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Autore: AveAtqueVale    24/04/2024    0 recensioni
Alexander Lightwood è un giovane uomo di ventitré anni costretto dai suoi genitori a frequentare, settimanalmente, un noto psicologo che in qualche modo gli capovolgerà l'esistenza.
Magnus Bane è un brillante e ricercato psicologo incapace di affezionarsi ai propri pazienti -per lui semplici casi da comprendere e rimettere in sesto come fossero puzzle da ricostruire- che si ritroverà ad avere Alexander in cura, ritrovandosi spiazzato dalle loro stesse sedute.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Isabelle Lightwood, Magnus Bane, Maryse Lightwood, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Il suono della sveglia si fece man mano strada tra i suoi sensi.
Lo trascinò via dalla dolce inconsistenza dei suoi sogni e lo portò a sospirare rassegnato. Senza ancora aprire gli occhi, nel giro di pochi attimi, Magnus si rese conto di due cose.
La prima, che aveva dormito profondamente come non faceva da anni.
La seconda, che non poteva muoversi.
Qualcosa lo teneva saldamente bloccato sul posto, facendo forza sul suo fianco. Aprendo confusamente gli occhi la prima cosa che vide davanti a sé fu il viso di Alexander. Il suo respiro scivolava caldo sulla sua pelle, la sua espressione era leggermente corrucciata, forse infastidita dal trillo della sveglia che ancora risuonava nella stanza. Era terribilmente vicino e lo teneva stretto. Ora che era perfettamente cosciente e sveglio, Magnus poteva distinguere meglio tutto ciò che accadeva attorno a sé; poteva sentire il braccio del ragazzo sul suo fianco e la sua mano abbandonata dietro la schiena. Poteva sentire i loro piedi leggermente intrecciati, il calore del suo corpo che l’avvolgeva come una coperta.
Riscoprì il proprio battito leggermente accelerato nel petto.
Da quanto tempo non si risvegliava accanto a qualcuno a quel modo?
Da quanto tempo non lo stringevano così? Come non volessero più lasciarlo andare?
I suoi pensieri vennero interrotti dal roco mugugnare infastidito del ragazzo.
Magnus tentò di ruotare nel suo abbraccio per cercare di raggiungere la sveglia sul suo comodino ma, nel momento in cui provò a muoversi, la stretta di Alexander si fece più decisa e pressante.
Allo psicologo salì spontaneo un sorriso alle labbra.
«Uhm…» si schiarì piano la voce, sentendosi piccolo tra le braccia dell’altro. «Alexander?»
Il ragazzo mugugnò ancora, contrariato, e arricciò l’espressione del viso.
Il livido sul volto dovette dolere a quella contrazione perché ci fu un rapido sibilo sofferente.
In pochi istanti Alexander aprì confusamente gli occhi, palesemente spaesato.
Magnus lo guardava divertito, intenerito da quel nuovo aspetto dell’altro.
Ci volle qualche momento perché il ragazzo realizzasse la situazione.
Come si fosse scottato, ritrasse tutto il suo corpo da quello di Magnus, rosso fino alla punta dei capelli.
Magnus si volse a spegnere la sveglia ridacchiando divertito.
«S-scusami. Non–non volevo! Cioè…» tentò di scusarsi alzandosi a sedere, i capelli sconvolti dalla nottata di sonno.
Lo psicologo si alzò a sedere a sua volta guardandolo con un sopracciglio sollevato.
«Non volevi?» chiese piegando una gamba così da poggiare il gomito sul ginocchio e reggersi il mento con una mano. «Dovrei ritenermi offeso?» scherzoso, ammiccante, mentre i suoi occhi verdi sembrarono quasi scintillare nelle prime luci del mattino.
Alexander arrossì ancor più violentemente, tirando via il cuscino da dietro la sua schiena per spingerselo in faccia e nascondercisi.
Magnus rise a gran voce di quel gesto così tenero e spontaneo uscendo alla fine dalle coperte.
Decise di lasciarlo sbollire l’imbarazzo da solo per un po’, iniziando a prepararsi per la sua giornata.
Andò in bagno dove si diede una lavata veloce al viso, ai denti e alle braccia. Si rasò il volto e procedette con la sua routine di bellezza quotidiana fatta di mille creme e oli profumati. Passò infine al make-up ed alla spazzola. Sistemò i capelli in spettinate spine ben fissate verso l’alto e sparse su di quelle una spruzzata di glitter abbinati al trucco di quel giorno: rosso fuoco.
Quando uscì dal bagno Alexander era in soggiorno, tornato nei suoi vestiti, chino sui talloni a grattare le orecchie di Presidente Meow.
Il gatto gli faceva felice le fusa in una scena così spiccatamente domestica da arrestare per un istante l’incedere dello psicologo.
Deglutendo, si defilò in camera per vestirsi, sentendosi lievemente turbato.
Quella scena, per qualche motivo, gli aveva fatto male.
Non in modo profondo, acuto, ma sottile. Dolce.
Si ritrovò a fissare gli abiti smessi di Alexander lasciati ripiegati sul letto mentre, sovrappensiero, abbottonava la camicia.
Finì di vestirsi con la stessa espressione assorta, il cuore in subbuglio, fino a che non fu totalmente pronto.
Camicia nera, panciotto borgogna e cravatta rossa. Un paio di pantaloni di pelle neri e di anfibi ricchi di catene e borchie d’acciaio completavano il look assieme ad una serie di braccialetti ed anelli luccicanti.
Una spruzzata di profumo ed eccolo di ritorno nel salone dove Alexander, adesso, stava sistemando due tazze di caffè sul tavolino.
«Uhm… non so come lo prendi di solito quindi non ho messo né latte né zucchero.» disse sollevando la testa, la mancina a grattare nervosamente la nuca.
Nel momento in cui vide la figura dello psicologo si arrestò a fissarlo come incantato per un lunghissimo istante prima di schiarirsi la voce e distogliere rapidamente lo sguardo.
«…Quindi – uhm… come lo prendi?» chiese impegnandosi a destreggiarsi fra il cartone del latte e il contenitore dello zucchero nel vassoio sul tavolino.
Magnus si aprì in un sorriso gentile, un calore benefico ad invadergli il petto.
«Amaro. Grazie, Alexander.» disse avvicinandosi, allungando una mano per accogliere la tazzina che il ragazzo gli porse poco dopo.
Era evidente che il giovane stesse evitando di guardarlo in viso, faceva di tutto per guardare altrove, portando Magnus a ricercare il suo mento con le dita per guidare il suo volto verso di sé.
«Alexander» lo chiamò con voce calma, ferma. «Guardami.»
Il ragazzo si irrigidì appena nella sua presa, le gote rosse d’imbarazzo, ma ubbidiente.
I loro occhi s’incontrarono e lo psicologo gli rivolse un sorriso gentile.
«Ecco. Molto meglio.» disse con tono leggero, ritraendo la mano e sorseggiando il suo caffè. «Hai bisogno che ti accompagni a casa prima di andare al lavoro?»
Il moro schiuse le labbra perdendo in un istante ogni traccia d’imbarazzo, adombrandosi appena in volto.
«…No. Credo sia meglio che passi da Jace per chiarire con lui, prima.»
Magnus annuì, posando poi la tazzina vuota di caffè sul tavolino.
«Sì, penso sia meglio.» concordò. «Tu stai bene?»
Il ragazzo sembrò prendersi qualche attimo per soppesare la domanda prima di sollevare lo sguardo e posarlo sul volto dell’altro.
«Credo di sì.» si fermò brevemente aggrottando dubbioso le sopracciglia. «Non avevo mai pensato che sarebbe venuto il giorno in cui avremmo parlato. Non di questo… è strano.»
Lo psicologo mosse un paio di passi e poggiò le mani sulle sue spalle, un sorriso incoraggiante a distendergli le labbra carnose.
«Lo so. Ma forse è arrivato il momento di toglierti questo peso, non credi?»
Alexander strinse le labbra in una linea sottile.
Era evidente che non fosse pienamente convinto, la battaglia interiore che si stava svolgendo dietro quei denti serrati.
«…Mh.» annuì alla fine, cupamente.
Magnus sfiatò piano, dal naso, e ritrasse le mani.
«Bene allora. Affrontiamo questa giornata!»
 
*
 
Persino respirare gli faceva male.
Ogni volta che inspirava dal naso, l’ematoma che gli circondava l’occhio pulsava dolorosamente ricordandogli della propria presenza. Della sua idiozia.
Forse un po’ se lo meritava quel dolore.
Alec aveva le mani ostinatamente infilate nelle tasche del suo giubbino, poggiato di schiena contro un lampione. Calciava pigramente la ghiaia sotto i suoi piedi con la punta della scarpa destra mentre il cielo sopra di lui minacciava una bella nevicata. Era bianco in maniera inquietante, denso, striato di grigio in più punti. L’aria era fredda, tagliente, poteva sentirla strisciargli fin dentro le ossa.
Qualche bambino si rincorreva in maniera impacciata a causa dei numerosi strati di vestiti sotto i loro giubbottini imbottiti, i loro genitori li seguivano più lentamente, poco distanti, attenti a non perderli di vista. Una palla colorata rotolava spinta dai loro piedini frenetici.
I giochi offerti dal parco non erano particolarmente sicuri con quel clima; sugli scivoli e sulle catene delle altalene tendevano a formarsi strati di ghiaccio, per cui la zona dedicata al divertimento dei più piccoli era momentaneamente chiusa. Ciò non avrebbe comunque impedito ai bambini di trascorrere qualche ora di gioco all’aria aperta.
C’era stato un tempo in cui Alec aveva portato Max a giocare in quello stesso parco.
Allora non poteva capire quanto preziosi fossero quei momenti.
Un calcio particolarmente forte -e mal direzionato- lanciò la palla lontano dal bambino che avrebbe dovuto riceverla, facendola rotolare rapida per tutt’altra strada, dove venne prontamente fermata dal piede di qualcuno.
Jace iniziò a palleggiare disinvolto con le mani comodamente riposte nelle tasche del suo giubbotto. Con un sorrisetto tranquillo mostrò ai bambini qualche gioco di piede, un paio di acrobazie, portandoli a fissarlo ammirati e rapiti.
Dopo qualche secondo l’afferrò tra le mani, sfilandole dal loro caldo rifugio, e si chinò sui talloni alla loro altezza.
«Di chi è questa?» chiese ai due bambini in piedi davanti a lui.
Uno dei due, un ragazzino di forse sette anni dalla pelle scura e i grandi occhi nocciola, indicò l’altro. «Sua»
Jace allora si voltò verso l’altro bambino e, con uno dei suoi migliori sorrisi, gli restituì la palla allungandogliela con una mano.
Questi l’afferrò timidamente e, abbracciata al petto, l’osservò meravigliato.
«Come fai a non farla mai cadere?»
«Beh, il mio è un talento naturale, ma se ci provate tante volte potete riuscirci anche voi. Basta impegnarsi! E le verdure. Soprattutto tante verdure.» disse con quel suo tono assolutamente disinvolto e convinto che Alec non sarebbe mai riuscito ad imitare. Era assurdo quanto poco gli bastasse perché qualcuno si ritrovasse a pendere dalle sue labbra a quel modo.
«Le verdure?» chiesero all’unisono i due bambini, confusi.
«Ma certo!» esclamò lui alzandosi in piedi. «Servono per far crescere le gambe. Vedete?» disse allungando una gamba come per fargliela vedere meglio. «Quando ero piccolo le verdure non mi piacevano ed ero sempre il più basso della classe. Poi un giorno mio padre mi costrinse a mangiarle e da allora ho iniziato a crescere e crescere fino a diventare alto così.» raccontò ergendosi fiero in tutta la sua statura, i piccoli ad osservarlo stupefatti e ammirati.
 Era chiaro che si divertisse a parlare con i due marmocchi, che non era affatto un peso o una noia per lui. E questo era evidente anche ai due pargoli. Stavano lì a fissarlo come se fosse il loro nuovo eroe, tutti contenti ed entusiasti di quel loro nuovo incontro.
Anche Max tendeva ad avere sempre la stessa espressione quando parlava con Jace.
Ma lui era fin troppo intelligente per credere alla storia delle verdure e difatti il biondo tendeva a parlargli come fosse un piccolo adulto. E a Max questo piaceva. Lo faceva sentire più grande, più tenuto in considerazione. Alec era sempre stato più pesante, in questo senso. Lo trattava come un bambino, gli ricordava di mettere in ordine, di non fare chiasso, di mangiare tutto. Probabilmente era per questo che Max giocava poco con lui e preferiva la compagnia del ben più spensierato Jace…
La voce della madre di uno dei due bambini, li richiamò all’ordine.
I due salutarono il loro nuovo amico con la manina e tornarono correndo dai loro genitori.
Jace a quel punto tornò a camminare verso Alec, sollevando una mano per aria in segno di saluto.
«Ehi» salutò Alec distaccando la schiena dal palo della luce, abbozzando un sorriso nervoso e impacciato con l’angolo delle labbra.
Quando fu abbastanza vicino, Jace si fermò di colpo sgranando appena gli occhi.
«Ehi, è un occhio nero quello?» chiese esterrefatto, indicando con l’indice destro il viso dell’amico. «Che diavolo è successo?»
A quel punto Alec si era dimenticato che Jace non sapesse nulla del suo piccolo incidente. Aveva dimenticato che avrebbe dovuto spiegargli tutto, troppo assorbito da ben altri pensieri.
«Ah – sì.» disse il ragazzo grattandosi la tempia opposta con l’indice. «Una piccola rissa. Non è niente.»
«Non è niente?» la voce di Jace era gravida di sgomento. «Ieri sei scappato via, hai passato la notte fuori, non hai risposto a nessuna chiamata, ti presenti qui con un occhio nero e ti aspetti che mi basti un “non è niente”?» Il tono non era arrabbiato, se possibile sembrava quasi – divertito? dalla sola possibilità che il mite e tranquillo Alec avesse chissà quale assurda storia da raccontare.
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo pentendosene all’istante.
Trattenne un verso strozzato per il dolore e quindi sbuffò scuotendo la testa.
«È un occhio nero, mica un foro di proiettile…» brontolò trovando più difficile pensare di raccontare quella faccenda che non affrontare il vero punto della questione. Sospirò.
«Dopo che me ne sono andato, ieri, sono finito in un bar. Ero nervoso, volevo fare qualcosa per distrarmi, per non pensare.» iniziò a raccontare, incamminandosi assieme a Jace verso la zona dei giochi. Ignorarono il cartello che dichiarava la zona chiusa al pubblico e andarono a sedersi sulle due altalene, dondolandosi pigramente con la sola spinta dei piedi contro il selciato.
«Ho bevuto un po’ troppo e ho iniziato a discutere con uno zoticone che mi stava fumando addosso.»
Jace era incredulo mentre l’osservava. Ascoltava in silenzio fissandolo con gli occhi grandi di sorpresa, incerto su come rispondere a quel racconto a dir poco surreale.
«…E avete finito con il menarvi.» concluse per lui il racconto.
Alec si strinse nelle spalle, annuendo.
Preferì evitare di raccontare dell’arrivo della polizia e di come Magnus fosse stato chiamato per prelevarlo dalla centrale.
«Cavolo.» commentò semplicemente Jace, alla fine, palesemente -e stranamente- a corto di parole. «Alec Lightwood con un occhio nero. Sfida tutte le leggi dell’universo.»
Alec rise sotto i baffi.
«Sì. Forse sì.»
Rimasero in silenzio a dondolarsi piano sulle altalene per diversi secondi.
Aliti di vento freddo scivolavano sui loro volti, portavano con sé l’odore della neve imminente.
«Mi dispiace. Per ieri.» La voce di Jace adesso era più seria, più attenta.
«Non devi.» rispose dopo alcuni istanti Alec, sentendo il cuore che gli batteva nervoso nel petto. Riempì d’aria i polmoni cercando di darsi coraggio, di assimilare con quella quanta più forza possibile per proseguire. «Avevi ragione.» aggiunse.
Fu strano rendersi conto che quelle parole vennero fuori con estrema scioltezza.
Fino ad un solo istante prima, Alec era convinto che non sarebbe mai riuscito a parlargli con tanta chiarezza, con tanta semplicità. Era certo che non sarebbe riuscito ad affrontarlo a dovere, che sarebbe fuggito di nuovo, lasciandolo probabilmente a metà, negando ancora i propri sentimenti per ripararsi dietro una bugia che per tanti anni era stata il suo porto sicuro, il suo nido e rifugio.
Eppure adesso si rendeva conto di quanto fosse stato – facile. Naturale, persino.
Di quanto pronunciare quelle due semplici parole, avesse sollevato un peso che per troppi anni aveva finto di non vedere, che aveva ignorato fino a dimenticarne l’esistenza.
Jace schiuse le labbra, sorpreso, voltando il capo in direzione dell’amico.
«O almeno in parte.» continuò Alec mordendosi l’interno della guancia. «È vero che mi piacevi e che avevo una cotta per te. Ma non è per questo che in questi anni… Non è questo che…» la sua voce sfumò mentre faticava a trovare le parole. Strinse le labbra scuotendo piano la testa, frustrato. 
Adesso veniva la parte difficile.
Adesso tornava a farsi sentire, pulsante, la paura.
Espirò piano, cercando di riordinare i pensieri.
Tentò di ricordare come solo la sera prima fosse riuscito a parlarne con Magnus, come era riuscito ad ordinare il discorso. Aveva difficoltà a ricordarlo chiaramente, sprazzi confusi di quella sera si affacciavano nella sua mente come fotogrammi sconnessi.
«Non volevo che lo sapessi. Che lo sapesse nessuno.» riprese umettandosi le labbra secche dal freddo. «Non ero certo io stesso di cosa significasse, non mi era mai interessato nessun altro prima dopotutto.» ammise tentando di dare un nuovo ordine ai propri pensieri. «Ero confuso. E un po’ avevo paura di cosa avrebbe significato per me se mi fossi reso conto di essere effettivamente…» Arrossì vistosamente prima di sussurrare con un filo tremante di voce quell’ultima parola: «…gay.»
Jace non disse nulla.
Non commentò, non fece battute, né liberò un singolo fiato.
Paziente, rimase seduto al suo posto, lasciando modo all’amico di trovare i propri tempi. Alec gliene fu grato.
Ebbe bisogno di qualche momento per capire come affrontare il discorso, come continuare il racconto. Il pensiero che quella fosse già la seconda volta in meno di ventiquattro ore che lo faceva era assurdo, eppure sentiva che per quanto difficile potesse essere era semplicemente necessario.
«Così decisi di non pensarci per il momento. Decisi di aspettare, mi dissi che prima o poi avrei capito e che ogni dubbio se ne sarebbe andato da solo se mi fossi dato il tempo di capire i miei stessi pensieri, i miei – sentimenti.»
I primi fiocchi di neve cominciarono a scendere, cadendo in lente traiettorie ondeggianti nell’aria.
Il tono di voce di Alec si fece più teso, più cupo.
Jace poteva chiaramente percepire in quel sottile mutamento l’approcciarsi del grande scoglio. Del punto zero. Strinse a sua volta la mascella senza rendersene realmente conto.
«Un’estate, un pomeriggio, ti addormentasti sul mio letto.» Lo sguardo del ragazzo si fece distante davanti a sé. Non vedeva nulla di quanto aveva di fronte, i suoi occhi erano fermi su un ricordo lontano nel tempo. Poteva chiaramente vedere la sua stanza prendere forma nella sua mente, i lineamenti del ragazzo steso sul suo letto, il modo in cui i raggi del sole illuminavano i suoi capelli color dell’oro. Ricordava quel momento tanto chiaramente che, a dispetto della neve che stava iniziando a scendere sottile, poteva quasi percepire il calore gentile del sole sulla pelle. «Ero seduto accanto a te e ti osservai riposare per cercare di capire cosa provassi…» Contrariamente a quanto avrebbe creduto, non sentì il viso avvampare, non provò particolare vergogna nel descrivere quel momento nonostante fosse proprio Jace la persona a cui lo stava raccontando. Sentì solo il familiare senso di nausea e terrore, la colpa che gli saliva fino alla gola, togliendogli il respiro. Deglutì a fatica. «E mentre ero lì, Max entrò in camera, voleva salutarti.»
L’espressione del biondo mutò improvvisa.
Aggrottò la fronte, le sopracciglia basse sugli occhi. Era evidente che non capisse cosa Max c’entrasse in tutto questo. Ovviamente anche lui ancora oggi soffriva alla menzione del bambino: per Jace era un fratellino tanto quanto lo era per i fratelli Lightwood, dopotutto.
Parlarne con Magnus era stato molto più semplice di quanto si stava rivelando farlo con Jace. D’altronde Magnus non aveva mai conosciuto Max. Non gli aveva voluto bene. Quello di Alec era stato un racconto come un altro per lui, per quanto triste e intenso potesse essere stato. Ma Jace… Jace lo aveva conosciuto. Gli aveva voluto bene. E lui glielo aveva portato via.
Alec sbuffò una risata muta, l’espressione triste, distante.
«Non vedeva l’ora che tu tornassi a trovarci…» ricordò amaramente, la voce bassa. Tacque per un lungo istante, cercando di trattenere ancora per un istante la voce del fratellino che lo tormentava per sapere quando Jace sarebbe tornato a cena da loro. Dopo tutto quel tempo, era certo che quella nella sua mente, fosse una versione distorta e fittizia della sua vera voce; adesso, pensò, sarebbe stata decisamente più scura, più grave, priva di quella nota infantile tipica dei bambini.
Jace abbassò lo sguardo, fermando con i piedi il lento oscillare dell’altalena.
«Quando mi vide osservarti in quel modo capì all’istante cosa stava succedendo. Doveva essere davvero lampante se persino lui aveva capito cosa provavo con un solo sguardo…» realizzò solo in quel momento con amarezza, un sorriso spento e triste a distendergli le labbra gentili. Tutti avevano capito i suoi sentimenti, già da allora.
Tranne lui.
«Iniziò a sfottermi, cantilenando che mi piacevi.» Attese un istante, lo sguardo ancora fisso sul selciato davanti a sé. «Nel panico mi alzai di scatto dal letto, volevo raggiungerlo per pregarlo di non dire a nessuno cosa aveva appena visto. Ma lui iniziò a correre, non voleva farsi afferrare…»
Anche Alec smise di dondolarsi sull’altalena.
I piedi s’impuntarono contro il terreno irregolare, il sedile si fermò accompagnato dal sottile cigolare delle catene. Il silenzio tra loro era denso, pesante. Jace si voltò a guardarlo bianco come un cencio.
«Cadde dalle scale per non farsi prendere da me.»
Alec sollevò lo sguardo e lo volse verso il ragazzo al suo fianco.
Lo fissò in volto, gli occhi lucidi di lacrime appena sbocciate, l’ematoma ancora più visibile contro il pallore malaticcio della sua pelle.
Era evidente, dal tono della sua voce, che non sarebbe riuscito ad aggiungere altro. Che non c’era altro da dire. Jace lo guardava a labbra schiuse, l’espressione stravolta e turbata.
«Tu – per tutti questi anni…» la voce di Jace era bassa, esitante. Alec non riuscì a sostenere oltre il suo sguardo, temendo cosa l’altro avrebbe potuto pensare di lui adesso che finalmente sapeva la verità dei fatti. Cosa aveva ucciso il piccolo Max tanti anni prima. Chi. Chiuse gli occhi per sfuggire a quel confronto, la testa china tra le spalle.
Il silenziò che seguì le parole del biondo parve protrarsi all’infinito, facendo bruciare le lacrime rimaste intrappolate sotto le sue palpebre.
Un istante più tardi, Alec si sentì strattonare verso l’alto, tirare in piedi dalla mano di Jace che, alzatosi, se lo tirò addosso in un abbraccio spezza-fiato.
«Hai pensato che fosse colpa tua?» Quello di Jace era un sussurro fragile al suo orecchio, un soffio a stento sfuggito dalle sue labbra. Mai prima di allora lo aveva sentito tanto vulnerabile e indifeso, così attento. E ora eccolo lì, a tenere il viso premuto contro la sua spalla, mentre lo circondava con le proprie braccia quasi volesse nasconderlo con esse al mondo esterno. Era una stretta forte, solida, sicura. Jace si era reso scudo e rifugio per lui e, per quanto il moro fosse sempre stato il più alto tra i due, adesso sembrava divenuto incredibilmente piccolo nella sua presa.
Alec sgranò gli occhi lucidi tirando meccanicamente fuori le mani dalle proprie tasche. Gli ci volle qualche istante per trovare la forza di ricambiare quella stretta liberando quel pianto sommesso che come un fiume in piena gli salì alla gola.
 Jace imprecò al suo orecchio con voce spezzata, stringendo ancora di più la stretta, affondando le dita tra i suoi capelli corvini. Guidò la testa di Alec contro la propria spalla, lo lasciò piangere contro di quella incassando l’enormità di quella rivelazione, accogliendo il peso di quel fardello che per troppo tempo l’altro aveva portato con sé.
 «Sei proprio un idiota» riprese dopo un tempo incalcolabile, con dolcezza, la voce più ferma e stabile mentre i fiocchi candidi presero a piovere fitti attorno a loro. «Non lo hai mica lanciato tu giù dalle scale. È caduto. Solo caduto, Alec… Sarebbe potuto succedere in qualsiasi altro modo. Quante volte abbiamo giocato io e lui così? Certo, io lo prendevo sempre perché sono fantastico, ma…» Alec gli batté una mano chiusa a pugno tra le scapole in un buffetto che volesse silenziosamente dirgli “sei proprio uno stupido”, il respiro spezzato da un singhiozzo. Jace sorrise di quel colpo, sentendo il respiro di Alec mutare, farsi meno pesante e angoscioso dopo quel lieve singulto, come se con le sue lacrime, anche parte di quel peso stesse scivolando via da sé. «…Non è colpa tua.»
Alec riaprì gli occhi, fermo in quell’abbraccio.
Sentire Jace che lo assolveva da quella colpa fu come tornare a respirare dopo anni passati travolti dalla corrente, rubando piccoli respiri affrettati tra una boccata d’acqua e l’altra, senza mai trovare reale sollievo.
Anche se gli aveva rivolto praticamente le stesse parole che Magnus aveva usato la sera precedente, l’effetto fu totalmente diverso. Sentire Jace confortarlo e rassicurarlo era riuscito a calmarlo come le parole dell’altro non erano state in grado di fare. Sì, Magnus era stato il primo a spingerlo ad affrontare apertamente il suo grande Demone, era stato il primo a cui avesse mai parlato del suo trauma e del suo dolore ma, a conti fatti, non era il suo perdono quello di cui era in cerca, quello di cui aveva bisogno per andare avanti.
Allo stesso tempo diverso fu anche l’effetto che ebbe su di Alec quell’abbraccio.
Nonostante potesse sentire il profumo ed il calore di Jace avvolgerlo da capo a piedi, non c’era una singola parte di lui, in quel momento, che volesse altro dal ragazzo. Il suo corpo non fremeva vibrante nella sua stretta, non tremava teso all’idea di quel contatto. Neppure per un istante la sua mente lo spinse a ricercare le sue labbra. In qualche modo quel semplice pensiero gli risultava innaturale. Sbagliato.
Rendersene conto fu strano. Era la prima volta che realizzava pienamente di non provare più nulla per Jace, nonostante, fin dal giorno prima, entrambi avevano -forse inconsciamente- parlato dei sentimenti di Alec per lui al passato. Eppure, ora che ci pensava, era tutto così ovvio. Erano mesi che non dedicava all’amico pensieri di quel tipo, che la sua presenza non lo agitava come aveva fatto per anni, contrariamente a quanto invece era stata in grado di fare quella dello psicologo fin dai loro primi incontri.
Magnus, in qualche modo, aveva cambiato tutto.
Un calore gentile, avvolgente, si diffuse dal suo petto a tutto il corpo andando lentamente a placare anche le sue lacrime. Non avrebbe saputo dire quanto tempo fossero rimasti abbracciati ma Jace non accennò a scostarsi da lui neppure per un istante fino a quando non sentì il respiro dell’amico tornare a regolarizzarsi.
«Forse non è il momento migliore ma – credo che quelle due ragazze ci abbiano preso per una coppia.» Jace disse con la voce palesemente più tranquilla, più leggera, portando istantaneamente Alec a scostarsi d’istinto da lui con una certa urgenza.
Il biondo rise divertito di quella reazione così teneramente imbarazzata, così tipica dell’altro, alzando le mani quasi in segno di resa. «Ehi! Va bene che non ti piaccio più, ma non serve nemmeno scappare così! Sono comunque un gran bel bocconcino, eh!»
Nonostante il tono scherzoso era evidente dal rossore nei suoi occhi che anche lui avesse pianto, seppur brevemente.
Alec non commentò a riguardo, limitandosi ad arrossire vistosamente e sgranare timidamente gli occhi.
«C-come fai a sapere c-che – che…»
«Che non ti piaccio?»
Alec annuì.
«Dai, è evidente. Te l’ho detto che queste cose le noto!» sorrise mettendogli un braccio attorno alle spalle, iniziando quindi ad avviarsi verso l’uscita dal parco.
«Mh…» mormorò Alec titubante, mordendosi timidamente il labbro con aria incerta.
«Piuttosto… c’è ancora qualcosa che mi sfugge.» riprese Jace, dopo un attimo, uscendo fuori dall’area giochi dove si erano precedentemente intrufolati.
«Cosa?»
«Dove sei stato stanotte?» chiese il biondo voltandosi a guardare l’amico negli occhi.
A quella domanda Alec s’irrigidì di colpo, avvampando dalla vergogna.
«A– ahm…» Non era preparato a rispondergli così su due piedi, tutte le cose che aveva pensato di dirgli erano ormai sfumate nella certezza di essersi lasciato quella difficile conversazione alle spalle. Jace si fermò sul posto piazzandoglisi di fronte per fissarlo dritto negli occhi, le labbra distese in un sorriso sfacciato sul volto.
«Alec?» lo incalzò lui, sfrontato. «Da chi sei stato stanotte?»
Il ragazzo abbassò all’istante lo sguardo sentendo il viso farsi sempre più caldo nonostante la nevicata sempre più fitta attorno a loro. Ormai non aveva motivo di mentire, il fatto è che non sapeva neppure bene cosa dire… Magnus sarebbe finito nei guai se avesse detto la verità? Ma d’altronde, sapeva che Jace non avrebbe mai tradito la sua fiducia a quel modo. Poteva fidarsi di lui.
«Uhm… dopo la rissa al bar ho incrociato il mio psicologo. Sai, quello che abbiamo incontrato fuori dal locale l’altra sera.» Decisamente non se la sentiva di ammettere di aver passato la serata alla centrale e che l’altro si fosse precipitato a prenderlo perché chiamato dalla polizia. «Quando mi ha visto in quelle condizioni ha pensato che non fosse il caso che andassi in giro da solo. O a casa. Aveva la sensazione che mamma non avrebbe preso bene la cosa…»
Una mezza risata sfuggì dalle labbra di Jace all’immagine di Maryse Lightwood che vedeva suo figlio Alec rientrare a casa in tarda notte decisamente ubriaco e con uno sgargiante occhio pesto.
«Dici? Secondo me sarebbe stato divertente!»
«…Beh, possiamo sempre scoprirlo. Dovrò pur rientrare a casa oggi, no?» espirò stancamente Alec pensando a quanto sarebbe stato difficile affrontare i suoi genitori.
Jace si spazzolò via la neve dai capelli con una mano.
«Per quello non devi preoccuparti. Lascia fare a me» disse recuperando il cellulare e iniziando a smanettare brevemente con quello. «Ma a parte questo…» riprese poi riponendo nella tasca il telefono. «…Quel tipo era il tuo psicologo?» chiese scettico inarcando un sopracciglio con fare confuso.
Alec alzò gli occhi al cielo liberando un sospiro rassegnato.
«Sì, lo so, è un po’ eccentrico…»
«Eccentrico? Era più truccato di Isabelle, Alec.» rise ricordando come fosse conciato l’altro solo qualche sera prima.
Il ragazzo mise su una specie di broncio, un’espressione chiaramente difensiva.
«E allora? Tu usi più creme e prodotti per capelli di Clary, mi sembra.»
Jace si strinse semplicemente nelle spalle. «Beh, certo, i miei capelli sono bellissimi, non posso non curarli per bene.» fece con disinvoltura. «Ma non è questo il punto. Intendevo… da quel che avevo visto l’altra sera pensavo che fosse qualcuno che ti stava dando fastidio. Non sembravi felice di vederlo. Cielo, per la verità avevo pensato che fosse qualcuno che stava cercando di rimorchiarti!»
In effetti era comprensibile che Jace avesse pensato questo, si ritrovò ad ammettere Alec. Dopotutto, per come aveva visto lui le cose, il ragazzo aveva tentato in tutti i modi di allontanarsi dall’altro arrivando a pregare i suoi amici di andarsene il prima possibile e poi non gli aveva voluto spiegare nulla di quanto era successo.
Alec sospirò, uscendo con l’altro dal parco.
«È complicato… è una lunga storia.» finì con il dire attraversando la strada davanti a loro per immettersi sulla via verso casa. «Ma è tutto okay, davvero. Ti prometto che poi ti spiegherò tutto ma per ora sappi solo che mi ha dato una mano e che va tutto bene.»
Jace non era pienamente soddisfatto ma non lo incalzò oltre sull’argomento.
«Va bene. Se stai bene, tanto mi basta.» disse avanzando al suo fianco, svoltando l’angolo assieme a lui lungo la ben nota strada che portava verso casa Lightwood. «Però – cerca di parlare con Isabelle, Alec.» Il suo tono si era fatto più serio adesso, lo sguardo carico di una preoccupazione gentile, fraterna. «So che non dev’essere stato facile parlarne con me e apprezzo davvero molto che tu lo abbia fatto, però…»
«Lo so.» espirò stancamente il ragazzo, le spalle curve e basse. «Le parlerò al più presto. Solo… non ora. Non adesso. Non ce la faccio.»
Jace annuì lento a quelle parole, comprendendo quanto dovesse essere difficile per Alec dover affrontare di nuovo tutta quella conversazione.
«Certo. Va bene.» gli concesse alla fine mentre piano la città circostante iniziava a ricoprirsi di un primo sottilissimo strato di neve.
Proseguirono così per diversi minuti, in silenzio, fino a quando non raggiunsero fianco a fianco il cancello della sua abitazione. Alec sollevò lo sguardo sull’edificio a due piani davanti a sé, riempiendo i polmoni di nuova aria. L’idea di tornare a casa lo spaventava eppure sentiva che era un passo che doveva compiere. Sentiva che questa volta l’Alec che avrebbe varcato la soglia sarebbe stato un Alec ancora diverso da quello che l’aveva superata solo un giorno prima. E nel realizzarlo, si rese conto, non era così spaventato all’idea di conoscere questo nuovo se stesso.
«Sei pronto?» chiese Jace con un sorrisetto sornione sulle labbra.
Alec annuì deglutendo agitato.
«Pronto.»
   
 
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