, stringendo bramoso la ragazza, «è una faccia nuova! Come ti chiami, fragolina?»

«Matilda, messer mio.»

«Guarda, Lorenzo!» riprese lui, baciandole le labbra una, due, tre volte con trasporto. «Matilda è mia, intendi? La voglio tutta per me, e tu non l’avrai!»

Lorenzo scoppiò a ridere. «Ma se me la sono fatta la settimana scorsa! Impara da Luigi a startene a casa, vedi come finisce!»

Gianfrancesco grugnì un insulto, arraffò la propria coppa e tracannò il contenuto, poi, pulendosi la bocca con il braccio, sbottò: «Non ho mai avuto alcuna voglia che non ti sia cavata prima tu, maledetto Medici!»

«Certo! Guarda se si può portare avanti tante faccende come vuoi fare tu, Francesco!» ribatté Dionigi Pucci. «Che alla fine non ne fai mai nessuna!»

Crescendo il consumo di vino, crebbero i toni. Nessuna ragazza poté più sgattaiolare nei pressi di quel tavolo senza attirarsi motteggi piccanti, occhiatine o baci appassionati. Prima che gli spiriti bollenti degenerassero pubblicamente, Braccio Martelli si alzò barcollante e, sceltasi una compagna, si affrettò su per le scale; in un battito di ciglia, tutti gli andarono dietro, litigandosi le carezze delle altre due fanciulle che erano rimaste prigioniere del vortice della loro lussuria. Non ci sarebbe stato granché da litigare, però, e la cosa assumeva i tratti di un gioco seduttivo più che di una vera e propria contesa: si infilarono, uno dietro l’altro, nella medesima stanza, e Dionigi, forse più accorto degli altri, chiuse la fila entrando in trionfo con due fiaschetti colmi nelle mani tenute alte. La porta appena chiusa, e Braccio era già avvinghiato alla bella prostituta che si era accaparrato; i restanti prodi seguaci di Venere, da un lato il vino e dall’altro una coscia o un seno scoperti, si lasciavano svestire dalle ninfette disinibite da loro conquistate.

«Tieniti stretto Matilda, Francesco, che Lorenzo te la sta guardando», rise Sigismondo lasciando cadere la propria giornea di vellutino blu sulla pediera del letto. Il Venturi, ingelosito, lanciò un’occhiata di sfida all’avversario e si coricò sulla fanciulla prima che questa potesse dire be. Non che lei fosse scontenta, affatto! Rise di una risata civettuola che suscitò la pelle d’oca ai giovani rimasti senza compagnia, per cui gli occhi di tutti corsero alla terza prostituta, loro vecchia conoscenza: si chiamava Linora e veniva da Parma, viveva a Firenze da tre anni ed era nell’età migliore, i venticinque anni. Dionigi, più attratto dal vino che da lei, non si dispiacque di prendere due sorsi a canna, mentre Sigismondo e Lorenzo allungavano le mani alle vesti ormai succinte che le velavano il corpo florido. Lei, per gioco, rifiutò l’uno e l’altro, poi si protese e li baciò a turno immergendo le mani tra i loro capelli.

Lorenzo rabbrividì, cercando le sue labbra come fossero di miele, ma l’amico lo trattenne e, prendendolo in giro, sussurrò: «Non vuoi tenerti casto e puro per la moglie romana?»

Si guadagnò uno spintone, ma Lorenzo rideva e toccava senza pudore le forme generose di Linora. «Zitto e godi, bischero», e prendendo una coppa lo forzò giocosamente a bere. «E tu, avaro, facci spazio», aggiunse alla volta di Giovanfrancesco ormai nel pieno dell’amplesso con Matilda. Questi, in tutta risposta, replicò: «Sta’ in piedi, che non mi fido».

«Temi per Matilda o piuttosto per te?» ridacchiò Dionigi, brandendo il fiaschetto nella destra. Giovanfrancesco si volse a lui con una smorfia. «Alla larga tutti voi tre», borbottò prima di tornare al proprio trastullo.

«Grullo!» esclamò Sigismondo, ma Lorenzo fece spallucce. «Lascia perdere e prendila in braccio, che chi s’accontenta gode e noi godremo più di lui.»

 

1Citazione da Inferno, IV v. 102

   
 
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