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Autore: MaikoxMilo    25/04/2024    0 recensioni
Vi fu un tempo, anche se privo dello stesso concetto di tempo, in cui, si narra, Cielo e Terra, Mondi e Dimensioni, Caldo e Freddo, Umido e Secco, coesistessero in una sola sostanza che racchiudeva tutto; tutto ciò che avrebbe poi assunto un nome, ma che, allora, nome non possedeva. Non c'era quindi un inizio, né una fine, non esisteva Destino, né legge, tutto era miscelato, un tutt'uno indistinto, estroflesso, inscindibile, nonché eterno. Tale concentrato di materia venne chiamato posteriormente "Principio Primo di Tiamat", prima di scomparire completamente nella Notte dei Tempi, svanendo per milioni e milioni di anni.
Tutti gli universi possiedono quindi un'origine comune? Che ne fu di quell'epoca, CHI ordinò il Creato, dandogli una forma propria, dividendo le dimensioni, espandendole all'infinito di propria mano? Chi ebbe la forza per farlo? Perché lo fece, imprimendo così la propria imperitura effige?!
Marduk, Sommo dio Marduk, fosti tu a volerlo, stracciando il gigantesco corpo della dea Madre Tiamat, scindendo così, per la prima volta, il Cielo dalla Terra; gli Universi dalla Matrice?!
Storia ambientata tra i capitoli 10 e 12 della Melodia della Neve, di cui è quindi indispensabile la lettura insieme alle fanfiction precedenti.
Genere: Angst, Azione, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aquarius Camus, Cancer DeathMask, Cygnus Hyoga, Nuovo Personaggio
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Passato... Presente... Futuro!'
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Capitolo 10: Ricordi intrecciati (terza parte)

 

 

 

Basta una tamerice

a rivelare la vita:

su di un argine grigio,

una tamerice a fiore di un’acqua silenziosa.

Basta di meno:

un ciuffo d’erba fresca fra due zolle,

un fiore fra due pietre cotte dal sole,

un occhio in cielo, di sereno.

 

(Biagio Marin)

 

 

 

Maggio 2006

 

 

Quel giorno, gli alberi parlavano tra loro un linguaggio che non era affatto facile comprendere.

Eppure parlavano, Marta poteva udire bene il loro verseggiare portato dal vento; il loro conversare sotto i propri piedi. Vibrava lieve nel terreno, si diffondeva per l’aere.

Era però indefinibile per le sue giovani e inesperte orecchie, ancora disabituate a codificare i suoni e dare loro un senso. Strinse un poco il palmo delle mani: avrebbe tanto voluto comprenderli.

“Ecco, lo sapevo, ci siamo persi!” esclamò ad un tratto la voce di Francesca, con stizza.

“No. - rispose Stefano, prima di sospirare – Non proprio.”

“Non proprio?!” Francesca lo guardò, inarcando un sopracciglio.

“Abbiamo solo perso momentaneamente la via maestra.” fece spallucce Stefano, sorridendole bonariamente.

“Ah, momentaneamente! - commentò sarcasticamente l’altra, buttando fuori l’aria, chinando un poco il capo, prima di raddrizzarsi – Siamo fuori dal sentiero!” gli fece notare ancora, scettica.

“E’ corretto, ma basta rintracciare la vecchia mulattiera.”

“Che però è saltata...”

“Beh… sì!”

“Ecco, quindi ci siamo persi!” decretò la parola fine Francesca, affatto lieta di averla avuta vinta. Avrebbe di certo preferito il contrario, se ciò avesse comportato il non essersi smarriti nel fitto di un disordinato bosco misto.

“Ma quindi… - si palesò la vocina di Michela, con una punta di terrore - moriremo qui e ci ritroveranno tra centina di anni, mummificati?!”

“Ma no, sciocchina! - negò con la testa Francesca, recuperando un po’ di calma, visto che era la più grande e gli altri dipendevano da lei – In qualche modo faremo. E poi le giornate, a maggio, sono già piuttosto lunghe!”

Stefano si diresse verso un albero lì vicino, cercando di studiare i dintorni e se fosse stato un passaggio già percorso precedentemente, perché effettivamente sembrava di girare intorno. Non accettava che il suo senso dell’orientamento, sempre creduto ottimo, avesse fatto cilecca.

“Ste, tu e Marta ci avete assicurato che conoscevate bene le vie per raggiungere il Monte Antola!” riprovò Francesca, ricercando l’attenzione dell’amico.

“Sì, ma non da Cerviasca, questa è la prima volta che lo cerchiamo di raggiungere dal paese.”

“O-ottimo! E perché farlo da lì, se non sapevate la via?”

“Perché era la prima volta e volevamo farlo con voi.”

“Sì, ma non abbiamo idea di dove siamo, adesso!!! - esclamò ancora la ragazza, quasi esasperata, perdendo la flemma – Per quel che ne sappiamo potremo essere OVUNQUE, anche da tutt’altra parte!”

“No, questo no. - Stefano parve risentirsi, squadrandola male – Siamo comunque sulla strada per l’Antola, questo è certo, bisogna solo ritrovare il sentiero.”

“Il sentiero è saltato, il bosco è stato abbandonato da tempo! Non c’è più un segnavia, né una costruzione, a delimitare la vecchia mulattiera, come pensi..?”

“L’Antola è sempre stata l’arteria principale della Valle Scrivia e così della Valbrevenna che ne fa parte. Dove tu vedi abbandono un tempo c’erano vie del tutto equiparabili, per concezione, alle strade asfaltate che usiamo oggi per muoverci con la macchina, me lo ha raccontato mio nonno.”

“Può essere, ma così è stato decenni fa, ora...”

“Ritroverò la mulattiera, puoi starne certa!” Stefano tranciò di netto il discorso, oltrepassando l’amica per dirigersi poi un pezzo in avanti, come a ricercare un qualche segno che lo aiutasse nell’orientamento.

Francesca sospirò di nuovo, prima di accomodarsi, insieme a Michela, su una radice ben esposta per cercare di ragionare e delineare un qualche tipo di piano.

Intorno a loro non vi erano altro che alberi, alberi e ancora alberi, già completamente rivestiti di foglie novelle. Non c’erano punti aperti per poter scrutare l’orizzonte, la boscaglia era fitta fitta e innanzi a loro vi era solo una salita che sembrava non finire mai. La stanchezza e la preoccupazione stavano iniziando a prendere il sopravvento.

Almeno per quanto riguardava lei e Michela, perché effettivamente Stefano sembrava convinto di poter rintracciare la mulattiera originaria in tempi ragionevoli e Marta… beh, Marta era nuovamente persa tra sé e sé, del tutto pacifica e perfettamente beata. Francesca si chiese come ci riuscissero, quei due, a fidarsi così tanto della montagna e così del bosco. Non avevano paura alcuna, come se fosse casa loro, e un po’, forse, era proprio così.

“Guarda che così prenderai un malanno, eh, è un po’ presto per andare a piedi nudi!” provò ad avvertire l’amica, ancora assorta con gli occhi chiusi come se stesse rintracciando un qualche tipo segnale radio.

“Parlano.” disse solo Marta, voltandosi un poco verso di lei, pur mantenendo le palpebre abbassate.

“Cosa? Chi?”

“Gli alberi. - rispose placida, non nascondendo un sospiro – Li sento ma non li capisco. Ci sto davvero provando, ma...” lasciò la frase a metà, affranta.

Francesca corrugò la fronte, sforzandosi di comprendere il reale senso della sua frase. Non era certo la prima volta che l’amica diceva cose buffe o strane, atipiche, si poteva dire, tuttavia -doveva ammettere- quella sua peculiarità andava sempre più incrementandosi con la crescita invece di retrocedere. E adesso che Marta aveva da pochi mesi compiuto 12 anni, che era una ragazzina, ormai, e che forse avrebbe dovuto cominciare a pensare a ‘cose serie’ come sosteneva Nonno Dante, quella sua insolita attitudine era nel pieno della fioritura, quasi traboccava, con buona pace dell’anziano signore.

“Cose ineffabili… forse io non le capirò mai davvero!” rimuginò tra sé e sé Marta, dispiaciuta, ma affatto intenzionata ad arrendersi.

Gli esseri umani potevano essere molto bizzarri, nonché… cocciuti. Francesca si disse che, probabilmente, anche continuando il ciclo di morte e rinascita, non sarebbe mai arrivata pienamente a capirli.

Camus, appoggiato al loro stesso albero, le braccia incrociate al petto e l’espressione calda, invece sì, perché ben conosceva i meccanismi che stava attraversando la sorellina, soprattutto nell’ultimo periodo.

Ti stai avvicinando allo Sciamanesimo senza neanche saperlo concretamente, fai cose che solo uno Sciamano potrebbe capire. E questa tua dote, piccola mia, in costante mutamento, cresce senza sosta. Ora capisco davvero quello che volevi intendere quando, durante l’incendio causato dal finto Apollo, sostenevi che udivi la richiesta di aiuto degli alberi senza saperla codificare; quando parlavi con la lucertola senza sapermelo spiegare, vergognandotene, perfino. Lo capisco e lo comprendo. E, ancora una volta, mi chiedo quanto io ti possa essere di aiuto, in questo. Quanto… io voglia veramente immetterti in questo mondo, pur avendone tu il pieno delle potenzialità.

“Comunque rimettiti le calze e le scarpe, Marta. - le consigliò ancora Francesca, un po’ da mamma – Ti piace girare a piedi nudi, d’accordo, ma il terreno è dissestato, rischi di farti male!”

A quel punto la ragazzina aprì completamente gli occhi, si fece maggiormente rattristata e delusa, prima di recuperare gli scarponcini lasciati momentaneamente da un lato.

“Pensavo di capire meglio così, perché gli alberi comunicano soprattutto attraverso le radici. - provò a spiegare, mentre, indossate le calze e poi le scarpe, tirava i lacci – E invece è comunque un brusio confuso e nient’altro!”

“Beh...” Francesca non sapeva bene cosa dire per risollevarle il morale, fortunatamente venne aiutata dal ritorno di Stefano che, balzando giù dal pendio dove le aveva lasciate, pareva aver elaborato un piano.

“Sono avanzato di un po’. - illustrò, pratico – Dopo questa tortuosa salita c’è un pezzo che spiana, forse se lo percorriamo riusciremo ad affacciarci da qualche parte per orizzontarci meglio e...”

“Ma hai trovato uno straccio di segnavia, vero?!” indagò Francesca, sospettosa. Lui cambiò subito espressione, arrossendo un poco.

“E-ecco, no, però...”

“Michela è molto stanca, Stevin, e così io. Se sostieni di voler proseguire, mi devi dare più di un motivo per farlo. Salire di qui ci aiuterà? Ne sei sicuro?”

“N-non ne sono… sicuro!”

“Ecco, e allora non è forse meglio cominciare a pensare di tornare indietro, scendere, e gettare la spugna, per questa volta?”

“...”

Stefano indurì la sua espressione, ben più che restio alla sola idea di doversi arrendere.

“Cerca di ragionare un attimo… non è saggio proseguire ad oltranza se non sappiamo dove andare, rischieremmo solo di smarrirci, e la notte, a maggio, a 1500 metri sul livello del mare, è ancora piuttosto fredda. Comprendo bene la delusione, il non volersi dare per vinti, ma...”

FRUUUUSH. FRUUUSH!

Qualcosa si mosse freneticamente tra le fratte a poca distanza tra loro, tutti si irrigidirono di conseguenza, alzando la guardia. Un’ombra scura si era mossa, fugace, tra gli alberi appena sopra la loro posizione. Era l’ombra di un canide.

Michela si arpionò istintivamente al braccio di Francesca; Marta, in un impeto di protezione, scattò verso di loro, azzerando le distanze tra sé e le altre, mentre Stevin, guardandosi freneticamente intorno alla ricerca di un bastone o di un’altra potenziale arma, si mise coraggiosamente davanti al gruppetto.

“O-oddio, era un lupo?! E’ un lupo?!? - esclamò Michela, allarmata, guardandosi nervosamente intorno alla ricerca dell’ombra di prima che riuscì a scovare, ancora più furtiva, sopra di loro in avvicinamento. Si terrorizzò – Ho paura, ho paura!!! Adesso ci mangia!!!”

“Ssssh, Michela, mantieni la calma, non devi fargli percepire il tuo timore!” provò a rassicurarla Francesca, stringendola a sé per poi farle nascondere il visetto nel declivio della spalla.

“Non può essere un lupo, loro scappano appena sentono l’odore umano.” gli fece notare Stefano, scoccando un’occhiata guardinga alle amiche, pur rimanendo fermo nella sua posizione.

Poteva essere di peggio, in effetti, rabbrividì, prima di osservare Marta, la quale, risoluta, finendo di massaggiarsi la pancia che nell’ultimo periodo le doleva spesso, alzò ulteriormente l’attenzione.

“Questo solo se è un giovane in dispersione! - controbatté la più grande, cercando di controllarsi. - Se fosse un branco vero e proprio e lui fosse solo l’avanguardia?! Che speranze nutriamo?!”

“I lupi non attaccano l’uomo, preferiscono evitarlo.” insistette Stevin, sbuffando. Aveva momentaneamente perso di vista l’ombra del canide, ma non doveva scomporsi.

“Sì, ma… ma vale anche per un gruppo di ragazzini indifesi?! Se ne sentono di storie su...”

“La stragrande maggioranza di esse sono false! - esclamò nuovamente Stefano, stavolta platealmente infastidito dai dubbi mal riposti di Francesca – Voi gente di città ve ne bevete di cose, eh, sbranano un capretto e sono i lupi, attaccano l’uomo e sono lupi… NON E’ SEMPRE COSI’!”

A quel punto anche l’amica perse la pazienza, lo guardò male, prima di raddrizzarsi con la testa e soffiargli contro un: “Ah sì? E allora perché sei così teso, se non si tratta di lupi?!”

“Perché possono essere cani inselvatichiti. - rispose con naturalezza Stefano, tornando a concentrarsi davanti a sé, gli occhi azzurri lago di montagna tremendamente percettivi – E quelli sono peggio, molto peggio, non hanno la minima paura dell’uomo!”

Insomma, dalla padella alla brace! Anche Francesca si irrigidì a quella affermazione, trattene il fiato per una serie di secondi alla ricerca delle parole giuste da adoperare, prima di essere interrotta, ancora prima di cominciare, dall’improvviso latrato di… Marta!

“WOOOF! WOOOF!”

“M-Marta! - la richiamò Michela, tutta tremante, ancora tra le braccia di Francesca – Non mi sembra il caso di… EHI, dove vai?! Non andare! Non allontanarti!!!” esclamò poi nel vedere che l’amica si distanziava da loro di qualche passo, sicura di sé.

Camus osservò incredulo la sorellina sorridere sorniona, prima di accucciarsi a terra, tra il fogliame ancora presente dell’inverno passato, e aspettare pazientemente.

“WOOOOF!” ripeté ancora, sempre con quella naturalezza disarmante.

Il suono di zampe nel pacciame divenne più forte per un istante, prima di fermarsi. Passarono pochi altri secondi di silenzio, per poi riprendere con più slancio.

“Si sta avvicinando...” tradusse Francesca, in un fremito, mentre Michela si rannicchiava ancora di più contro di lei.

Infine, da dietro un vecchio tronco di quercia, fece capolino un cane nero e bianco dal pelo folto, un Border Collie dagli occhi di ghiaccio, il quale, nell’individuarli e nel non capire chi fossero, o perché una di loro avesse appena latrato, alzò interrogativo una zampa.

“E’ un cane ed è addomesticato, ha il collare!” trasse un respiro di sollievo Stefano, spingendo anche Michela, di colpo incuriosita, a guardare avanti a sé.

Marta sorrise tra sé e sé nell’osservarlo. La bestiola non era certamente confidente, stava lì, sulle sue, a scrutarli criptica, lo sguardo attento e reattivo come la sua ferrea intelligenza -era infatti una delle razze canine più dotate!- comandava.

“Vieni qui, non ti facciamo niente. - gli disse lei, amichevole – Anzi, ci siamo proprio persi, hai idea di dove siamo? Dovevamo raggiungere il rifugio del Parco dell’Antola, ma...”

A quel punto il cane, un po’ più tranquillizzato, zampettò affabile nella sua direzione, muovendo l’ampia e pelosa coda. Marta non si mosse, attese che la raggiungesse, permettendogli così di essere annusata in lungo e in largo mentre gli amici, dietro di lei, osservavano trepidanti la scena che si mostrava ai loro occhi.

Era lampante che Marta, pur non avendo mai avuto cani suoi, ci fosse portata nella comunicazione -la studiò attentamente Camus con occhi fieri- concedeva all’animale di prendere confidenza con il suo odore, prima di muoversi, nonostante la voglia immane -la percepiva!- di volerlo accarezzare. Era abile e fiduciosa, soprattutto non dava alcun cenno di temerlo, trattandolo da pari a pari. Ecco, forse su quell’ultimo punto ci sarebbe stato da lavorare un po’ su, perché nelle gerarchie del branco (Camus pensava ai suoi Husky lasciati in Siberia) era necessario e doveroso instaurare un rapporto verticale fatto di lealtà, certo, ma pur sempre di subordinazione.

Finalmente, terminate le cosiddette presentazioni, Marta si inginocchiò a terra, concedendo così al cane di darle affettuose musate. Socchiuse gli occhi, sorridendo felice tra sé e sé, prima di convincersi ad accarezzarlo a sua volta sul dorso in un gesto aperto e sincero che ricordava un mezzo abbraccio.

“E… e ora?” chiese Francesca, frastornata da quella reazione, guardando l’amico Stefano che invece se ne stava lì, tutto soddisfatto, come se avesse già divinato il tutto.

“Aspetta solo un altro attimo. La dovresti conoscere la tua amica.” sorrise lui, con una sicurezza di sé che raramente lasciava trapelare.

Francesca tornò a guardare Marta, che aveva affondando il viso nella folta pelliccia della creatura. Era vero, la conosceva sin troppo bene, ma la verità era che alcune cose ancora le sfuggivano. Forse, semplicemente, quelle stesse cose non sfuggivano a lui.

“Ci aiuta lei. “ disse alla fine Marta, alzandosi in piedi dopo averle dato un’ultima carezza sul muso.

“Cosa?! Lei? E’ una lei?! Ci hai parlato, Marta?!”esclamò tutta euforica Michela, saltando su come se avesse avuto una molla sotto i piedi.

“Camilla. E’ la cagnolina dei gestori del rifugio del Parco dell’Antola.” spiegò solo la ragazzina, omettendo l’altro quesito.

Tuttavia Michela voleva sapere ad ogni costo, l’aveva sempre affascinata quell’attitudine misteriosa della sua stravagante amica.

“E tu questo lo sai perché ti ha parlato e l’hai capita?”

“Non proprio. - si scrollò Marta, un poco contrita – O meglio, ci ha provato a parlarmi ma, al solito, non riesco a codificare il suo linguaggio.” ammise, tornando a guardarla. La cagnolina infatti si era seduta compostamente al suo fianco, la lingua a penzoloni e l’espressione tranquilla.

“E allora come hai saputo queste informazioni?” chiese ancora Michela, avvicinandosi di un altro passo.

“Targhetta.” indicò Marta, e quello fu anche il via per Camilla di andare a conoscere gli altri ragazzini intorno a lei.

“Uh, sì, vieni… vieni qua, cucciola!” strepitò Michela, del tutto euforica nel vedere la cagnolina venire a salutare anche loro.

“I gestori, però, almeno fino all’anno scorso, non avevano cani.” osservò Stevin, dando un’occhiata indicativa a Marta.

“Fino all’anno scorso, per l’appunto, forse l’hanno presa recentemente. La targhetta e il numero è il loro.”

“E anche l’odore, sì. - arrivò alla conclusione Stefano, dopo essersi inginocchiato a sua volta e aver odorato il pelo dell’animale – Sento il profumo del camino e delle robe buone che fanno su al rifugio.”

“Visto?!” ammiccò Marta, arrossendo un poco.

“Certo che siete proprio strani voi due, ancora di più quando siete insieme!” inarcò un sopracciglio Francesca, osservandoli percettiva. Non c’era velo d’accusa nelle sue parole, solo una constatazione sincera ed educata.

Ad ogni modo, aver incrociato sulla propria via la cagnolina era stato un vero e proprio colpo di fortuna. Nessuno dei quattro sapeva bene perché si fosse allontanata dal rifugio e perché si fosse recata proprio lì, ma la bestiola, a differenza loro, conosceva perfettamente la strada. Non passò molto che, seguendola, riuscirono ad imbroccare la vecchia mulattiera che li avrebbe condotti al rifugio.

Il sole era ancora luminoso in cielo, ma già la luce cominciava lentamente a virare verso il dorato che avrebbe poi spianato la strada all’arancione, indice di un tramonto non del tutto lontano. Nessuno dei ragazzi aveva un orologio con sé, ma trovandosi in maggio, ovvero quasi alla massima durata delle ore di luce, ciò indicava senza ombra di dubbio che fosse già tarda serata. Francesca si ritrovò a sospirare tra sé e sé, la sensazione di aver appena scansato un proiettile. Fra l’altro, anche se in quel momento stavano finalmente salendo per la strada giusta, non c’era alcuna garanzia di raggiungere il rifugio prima dell’avvento delle tenebre.

Troppo pessimista se paragonata all’ottimismo di Stevin e Marta?! Forse, ma l’esperienza le aveva insegnato la prudenza e l’obiettività prima di tutto.

La salita, oltretutto, si stava facendo veramente pesante. Erano tornati sulla vecchia mulattiera, certo, al bosco misto si era sostituito mano a mano il bosco di faggi, e quello era un buon segno, visto che la sommità del Monte Antola era contraddistinta da quel tipo di vegetazione, ma parallelamente era aumentata anche l’inclinazione del sentiero e ciò appesantiva ulteriormente le loro gambe già stanche e doloranti.

“Pant, pant… quanto manca, indicativamente?” trovò il coraggio di chiedere Michela, quasi piegata in due dalla stanchezza.

“Indicativamente… - Stefano, il primo della fila dopo Camilla, si guardò intorno – Un’ora/un’ora e mezza a seconda della nostra velocità.”

“Ma io sono stanca!” si lagnò Michela, mettendo su il broncio.

“Ormai il più è fatto, dai!” provò a incoraggiarla Stefano, compiendo qualche passo in discesa per darle una mano a salire un pezzo più ripido.

“Non è per fare, al solito, l’uccello del malaugurio, ma, Stevin, hai visto la luce? Il sole è già dietro il monte!”

“Siamo sul versante est, è normale.”

“D’accordo, ma non puoi non esserti accorto che l’ora comincia ad essere tarda!”

A quel punto Stevin prese un profondo respiro. Per quanto gli costasse ammetterlo, l’amica aveva ragione. Avevano sbagliato platealmente le tempistiche e il rischio di arrivare tardi, evitando quindi la vetta e lo spettacolo mozzafiato che recava con sé per dirigersi subito al rifugio, era dietro l’angolo.

“Lo so bene, ma credimi se ti dico che non manca più molto. E poi ora abbiamo Camilla, lei sa bene dove andare.”

“D’accordo, però...”

“Uh, ehm… mi devo fermare un attimo!”

Inaspettatamente, non era stata Michela, la più piccola del gruppo, a proferire quella frase, bensì Marta che, altrettanto inaspettatamente, era la più lenta ad incedere, in fondo alla fila.

“Che succede? Stai male? - chiese Stefano, notandola corrucciata a massaggiarsi il basso ventre – Non è da te, essere così lenta!” la provò poi ad incoraggiare.

“Uh, credo… credo di dover fare pipì.” farfugliò lei, prima di richiamare Camilla con un fischio per farla tornare indietro e dirigersi subito nel riparo più vicino, anche se non era affatto facile, visto che il sottobosco di una faggeta era pressoché spoglio.

“Certo che è proprio insolito, forse sta male? Generalmente sono io ad essere l’ultima.” si chiese Michela, sedendosi su un sasso nelle vicinanze.

“E’ strana da un paio di giorni. Ogni tanto dice di avere delle fitte al fianco, non so dovute a cosa.”

“...”

“Forse ha mangiato un po’ troppo dolci, in questo periodo? Sapete, no, che la Nonna Inés, se può, le da sempre un dolcetto o una caramella di nascosto da Nonno Dante.”

“Non credo sia quella la ragione, sono un po’ preoccupato...” rimuginò Stevin, pensieroso, dando al contempo una carezza a Camilla che si era avvicinata al gruppetto.

“Comunque questi alberi, faggi mi avete detto, sono molto in ritardo sulla tabella di marcia. - cambiò discorso Francesca, prendendo a fissare incuriosita le trame degli alberi che avevano appena gemmato – Praticamente sono spogli, mentre tutti gli altri, più a valle, hanno già delle belle chiome verdi fluorescenti. E’ un discorso di altitudine? O di tipologia di albero?”

“Entrambi. - rispose Stevin, guardandola, prima di indicare la corteccia di uno di loro – Siamo comunque tra i 1400 e 1500 metri, quindi un ambiente pienamente montano, in più il faggio è tra i primi a perdere le foglie e tra gli ultimi a ributtare.”

“Ma davvero?! Che forza! Non lo sapevo!” esclamò Francesca, sinceramente stupita.

“In compenso nel pieno di ottobre da il meglio di sé, colorandosi dei più svariati colori, dal giallo all’arancione. E’ meraviglioso!”

“Quando sei nato tu, Stevin!” commento Michela, alzando le braccia in alto in un gesto di felicità.

“Quando sono nato io, sì...” arrossì il ragazzo, non del tutto abituato a quel genere di attenzioni.

“Mi piacerebbe vederli questi colori. - gli confidò Francesca - Magari questo autunno riusciamo… ah, Marta!”

La ragazzina era nel frattempo emersa dal suo nascondiglio, un’espressione funerea a permearle il viso, le mani che si massaggiavano la pancia.

“Insomma, che succede adesso? Hai visto qualcosa di brutto?” le domandò Stefano, vedendola presa così male.

“No, niente… - rispose solo, prima di avvicinarsi, titubante, a Francesca F-Fra, ti ricordi che mi dicesti che, quando sarei diventata grande, lo avrei sentito sul mio corpo?”

“S-sì, perché?”

“Eh, infatti l’ho sentito, diciamo, il plin plin e beh… si è anche manifestato. Ora.”

Stefano sbiancò. Camus, sebbene non visto, fece altrettanto.

“Cosa?”

Cos… di già?!

“Le mestruazioni?!”

Marta aveva la faccia di una a cui fosse appena stato strappato un segreto segretissimo. A fatica, quasi con rassegnazione, annuì.

“Mi… mi sono pure sporcata.”

“Ma è meravigliosooooooo!!! - Michela le saltò quasi in braccio dalla gioia – Sei diventata signorinaaaaaa!!!”

“Eh, che bello…”

Marta, di crescere, non ne aveva affatto voglia. Quel segno che distintamente stabiliva il passaggio, almeno fisiologico, dall’età infantile a quella adolescenziale, non la aggradava per niente, e poi sembrava di star perdendo delle goccioline calde di pipì, cioè, era orribile.

Stefano arricciò il naso diverse volte. Non se l’aspettava, non a quell’età e non così presto. La rivelazione lo aveva sinceramente preso in contropiede.

“Capito. - Francesca reagì con naturalezza, sorridendole tenue prima di frugare nello zaino e tirare fuori un piccolo assorbente – Per il momento mettiti questo, arrivati al rifugio ci diamo una controllata e una sistemata, ok? Tanto i primi cicli non sono abbondanti e, a volte, saltano proprio.”

“Ok.” fu la sola risposta di Marta che, prendendo in mano quanto le veniva passato, tornava a capo chino nel nascondiglio che aveva utilizzato precedentemente come gabinetto.

“Quindi ora… è una adulta?!” chiese Stefano, tornando a guardare l’amica con urgenza.

“Ma certo che no, Stevin ti sembra adulta?! Il suo corpo deve ancora formarsi. Questo è solo l’inizio ed è chiamato menarca. Le ovaie avranno comunque bisogno di tempo per assestarsi.”

“Non… non lo volevo sapere, questo, non volevo un’informazione così approfondita!” si oppose Stefano, rosso in viso.

“Ovviamente. Voi maschi non le volete mai le informazioni così approfondite. - si lasciò scappare una risatina Francesca, facendo poi spallucce – Ti ci dovrai abituare, Ste, è la crescita.”

“Non mi aspettavo il loro arrivo così presto!”

Ebbene… neanche io, anche se so cosa sono, come funzionano e tutto...

Si ritrovò a pensare Camus, parzialmente ripresosi dalla sorpresa di prima. Era così abituato nel vederla piccola, nei sogni, che aveva proprio rimosso il fatto che lei avesse già 12 anni, lì, è che avesse avuto la prima mestruazione perfettamente in media, proprio come era stato per Sonia.

“E’ perfettamente in regola, Ste. Capisco lo straniamento, visto che sembra ancora una bambina, ma è fuori da ogni dubbio che il suo corpo si stia trasformando.”

“WOOOF!” abbaiò Camilla, come a voler confermare quanto diceva la ragazza, prendendo poi a scodinzolare perché Michela si era messa a coccolarla.

“La prossima sono io! - disse la più piccola, ancora del tutto euforica perché l’amica era diventata grande – Quanto pensi che ci vorrà?”

“Non te lo so dire, Michy, l’età media è 12 anni, ma si possono verificare anche più tardivamente… o prima!”

“E allora spero che mi vengano presto, non voglio rimanere indietro rispetto a voi due!” ridacchiò lei, socchiudendo gli occhi prima di rialzarsi in piedi.

“Non avere fretta che poi rimpiangerai quando non ce le avevi!” la avvisò Francesca, e si misero entrambe a ridere.

Aspettarono quindi che Marta, ancora piuttosto imbarazzata dall’evento, tornasse, per riprendere il cammino. Non mancava più molto, ma le sfumature della luce sulle foglie stavano ormai digradando nell’inequivocabile arancione.

Stevin, da buon unico maschio del gruppo e secondo per età, non lo dava di certo a vedere, non permettendo al nervosismo di prendere la meglio, ma quella volta, doveva proprio ammetterlo ancora una volta, avevano davvero osato troppo, sfidando la montagna nella presunzione di riuscire subito in un percorso fuori mulattiera che mai avevano tentato prima. Strinse un poco il pugno destro, mordendosi il labbro inferiore. La sua voglia di libertà e di avventura lo aveva portato a valutare male le capacità della propria squadra, un errore che avrebbe anche potuto essere fatale.

Finalmente uscirono dalla faggeta, il vento tiepido e i riverberi scarlatti li accolsero, portandoli a prendere un respiro di sollievo. Socchiusero gli occhi nel distinguere la grande croce posta sulla sommità, del tutto priva di bosco perché zona adibita a pascolo per le mucche. Erano tutti stanchi e provati, chi più chi meno, ma vedere finalmente la cima non più così lontana alleggerì i loro cuori più di mille altre sollecitazioni.

“E’ finalmente quella là, pant?” la indicò Michela, trovandola ancora sin troppo distante.

“Sì, ma il rifugio è molto più sotto.” risposte Stefano, voltandosi verso di loro.

“Cosa?! E quale è il senso di aver costruito un rifugio non sulla vetta, scusa?” domandò Francesca, che già si vedeva scomparire la speranza, appena carezzata, di poter finalmente riposare.

“Oh beh… diciamo che ci sono state un paio di vicissitudini. - le riferì Stevin, non sapendo bene da dove cominciare – Se volete, stasera, mentre mangiamo, ve le racconto. Per il momento vi posso dire che, in passato, avevano costruito rifugi ben più vicini ma, tra alcuni distrutti durante la lotta partigiana, ed altri...”

“Cosa?! I Partigiani hanno combattuto qui?!” trillò Michela, euforica, aprendo la bocca a ‘o’.

“Sì, il nonno era di istanza proprio qui!” disse Marta, tutta orgogliosa, strofinandosi il nasino nell’immaginarselo giovane, bello, e vestito di tutto punto.

“...ed altri che sono caduti in malora a causa del tempo; - continuò Stefano, gli occhi riscaldati dal rosso del tramonto – il nuovo rifugio è stato costruito più in giù, in mezzo alla faggeta.”

“Mmm, d’accordo, ma ora noi che si fa? E’ conveniente salire fino in cima alla vetta se il rifugio è più sotto, oppure..?”

“Io voglio vedere il tramonto!”

“Io pure!”

Michela fece eco a Marta, affiancandola. Stevin non rispose verbalmente, ma dal suo solo sguardo Francesca presagì la risposta.

“Va beeeene, non posso proprio oppormi!” si arrese, alzando le mani in segno di pace.

“P-però tutta quella salita… - fece notare Michela, osservando sconsolata il sentiero che, da un certo punto in poi, saliva rapido e ripido fino ad arrivare alla cima – E’ l’ultima, ma io sono veramente taaaanto stanca.”

C’era un unico modo per sbrogliare Michela quando faceva così, ed era…

PAT! PAT!

Marta le diede una pacca sulla spalla, prima di scattare di corsa in avanti, con il sorriso sulle labbra: “Forza e coraggio, l’ultimo che arriva è un uovo marcio!”

...prenderla sul gioco!

Michela soffiò forte, prima di scattare, insieme a Camilla, dietro l’amica, seguita da Stefano e poi Francesca.

“Ehi, aspetta, così non è lealeeeeeee!!!” le urlò dietro, dando tutta sé stessa nella sfida.

Marta rise tra sé e sé al suono della voce della più piccola nel vento, prima di accelerare la sua corsa, malgrado il dolore a fitte al fianco destro.

Era quindi prima -e, del resto, era partita in vantaggio!- quando una coda folta e pelosa, di colore bianco e nero, la superò, portandosi in posizione di testa.

“Non è giusto, Camilla! - le gridò, giocosa – Tu hai quattro zampe, noi solo...”

Era quindi seconda quando la vista si aprì completamente ed i raggi scarlatti del tramonto infuocarono completamente i dintorni. Sbarrò gli occhi, trasecolata.

Ogni singola cosa intorno a lei, a loro, sembrava aver assorbito il calore naturale del sole e, magicamente, lo rifletteva verso le loro iridi, illuminandole di conseguenza e riempiendole di meraviglia. L’aria pareva fatta di cristallo, era tiepida e fresca allo stesso tempo, era… pulita!

E, per la prima volta, si accorse nitidamente di star respirando, di essere… viva!

Marta sorrise di riflesso e, senza quasi rendersene conto, rallentò la sua corsa verso la vetta per rimirare tutto ciò che la circondava.

I fili d’erba che danzavano al vento.

Il muggire di qualche mucca lontana.

Le danze dei balestrucci che volavano sopra la sua testa.

Il profumo, raro, intenso dei fiori di primavera che stavano sbocciando.

Il cielo cobalto, splendente, che, mano a mano, vinceva la sua lotta sul sole ormai declinato verso Ovest.

E, in tutto questo, ancora, più forte, l’aria che le entrava nei polmoni e le riempiva il petto con una intensità che la colmava e la faceva sentire per la prima volta piena.

Piena di quella che era la vita.

Piena della consapevolezza di essere un piccolo fagiolino in mezzo al grande tutto, un attimo, un respiro di tempo, un istante infinitesimale che, però, era tutto il suo mondo.

“Eccola!!! - la chiamò trionfalmente Michela, quando finalmente la ragazzina giunse sulla sommità della vetta, a toccare la croce come gli altri. Francesca e Stefano si voltarono simultaneamente straniti verso di lei – Alla fine, cara Marta, l’uovo marcio sei tu!!!” scherzò poi la più piccola, prendendola allegramente in giro.

“Che succede, anf? - gli chiese Stevin, preoccupato di una sua tale debacle – Stai male? Oppure è il ciclo che..?”

Ma Marta non rispondeva, continuando invece a guardare oltre; oltre la vetta, oltre la Pianura Padana sotto di loro, gli occhi lucidi, un mezzo sorriso sulle labbra, gli zigomi completamente arrossati. Compì ancora qualche passo avanti a loro, prima di fermarsi prima della sporgenza.

“Ma-Marta?” tentò anche Francesca, confusa.

“Non badate a me, pant, piuttosto… guardate là! - disse loro, in tono velatamente commosso – Non sono M-E-R-A-V-I-G-L-I-O-S-E?!” aggiunse, indicandole una ad una.

A quel punto, lo sguardo di tutti i presentì si dirottò verso l’orizzonte, proprio in direzione del crepuscolo ormai al suo apice. Ammutolirono di conseguenza.

Lo sono, piccola mia, e, devo ammetterlo, non le avevo mai viste… da questa prospettiva!

Si sentì di dire solo Camus, lo sguardo commosso a sua volta, il magone in gola da quanto era bello quello spettacolo, forse uno dei più belli a cui avesse mai assistito in vita sua.

E non credevo nemmeno possibile che, da qui, si vedessero così bene.

Aggiunse poi, prima di tacere.

Là, dove il cielo scarlatto toccava la terra, al di là di chilometri e chilometri di pianura, si vedeva gran parte della catena alpina, dalle Alpi Marittime fine alle Pennine, forse un poco oltre. Il bianco dei ghiacciai rifletteva meglio di altro l’intensità di quello scarlatto, prendendolo su di sé per trasmutarla nel rosa.

E di rosa, infatti, si erano colorate quelle cime così distanti da loro.

L’Alpenglow, lo scintillio delle Alpi, stava prendendo forma davanti ai loro giovani occhi.

Il cuore di Marta batteva tumultuoso nel petto a quello spettacolo, vinto da una emozione troppo difficile da reggere. Si voltò istintivamente verso gli amici al suo fianco. Tutti avevano negli occhi meravigliati quel fascio rosso che era l’ultima impronta del sole; tutti, nessuno escluso stavano sorridendo.

Erano semplicemente felici e, in quel preciso momento, era tutto.

Anche Marta allargò il sorriso nell’osservare i loro visi arrossati e distesi. Tuttavia qualcosa -inspiegabile!- le pizzicava le palpebre; la vista, nello scorgere le loro espressioni così serene, si era fatta un poco più annacquata.

La piccola non riuscì bene a capire cosa le stesse succedendo. Si accorse solo di stare tremando e che il tremore proveniva dall’interno del proprio petto, quando Camilla, probabilmente desiderosa di attenzione che giovani avventurieri non le stavano più dando, decise di cominciare a farle le feste, mettendosi su due zampe per poi scodinzolare come una forsennata.

“Che c’è?! Sei contenta anche tu?” le chiese Marta, gli occhi luminosi nel puntellare le gambe per sorreggerla dalle zampe anteriori.

La cagnolina, per tutta risposa, le diede due energiche leccate sulla guancia, cosa che la fece ridere a crepapelle di gioia.

“Ti vuole consolare. - intervenne Michela, lo sguardo furbetto nel guardare l’amica di poco più grande – Del resto, sei arrivata ultima sulla vetta!”

“Eh?!”

Marta non se ne era affatto accorta, la fissò sorpresa, prima di guardare Stevin il quale confermò con un cenno del capo.

“Incredibile ma vero, è così!”

“Oh...”

E tornò a guardare brevemente le Alpi lontane da loro e il cielo che si striava ancora più di rosso, complice qualche altocumulo che andava impreziosendo il cielo del colore dei papaveri, quasi ne fosse fiorito un prato intero nel blu sempre più avvolgente.

“E, sempre incredibile ma vero, stavolta ho vinto io!” trillò Michela, euforica, indicandosi con il pollice per poi compiacersi del risultato raggiunto.

Perché era la prima volta che capitava e, insomma, andava assolutamente festeggiato!

“A essere onesti… - prese parola Francesca, tossicchiando fintamente con aria da maestrina – la prima posizione spetta a Camilla, è lei che è arrivata per prima sulla...”

“Ooooooh, dai, Fra, la gara era tra noi bipedi, giusto?! Fammi vincere, per una volta!”

E scoppiarono tutti in una fragorosa risata che mise in allerta un gruppetto di daini poco sotto l’anticima dell’Antola, prima di dirigersi, rigenerati, verso il tanto agognato rifugio.

Arrivarono finalmente al luogo prestabilito che il sole era ormai completamente calato, ne rimaneva un buio non del tutto denso destinato a infittirsi, unito ad un vento frizzante che faceva accapponare la pelle. Neanche starlo a dire, Marta e Stefano, ben conosciuti all’interno della Valle Scrivia, vennero accolti insieme alle loro amiche con tutti gli onori.

“Ci avete riportato Camilla, grazie! - li salutò grato il rifugista, un giovane uomo con la barba lunga e i capelli un poco incolti – L’abbiamo presa da poco e non si è ancora abituata all’ambiente. Ama seguire le piste degli animali selvatici, andandosi, però, a perdere!” spiegò, con un largo sorriso cordiale.

“Possiamo dire che è stata lei a trovare noi e a condurci qui. - scrollò un poco la testa Stevin con garbo, sorridendo tenue – Non l’avessimo incontrata, chissà cosa ne sarebbe stato di noi!”

“Allora è stato un incontro provvidenziale! – ridacchiò il giovane uomo, prima di posizionarsi di lato per farli entrare - Dai, forza, il camino è caldo e la cena vi attende.”

Cenarono quindi con gusto e un pizzico di ingordigia, chiacchierando del più e del meno anche con i -pochi!- altri escursionisti presenti nella sala che li guardavano incuriositi nel vedere dei ragazzini così giovani interessati al trekking. La polenta con il sugo di salsiccia era squisita, così come i formaggi stagionati e, non in ultimo, la crostata di albicocche fatta in casa. Michela quasi pianse nel mangiarla, felice com’era e ancora eccitata al pensare che aveva vinto la prima, vera, gara stabilita da Marta.

Malgrado l’emozione della giornata affatto sopita e ancora ben presente, non andarono comunque a letto tardi, preparando minuziosamente -sotto le direttive di Stefano che era il più esperto!- le cuccette nella stanza che era stata adibita interamente a loro.

Camus era stravolto a sua volta, proprio come se avesse vissuto in prima persona quell’esperienza (e per certi versi era davvero così!) pertanto, una volta assicurato che i quattro amici si fossero sistemati nei rispettivi letti e che, con ogni probabilità, non si sarebbero più mossi fino al mattino seguente, si sedette a sua volta con la schiena contro il muro vicino alla finestra, rimanendo così a rimirare il chiarore della luce della luna e le fronde dei faggi che ondeggiavano al vento. Socchiuse gli occhi, meditabondo, non prima di aver dato un’ultima occhiata ricca di affetto ai letti a castello dove si erano coricati i ragazzi.

Sospirò tra sé e sé, tornando a pensare a cosa stesse succedendo ‘fuori’ dal suo cervello. Aveva già ampiamente compreso che stava rivivendo i ricordi della sorellina realmente accaduti e che, al di là di quello spazio di singolarità in cui si era ritrovato, c’era il presente e c’erano i suoi amici, Milo fra tutti. Forse avrebbe dovuto svegliarsi, in qualche modo, uscire da quell’area calda e sicura per trovare il coraggio di affacciarsi alla realtà dopo lo scontro contro Utopo.

Il punto era che… non voleva!

Qualcosa lo bloccava lì; qualcosa che solo in minima parte aveva a che vedere con il trauma appena subito -si mise istintivamente una mano sulla pancia nel rammentare l’ago che si insinuava nel suo ombelico- e che tuttavia dipendeva da fattori solo parzialmente logici.

Lui voleva rimanere lì perché voleva continuare a vedere la sua Marta. Era sciocco, egoista senza dubbio ma… per una singola volta, dopo aver sofferto così tanto come Sacro Guerriero di Atena, desiderava seguire soltanto il suo stesso volere senza rimpianti.

Perdonami, Milo, so che sarai preoccupato per me, anche se non capisco cosa mi stia succedendo là fuori, ma… al solito, capirai senz’altro il motivo di questa mia scelta, giusto?

Si domandò, prima di assopirsi lì, con la schiena appoggiata al muro, la luce tenue fuori e i respiri delle sue allieve più Stevin a fargli da ninnananna.

Non passò molto tempo, in verità, che, quasi inconsciamente, forse favorite dal dormiveglia, passarono nella sua mente immagini della giornata appena trascorsa. Vi era il bosco rinascente di faggi sopra la sua testa, i raggi che trapelavano dai rami; e poi ancora, il folto pelo di Camilla, nel quale aveva affondato la testolina e aveva socchiuso gli occhi, respirando l’umido e il selvatico. Oltre a ciò, i fili d’erba arrossati che danzavano all’aria, il rosso acceso del crepuscolo, il profilo lontano delle Alpi, i daini spaventati che, balzando, si allontanavano verso la schiena delle montagne vicine. Più di tutto, sopra questo, vi erano i sorrisi, quelli delle sue amiche e di Stevin, le loro iridi rosate e la felicità sui loro volti, preziosa più dell’acqua.

Prima ancora di potersene accorgere, le lacrime varcarono la porta del sonno per poi trapelare fuori dalle sue palpebre. Camus riaprì gli occhi nell’avvertire un’emozione dolcissima insinuarsi nel petto e lì rimanere, tremolando tiepida insieme al suo battito cardiaco. Si raddrizzò, posandosi una mano sul petto per poi svegliarsi completamente.

A pochi passi da lui, stagliata nella luce tenue della luna, vi era Marta, in piedi e intenta a guardare fuori dalla finestra con le mani intrecciate sul seno appena accennato. Stava sorridendo e piangendo insieme, le guance rigate dalle lacrime per un qualcosa che era difficile, se non impossibile, esprimere a parole.

Piccola, che ti succede, adesso? Non…

Capì tuttavia, prima di ultimare il pensiero, che quei flash che aveva visto prima, quelle immagini, erano frutto della stessa mente di Marta che, nel cuore della notte, spinta da quel qualcosa che sentiva vibrare nel cuore, si era alzata in piedi per affacciarsi alla vetrata.

E così Marta piangeva e sorrideva insieme, così come lui. Erano un tutt’uno.

Si alzò, traballante, in piedi, non sapendo bene che fare perché l’emozione condivisa era talmente intensa da rendere difficoltoso il resto; fortunatamente una figura avvolta dalla coperta si mosse dai letti a castello e, scendendo con attenzione dagli scalini, si avvicinò a lei.

“E-ehi, che ti succede?”

“Stevin...” lo chiamò Marta, voltandosi verso di lui e mostrando con naturalezza le lacrime, cosa che lo mise istantaneamente in allarme.

“Cavolo! Brutte le prime mestruazioni, eh, sembri...”

Dovette evitare con agile maestria un calcio rotante che -doveva ammetterlo- se lo avesse centrato gli avrebbe fatto non poco male.

“Non è così, idiota!” gli soffiò Marta, indignata, sempre con il volto rigato dal pianto ma inviperita dall’illazione gratuita.

“Massì, lo so, lo so! - ridacchiò lui, prima di sedersi davanti alla finestra per fissare a sua volta il chiarore della luna – E’ solo che, sai, mio nonno mi ha detto che quando per voi è quel periodo siete più emotive, in balia degli ormoni, e anche più fragili.”

“Nonno Mario dice un sacco di cose, ma qui ha preso un granchio.” obiettò Marta, prendendo posto al suo fianco.

“Davvero? Però un fondo di verità c’è.”

“Può darsi, ma non è questo il caso.”

“Mmh. - Stefano soppesò le sue parole, prima di permettersi, con la mano destra ancora avvolta dalla coperta, di carezzarle un poco la testa e così i capelli castani – Che succede, quindi?”

“Niente, pensavo.”

“Tu pensi sempre, ma vederti piangere e ridere insieme non è esattamente cosa di tutti i giorni.”

“...”

Non era una sensazione facile da decifrare, persino per lei che di emozioni ne era profusa, avendo anche la dimestichezza di capirle, catalogarle e confrontarsi.

“Stai male per qualche ragione?” insistette Stefano, realmente preoccupato dalla sua reazione.

“No, non è nulla di spiacevole.”

“E allora cosa..?”

“E’ stata… davvero una bellissima giornata, non trovi?”

“!”

Gli occhi le si erano fatti nuovamente lucidi nell’esprimerlo, mentre, rabboccando aria, strizzava le palpebre per sorridere tra sé e sé.

“Voglio dire, è stato tutto perfetto, perfino smarrire temporaneamente la via per incrociarci con Camilla e salire in Antola giusto in tempo per il tramonto. - prese una breve pausa, il sorriso le si allargò – Michela e Francesca… erano così contente!”

“Già. - annuì Stefano, tornando a guardare fuori – C’è stato un terribile momento in cui sarebbe potuta risvoltare male l’intera gita ma, quasi per ironia della sorte, è stato proprio quel frangente a rendere tutto il resto così splendido. Anche io… anche io mi sono divertito molto!”

“Pensavo proprio a questo, mi si sono formate determinate immagini in testa e, nulla, Stevin, mi è venuto da piangere e sorridere al tempo stesso, non riuscivo smettere, né a stare comoda sul letto, quindi mi sono alzata.”

A quel punto Stefano si voltò interamente verso di lei, osservandole con meraviglia il viso nuovamente bagnato dal pianto e il sorriso delineato sulle labbra, dei più belli che le avesse mai visto.

“Quindi… sono lacrime di gioia?” chiese conferma, mentre l’amica, appoggiandosi a lui per poi rannicchiarsi, annuiva tacitamente, continuando a piangere senza potersi fermare.

“Marta...”

“V-vorrei solo che… che quest’attimo, questa giornata, fosse eterna!” riuscì infine a dire, non celando il tremore crescente né la gioia per i bei momenti trascorsi tutti insieme.

Stefano la abbracciò tacitamente, senza aggiungere nient’altro. Non c’era nulla da dire, in effetti, nulla che sarebbe potuto essere espresso da semplici parole. Le diede alcune pacche leggere tra le scapole, prima di sorridere tra sé e sé e tornare a guardare fuori dalla finestra.

La luna era splendida, rischiarava le cime dei faggi ancora parzialmente spoglie, dandogli ombre proprie, prolungate, di una fresca nottata di primavera ormai avviata.

Un attimo che diventava eterno…

“Sì, hai proprio ragione. - confermò infine, sereno, avvolgendola meglio con la coperta in modo che un lembo le facesse da cappuccio – E’ stata la giornata più felice della mia vita fino ad ora e, ne sono convinto, ce ne saranno molte altre!”

Marta boccheggiò vagamente davanti a quell’affermazione, incanalando dentro di sé quella verità come se fosse tutto ciò di cui necessitava.

Ce ne sarebbero state altre…

Sorrise alla luna, permettendosi di chiudere gli occhi, respirare più a fondo, e sentirsi parte integrante, per quanto piccola, dell’immenso.

“Certo, ce ne saranno altre, anche io ne sono sicura, Stevin!” gli disse, finalmente serena – E noi non smetteremo mai di esplorare insieme la Valle, non è forse così?!”

“Sì,te lo prometto!”

“Ebbene… lo prometto anche io, Stevin!” confermò lei, prima di assopirsi appoggiata alla sua spalla.

 

 

Ottobre 2008

 

 

“Mmm, dunque… - rimuginò Marta, squadrando la cartina da cima a fondo nell’individuare una possibile via alternativa. – Se passassimo da qui, dal torrente di Aia Vecchia?”e indicò la zona in questione.

“E’ impossibile, ricordi? - la contradisse Stefano, concentrato come lei nella risoluzione del problema – Ci abbiamo già provato da più piccoli e non si può: il rio, da un certo punto in poi, si innalza di troppo, c’è una spessa parete calcarea per raggiungere il laghetto sopra ed è tremendamente scivolosa. Dai due lati lo scalino è comunque troppo alto, forse si potrebbe riuscire a scendere, ma a salire...” lasciò la frase in sospeso, corrucciato.

“Neanche ora che siamo più grandi e abbiamo le gambe più lunghe?” chiese speranzosa Marta, gli occhi di chi non si voleva proprio arrendere.

“Non credo, no.”

“Uff, ma allora come si fa? Come si raggiunge il paese abbandonato di Tessaie o Tassaie?”

Stefano tornò giù con lo sguardo, su quella cartina dettagliatissima che erano riusciti a reperire e che tuttavia non dava garanzie di riuscita del piano.

In tutti quegli anni di vagabondaggio nella valle avevano scoperto ed esplorato innumerevoli luoghi, alcuni impervi e praticamente inaccessibili ai più, altri larghi e spaziosi, quasi magici a pensarli parte integrante di una valle così stretta come era la Valbrevenna, che non finiva mai di stupire. Ormai i due ragazzi potevano dire di conoscerla a menadito, nonostante alcune zone fossero ancora impossibili da raggiungere.

Era il caso di Tessaie, paese dirimpettaio di Cerviasca, sito in versante destro della valle e posto più o meno alla stessa altezza del paese di Stefano e di suo nonno. Tuttavia, contrariamente a quest’ultimo, recuperato quasi interamente grazie agli sforzi di Mario, aveva avuto una sorte ben più ingrata, diventando un cosiddetto ‘villaggio fantasma’. Infatti non ci abitava più nessuno da diversi decenni e tutte le mulattiere che un tempo erano state vere e proprie arterie della valle, erano completamente saltate, rendendo il luogo inagibile.

Ma i due bambini, ormai divenuti ragazzi, non erano affatto intenzionati a gettare la spugna: anche Tessaie meritava di essere visitata e conosciuta, soprattutto non dimenticata, sebbene la vegetazione, rovi e vitalba fra tutte, la stesse inglobando a vista d’occhio.

Perché tutto ciò che veniva dalla natura tornava ad essa, al termine del ciclo. La morte inseguiva la vita. Sempre.

“Dunque… mio nonno mi aveva detto che, nel secolo scorso, Tessaie era raggiungibile da due mulattiere. Una, questa qui, portava al paese di Pareto, ad oggi uno dei più abitati nel periodo estivo. – Stevin indicò il lato sinistro della cartina con l’indice, prima di spostarsi, seguendo una linea immaginaria, da parte opposta – E l’altra, invece, partiva dall’abitato di Casareggio e… ehi, mi stai ascoltando?!”

“Eh?!”

Marta sussultò, come se il richiamo l’avesse appena fatta cadere giù dal cielo. Con non poca fatica, tornò lì, sul presente, vicino all’amico di sempre che la fissava con preoccupazione.

“Dov’eri? Avevi lo sguardo assente!” le disse, con un pizzico di urgenza.

“Scusami, Stevin, mi si era creata, forte, l’immagine mentale di come appare Tessaie adesso dal tuo paese di Cerviasca.” mugolò lei, un poco rattristata.

“E..?”

“E nulla, le case vuote mi stavano risucchiando. Quelle loro finestre ormai prive di luce, un tempo gremite di vita; la vegetazione che le soggioga, inglobandole dentro di sé per poi, in tempi relativamente brevi, farle scomparire, un po’ come è successo al paesino di Campo Antico, ricordi? Sulle carte e negli archivi è presente, ma quando abbiamo fatto il sopralluogo nella sua corretta ubicazione, vi erano rimaste solo un mucchio di pietre senza più neanche la parvenza delle case che sono state.”

“Sì, è vero, è molto triste...”

“Già.”

Marta sembrava sull’orlo di una nuova crisi, l’amico si sentì in dovere di darle una leggera gomitata tra le costole per risollevarla.

“Però almeno noi sappiamo che sono esistite, no? Sappiamo che ci hanno abitato delle famiglie che, come noi, avevano sogni e speranze. Non tutto è andato perduto, lo scritto è rimasto e, anche se sbiadirà il ricordo, loro avranno comunque lasciato un segno!”

Marta non era così sicura della veridicità delle parole dell’amico. Del resto, ogni cosa, checché ne dicesse Francesca, prima o poi scompariva per davvero, nel giro di tre generazioni massimo, e tutto pareva davvero privo di senso. Lo guardò ancora sconfortata, prima di rendersi conto di non poter continuare a fare la musona ogni volta che sopraggiungeva un pensiero triste. Per lui, ma anche per sé stessa. Era finito il periodo delle lacrime e dei capricci.

“Hai ragione, per questo noi… raggiungeremo Tessaie, in un modo o nell’altro, sebbene i sentierini siano saltati e la vegetazione l’abbia quasi del tutto inglobata! Glielo dobbiamo a chi se ne è preso cura prima dell’abbandono!” disse, grintosa, tramutando la sua faccina un poco spenta nel più bel sorriso che potesse disporre.

“Sono d’accordo! - Stevin si portò le mani al petto, chiudendole a pugno – Allora recuperiamo subito delle cesoie prima di avventurarci nell’impresa. Ci sarà da tagliare e infrascarci per bene, ma noi...”

“Cough! Cough!!!”

Furono interrotti dai violenti colpi di tosse di Nonno Dante. Marta istantaneamente si raggelò, dandogli un’occhiata preoccupata e facendosi subitaneamente tesa. Ultimamente le sue condizioni sembravano scadenti, non era chiaro il motivo, ma era cominciato tutto da quell’estate, dal caldo atroce che, ancora una volta, aveva quasi soffocato la valle. Un tempo le temperature così alte erano assai rare e ridotte a brevi periodi, generalmente tra la fine di luglio e agosto -aveva raccontato loro Nonno Mario- ma il clima globale andava sempre più surriscaldandosi, perfino lì, in quell’angolo di mondo solitamente fresco in estate e gelido in inverno.

“Dante, sei sicuro di farcela? Dovresti riposare!” lo avvertì Nonna Inés, premurosa nella sua mansuetudine, vedendolo armeggiare con la giacca.

“No, ho bisogno di sgranchirmi un po’ le gambe, stare qui nell’inedia mi fa stare solo peggio! - rispose lui, al solito brusco, prima di dare un’occhiata ai due ragazzi sul tavolo del salotto e addolcire impercettibilmente lo sguardo – E poi ho bisogno di stare un po’ con i miei nipoti!”

Nipote… Stevin non lo era di sangue, ma in tutti quegli anni si era formato un legame saldo tra loro e il giovane veniva affettuosamente chiamato a sua volta con quell’appellativo. E così i nonni, da uno, erano passati a tre, e una mamma, quella di Marta, una sorella maggiore e una minore quali Francesca e Michela e… beh, ovviamente la sua preziosissima compagna di avventure, la sua persona con la quale era cresciuto.

Calore ne era derivato… ma il calore -si era ben presto reso conto Stefano- poteva essere un’arma a doppio taglio.

“COUGH! COUGH!”

Altri colpi di tosse, ancora più intensi, tanto da obbligare Nonno Dante a piegarsi quasi in due, sorretto dalla moglie che lo teneva con premura mista ad ansia.

Gli occhi di Marta si fecero più scuri, una smorfia triste prese largo in lei. Istintivamente strinse un pugno con impeto per farsi forza e rigettare indietro quell’orrenda sensazione sottopelle, di qualcosa che sarebbe potuto accadere di lì a breve senza sapere con nitidezza quando.

“Dante... sei veramente sicuro?”

“Sì, Inès, non ti angustiare, ho solo bisogno di un po’ d’aria. - tagliò corto il nonno, allontanandosi immediatamente dalla consorte, come se il solo fatto di essere toccato potesse manifestare pienamente tutto il suo malessere - Volete… venire con me?” chiese poi ai due nipoti, guardando intensamente uno e l’altro.

“Noi...”

“Certo, nonno! - parlò per entrambi Marta, alzandosi in piedi, intrecciando le braccia dietro la schiena per poi regalargli un intenso, quanto difficoltoso, sorriso – Stavamo valutando la nostra prossima meta da raggiungere, ma… ci siamo!”

In effetti c’erano, anche a Stefano avrebbe fatto piacere, ma era difficile, in certe situazioni, capire pienamente Marta, cosa le frullasse per la testa; e il rapporto con il nonno, sebbene migliorato notevolmente negli ultimi anni, era sempre stata una incognita piuttosto seria, visto i loro molteplici alterchi.

“Uh, e dove andrete nella prossima avventura?” volle sapere Dante, gli occhi che brillarono impercettibilmente in una curiosità forzatamente trattenuta.

“Tessaie, il paese abbandonato sul versante opposto di Cerviasca, proprio il suo dirimpettaio!”

“Sembra piuttosto impegnativo...”

“Già, abbiamo tentato più volte di raggiungerlo, fallendo, ma la prossima volta saremo di certo più preparati! - ammiccò lei, allargando il suo sorriso, prima di girarsi verso l’amico di sempre – Io vado a cambiarmi le scarpe, Ste, torno subito!”

Fece per dirigersi verso il primo piano, entusiasta alla sola idea di uscire a camminare per sfogarsi almeno un po’, ma prima ancora di compiere il giro completo intorno a lui per andare verso il corridoio e così le scale, venne fermata dalla mano del nonno che le cinse il polso. Sussultò a quel gesto, irrigidendosi di conseguenza: l’ultima volta che si era permesso di azzerare le distanze tra loro a quel modo non era stato affatto piacevole, ciò le riportò alla mente la triste sorte di Bibo e le sue parole spietate. Ebbe quindi l’istinto di divincolarsi e scappare via: il rapporto era migliorato, non risanato, ma si trattenne con tutte le sue forze, sforzandosi di guardarlo nuovamente in faccia.

“Nonno, che succ..?”

Si interruppe. Il viso che aveva di fronte, reso più spigoloso e affilato dalla vecchiaia, non aveva più molto dell’aspra alterigia che, pur a fin di bene, le aveva sempre dimostrato. Deglutì a vuoto, avvertendo il suo cuore palpitare. Per un solo istante, sentì il bisogno di abbracciarlo, di tornare la bimba spensierata e felice che si intrufolava tra le sue braccia, del tutto sorda ai suoi lamenti sul fatto che quel comportamento fosse puerile e assolutamente da evitare. Si trattenne, anche se a stento. La distanza l’aveva ricercata lui, allontanandola… perché ora sembrava volerla accorciare, per non dire annullare?

E tuttavia gli occhi di suo nonno perduravano ad essere gremiti di qualcosa di oramai inconciliabile. Da parte di entrambi. O forse solo dalla parte di lei?

“Nonno… - ritentò, un poco seccata – Che succede? Lasciami andare a prep...”

“Marta...”

Una sola parola, il suo nome, l’occhiata disorientata della nipote, prima di trarla a sé in un inaspettato, quanto sconvolgente, abbraccio. La ragazza trattenne un ansito, sbatté più volte le palpebre, ancora incredula, mentre il suo corpo minuto si adattava a quello stanco e logoro del nonno che, pur piegato su sé stesso dalle fatiche del tempo, la accoglieva contro di sé.

Tremò, mentre gli occhioni le si fecero istantaneamente lucidi senza che il suo, di corpo, riuscisse a ricambiare quel goffo tentativo di abbraccio. Respirò però a fondo il suo odore, un qualcosa di affine al profumo del legno di quercia che brucia nel caminetto. A stento riuscì a rilassarsi a sufficienza per accorgersi che no, non era un sogno, il nonno la stava davvero stringendo come mai si era permesso di fare in vita sua, che un istante dopo, giudicando concluso il momento di debolezza, fu proprio lui a distaccarsi, sospingendola lievemente verso la porta per poi voltarsi in direzione opposta.

“Vai a cambiarti, forza! Ormai sono vecchio, se facciamo troppo tardi rischiamo di non partire nemmeno, e le giornata ad ottobre sono già piuttosto corte.” disse, un poco ruvido, cercando di non mostrare alla nipote che gli occhi si erano fatti lucidi.

Marta rimase un poco incerta, il corpo già in direzione dell’entrata ma la testa ancora rivolta verso di lui. Ne voleva ancora, era evidente, perché, anche se in apparenza non sembrava, le coccole e il calore non le bastavano mai.

“Vai! - la spronò ancora il nonno, continuando a darle la schiena – O hai cambiato idea?”

“No.” rispose placida lei.

“E allora cosa c’è?”

“C’è che… - prese fiato, chiuse e riaprì gli occhi, preparandosi ad esternare quanto sentiva - Ti voglio bene, nonno!” disse tutto di un fiato, prima di avvampare conseguentemente e fuggire letteralmente via.

“Uff, è sempre la solita nel dire così spontaneamente simili smancerie.” sbuffò sottovoce, scrollando la testa.

“Ne aveva bisogno ancora, lo sai...” si sentì di dire Stefano, abbassando lo sguardo nel capire i sentimenti dell’amica.

Non ottenne risposta, solo un silenzio pesante che odorava di rimorso e che pizzicava le narici e poi la gola.

Marta non ci mise comunque molto a tornare giù, del resto il tempo stringeva per davvero. Nonno e nipotina erano ancora in estremo imbarazzo tra loro quando uscirono dalla casetta seguiti a breve distanza da Stefano che li osservava tacitamente nel desiderio di essere d’aiuto senza sapere bene come fare. Fortunatamente, dopo i primi, maldestri, passi insieme, le parole vennero da sole e la ragazza, ravvivata, incominciò a parlare a più non posso.

Percorsero tutti e tre insieme, adagio adagio, la stradina sterrata che, da Carsi, portava al paese disabitato di Gherfo e, ancora più su, divenendo sentiero, percorreva un immenso castagneto sito a mezza costa che, scavallando Cerviasca, avrebbe poi condotto sulla montagna fiorita per antonomasia: il Monte Antola. L’obiettivo, quella volta, non era raggiungere la cima, bensì arrivare nella località chiamata ‘il Ballo della Gallina’ dove si sarebbe potuto ammirare un tramonto meraviglioso.

Camus -sempre presente passo passo al fianco inconsapevole della sorellina ma più corrucciato del solito- li seguiva a corta distanza, non perdendosi un solo attimo di quei momenti che avevano un non so che di definitivo. Gli interventi precedenti lo avevano stroncato, ma non erano comunque stati quelli a renderlo così… appesantito.

Guardò prima il nonno, che arrancava per stare al passo con i due giovani, poi Stevin, che aveva un velato sorriso a solcargli le guance e, infine la sua Marta, un vero e proprio fiume di parole in piena, in grado da sola di alleggerire il cuore e lo spirito degli altri due, nonché il suo.

Era evidentemente a suo agio, finalmente libera di esprimersi e corroborata dall’abbraccio genuino che le aveva dato il nonno. Era felice, anche se Camus avvertiva comunque in lei, nel suo giovane cuore, una punta di dolore che, sebbene affossata, non era del tutto scomparsa.

Li seguì lungo tutto il sentiero, godendosi il panorama e i colori autunnali che, proprio in quella stagione, prendevano sfumature meravigliose e quasi magiche. Ciò gli diede occasione di rimuginare anche sulla sua vita, se già non lo aveva ampiamente fatto fino a quel momento. Quel viaggio nei ricordi della sorellina era stato anche un percorso per riscoprire sé stesso, per recuperare le sue radici. Non poteva dire che non gli avesse fatto male, no, il petto doleva sempre di più e troppo spesso si percepiva gli occhi lucidi, sul punto di piangere, ma se quel dolore era il giusto compromesso per vedere crescere Marta e avvicinarsi ulteriormente alla sua famiglia perduta, non avrebbe potuto chiedere di meglio. Scrollò un poco il capo, malinconico, tornando a guardare le cime colorate del bosco lontano e vicino, quasi braci ardenti che si innalzavano verso il cielo e che, all’occorrenza, potevamo essere gialle, arancioni, oppure rosse.

L’autunno in quelle zone… era veramente magnifico!

Ad un certo punto lungo il tragitto, quando ormai la camminata della piccola comitiva, stante le condizioni del nonno, aveva virato verso un rallentamento; dalla parte opposta del fitto del bosco emersero due figure. Marta non le vide subito, ma percepì forte e chiaro il trasalimento di Stefano che, impietrito, si bloccò timoroso. La ragazza lo osservò incuriosita, prima di seguire la direzione del suo sguardo e comprendere il motivo di un tale sconvolgimento. Li riconobbe all’istante ma non li salutò, non subito. Fu suo nonno a parlare.

“Ah, buonsalve Signor Egidio e saluti anche a te, Andrea. Cosa vi porta su da noi, a quest’ora?” disse, affabile, togliendosi il berretto in segno di rispetto.

“Ah, Signor Dante, buonasera! Sempre sul pezzo Lei, nonostante la sua età!” ricambiò il saluto l’altro, avvicinandosi.

“Beh, insomma… si fa quel che si può!”

“Ma Lei è in gamba, lo sa, e… oh, salute anche a voi, Marta e Stefano!”

Il nuovo arrivato guardò anche i due ragazzi, allargando il suo sorriso, prima di fermarsi proprio davanti a loro nello stesso momento in cui il suo giovane accompagnatore, borbottando qualcosa di incomprensibile, rimaneva invece nascosto dietro la sua schiena, ben poco allietato di aver incontrato proprio loro e di doverci pure chiacchierare.

Il disagio era evidentissimo, da entrambe le parti.

Dalla parte di Marta e Stefano, che volevano sparire seduta stante.

E dalla parte di Andrea, l’ex bulletto di Mareta, che per buona parte dell’infanzia si era divertito a bullizzarli.

Il punto era che gli adulti non lo sapevano, neanche si immaginavano le lotte che erano avvenute tra le due fazioni, né tanto meno che in molte di quelle si era perfino arrivati alle mani. Non lo sapevano. E non avrebbero mai dovuto saperlo, visto che le rispettive famiglie andavano d’accordo.

Egidio, il tuttofare della valle, nonché padre di Andrea, era conosciuto e ben voluto da tutti perché, volentieri, si prestava ad aiutare i valligiani con lavori e manodopera varia, indispensabili in un piccolo comune in cui si conoscevano tutti.

Per la verità, giravano voci su di lui che, neanche troppo tempo prima, era stato una manciata di anni in prigione per crimini che non era dato sapere con certezza. La gente mormorava, nei paesi ancora di più, ma poi Egidio aveva cominciato a prodigarsi per la valle, a offrire aiuto a tutti, e le voci si erano attenuate o passate direttamente in sordina perché, alla fine, come recitava un detto della valle: ‘le braccia che lavorano sono più preziose delle lingue che parlano’.

“...Cosa ci faccio qui, mi ha chiesto? Beh, è il mio giorno libero e ho deciso di portare mio figlio Andrea a respirare un po’ di aria pulita. Sa, da quando ha avuto l’incidente...”

Il dialogo sembrava doversi protrarre più a lungo di quanto sperato. Stefano rabboccò nervosamente aria, desiderando più intensamente che tutto finisse nel più breve lasso di tempo possibile. Ma non sembrava quello il caso. Continuava a gettare occhiate oblique all’altro ragazzo, preda del suo stesso disagio. Certo, non vi era più, in lui, quella foga inaudita degli anni giovanili, quella rabbia traboccante che spesso e volentieri gli aveva riversato contro -perché erano stati compagni di scuola Elementare e Media- e dalla quale Marta, pur più piccola, gli aveva sempre fatto da scudo. No, non c’era più quel furore, quell’odio. Dal giorno dell’incidente, dal ritorno di suo padre nella sua vita e soprattutto dopo il lungo periodo di degenza in ospedale, Andrea sembrava notevolmente essersi calmato.

Eppure continuavano a non andare d’accordo.

“Ehm...”

Marta sembrava intenzionata a parlare a sua volta. Stefano la provò a guardare supplice, scrollando la testa come a dirle di non farlo, che non era il caso, ma la sua amica non lo stava guardando, presa ad osservare, con una nota di tristezza, l’altro ragazzo.

“Come… va?” gli chiese infine, visibilmente in imbarazzo.

“Bene. Ora bene.” borbottò in risposta, facendosi ancora più cupo, quasi funereo.

“L-la, ehm, protesi nuova… come ti trovi?”

“Meglio della precedente. - disse, alzando proprio il moncherino che contraddistingueva la sua mano destra – Il mio corpo riesce ad adattarsi meglio, e comunque ho imparato ad usare perfettamente la sinistra.” spiegò, il più conciso possibile, mostrando la mano integra.

“Oh, buon per te!” sorrise tenue Marta, prima di abbassare lo sguardo perché comunque il desiderio di scappare era vivo da entrambe le parti.

Il desiderio di scappare, già… -rifletté Stefano, ben poco loquace- che cosa fosse avvenuto realmente quel giorno era ancora un mistero. Non ne aveva neanche più parlato con Marta, argomento tabù, e… forse… meglio così.

Strinse il pugno sinistro, mordendosi le labbra. In verità, un dubbio aveva continuato a rimbalzare nella sua testa per tutti quegli anni, ma non voleva crederci, no, era impossibile… vero? Osservò tacitamente Marta scambiare un paio di chiacchiere cordiali con lui, come se non fosse successo niente. E, del resto, anche dall’altra parte vi era del disagio, sì, ma nulla che potesse far pensare che Andrea sospettasse di lei, che la reputasse, in qualche modo… corresponsabile.

Corresponsabile?!

Impallidì a quel pensiero. No! Come poteva anche solo avere il sospetto su di lei, reputarla artefice di quel… dell’incidente! No, era impossibile… I-M-P-O-S-S-I-B-I-LE!

Rabboccò ulteriormente aria. Assurdo! Certo che era assurdo. Assurdo e nient’altro!

Fortunatamente la parabolica conversazione si esaurì totalmente nell’arco di una manciata di minuti. Si salutarono con un cenno del capo, prima di dirigersi verso le rispettive strade. Stefano sperò ardentemente di non incrociarli nuovamente al ritorno.

Il sole stava già declinando, si erano attardati troppo e la loro andatura era sempre più appesantita. In fondo non importava, davvero, bastava trascorrere quanto più tempo possibile insieme.

Marta, preda dei suoi pensieri, guardò malinconicamente il cielo che andava tingendosi di cremisi. Aveva gli occhi tristi ma un’espressione indecifrabile sul volto. Stevin fu quasi sul punto di chiederle spiegazioni, ma l’amica parlò prima di lui.

“Sai… non ho mai capito cosa sia successo ad Andrea.”

I passi di Stefano si fermarono di botto e, inconsapevolmente, anche quelli di Camus. Entrambi la guardarono sconcertati.

“Mi dispiace comunque per lui, non meritava una cosa simile… - continuò lei, un passo davanti all’altro, non rendendosi conto che l’amico, invece, si era fermato – Sì, è vero, non si è comportato granché bene con noi, men che meno con te, Stevin, ma una tale menomazione non la augurerei a nessuno!”

“T-tu… tu...”

Stefano aprì più volte la bocca a vuoto, profondamente scosso. Marta, da un certo punto in poi, non lo percepì più accanto a sé, si girò quindi interrogativamente verso di lui.

“Che succede? Qualcosa non va?”

Lo guardò a lungo. Sembrava sconvolto da qualcosa, lo vide inumidirsi le labbra alla ricerca delle parole mancanti.

“Tu...”

“Sì?”

Non ricordi… quello che hai fatto, piccola?! Non rammenti proprio che sei stata tu a..?

Fu Camus a parlare al posto del ragazzo, umettandosi le labbra a sua volta, turbato da una simile rivelazione: possibile che sua sorella non ricordasse minimamente cosa fosse accaduto?!

“Niente.” glissò velocemente Stefano, guardando altrove, prima di affiancarla. Il viso un poco rabbuiato.

“Però, almeno, è migliorato molto, rispetto a quando era più piccolo, no?! - riprese trillante Marta, rilassandosi nel pronunciare una simile frase – Sai, penso che non ti darà più fastidio, Ste.”

“Mmm, se lo dici tu...”

“E’ la dimostrazione vivente che, in fondo, sono davvero poche le persone realmente cattive. Molte lo diventano perché… beh perché questa vita, che tanto da, toglie e strappa anche tanto. Può essere… crudele!” ragionò ancora lei, sospirando nel soffermarsi su quel pensiero.

Ancora si fece triste, ma lo scacciò in fretta, recuperando il buonumore.

Si fermarono infine in una radura di castagni secolari proprio sotto un enorme fusto di un albero morto da decenni che tuttavia conservava, impresso nel proprio tronco, il segno del tempo passato. Sembrava immenso, non sarebbero bastate le braccia aperte di cinque persone per abbracciare interamente la sua circonferenza. Si raccontava a Carsi che quel castagno si trovasse lì dal 1349 e che gli abitanti lo avessero piantato per celebrare la fine della pestilenza che, anche se in maniera minore rispetto alle città, aveva flagellato anche quei luoghi. Erano passati secoli, quasi 7, sotto l’albero il bosco si era diramato, la vita si era accresciuta e moltiplicata. Ma il tempo impietoso era trascorso anche per lui e, lentamente ma inesorabilmente, la morte lo aveva raggiunto, lasciando il suo solo tronco mastodontico -e i rami che ancora abbracciavano il cielo!- come retaggio del suo lungo esistere.

Chissà quanti scoiattoli ci avevano trovato una tana…

Chissà quanti uccelli canterini ci avevano costruito il nido…

E chissà quanti bimbi si erano fermati a rifiatare sotto la sua chioma per riposare dalle fatiche della camminata.

Era sopraggiunto già il crepuscolo. Ormai era chiaro che non sarebbero mai arrivati in tempo sul crinale per vedere il tramonto, il nonno di Marta non ce l’avrebbe fatta. Pertanto si fermarono proprio sotto il grande albero per rifocillarsi con un po’ d’acqua. L’atmosfera era dorata, si prospettava un tramonto stupendo che loro avrebbero visto solo tramite l’irradiarsi del sole sulle foglie degli alberi. Sarebbe bastato anche da lì, del resto l’aria era così tersa, l’atmosfera così magica, che non importava davvero arrivare fin sulla cima, bastava stare lì, godersi il momento, riempirsi gli occhi di meraviglia.

In effetti, Marta stette buona solo per un paio di minuti, poi, con sguardo vivace ed energia da vendere, iniziò a correre e saltellare per tutta la radura, preda di una crisi iperattiva che non la prendeva da un po’. Fu un sollievo rivederla così. Certo, in tutti quegli anni di momenti in cui tornava quella di sempre c’erano stati, in mezzo tra una crisi esistenziale e l’altra, ma vederla ancora così… euforica… era assolutamente manna dal cielo.

Sia Stevin che Camus avevano lo stesso sorriso orgoglioso in quel momento, a differenza del nonno che, pur guardando la nipote, gli occhi ancora brillanti, aveva il viso pallido e tirato dalla stanchezza.

Crepuscolo. E tutto era dorato.

Crepuscolo. E la vita era più forte che mai.

Crepuscolo.

“A guardarla così spensierata che… abbraccia gli alberi… - sorrise Stevin, osservando l’amica passare di tronco in tronco per circondarlo con forza in una manifestazione affettuosa – Mi sento più alleggerito anche io.” ammise, sentendosi sollevato nello spirito.

Nonno Dante non rispose, si limitò ad annuire.

“In questi anni ci sono stati momenti in cui non la riconoscevo, momenti difficili, di crisi, ma siamo entrambi qui, siamo cresciuti, e lei...”

“Cough! Cough!”

Stevin si raggelò nel mezzo del discorso, girandosi allarmato verso il nonno di Marta per vederlo disperatamente arrancare, preda di una tosse cattiva e nevrotica che il ragazzo non aveva mai sentito con una tale intensità. Si allarmò.

“No-nonno, tutto bene?” chiese, posandogli una mano sulla spalla nel chiedersi come poterlo aiutare maggiormente. A volte sembrava non riuscire nemmeno a respirare…

“O-oh, f-finalmente, anf, ti sento chiamarmi con l’appellativo che ti ho chiesto, dopo che per anni mi hai dato del Lei.” gli sorrise debolmente.

Stevin si irrigidì un poco, arrossendo: “I-io… scusa è che… non è facile.” si grattò la testa, a disagio.

“Fa’ niente, siamo uomini, ci siamo capiti, uff...”

“Cosa ti succede? Cosa hai? E’ da un mese che...”

“Non ho niente, è una cosa che si chiama vecchiaia. Arrivarci è un lusso, esserlo… un po’ meno!” rispose pratico Nonno Dante, dando un’occhiata alla nipotina che era in quel momento chinata per terra, del tutto presa a frugare tra le foglie per cercare delle castagne.

Stevin non capiva appieno, lo osservava, buttò un occhio su Marta, per poi tornare su di lui.

Camus invece, appoggiato in piedi vicino a loro sulla destra del grande tronco, le braccia conserte e gli occhi lucidi, capiva anche fin troppo. Si morse il labbro inferiore, prima di posare anche la nuca sul legno in una espressione che tradiva un certo dolore. Chiuse e riaprì gli occhi, osservando la chioma nuda di quel castagno secolare a confronto con le altre fronde intorno che, proprio prima di addormentarsi in preparazione della stagione vegetativa, sfoggiavano appieno il loro colore migliore.

Crepuscolo. E tutto era vivido come non mai.

“E’ incredibile come… come sia proprio in un momento simile, al calare della vita, che i contorni delle cose, la loro forma, diventano più nitidi che mai...”

Sia Camus che Stevin si girarono pienamente nella sua direzione, sorpresi, ma nessuno dei due riuscì ad incrociare il suo sguardo, perso a rimirare a sua volta le ramificazioni spoglie del grande albero che, anche da morto, forniva loro sostegno. Il Signor Dante sorrise inavvertitamente, mentre le rughe che gli delineavano gli occhi diventavano, se possibile, ancora più marcate.

“Siamo vicini alla fine, ed io finalmente… posso comprendere.”

Nonno…

“Nonno, cosa..?” fece per chiedergli spiegazioni Stevin, smarrito da un simile monologo, prima di essere interrotto dalla sua mano, un poco meno burbera del solito, che gli venne posata tra i capelli in una lieve carezza.

“Sei ancora molto giovane per udire le turbe di un vecchio, mio caro Stevin... - gli disse, affabile – Eppure io ho un bisogno disperato di parlarti, potrebbe essere una delle ultime volte.”

“Per-perché?!”

Ma il nonno discostò lo sguardo, mantenendo comunque la mano ferma sopra di lui: “Ti va di ascoltarmi?”

A Stefano non restò altro che annuire, sistemandosi meglio per poi drizzarsi sull’attenti. Sembrava l’abbozzo di un discorso piuttosto serio.

Il Signor Dante rimase a lungo in silenzio, continuando ad osservare la nipote nuovamente intenta ad abbracciare gli alberi. Glielo aveva sempre rimproverato quel gesto futile e privo di ogni logica, e lei era sempre andata per la sua strada, così come contraddistingueva il suo carattere. Sorrise tra sé e sé, il cuore gonfio di quella tenerezza che aveva sempre bandito e che, complice la vecchiaia, aveva preso sempre più piede in lui.

Crepuscolo, e tutto sembrava così vero, autentico, che era davvero difficile il solo pensarlo di doverlo lasciare.

“Stevin, so che insieme ve la caverete, in un modo o nell’altro. – tesse nuovamente il discorso anche se gli doleva alquanto – Però ho bisogno che tu mi faccia una promessa.” si girò verso di lui, gli occhi lucidi.

“Di-dimmi, nonno...”

“Sai, me ne sono accorto fin da quando Marta ti ha presentato a noi, ma… hai uno strano ciuffo di capelli sulla sommità del capo, quasi da sembrare un cespuglietto d’erba difficile da domare. – si lasciò andare ad una strana, quanto ineffabile, confessione – E’ in tutto e per tutto simile a quello di mia figlia Antoinette, o...”

La sua voce si trattenne, il suo sguardo divenne grave, quasi opaco, tanto da allarmare ulteriormente Stefano che, spaventato da quell’improvviso torpore, gli afferrò con urgenza il polso nella paura sempre maggiore, atroce, di non trovarselo più lì da un momento all’altro. Sembrava voler andare lontano, troppo, perdersi e… non voleva!

“Nonno!!!” lo chiamò, in un singulto, cercando di riscuoterlo, cosa che fortunatamente avvenne perché l’anziano signore sussultò, dandosi una manata in faccia per riprendersi.

“Che succede? E’ il cuore che non va?” insistette Stefano, febbrile, mentre quasi strattonandolo dal braccio, gli implorava tacitamente di resistere e di non avventurarsi oltre, laddove nessuno era mai tornato.

“E’ la vecchiaia, come ti ho già detto. - disse l’altro, stancamente, prima di darsi un tono – Tu sei davvero un bravo ragazzo, Stevin, sono contento… di averti fatto da nonno!” ammise, con un sorriso tirato.

Stefano arrossì di netto a quel complimento: “E-e io d-di essere stato nipote di due nonni fantastici, ma… ma perché me lo dici ora? Quale è la promessa che dicevi? Cosa sta succedendo? N-non sei mai stato… così.”

“Già, non lo sono mai stato, vero. Sono stato sciocco e ottuso nella mia vita e me ne sto accorgendo solo adesso. Ma, proprio per questo, ti prego di ascoltarmi.”

Ancora Stefano rimase in attesa, inghiottendo a vuoto, le mani gli ricaddero tra le cosce, mentre il nonno acquisito prendeva un nuovo respiro più profondo, prima di dare un’ultima occhiata malinconica agli strambi capelli del ragazzo e dirigere lo sguardo greve nuovamente verso la nipote che, incurante di sporcarsi, ubriaca della giornata di sole in quel mare multi-colore che virava dal giallo al rosso che era l’autunno, si tuffava tra le foglie secche, come un cagnolino giocoso.

Ci fu un’altra pausa, più lunga, e quindi il silenzio. Le parole non erano facili da esprimere e il solo concepirle nella propria mente era doloroso. Camus lo capiva meglio di chiunque altro.

Nonno… pensavi a me, prima, quando hai parlato dei capelli di Stevin e glieli hai accarezzati? -si chiese il nipote di sangue, con rammarico, appoggiato lì vicino a loro senza poter essere visto né tanto meno udito- Hai ragione. Non me lo spiego neanche io, ma assomiglia alla mamma o… o a me… è una sensazione così strana! La prima volta che l’ho visto mi sembrava già famigliare. Ho pensato che lo fosse per i ricordi che avevo visto di Marta, ma ora sento che non sia l’unica ragione, questa, eppure non riesco nemmeno a darmi un’altra spiegazione.

Lo guardò tristemente dalla sua posizione, la sua schiena ricurva pressata dal passare degli anni, i capelli di un bianco quasi trascendente, gli occhi infossati e sempre più pesanti. Era chiaro cosa gli stesse succedendo, dove lo stava conducendo quella cosa chiamata ‘vecchiaia’. E faceva dannatamente male.

Ciò che stai per dire… lo avresti chiesto a me, se io fossi rimasto con voi?

“E’ per Marta che ti voglio parlare, Stevin...”

Stefano lo osservò e così Camus. Ancora una volta i loro sguardi andavano verso la stessa direzione senza poterlo sapere. Era prevedibile l’argomento, ma non il tono pregno di emozione che aveva manifestato per la nipotina. Lui, che le emozioni le aveva sempre cercate di sotterrare.

“Guardala… guarda come gioca con gli alberi e le foglie. - gliela indicò con un cenno del del capo - Ha 14 anni, ormai, eppure sembra ancora una bambina. Non fa quello che fanno le altre, quello che dovrebbe fare una ragazza della sua età, no, lei è semplicemente lei, nonostante i miei rimproveri, i tentativi di farla crescere, di mostrarle la strada giusta da intraprendere. Lei è sempre lei, ingenua e genuina come è sempre stata.”

Camus accusò il monologo, stringendo le dita a pugno nel pensare nuovamente al suo allievo Hyoga.

“Non c’è un modo giusto per crescere. - gli fece notare Stevin, dal basso dei suoi 16 anni di esperienza, ma dall’alto dei suoi ideali di libertà che aveva acquisito vivendo in semi stato brado nella valle - E non è nemmeno un discorso di ciò che corretto o sbagliato. Dovresti essere solo fiero di ciò che sta diventando tua nipote, malgrado tutte le difficoltà!”

Anche Dante accusò il colpo non diversamente da Camus. Strinse un poco le mani, tremò appena, prima di annuire con un mezzo sorriso.

“Lo sono.”

“Davvero? - Stefano era sinceramente sorpreso, guardò lui e poi Marta, rammentando i dialoghi che aveva avuto con la cara amica a proposito del nonno e dei loro fraintendimenti – E lei lo sa? Glielo hai detto?”

“Non lo sa e temo che non sia stato nemmeno in grado di farglielo capire...”

“E allora vai adesso, non è tardi. Abbracciala ancora, dille che sei fiero di lei. Non è la fine!”

“Non posso.”

“Perché?!”

Stefano si stava scaldando, si alzò in piedi, il cuore batteva forte. Si mise frontalmente a lui nel tentativo di catturare il suo sguardo logoro che tuttavia si ritrasse.

“Perché non puoi?!” insistette, come se da quella questione dipendesse l’intera esistenza. Sua e di Marta.

“Perché sono uno stupido vecchio ottuso e cinque minuti adesso non possono cambiare ciò che è stato per anni e anni.”

“E allora ti arrendi così? Senza dirglielo?”

“No, non mi arrendo così, semplicemente ne prendo atto: alcune cose non possono essere cambiate, ragazzo mio. Assecondare questa triste verità, dopo una iniziale resistenza, ti fa soffrire di meno. Lo imparerai vivendo.”

“Mi sembra tutto così… triste!” biascicò Stefano, affranto, abbassando lo sguardo fino alle radici esposte del grande albero.

Nonno Dante si alzò in piedi a fatica. Era ormai più basso di lui, il peso degli anni si faceva sentire, piegandolo come un ramo accartocciato, sebbene mantenesse una certa imponenza; e comunque Stevin, a dispetto del Signor Mario, era cresciuto notevolmente negli ultimi anni. Gli posò una mano nodosa sulla chioma scura, permettendosi di accarezzargliela.

“Lo sarebbe, se io non avessi qualcuno a cui affidare il mio lascito...”

Stefano sbatté gli occhi, il cuore gli rimbalzò per l’emozione, mentre i suoi occhi si posarono su quelli un poco spenti del nonno putativo.

“...te!”

“Ed io cosa potrei mai..?”

“Marta, lei… - e guardò ancora una volta la nipotina lontana – Sbagliando, l’ho reputata da sempre fragile e indifesa, non adatta a questo mondo.”

“!”

“Come unico uomo della famiglia, era mio dovere rafforzarla fino a renderla fiera e indomabile in modo da resistere alle oscillazioni della vita. Nulla avrebbe più dovuto scalfirla, a costo di strapparle il suo cuore troppo labile per sostituirlo con uno di dura pietra.”

“Non è nella sua natura, esserlo, non sarebbe lei, non sarebbe stata la nostra Marta!” sbuffò Stefano, in un fremito estremamente tangibile.

“Lo so, ma la vita questo mi ha insegnato. Questo bisogna essere per non soffrire, per… resistere, resistere e ancora resistere a tutto. Schiaccia tu o sarai schiacciato. La legge della natura è impietosa.”

“N-no! - si oppose ancora Stefano, rifiutando quel pensiero nichilista con tutte le sue forze – Non si può ridurre tutto a questo. Non può essere SOLO questo!”

“Hai ragione. L’ho ben capito anche io, dopo tutti questi anni… - sospirò Dante, chiudendo appena gli occhi, prima di riaprirli – Ma voi siete stati fortunati a nascere in un angolo di mondo dove ora regna la pace. Siete stati fortunati… a non vivere la guerra sulla vostra pelle!”

“La Seconda Guerra Mondiale, vero? Anche Nonno Mario me ne parla… A voi è stata strappata la giovinezza, ed eravate poco più grandi di me, quando avete dovuto scegliere se arrendervi e piegarvi, o alzare il capo, combattere, rischiando di perdere tutto.”

Nonno Dante non acconsentì né annuì, preferendo soprassedere perché quell’argomento non era importante per il proseguo del discorso.

“Eppure anche un vecchio caprone come me, alla veneranda età di quasi 84 anni, ha finalmente capito quanto stesse sbagliando, quanto la vita non si possa minimizzare ad un’aspra lotta per la sopravvivenza per il predominio sugli altri. No, non è tutto qui! Vi è… vi è anche del buono, in questo mondo.”

“Del buono… - ripeté Stevin, guardandosi intorno, prima di sorridere – Ne siamo circondati!”

“Ne siamo circondati, sì. - confermò Nonno Dante, rimarcando le parole del ragazzo – E, per quanto ormai sia tardi, ora anche io ne sono consapevole.”

Guardò in alto, di lato, gli alberi le foglie e il terreno sempre più accesso, perché il sole stava declinando dietro il monte e la luce dava il meglio di sé proprio in quel frangente. E in mezzo a tutto quel subbuglio magico, la sua nipotina danzava nella radura del bosco. Se la fissò nella mente, in modo da non poterla dimenticare mai.

“E’ al crepuscolo… che tutto si fa completamente chiaro.” ripeté ancora una volta, mentre una lacrima solitaria, da tempo considerata seccata si palesava sullo zigomo sporgente.

“Nonno?”

Stefano l’aveva notata, strinse più forte la mano nocchieruta del vecchio, poi, mosso dall’istinto, allungò l’altro braccio per asciugargli con tenerezza quella gocciolina che, da lui, non aveva mai visto.

“Stevin, me lo devi promettere ora, va bene?” volle la sua attenzione Dante, lasciandosi sfiorare da quel gesto che, da solo, emanava calore. Da quel gesto che, da solo, avrebbe reso significativa una vita.

“Che… cosa?”

L’emozione era alle stelle, il momento intenso, delicato e forte allo stesso tempo. Lo guardò, si guardarono. E il cuore di Camus ebbe un fremito nel riconoscersi al posto del nonno davanti al suo Hyoga.

“Per tutta una vita ho perseguito l’autorevolezza, la durezza e la forza. Mi sembravano le uniche valide motivazioni per non soccombere all’esistenza, per… resisterle, con tutto me stesso. - prese una breve pausa, respirando più forte – Per tutta una vita ho perseguito l’ideale di essere io stesso roccia, dura pietra che non si lascia scalfire da niente e da nessuno, imperturbabile e stoico, inflessibile e rigido...”

Stefano lo osservò con maggiore serietà, si sentì quasi sul punto di porgli la fatidica domanda su dove lo avesse condotto quella strada, se lo avesse reso felice, se l’obiettivo era stato infine raggiunto. Ma il nonno fu più veloce di lui a proseguire.

“Ho fallito. - ammise, senza mezzi termini, con un sospiro, dando un’ultima, intensa, occhiata a Marta più in là – Eppure, perfino io nella mia sterile vita, qualcosa sono riuscito a piantare, e i semi, lo vedo bene con questi miei occhi, sapranno reggere meglio di me il peso del mondo.”

“N-Nonno...”

“I fiori sanno essere straordinari, Stevin, immagino che tu lo sappia meglio di me. Muoiono per saper rifiorire l’anno dopo, crescono perseveranti e gentili, profumano l’aria con la loro gradevole presenza. Caparbi, si piegano ma non si arrendono.” esprimeva tutto ciò, in un crescendo emozionale che si mostrava tramite lo scintillio che sfavillò struggente nelle sue iridi straordinariamente piene, nonostante gli affanni.

Stefano si sentì sbalordito da quella luce nei suoi occhi scuri, vivida, intensa, come forse era stato in gioventù. Intanto, l’ambiente intorno a loro, prima così illuminato e tiepido, andava piano piano a digradare verso le ombre, trasmettendo ad entrambi un brivido freddo che si insinuò tra le scapole.

“Lo so, i fiori sono incredibili! - confermò comunque il ragazzo, girando brevemente il volto verso l’amica che, nel frattempo, correndo, stava tornando da loro con le braccia piene di ricci di castagne – Sono loro la vera promessa della rinascita.”

“La vera promessa della rinascita… non immagini quanto tu abbia ragione, Stevin!”

“D-dunque cosa vorresti..?

“Ebbene, ti affido la mia speranza di rinascita, Stevin, il mio fiorellino... - gli disse ancora, posandogli entrambe le mani sulle sue spalle per spingerlo a guardarlo dritto negli occhi, da uomo a uomo, un’ultima volta ancora – Abbi cura di mia nipote Marta!”

 

 

Giugno 2009

 

 

Si trovavano di nuovo sulla collina della cappella, sotto il grande tiglio in cui si erano incontrati innumerevoli volte in tutti quegli anni. Un altro ciclo era trascorso, ed era di nuovo estate. Una estate, però, più vuota rispetto alle precedenti.

Se non fosse stata sufficiente la visione precedente, Camus comunque lo sapeva; sapeva cosa era successo in quei mesi, lo aveva già vissuto, probabilmente in altri sogni sfumati che, al risveglio, lui aveva in un primo momento rimosso ma che, riuniti nel percorso che aveva intrapreso al fianco di Marta, si erano concatenati fino a formare un nesso logico del prima e del dopo che rappresentava la vita trascorsa dalla sorellina prima del loro incontro in terra di Grecia.

Così come era stato per davvero.

Così come se lo avesse vissuto lui in prima persona. Con lei.

Era finalmente riuscito, in mezzo a tutte quelle vicissitudini, a percepirla concretamente dentro di sé.

Piccola mia...

La chiamò, flebile, un poco rattristato, mentre dall’ombra sotto il grande albero, appoggiato al tronco stavolta gremito di vita, osservava i due ragazzi seduti sul prato al sole.

Sembravano parlare come sempre, come se niente fosse accaduto. Era accaduto tutto, invece, un mondo si era spezzato e loro erano cambiati. Irreversibilmente.

Così Marta non manifestava più la tristezza, obbligandosi a dimostrarsi forte, mentre seguiva il filo del discorso entusiasta di Stevin che parlava di quanto erano arrivati vicini, quella primavera, al raggiungimento del paese abbandonato di Tessaie, e che di sicuro quell’autunno l’avrebbero conquistata. D’altronde… glielo dovevano!

E Marta… Marta acconsentiva a quella speranza, nonostante fosse rotta dentro, nonostante il leggero sorriso sul suo volto, che incurvava le labbra, nascondesse una piega assai più scura e profonda.

Camus, quella piega, la percepiva intensamente dentro di sé, non solo perché era una sensazione familiare anche a lui, ma soprattutto perché era il suo cuore, collegato a quello della sorellina, a suggerirglielo.

Ad un certo punto, una leggera ondulazione della chioma del tiglio causata dalla brezza, gli fece cadere tra le mani una delle capsule del fiore dell’albero. Sorrise tenue, girandosela un poco tra le dita nel tastarne la concretezza su di sé.

“Stevin, quindi, secondo te, se passiamo dall’abitato di Casareggio, sito a mezza costa, ci arriviamo a Tessaie, inoltrandoci mano a mano nell’incolto?” chiese ad un certo punto la ragazza, osservando il tanto agognato paese abbandonato sull’altro versante della montagna.

“Ne sono più che certo. Sono circa alla stessa altezza, bisognerà solo… ravanare un po’ nel gerbido.” rispose il ragazzo, utilizzando parole colloquiali che amava adoperare frequentemente.

“Uh… - Marta esitò un solo istante, prima di convincersi e darsi un tono – sì, possiamo farlo, ne sono sicura!” disse, mentre lo sguardo, come accadeva spesso, le si spense per un lungo attimo.

Stai soffrendo ancora molto per la perdita del nonno, vero? Lo riesco a percepire fin troppo bene, fa male il cuore, tanta è l’intensità. -ragionò intanto Camus, guardandola con apprensione- E’ questo ciò che senti tu quando mi leggi dentro? Quando provi le mie stesse emozioni? O è molto di più? Oh, Marta… non riesco a pensare che questo sia un dono per te, non riesco a pensare sia una benedizione, eppure tu, questa dote, la vorresti conservare dentro di te, non è forse così?

All’improvviso, nel mezzo del dialogo ancora in corso, la ragazza, come folgorata, si alzò in piedi di scatto per dirigersi verso il trogolo vicino. Senza che né Camus né Stevin potessero fare qualcosa, prese a curiosarci dentro per poi mulinare le braccia verso qualcosa che nessuno dei due riusciva minimamente a scorgere.

Certo, l’amico era ormai abituato a quei momenti un po’ bizzarri della ragazza, ma poi nel vedere che non dava segni di voler tornare e che anzi perseguiva nella sua opera misteriosa, si alzò a sua volta nel tentativo di richiamarla più volte da distanza.

Tutto inutile.

Fece quindi per raggiungerla, ma lei, cogliendolo di sorpresa, si raddrizzò proprio in quel momento, le mani congiunte a tenere qualcosa.

“Che cosa stai..?”

“Quest’anno i fratini sono precoci per queste altitudini, ma è troppo presto per loro… sono ancora un po’ storditi!”

Ne Camus né Stevin compresero subito, le regalarono una espressione smarrita, mentre lei, come se niente fosse, tutta felice con gli occhi luminosi, si avvicinava al migliore amico e, inconsapevolmente, al fratello maggiore avvicinatosi di conseguenza.

Effettivamente teneva tra le mani qualcosa di nero maculato di bianco tutto tremante, intento a sbattere le alette nel disperato tentativo di asciugarsi.

Amata Phegea…

Lo riconobbe Camus, osservandolo con attenzione nel rammentare che anche in Grecia, agli inizi dell’estate, sfarfallavano frenetici di fiore in fiore, non disdegnando affatto il sapore del sudore umano. Ridacchiò tra sé e sé, mentre nella sua testa si formava l’immagine di un infante Milo, gli occhi luminosissimi di chi ‘era stato scelto’, completamente preda di almeno dieci di loro intenti a ciucciargli la pelle delle braccia e delle gambe.

E’ un lepidottero diffuso in Eurasia, chiamato volgarmente pretino, o fratino, come hai detto tu, piccola mia. Svolazza da fine maggio ad agosto, ed è un tipo di falena, nonostante lo si veda durante il giorno. Per questa ragione ti sei recata all’improvviso fin laggiù: sentivi le vibrazioni delle sue ali e la sua richiesta d’aiuto!

“Uh, le vediamo spesso, anche se negli ultimi anni più raramente… sono farfalle?” chiese incuriosito Stefano, continuando ad osservare l’esserino che vibrava.

“No, una falena, io la chiamo fratino o pretino e… oh, no, si è un po’ scolorita!” esclamò ad un tratto lei, notando di avere le dita macchiate di nero.

“Io ho sentito che le farfalle e le falene si sciolgono a contatto con l’acqua, sai? Avviene perché… - ma si accorse del cambio di espressione dell’amica, che si era fatta tumefatta e tirata. Si pentì di aver parlato troppo – No, scusa, intendevo...”

“Tranquillo, lo so. - scrollo la testa lei, cercando di non far vedere troppo la tristezza che l’aveva colta – Ho ormai imparato che questo mondo è fatto così: distrugge le cose belle.”

“Marta...”

“Lascia stare, è tutto ok, piangere non servirà! - lo rassicurò, prima di alzare un poco il braccio e il dito, su cui era posato il pretino, verso il sole per farlo asciugare meglio – Riuscirà a riprendersi, comunque?”

“I-io, ecco… non lo so!” ammise Stevin, dispiaciuto.

Ce la farà sì, lo hai estratto dall’acqua in tempo.

Si sentì invece di pronunciare Camus, speranzoso.

“Lo spero tanto...”

Ad un tratto, finalmente, l’esserino spiccò il volo sotto gli sguardi stupiti di Stevin e Marta, i quali, euforici, alzarono le braccia in alto per inneggiare di gioia. Saltellarono sul posto, si diedero il cinque, e poi Marta saltellò di nuovo, un po’ più in là, quasi a volerla seguire, prima di fermarsi.

“Vai, questa è la tua stagione… vivila!” gli augurò, prima di posarsi le mani sul petto scalpitante e un poco affannoso.

Anche Stefano sorrise dolcemente a quella scena, avvicinandosi poi a lei con passo delicato per affiancarla: “Passano gli anni, ma tu non cambi mai, vero?”

Marta lo osservò in un misto di stupore e imbarazzo in attesa che continuasse.

“Ricordi il nostro primo incontro?”

“Sì, era… era… - Marta, dall’alto dei suoi 15 anni compiuti a marzo, corse indietro nel tempo che era trascorso, quasi sussultando nel rendersi conto che erano già passati la bellezza di 10 anni – Era il 1999, sì, i nonni avevano preso la casa a Carsi e ci avevano invitato un week-end di maggio per vedere come ci saremmo trovati per quell’estate”

“Sì, era la bizzarra primavera del 1999!” annuì lui, perso nei ricordi.

“Bizzarra?”

“Beh, sì, e anche tu eri parecchio… ehm, bizzarra!”

L’affermazione gli costò un leggero calcetto negli stinchi, nonché il leggero imporporamento delle guance di Marta: “Bruto… selvaggio!”

Stefano si mise a ridere davanti a quell’appellativo: “Selvaggio lo ero, non posso dire no!” acconsentì, sereno.

“Per forza, tuo nonno ti ha fatto vivere un’esistenza selvatica!”

“Sì. - acconsentì di nuovo, fiero – Questo era il mio regno, lo sai, no? Non lo avrei diviso con nessuno!”

“Oh, eccome, se lo so!”

“Ero infatti in perlustrazione del mio reame quando mi imbattei in te...”

“E..?” lo pungolò lei, pur conoscendo fin troppo bene il proseguo.

“Avevi 5 anni, le codine, ed eri nel tuo mondo, la testa a osservare perennemente il cielo, i movimenti degli uccelli che volavano da un ramo all’altro. Ti chiesi cosa facessi lì, specificai che era la mia terra e tu… - prese una breve pausa, buttando fuori aria nell’imitare un’espressione esasperata – Non solo non mi rispondesti, ma continuasti a camminare come se nessuno ti avesse interpellato!”

“Uh… è un qualcosa da me, in effetti.” annuì lei, arrossendo di netto.

“Ci volle un po’ per attirare la tua attenzione. Del resto, non mi guardavi negli occhi, ti deconcentravi facilmente a osservare il merlo che cantava, a guardare i saltelli del codirosso sul ramo, il modo in cui li eseguiva; a fissare sul muretto a secco la fila delle formiche come si creava per poi indovinare la direzione che avrebbe preso. – sorrise nel rammentare quei ricordi a lui tanto cari – Pensavo fossi un po’ autistica...”

“Autistica… me lo diceva sempre il nonno, di non fare l’autistica.” si fece seria lei, discostando in fretta lo sguardo in una smorfia un poco sofferente.

Autistica… -rimuginò tra sé e e sé Camus, indurendo la sua espressione verso il ragazzo, in un impeto di protezione che non riusciva a non manifestare per la sorellina- perché pensate tutti che lei lo sia?! Solo perché non è come voi?! E anche se lo fosse, che problema ci sarebbe?! Non c’è alcun...

“Ma non c’è nulla di male, anzi, mi affascinasti proprio per quello, sai? - rivelò Stevin, interrompendo involontariamente i pensieri di Camus - Non ho mai conosciuto nessuna mente come la tua… quando ti fissi sulle cose, sugli animali, sulla natura, sembri capirne i segreti più intimi; sembri proprio comunicare intimamente con loro. Vedo i tuoi occhi, ed è come se comunicassi in un linguaggio strano… e loro ti rispondono, vero? Li capisci, non è così? Prima, quel pretino… lo hai udito chiederti aiuto, vero?”

“Non proprio.”

“In che senso?”

“Che non è esattamente così.”

“Spiegati.”

“...”

“Tu sai che, per me, questo tuo modo di essere non da alcun tipo di problema, vero? Puoi parlarmene, se te la senti.”

Camus si meravigliò, ancora una volta, della sensibilità mostrata da Stefano nei suoi confronti. Effettivamente, non poteva negarlo, anche a lui era venuto il dubbio che potesse essere autistica. D’altronde Marta, fin da subito, si era preoccupata di tentare di celare le sue stranezze anche davanti ai suoi occhi, di maestro, prima, e di fratello maggiore, poi. Non voleva essere colta a ‘fare la strana’, voleva passare per una ragazza ordinaria, sopprimendo dentro di sé un’attitudine che invece le era propria. E ora Camus capiva meglio la motivazione dietro quella scelta forzata e sofferta.

Grazie a quel lungo e travagliato sogno con cui aveva percorso buona parte della vita della sorellina -le cronache della Valbrevenna, avrebbe potuto ribattezzarle!- l’aveva vista crescere, comportarsi in maniera che gli altri non capivano, mascherarsi, chiudersi, riaprirsi, tentare di abituarsi a ritmi considerati dai più normali; apprendendo su di sé, per imitazione, adattandosi ad un mondo che aveva amato fin da piccolissima, nel profondo, ma che, ad un certo punto, vilmente, l’aveva tradita.

E tutto per essere accettata dall’unica figura maschile che l’aveva fatta crescere: il nonno.

L’espressione di Camus si fece tremendamente dolente nel capire che, alla fine, malgrado tutti gli sforzi, nonno e nipote non si erano affatto chiariti; un effettivo chiarimento era mancato.

Marta non avrebbe mai saputo quanto lui fosse, in realtà, orgoglioso di lei; quanto, alla fine della vita, e solo allora, avesse compreso la straordinarietà del suo fiorellino. Si sarebbe semplicemente sentita eternamente sbagliata.

Hai... hai fatto così tanta fatica per giungere a questo livello, camuffandoti come ti veniva richiesto, sforzandoti di cambiare, ed io… io non ne avevo davvero idea, Marta! Mi hai parlato dei tuoi problemi, di esserti sentita molto sola, di non riuscire a comunicare con gli altri. E solo ora capisco pienamente quello a cui ti riferivi, la fatica che hai fatto per sentirti ‘normale’, per farti vedere ‘normale’ dagli altri ma soprattutto da lui. Non… sbagliata per questo mondo.

E adesso non sai nemmeno quanto lui fosse fiero di te, quanto tu sia stata in grado di fargli cambiare prospettiva e visione della vita. Mi dispiace così tanto, piccola mia, come tuo fratello maggiore e suo nipote più grande io… avrei dovuto fare molto di più per voi!

“Sai, Stevin, penso che, alla fine, lui avesse ragione.”

“Lo credi veramente? Voglio dire, quindi pensi di essere...”

“...Austistica? - terminò la frase per lui, sforzandosi di guardarlo negli occhi – Non lo so, Stevin, non ho una diagnosi certa, ma davvero c’è qualcosa che non va in me!”

Gli occhi di Stevin si adombrarono, mentre, assumendo una leggera sfumatura di severità, obbiettò: “Tuo nonno Dante, uomo forte e fiero, era sin troppo sicuro di determinate cose. Sbagliava. E tu non devi pensare che il suo giudizio corrisponda alla verità, anche perché...”

“Mio nonno aveva le sue ragioni per crederlo, ora lo capisco, Ste. Era l’unico maschio della famiglia, doveva prendersi cura di noi e… sperava… che sua nipote fosse destinata a grandi cose, con la testa ben piantata per terra. Invece ce l’avevo per l’aria. Ci ho discusso… così tante volte!”

“Lo so.” annuì Stefano, laconico, capendo bene che era un ferita ancora troppo aperta.

Marta sospirò, si mise una mano sulle forme un poco arrotondate del seno, prima di chiudere le palpebre dalle quali fuoriuscirono due lacrime capricciose: “Mi manca, non sono nemmeno riuscita a salutarlo come si vede e… se ne è andato… quasi come se avesse dovuto partire per un lungo viaggio.”

“Marta...”

“Si era molto addolcito, in questi ultimi anni. La vita ti da e poi ti toglie… nell’esatto momento in cui nasciamo iniziamo a morire. E’ un percorso su un’unica direttrice.”

“Da le vertigini questa consapevolezza...”

“Non sono sempre stata in grado di capire il nonno, lo sai, ci ho litigato a lungo, ma… sono fiera di averlo conosciuto, che proprio lui sia stato il mio nonnino, e...” si dovette fermare, il tono di voce si era incrinato al punto da rendere impossibile il proseguimento. Si asciugò frettolosamente gli occhi.

“Ed io sono altrettanto fiero di averlo conosciuto.” si sentì di dire Stefano, cercando di essergli più vicino possibile.

Gli occhioni rigati dal pianto di Marta erano ancora puntati verso valle, a seguire il percorso del fiume ben oltre lo sguardo, come a soppesare e rimembrare qualcosa. Le guance erano chiazzate di rosso, i singhiozzi avrebbero voluto uscire, ma si impose di soffocarli dentro di sé.

Anche gli occhi di Camus erano annacquati, i contorni dell’ambiente, gli stessi visi dei due ragazzi, apparivano sfumati; il cuore più pesante e le emozioni difficili da trattenere. Sentirla dentro di sé, come parte integrante della sua stessa anima… non si era mai rivelato così difficile come in quel momento.

“Prima mi hai fatto un’osservazione, Stevin… - riprese a fatica il dialogo lei, sempre con gli occhioni gremiti di lacrime – Mi hai chiesto se sentivo le vibrazioni delle ali del pretino e la sua richiesta di aiuto...”

“S-sì...”

“Ebbene… è come tu dici, l’ho percepito. In questi anni trascorsi qui, la mia capacità di sentire le voci della natura, degli animali, è incrementata. So che sembra… una cosa… da pazzi!”

“No, non lo sembra, non più.”

“Solo che… il percepirli non comporta anche il fatto di saperli codificare.”

“In… che senso, scusa? Anche questo lo dici spesso, ma non posso dire di capirlo.”

“Che io li sento, forte e chiaro, ma… non comprendo quello che mi vogliono dire, tutt’al più posso intuirlo.”

“!”

“Non so spiegare neanche io perché avviene. - i suoi occhi scintillarono nel continuare a fissare un punto determinato – Però, non riesco a pensare ad altro che: se, almeno, me ne fossi resa conto quella volta là, prima che l’airone attaccasse la madre degli anatroccoli… sarebbe potuto cambiare qualcosa?”

“In tutta franchezza? No… o comunque pensala così: anche quell’airone aveva bisogno di mangiare, altrimenti sarebbe morto.”

“Hai ragione come sempre, Stefano… - sorrise Marta, una scintilla di consapevolezza nei suoi occhi – Ed io… ora ho capito che voglio vivere MALGRADO tutte le cose brutte che compongono questo mondo.”

“Marta...”

La ragazza si avvicinò a lui, socchiuse gli occhi, affabile, regalandogli il più bel sorriso di cui potesse disporre. Stefano la fissava sbalordito, e lo stesso Camus, dalla sua posizione, gli occhi brillanti per lei, che era riuscita comunque a crescere.

Marta aveva infine trovato la motivazione per vivere, nonostante la voragine sempre più profonda che si era creata dentro di lei e che, non senza difficoltà, aveva fatto da fondamenta per la costruzione di un nuovo mondo intorno più consapevole di prima.

“Sai, Stevin, io non sono ancora arrivata ad una risposta...”

La frase rimase sul vago ma Stefano comprese immediatamente a cosa stesse alludendo.

“Al senso della vita, oltre al moltiplicarsi?” chiese conferma, mentre l’altra produceva un timido borbottio, poco prima stringere le palpebre e ridacchiare sommessamente.

“Già. Avevo promesso a Fra che l’avrei trovata, ma sono passati anni e sono ancora qui, senza sapere quale sia il vero senso del nostro esistere.”

“E’ difficile, Marta. Taluni impiegano anni per arrivarci; altri ci arrivano in prossimità della morte.”

Stevin guardò distrattamente il cielo, meditabondo. All’amica desiderava dire la verità espressa nell’ultimo dialogo profondo avuto con il Signor Dante, ma la perdita del suo caro aveva fortemente scosso la ragazza, rendendola ben più fragile ed emotiva di quanto già fosse. Passò oltre e da qualche parte dentro di lui qualcosa gli punse la coscienza. Lo scacciò per continuare il dialogo.

“Altri ancora penso non ci arrivino neanche, o forse neanche se lo domandano. E’ più facile vivere così. Molto più facile.” disse ancora Stefano, sospirando appena.

“Io non ho ancora una risposta ma una cosa la so...”

Era la voce di Marta ad essere uscita, più profonda del solito, al punto da spingere l’amico a fissare l’espressione sorpresa su lei.

La ragazza teneva le mani strette una sull’altra appena sopra il petto, ne muoveva nervosamente le dita, come se quella gestualità la potesse aiutare meglio ad esprimere quel concetto.

“So che sembra assurdo e insensato ma… è proprio ora che la morte ha colpito direttamente i miei affetti che mi sento di dire che amo, AMO questa vita. E forse ora lo posso urlare ancora di più a viva voce, perché ho conosciuto ‘l’altra faccia’. Posso dire di capire l’importanza di una carezza burbera in testa, proprio perché so quanto vuoto crea non averla più… - parlava con voce chiara e cristallina, anche se un poco malferma – Ora capisco quanta forza occorra per regalare un sorriso quando dentro di te i pezzi che prima componevano il tuo cuore iniziano a mancare...” sussurrò ancora, mentre una lacrima ribelle le usciva dall’occhio destro.

Stefano non sapeva bene cosa dire, era completamente impreparato a quella deviazione del discorso, giacché l’amica era molto restia a parlare direttamente dei suoi lutti e delle sue sofferenze ma, proprio per questo, la ascoltava con trepidazione.

“Non so se stia esagerando io a pensarla così… melodrammaticamente… ma penso davvero che sia il concetto di morte ad acuire in me questo attaccamento alla vita. E’ davvero come se fossi proiettata su un treno che ha un’unica destinazione che non voglio assolutamente raggiungere, ma non ho alternative e ciò mi fa disperare. – rimuginava mentre esprimeva quanto diceva, lo sguardo ombrato concentrato verso il basso, sui fili d’erba, poi, ancora una volta, quello scintillio di vita che era il suo modo di essere fin da piccolissima, le baluginò negli occhietti – Però, su questo treno che va verso un’unica destinazione e che io sono stata obbligata a prendere, non cambierà nulla se io rimarrò chiusa in un vagone a piangere o… se scenderò a più fermate, stagliando gli occhi verso l’infinito cielo blu, respirando a pieni polmoni… l’aria… perché sto vivendo, STO VIVENDO qui e ora, mi è stata data questa possibilità tra miliardi di altre di non essere mai esistita. E’ un momento, un battito, una inezia… che tuttavia è tutto!”

“Aspetta, non ti sto seguendo. Dove stai dirigendo il discorso?”

“...”

Marta non gli rispose subito, si voltò semplicemente dall’altra parte, alzando le braccia all’altezza delle spalle, lasciando che la brezza leggera lambisse le estremità, giocando con i suoi capelli dai riflessi rossicci per poi lasciarsi solleticare il viso perlato. Non vista, lasciò che le lacrime saline le solcassero ancora una volta le guance, ignara che la presenza tra lei e Stevin le potesse comunque percepire su di sé come parte integrante del proprio essere.

Si diresse ancora una volta verso la sporgenza dove poteva osservare tutto, la valle sotto di sé, il grande bosco scuro, le cime degli appennini e Carsi, il paese che i suoi nonni avevano scelto per trascorrere la vecchiaia; poi, sull’altro versante, alla destra orografica del Brevenna, l’antico borgo di Tessaie, ormai semi-nascosto dall’edera e dalle roverelle che crescevano direttamente dal ventre delle case abbandonate, laddove, un tempo, avevano trascorso la loro esistenza intorno al fuoco persone che ormai non c’erano più, diventando polvere nel vento.

Calore e freddo.

Vita e Morte, cui susseguiva nuovamente la vita, anche se sotto forma diversa, e poi ancora la morte, si alternavano in quel percorso ricco di felicità e tristezza; gioia infinita e abissi di disperazione.

Da soli, la piacevolezza di vivere, il calore percepito che poi sarebbe diventato gelo, bastavano per dare senso ad una esistenza? Ripensò al maggio in cui avevano conquistato tutti insieme l’Antola, ai visi arrossati di Michela, Francesca e Stevin nel vedere il tramonto, alla loro espressione ricolma di felicità e allo scodinzolare festoso di Camilla...

“Sì.” si disse lei tra sé e sé, mentre l’amico, in apprensione, si avvicinava a lei.

“Marta! Ehi, Marta!”

La prese per un braccio, preoccupato, la fece girare verso di sé, meravigliandosi immediatamente che l’amica stesse sorridendo e piangendo insieme. Proprio come in quel maggio.

“Ehi, hai di nuovo il ciclo?! Sai, sono abituato alle tue stranezze, ma quando fai così… non so mai come prenderti.”

“Mi stavo solo dando una risposta, anche se sommaria, al senso della vita.”

“E sarebbe?”

“Questo.”

Gli strinse la mano nella sua e subito ne percepì calore. Ricambiò la stretta, anche se in maniera un po’ impacciata. Capiva e non capiva insieme.

“Uh, ehm...”

“Mi basta questo per saziare la mia domanda se abbia avuto un senso venire al mondo.”

“Quindi ha avuto senso?” tentò Stefano, speranzoso, guardandola intensamente.

“Tantissimo! - ammiccò lei, sempre con quella buffa espressione di risata e pianto – E’ valso la pena vivere anche solo per… per farmi rincorrere da te lungo il torrente Brevenna con l’acqua che mi schizzava dappertutto, la sensazione dei sassolini sotto i piedi, il verde rigoglioso del bosco e… ciò che ne è derivato d-dentro… dentro di me!” si posò una mano sul cuore, sentendolo pieno, nonostante la pesante incrinatura.

Sì, bastava quello. Era tutto lì… il senso dell’esistere.

“Sono venuta al mondo per questo, sai? - riprese poco dopo, riaprendo gli occhi che all’improvviso sembravano straordinariamente maturi, quasi da donna adulta in un corpo ancora da ragazzina – Per ricordare a qualcuno che il calore è vita, che non bisogna avere paura di bruciarcisi e che è ciò che nutre l’animo umano, ciò che ci riempie.”

Camus sussultò a quella frase, riconoscendo, oltre a sua sorella, anche la volontà di Seraphina dietro quelle parole; la volontà di protegge ciò che era stato Dégel e che il mondo, spietatamente, aveva distrutto.

“D-dunque sono i momenti di calore… a dare senso al nostro esistere?” si interrogò ancora Stefano, ripetendo dentro di sé quella più e più volte. Erano quindi i ricordi a dare significato alla vita stessa, ed era vero. Marta, pur non metabolizzandolo concretamente dentro di sé, ci era arrivata. Si ritrovò a sorridere tra sé e sé, ricordandosi di quando lui era un bimbetto e suo nonno lo faceva volare, sorreggendolo con le braccia, come se fosse un aeroplanino.

“Io, quando sento il vento fischiare… - continuò la ragazza, con un leggero sorriso che sapeva di tristezza - gli uccellini cinguettare e il sole sulla pelle, anzi, non solo in quei momenti, anche in moltissimi altri, io avverto qualcosa dentro di me, nel mio cuore. E’ una sensazione colmante, mi fa sorridere da sola e...”

Esitò. Parlare non era facile, la gola le si era come chiusa. Se la raschiò, recuperando un po’ di voce.

“E’ come un abbraccio inaspettato, come un soffio lieto. Lì ci sono i visi della mamma, dei miei nonni, vi è il capriolo, il gocciolio delle gocce d’acqua dopo la lunga pioggia, il suono del vento… - pausa ancora, trattenne un singhiozzo per rabboccare aria – I-io, p-proprio per questo, SOLO per questo, so… so che la mia vita ha avuto un senso. Non importa quanto cammino dovrò ancora fare, quanto dolore proverò… io non scambierei MAI l’eterno nulla con questo piccolo attimo di infinito in cui sono… SIAMO!” disse ancora, con un profondo respiro, dirigendo lo sguardo dietro di sé, in direzione del cielo, laddove la chioma verde smeraldo del tiglio si mescolava all’azzurro infinito sopra le loro teste.

Qualcosa incrinò i suoi propositi di smettere di piangere, gli occhi le si appannarono, sfumando i contorni delle cose. Un singhiozzo, uno solo, le sfuggì dalle labbra. Incassò la testa tra le spalle, per un solo istante sembrò essere sul punto di perdere l’equilibrio in avanti, sopraffatta, ma Stevin, lesto, la prese tra le braccia, tenendola stretta come raramente si permetteva di fare. Spalancò gli occhi a quel gesto, poi, piano, come chi bussa alla porta e, titubante, entra, prese a singhiozzare due, tre, quattro volte, sempre più veloce, lasciandosi finalmente andare ad uno sfogo che fino a quel momento aveva cercato in tutti i modi di trattenere dentro sé.

Non parlarono, posizionati così, uno adagiata all’altra. Marta piangeva e tremava sulla spalla del ragazzo, il viso semi-nascosto in direzione del tiglio. Pareva ancora tanto piccolina in quella posizione, col compagno di mille avventure ormai nettamente più alto di lei, quasi alla stessa altezza di Camus; la postura un poco goffa di chi teneva a sé qualcosa di delicato. Rimasero in silenzio per diversi minuti, restando comunque abbracciati anche dopo, quando Stefano decise di rompere il silenzio e parlare.

“Sai, a proposito di tempo che scorre via… mio nonno mi ha raccontato varie storie sul tiglio, l’albero che per tutti questi anni ci ha offerto da giaciglio e ha ascoltato i nostri discorsi...”

“Mmh!”

Mugugnò Marta, solo apparentemente poco interessata. In realtà il suo sguardo traslucido -Stefano lo aveva ben avvertito- si era immediatamente diretto verso il grande tronco per soffermarsi ad osservarlo meglio.

“E’ simbolo di dolcezza e gentilezza, sacro agli dei, perché in più o meno ogni cultura gli vengono riconosciute doti di giustizia e capacità di predire il futuro. - le disse, carezzandole un poco i folti capelli – Cosa ancora più importante… può trascendere il tempo!”

“Trascende… sigh, il tempo?” chiese conferma Marta, sinceramente sbalordita, ancora un poco singhiozzante.

“Sì, può vivere oltre 1000 anni e questo della cappella… beh, mio nonno dice che è qui da secoli e secoli, nota infatti quanto è grosso il diametro del tronco. Questo… questo albero ci ha visto crescere, è qui che è cominciato tutto, tra noi.”

“Vero, sì. - confermò Marta, alzando ulteriormente lo sguardo, sempre un poco appannato, fino in cima alle fronde – Ma perché me lo dici proprio ora?”

“Perché… - Stefano aumentò la stretta su lei, prima di poggiarsi a sua volta sulla sua spalla – Qui, sotto un simbolo che, per la vita umana, sfiora l’infinito, ti voglio promettere che mi troverai sempre, SEMPRE, qualunque cosa accada da qui in avanti!”

“S-Stevin...”

“Tuo nonno, l’autunno scorso, mi aveva fatto promettere una cosa: di prendermi cura di te, del suo fiorellino.”

Infine glielo aveva detto, pregò che il Signor Dante, ovunque si trovasse, gli avrebbe perdonato quella debolezza.

“Il suo… fiorellino?!”

“Sì, tu, eri il suo fiorellino, sai?”

Marta aveva aperto la bocca, dalla quale però, a causa dello stupore, non era uscito altro che un gemito sommesso.

“Eravamo sotto un castagno quando lo fece, ed io adesso, sotto il tiglio che trascende il tempo, rinnovo a lui la promessa: che avrò cura di te, in un modo o nell’altro, ma non come montagna, quello è stato il suo ruolo, bensì come albero che offre refrigerio alla minuscola piantina che sta tra le sue radici.

Non come montagna… ma come albero.

Ripeté automaticamente Camus, ne ricordarsi di un dialogo simile che aveva avuto con il piccolo Isaac, dal quale, però, contrariamente a quella circostanza, era arrivato a tutt’altra soluzione.

Come albero e non più come montagna… anche perché, chi rende stabile il terreno con le proprie radici, è proprio l’albero!

Ripeté, sbalordito, nel rendersi conto di quanto quel pensiero, solo apparentemente banale, penetrasse velocemente nella sua mente. Infine, la forza per crescere, l’aveva trovata anche lui, grazie a loro.

Ammirò di riflesso il tiglio, il suo tronco, la folta chioma e i rami diramati verso il cielo, finché tutto si fece indistintamente ovattato e il bruciore frenetico che provava costantemente nella regione addominale, divenne di colpo una ventata gelida, sferzante, che lo fece piegare istantaneamente su sé stesso.

Ma cosa..?

Ebbe appena il tempo di chiedersi, prima che tutto si fece scuro.

 

 

* * *

 

 

Non ci fu volontà nel salto successivo. Non ci fu, ma accadde comunque, come essere trasportati dalla corrente impetuosa senza potersi minimamente opporre.

La sensazione che ne derivò, simile ad un ingurgitare di acqua salata, marina, pungente, lo fece tossire con forza. Serrò gli occhi, stringendosi le spalle con le braccia nel percepire improvvisamente dei veri e propri brividi di freddo, nonostante il sempre presente nucleo di calore vorticante in corrispondenza del suo ombelico.

Aiutami, fratellino...

“Marta?!”

Camus si ritrovò a sobbalzare, mentre un’intensa paura si attorcigliava spietata nel suo petto. La respirazione si fece irregolare, frenetica, la interpretò come un nuovo attacco di panico incombente.

Alla luce e all’universo vivo della Valbrevenna, se ne sostituì uno più buio e compatto; alla visione della sorellina che aveva raggiunto una nuova consapevolezza sul poggio di Cerviasca in compagnia del suo migliore amico Stefano, subentrò quella di una donna, seduta sulla sedia, piegata in avanti con la testa incassata nelle spalle, sopraffatta dal peso di una consapevolezza troppo grande da gestire da sola.

“Mamma!” la riconobbe istantaneamente Camus, in un singulto, ma la donna non reagì alla sua voce.

Sembrava improvvisamente invecchiata di dieci anni, le occhiaie le inscurivano il viso, i capelli non più tenuti bene, cadenti in ciocche spettinate. Ogni tanto singhiozzava, Camus poteva udirla distintamente e ciò gli procurava fitte di dolore sempre più difficili da sopportare.

“Mamma, che succede?! - chiese ancora, guardandosi nervosamente intorno alla ricerca di un indizio che potesse fargli comprendere la situazione – Dov’è Marta? Perché stai piangendo?”

Era, in effetti, la prima visione a dargli, già dall’incipit, una sensazione così atroce, davvero come se fosse precipitato lì e si fosse trovato al cospetto di una madre disperata. La paura, nel rendersi conto che quel salto non l’aveva controllato lui, aumentò di netto.

La stanza era avvolta dalla semi-oscurità, dai contorni rischiarati dalla debole luce di alcune candele profumate, capì che si trattava dell’ingresso della loro casa a Genova. Non più Valbrevenna, quindi, ma perché?!

Fuori imperversavano le tenebre, doveva essere sera, o notte. Il senso di attesa lo dilaniava e il suo corpo, soggiogato da quel sentire, tremava sempre di più. Era un freddo che uccideva, frantumava le ossa, mozzava lo stesso respiro; un freddo spietato, superiore a qualsiasi cosa e che aveva già provato su di sé. Una volta. Sgranò gli occhi appena prima di avere un mancamento, un malore, un…

Proprio in quell’esatto momento, la porta si spalancò con impeto, sbattendo così violentemente contro la parete da far tremare tutti i muri della casa.

“Antoinette!!!”

E Camus dell’Acquario, nell’arco di quell’istante, comprese malauguratamente cosa stesse succedendo.

No, no… per Atena, questo NO!

La loro madre al richiamo tumefatto di Efesto, perché era il dio delle fucine ad essere sopraggiunto, saltò a sua volta in piedi, impallidendo di netto, il respiro troncato sul nascere.

“E-Efesto, d-dove..?”

“Non c’è tempo, dobbiamo intervenire, PRESTO!”

Efesto, colui che li aveva generati, teneva tra le braccia una pallidissima Marta.

A Camus bastò un’occhiata veloce per capire che si trovava in avanzato stato di assideramento. Si sentì morire dentro, mentre, con un balzo dettato dall’istinto, corse nella sua direzione, preda dell’impulso di afferrare la sorellina dalle braccia del padre per… per fare cosa?! Curarla, o… o…

Ma la presa non funzionò, passò oltre, come se fosse stato un fantasma.

Non poteva più intervenire?! Aveva… esaurito il potere? Oppure -si ricordò della sensazione avuta durante lo scontro tra Marta e il bulletto- era lei ad abbandonarlo nel non voler assecondare le sue azioni?!

No, MALEDIZIONE! Non proprio adesso!

“S-sì, m-ma dove… dove l’hai…?” insisteva intanto Antoinette, le parole slegate dal cervello, tanto fosse l’agitazione per la vita della sua creatura appesa ad un filo sottilissimo.

“L’ho trovata sul Forte Monte Ratti. E’ in gravi condizioni!”

“C-come?! L-la mia piccola… è andata f-fino a là?!” biascicò in un singulto, perdendo tutto il sangue freddo che la contraddistingueva e che aveva fatto di lei una cardiochirurga d’eccezione.

Balbettò anche qualcos’altro mentre, disperata, seguiva febbrilmente il coniuge; che la figlia si era comportata in maniera strana fin dal mattino, che era inquieta, tesa, e che sul fare del tramonto era corsa via. Che non l’aveva mai vista così, che era impossibile, che…

Che… che…

Anche Camus aveva esaurito la sua proverbiale calma, era in fibrillazione, il cuore in gola, mentre, disperato, tallonava i genitori in camera. Li vide adagiare la piccola sul letto per poi iniziare a privarla, uno ad uno, degli abiti che aveva indosso. Il suo respiro era sempre più fievole, aveva perso coscienza e non rispondeva agli stimoli. Era insostenibile assistere a tutto quello e non poter nemmeno intervenire; capire cosa avesse, PERCHE’ lo avesse, e non poter fare nulla… NULLA!

La voce di suo padre, non quello della visione avanti a sé ma quello che gli era venuto a parlare poche settimane prima, gli risuonò sardonicamente nelle orecchie.

 

Tu pensi che Marta abbia acquisito QUEL potere quest’estate, donandoti il sangue… non è così, il potere lo aveva già prima, la trasfusione ha solo incrementato questa sua attitudine innata.

 

Era il 20 novembre del 2009. La data che aveva visto nascere un nuovo Cavaliere del Cigno, futuro detentore di Aquarius, decretando, altresì, la sua prima morte.

E ora sapeva perché Efesto gli aveva dato quell’avvertimento, perché lo aveva ragguagliato sulla pericolosità di quel legame che sarebbe stato meglio tranciare: Marta stava morendo con lui, per lui, come lui, sul pavimento dell’undicesima casa, con il freddo che penetrava sempre più nelle ossa e il calore della vita che gli sfuggiva dal corpo.

La sua incredibile sensibilità la stava uccidendo, la sua stessa scelta di intrecciarsi a lui, alla sua sofferenza che sarebbe dovuta rimanere muta, a forza sotterrata dentro di sé, la stava portando alla rovina

No! Non puoi farmi questo, piccola, non puoi star morendo per me, non puoi esserti spinta così in là senza nemmeno sapere nitidamente della mia esistenza… MARTA!

“Ha il polso molto debole, la respirazione lenta e superficiale. La sua temperatura corporea è assestata a 28°, ma continuerà a scendere se non facciamo qualcosa!”

“E-Efesto, co-cosa...” Antoinette era livida, tremava, del tutto incapace di intervenire.

“DOPO, ora devo agire! Se non riportiamo la temperatura a valori più consoni, l-lei...”

Era visibilmente sconvolto a sua volta, come mai si era mostrato ai loro occhi, come mai i figli avrebbero immaginato potesse essere. Chiaramente era stata la loro madre a chiamarlo, in cerca di aiuto e lui, malgrado la rudezza che lo aveva sempre contraddistinto e l’apparente menefreghismo, era intervenuto.

Camus era all’angolo della stanza, gli occhi a sua volta sgranati nel vedere le manovre di Efesto che stava denudando la sorellina senza particolare cura o dedizione, vinto dall’urgenza del momento. Ne provò una fitta subitanea, qualcosa gli si spezzò dentro, mentre Marta veniva avvolta alla ben meglio dalle coperte e frizionata a partire dalle estremità corporee.

“Efesto, che cosa posso..?” lo chiamò debolmente Antoinette, ancora totalmente priva del raziocinio necessario per essere d’aiuto.

Il dio delle fucine, dandole un’occhiata sbrigativa, lo capì immediatamente, pertanto, sbuffando impercettibilmente, decise di prendere provvedimenti.

“Antoinette, vai di là a prendere le borse dell’acqua calda.”

“Ma!”

Che cosa?!

Camus perse un battito a quell’affermazione, ritrovandosi ben presto a mordersi il labbro inferiore in completa apprensione: voleva fare da solo?! Che ne sapeva lui di come agire in simili circostanze?!

“Qui ci penso io, il tuo intervento non è necessario!” aggiunse infatti, tornando a concentrarsi sulla figlia.

“Ma io...”

“Mi servono solo alcune borse dell’acqua calda, VAI DI LA’!”

Tu a mia madre non..!

Camus si stava inalberando per il trattamento riservatole, ma il continuo della frase lo spiazzò.

“...per favore! - disse ancora Efesto, riprendendo il massaggio – Qui ci penso io, so come fare. Fidati di me!”

E così la donna, dopo aver fatto un cenno di assenso, uscì dalla stanza a capo chino e l’espressione distrutta nel non essere riuscita a reagire prontamente in quella situazione d’emergenza. Per lei, sia come medico che soprattutto come madre, si trattava di un fallimento. Il più atroce, perché colei che stava rischiando la vita era la sua amata figlioletta.

Efesto…

Camus avrebbe voluto dirgli qualcosa, anche se non sapeva bene che cosa. Non sapeva che fare, era spaventato, gli sembrava assurdo che gli eventi fossero precipitati così, quando il ricordo prima era stato caldo e luminoso, nuovamente ricolmo di speranza, per quanto estrapolata da una condizione di estrema sofferenza. La sensazione di fallimento gravò anche su di lui.

Tuttavia l’azione conseguente della divinità, di colpo, tolse le lenzuola alla piccola per frizionarla da altre parti, con più violenza, quasi la volesse schiacciare, riuscì a sbloccarlo nuovamente, in peggio. Scattò immediatamente, tumultuoso.

Che diavolo stai facendo, ora?! E’ rischioso frizionarla a quel modo, la ucciderai così!!! E poi perché diavolo hai mandato mamma di là a prendere le borse dell’acqua calda, quando… quando... NON PUO’ BASTARE, EFESTO! Devi usare i tuoi poteri, USALI! Dimostra di essere un padre, dimostra...

“So che sei qui, Camus, figlio mio, posso percepire la tua rabbia, la tua prostrazione, il tuo senso di inutilità…”

Cos..?! Percepisci la mia presenza? O solo le mie emozioni?!

“L’ho mandata di là per darti piena libertà di agire. Salva tua sorella, ti prego, solo tu puoi riuscirci!”

Quelle parole, pronunciate da suo padre in tono dismesso, lo sconvolsero nel profondo, impietrendolo dalla punta delle dita dei piedi in su.

Efesto alzò il capo, continuando a massaggiare le estremità corporee della figlia. Aveva gli occhi vacui, davvero lo stava appellando, pregando per un suo intervento affinché la sorellina, preda di una grave ipotermia, fosse salvata.

“Tu… tu lo sapevi già, allora?! - sibilò Camus, indietreggiando di riflesso fino a reggersi contro il muro che avvertiva concreto dietro di sé – Eri conscio che avrei dovuto intervenire io?!”

Forse quel suono, quella domanda strozzata, raggiunse in qualche modo i timpani del dio che, individuando grossomodo dove si trovasse, dopo aver coperto ulteriormente Marta, guardò proprio nella sua direzione.

“Ne ero conscio, sì. Il tuo potere è sconfinato, neanche io ne capisco bene la magnitudine, la portata… ne sei nato già in possesso. Lei è avviluppata dentro di te come un feto, sigillata indissolubilmente nel tuo ombelico.”

Lo… riusciva a vedere?! No, certo che no, non sembrava poterlo distinguere con nitidezza, pareva però puntare contro il muro, in un punto preciso, laddove c’era esattamente il suo sguardo.

“Mi avevi detto che l’avevate salvata voi Marta, tu e la mamma… perché ora io?! Cosa posso fare per lei?”

“...”

“Rispondimi, Efesto! S-solo io posso salvarla?! E’ così?! Se non agisco io, lei..?”

“Morirà.”

“!”

“Devi, però, utilizzare ciò che è custodito nel tuo ventre, per riuscirci.”

“I-io non… non conosco questa dote, non ne ho il controllo! Me… me la sono semplicemente trovata dentro.”

O meglio, è lei… lei si è trovata dentro me, invischiata in me, ne… nel mio ventre e, se non mio avessero torturato, probabilmente non sarebbe neanche mai uscita!

Pensò in un fremito, rabbrividendo nel toccarsi ancora una volta la zona sempre più ardente. L’ombelico tirava, oltre che bruciare sempre più, quasi fosse una caldera pronta ad esplodere. Per giunta, dava la sensazione di potersi strappare da un momento all’altro…

“Ma l’hai sempre percepita.”

“Ho sempre percepito questa cosa dentro di me, sì, ma non… non la domino!”

“Non ha importanza, con quella puoi salvare tua sorella!”

“Ti ho detto che non la domino, Efesto! Non… non posso adoperarla a mio piacimento!”

“Puoi, invece. Se riuscirai a prevaricarla anche solo per un istante, come forse ti sei già trovato a fare, sarà lei stessa a concederti il potere.”

“Cosa te lo fa pensare? Mi ha ostacolato fino a prima!”

“...”

“Uff, immagino che non avrò altre spiegazioni, vero?”

“Salva… salva tua sorella, Camus, ti prego, il tempo non è più molto!”

Il Cavaliere dell’Acquario rabboccò aria, socchiuse gli occhi, mentre i muscoli parvero sciogliersi in una pallida, quanto debole, calma.

“Che cosa posso fare io, che nessun altro può fare?”

“Dopo questo lungo peregrinare prima di giungere qui, hai capito grossomodo il funzionamento del tuo Potere della Creazione, vero? Fallo. Usalo per salvarla, tua sorella sta morendo per te!”

“Come è stato possibile tutto questo?! Marta ed io non eravamo neanche collegati, all’epoca, siamo nel 2009, giusto?”

“Come probabilmente ti dirò più avanti, quella di tua sorella non è un’attitudine che le è apparsa da un giorno all’altro. Ti ha sempre sentito vicino a sé, intrinsecamente connessa a te dal giorno della sua nascita, anzi probabilmente dal suo primo battito.”

“Non… può essere… possibile… questo!”

E invece lo sapeva, dentro di sé, era solo che non voleva accettarlo, perché farlo la esponeva a dei rischi inaccettabili per lui; rischi dai quali lui avrebbe dovuto semplicemente proteggerla.

Provare le sue emozioni, dolore, la sofferenza… come poteva reggere tutto quello, con il corpicino che si ritrovava? Come poteva un fiorellino, per quanto resistente fosse, sopportare i rigori del gelo e della neve?!

Ripensò a Nonno Dante, gli si strinse il cuore nel ricordare il commiato che aveva voluto dare a Stevin, la promessa di prendersi cura della nipote.

“Efesto, i-il nonno e Stevin, qui in questo momento della sua vita, se ne sono… già andati… corretto?”

“Sì, è morto prima vostro nonno, diversi mesi fa; e lo scorso, tragicamente, Stevin…”

“Lo immaginavo...”

“Non so di quanti anni tu sia avanti, Camus, ma tua sorella, ora come ora, non è nelle condizioni per poter reagire positivamente a ciò che le sta succedendo. Ha bisogno di te.”

“Continuo a non comprendere come sia possibile che Marta subisca l’effetto dello Zero Assoluto, se non ci siamo ancora… NO, MARTA!!!”

Guardò con orrore la sorella, che stava sempre peggio, iniziare a vaneggiare, preda delle convulsioni. No, no, era tutto sbagliato, lei non avrebbe dovuto subire gli effetti dello Zero Assoluto di Hyoga perché, allo stato attuale, non c’era alcuna parte di lei che lo collegava a lui… giusto? Per quale recondita ragione, quindi, soffriva i suoi stessi sintomi?!

“Devi pensare intensamente a lei, figliolo, a quante volte l’hai sentita vicino a te, a quante il tuo respiro era il suo, a quante il tuo cuore si sia nutrito della sua vicinanza per non cedere… Devi spronarla a vivere, così come lei ha fatto con te!

Con… me!

“Non c’è un prima o un dopo, o meglio… passato, presente e futuro non hanno alcun valore qui dentro. Esisti tu, esiste questo spazio di intervento che è la tua mente... - Efesto deglutì aria a vuoto, sempre più teso – Esistete te e lei, come un’unica cosa.”

Camus ripensò all’attacco del Mago nel passato, nonostante fosse tremendamente doloroso per lui. Per la prima volta, sopraffatto dalla sofferenza, era stato sul punto di arrendersi, ma... trattenne un gemito, così come si tratteneva la pancia, sempre più ardente. NO, non era stata affatto la prima volta -realizzò, gli occhi lucidi- era già successo prima.

Una lacrima gli sfuggì da un occhio, un balugino argento gli colò sulla guancia, prima di fermarsi un poco sulla piega delle labbra.

Come… come quando, a seguito delle ferite impresse sul suo torace, era finito in Rianimazione. Il freddo, i camici verdi sopra e intorno a lui, la paura, il sentirsi vulnerabile… eppure, in mezzo a tutto quel dolore e al gelo sempre più opprimente, perché la vita gli stava sfuggendo dal corpo, c’era stata anche lei, il suo caldo tepore che lo aveva spinto a non mollare.

Ora lo rammentava bene, l’aveva vista distintamente davanti a sé, ed era stato prima della trasfusione di sangue. Gli si mozzò il fiato in gola davanti a quella consapevolezza.

Marta… per tutto questo tempo… sei stata sempre tu a raggiungermi!

“Si è legata indissolubilmente a te, anche io non so bene come faccia, non lo capisco, anzi in tutta franchezza mi sembra assurdo, ma oggi ti ha sentito morire, Camus, e anch’io so che… che il tuo corpo fisico è morto durante questa Battaglia delle Dodici Case.”

“Che cosa?!”

“Sapevo che avresti scelto di sacrificarti per il al tuo allievo Hyoga in modo da impartirgli l’ultima, più importante, lezione.”

“Beh… grazie per avermi avvertito anzitempo che io sarei morto questo stesso giorno! Il tuo intervento è stato tempestivo e, soprattutto, efficiente, Efesto!”

Si ritrovò a fare dell’ironia con un pizzico di malcelata asprezza. Sapeva che la sua rabbia non era del tutto corretta, sapeva che il suo destino se l’era scelto lui nel momento in cui aveva stabilito di far crescere Hyoga ad ogni costo, calpestando perfino i sentimenti dell’allievo per poi mettere a rischio la sua stessa vita per quel ragazzino che amava come un figlio e che per nessuna ragione al mondo avrebbe perso; per nessuna ragione al mondo avrebbe permesso ad altri di attentare alla sua vita.

Hyoga…

Il suo nome, che dolcemente gli risuonò in testa, provocò in lui una nuova sensazione strana che era impossibile ricondurre a qualcosa di specifico. Ne fu come annebbiato e, per un istante, soverchiato, al punto di dimenticarsi dove si trovava. Si coprì istintivamente l’addome anche con l’altra mano, sentendosi inspiegabilmente nudo in quel punto. Si tastò diverse volte, si schiacciò l’ombelico, ma il dolore e il malessere si acuivano, anziché scemare, provocandogli le vertigini.

“Camus, te lo ripeterò ancora: non importa quanto tu sia avanti rispetto a questo punto, il tuo potere annulla il tempo e lo spazio e lo piega secondo il tuo volere. Da qui, tu ti puoi spingere ovunque.”

Fu la voce di suo padre a riscuoterlo, lo guardò allibito. Il genitore era ancora piegato sulla figlia minore, continuava a massaggiarle i piedi nel tentare di riscaldarla, ma le sue manovre non davano alcun frutto. La piccola continuava ad avere un’espressione sofferente, la carnagione molto pallida, a tratti bluastra, il respiro sempre più flebile.

“Perché me lo stai dicendo solo ora, Efesto?”

“...Nessuno può riuscirci, oltre a te, nessuno può salvare la tua sorellina, oltre a te.”

Guardò Marta, Camus fece altrettanto, ormai privo di parole ma ricolmo di domande alle quali, lo sapeva, suo padre non avrebbe più dato risposta.

“Tu la ami più di ogni altra cosa, vero? Faresti di tutto per lei.”

Sì, avrebbe dato l’anima per lei, se non oltre, ma non riusciva a reagire, non aveva la flemma necessaria per farlo, era come avere i piedi inchiodati a terra, il cuore piccolo piccolo serrato in una morsa che gli toglieva respiro ed energie.

Era l’unico a poterla salvare… ma se non ci fosse riuscito?! S-se non…

“Uscirò di qui, adesso, per te sarà più naturale agire. Io ho fatto il possibile. Lascio tutto nelle tue mani, figliolo!”

E se andò dalla stanza, il capo chino, chiudendosi la porta dietro le spalle.

Il dolore dentro il suo ombelico era sempre più atroce. Ingestibile. Insopportabile. Tentò un passo in direzione del letto, gli venne da sboccare. Si strinse più che poté la pelle dell’addome con entrambe le mani, strizzando disperatamente le palpebre e la mascella. Poteva agire solo lui...

“Anf, anf… uuurgh!”

“Marta! - la chiamò con urgenza, percependo l’anelito della sua vita farsi sempre più labile. Doveva muoversi – Sono qui, piccola, resisti!”

Si sforzò di riaprire gli occhi. Vedeva male, la distingueva a fatica. Il tempo scorreva impietoso e non era più molto.

Un altro passo avanti a sé. A rilento. Lei opponeva resistenza. Recalcitrava.

Se avesse continuato così, a quel ritmo, l’avrebbe raggiunta troppo tardi.

“Andiamo, maledizione! Muoviti!” sbraitò, arrabbiato.

Marta… Marta era riuscita a raggiungerlo nel mare nero di petrolio quando tutto sembrava finito; lo aveva salvato, cocciuta e temeraria, nonostante lui si fosse già arreso. Incuranti del dolore e del tormento, le sue mani si erano mosse a far battere il suo cuore per strapparlo dalla morte stessa.

Camus, a quel pensiero, riuscì finalmente a ribellarsi al misterioso torpore che lo teneva sotto torchio. Si precipitò quindi dal letto dove la sorella stava lottando per la vita.

Solo io posso salvarti...

Tremava lei per il freddo e lui per il gelo che gli procurava la sola idea di perderla. Si accovacciò su di lei, le carezzò la fronte, sussultando e poi emozionandosi nell’avvertire il contatto dei suoi polpastrelli sulla sua pelle. Anche il dolore si placò.

La raccolse delicatamente tra le braccia, prese posto con lei nel letto ad una piazza e mezzo, avvolgendola meglio con la coperta prima di stringersela al petto.

“Stai tranquilla, mia impavida gabbianella… non sei sola!” la chiamò prendendo ad ondeggiare avanti e indietro come se la stesse cullando.

Non era molto diversa da quando l’aveva conosciuta a 17 anni, i capelli giusto un poco più corti e il viso un poco più perlato, maggiormente corrispondente al colore della sua pelle perché era fine novembre e quindi non più presente quella leggera abbronzatura ambrata con cui l’aveva vista la prima volta.

Era leggera, leggerissima, se paragonata a lui, le mani raccolte in grembo, i ciuffi un poco attaccati alla fronte. Gliela baciò, sostando un po’ lì nella paura che la temperatura non riuscisse più a stabilizzarsi. Sembrava così vulnerabile, indifesa, nel combattere coraggiosamente un qualcosa che neanche si capacitava di avere.

Perché non sapeva nitidamente di avere un fratello.

Eppure, lo aveva sempre sentito, subendo su di sé ciò che capitava a lui.

Un cuore da colibrì che normalmente batteva all’impazzata, frenetico, sotto le sue dita che, proprio in quel momento, si erano mosse a contare le pulsazioni.

“Sei così coraggiosa… a volte mi sembra di non riuscire a starti dietro, io che sono un Cavaliere di Atena, che quindi dovrei avere spalle abbastanza larghe per sorreggere il mondo e forza sufficiente per proteggere te, voi, le persone che amo, dalla vita stessa.” le disse, sistemandola meglio sulle ginocchia, il viso di lei adagiato sul suo petto in modo che potesse udire i suoi battiti cardiaci e trarne spinta a reagire.

Una delle sue braccia cadde a penzoloni, Camus la raccolse per poi tenerla tra le sue dita.

Quel semplice gesto gli riportò alla mente un ricordo creduto sopito; un ricordo caldo, di quelli che la crescita rimuoveva ma che potevano riemergere all’improvviso anche a diversi anni di distanza, lasciandogli come retrogusto un dolce sorriso.

“Sai, quando eri una bebè ti tenevo spesso così, appoggiata al mio petto. Mi faceva stare bene, ancora di più, sembrava far star bene anche te. Le mie pulsazioni placavano il tuo pianto e tu dormivi della grossa su me. Il solo… il solo guardarti sollevava il mio spirito, mi sembrava di essere completo, di poter respirare a pieni polmoni!”

Era difficile parlare di felicità in mezzo a tutto l’inferno che c’era stato dopo quei momenti che profumavano ancora di latte. Una sequela di separazioni e perdite che lo avevano sconvolto dagli anni infantili in avanti, segnando la sua giovinezza, per poi culminare con la propria morte.

Eppure, in maniera non dissimile a come ci era arrivata Marta, Camus dell’Acquario si accorse che il vero senso dell’esistenza erano davvero quei ricordi di gioia preziosamente accatastati uno sull’altro. Il baule dei ricordi.

Come correre dietro agli uccelli senza un’apparente ragione e sentirsi liberi…

Come vedere un tramonto dalla cima di un monte…

Come il sorriso e il tocco delle persone care...

“Un giorno di ottobre 1994 io… contrassi una brutta bronchite. Al solito, avevo cercato di mascherarla alla mamma e ai nonni, non volevo che sapessero per non farli preoccupare. – prese una breve pausa, ridendo tra sé e sé – In fondo, non sono molto cambiato da allora, non trovi?”

Ridacchiò tenute, perdendosi nel volto della sorellina tra le sue braccia. Le diede un veloce buffetto sulla guancia, stava riprendendo colorito e sembrava più tranquilla, decise di continuare.

“Alla fine, come era prevedibile, crollai. Mi salì la febbre e mamma dovette farmi l’aerosol perché le mie vie respiratorie non erano messe granché bene. - scrollò la testa, alcune cose non cambiavano proprio mai, era il caso di ribadirlo – I primi giorni non li ricordo. Rammento solo le mani della mamma, il suo sbottonarmi il pigiama con premura per passami una crema dal profumo molto forte sul petto. E poi ancora l’aggeggio che suonava e vibrava sul mio volto, la mia manina che stringeva il suo dito in cerca di protezione… poi, mano a mano, si fa tutto un po’ meno fumoso, anche se i rumori di quel dannano macchinario per le inalazioni continuano tutt’oggi a rimbombarmi in testa, da quante sedute ho dovuto fare per eliminare completamente il catarro!”

Camus, continuando a cullare Marta, si guardò brevemente intorno, rendendosi per la prima volta conto che quella camera, dove probabilmente dormiva la sorellina, era stata la sua, spaziosa al punto giusto per contenere i letti di due fratelli.

Se non ci avessero separato prima…

Basta! Non era più il tempo giusto per i rimpianti, quanto per raccontarsi.

“Un giorno, dicevo, stavo facendo il benedetto aerosol sdraiato sul divano, appoggiato al cuscino. Mamma voleva tenermelo lei sul viso, ma io mi ero opposto perché ce la facevo da solo. Tu eri… eri dall’altro lato, piccola, dondolavi sulla schiena, ridendo tra te e te mentre, con sorpresa, ti osservavi le manine e poi i piedini, come a soppesare già le birbanterie che avresti potuto fare da più grande. Sei sempre stata molto vivace sin dai primi mesi, nonostante tu sia nata pretermine. Avevi una grandissima voglia di venire alla luce, sai? Ma questo te l’ho già detto.”

E poi… e poi cosa successe?

“Il solo guardarti mi faceva ridere perché eri buffissima. Purtroppo non ero nelle condizioni di poterlo fare e il mio tentativo venne ostacolato dalla tosse che mi prese forte, rendendomi difficoltoso il respiro. Ovviamente, per quanto fossi l’ometto di casa, come diceva nonno, ero comunque un soldo di cacio bisognoso a mia volta di attenzioni. Nostra madre accorse subito, mi sistemò meglio, aiutandomi a tenermi la mascherina sul viso. Fu in quel momento che accadde...”

Camus si ritrovò a socchiudere gli occhi. Quelle immagini erano più vivide che mai, riportarle alla luce gli causava sia sofferenza che nostalgia, ma non demordette, non quella volta.

“Mentre mamma mi aiutava, tu divenni, di colpo, tutta seria e corrucciata, come se fossi stata in grado di percepirmi. Con difficoltà, riuscisti, non mi capacito ancora come, a rotolarti di lato, rischiando di finire pure per terra e obbligando così nostra madre, da una parte, ad acciuffarti e raddrizzarti con il braccio sinistro, dall’altra a tenere in equilibrio l’aerosol sul mio volto. Neanche starlo a dire, tu non ti diedi per vinta, del resto non sei mai stata una tipetta da gettare la spugna con leggerezza e, ottusamente, sollevandoti quanto bastava, decidesti di gattonare verso di me.”

Sorrise ancora, la scena rimasta nella sua mente era ancora… buffissima! Nonostante il tempo passato.

“Io non sapevo che fare, volevo togliermi la mascherina e correre da te per impedirti di compiere avventatezze, ma non potevo, ne ero impossibilitato. D’altra canto, nostra madre ti spronava, estasiata, perché era la prima volta che ci gattonavi davanti, sebbene piuttosto malferma. Mi raggiunsi tra mille difficoltà, producendo quel tuo solito vagito che era il mio richiamo e che utilizzavi solo con me, prima di sorridermi, avvolgermi con le tue braccine e chiudere gli occhi appoggiata al mio petto… come ora.”

Come ora, Camus, anche se sono cresciuta?

“Eri così piccina, ti tenevo goffamente, eppure eri tutto il mio mondo. Averti così vicina mi permetteva di respirare meglio, di sentirmi bene, nonostante il catarro mi raschiasse la gola e me la facesse bruciare. Averti vicina era come essere me al 100%, non essere più… rotto! - le sussurrò ancora, carezzandole il viso, seguendo la piega dei capelli, con l’anulare e il mignolo – Tu non ci misi poi molto a finire nel mondo dei sogni, seguendo i battiti del mio cuore. La manina, poggiata sul mio petto, ti scese un poco più in giù, te la presi, come poco fa, te la strinsi, prima di appoggiarmi a mia volta a te e assopirmi, cullato anche dalle coccole di nostra madre. Perché ero al sicuro, lì, in quel nido, era al sicuro… con voi!”

Ero… davvero così piccola per te, Cam?

“Sei ancora così piccina ai miei occhi… eppure il tuo cuore fiero e indomito non ha paura di provare emozioni che ti potrebbero straziare, non ha paura di amare né di credere negli altri… in tal senso sei molto più avanti di me; sei il mio sostegno, Marta, il baricentro delle mie azioni, la tettoia che mi ripara dalle intemperie, il mio… rifugio.”

Trattenne un singhiozzo, gli veniva da piangere. Era mai stato grado di esprimerglielo a parole? Marta lo sapeva? Si disse di sì, ma il fatto di essere così impacciato nei discorsi, trattenuto, in certi casi, gli doleva alquanto. Non si era mai permesso di mostrare tutto sé stesso agli altri, mai, Marta era la sua eccezione, ma, perfino con lei era impossibile essere cristallino al 100%.

“Il mio rifugio… non so se sono in grado realmente di farti capire quanto tu sia indispensabile per me. Tu con me ci riesci sempre. Non hai vergogna alcuna a mostrare le tue emozioni nei miei confronti, a dirmi che sono la persona più importante della tua vita, e me lo dimostri ogni giorno di più, abbracciandomi, coprendomi con il lenzuolo quando la notte è fredda e gli incubi tornano, rapaci, a ghermire la mia mente. E poi sei sempre lì a guardarmi con quegli occhietti estremamente percettivi, molto spesso adoranti, come se fossi tutto il tuo mondo e non avessi il benché minimo timore di indebolirti tu. Perché quando si ama con questa intensità, la tua, piccola mia, poi è tutto ingrandito, diventa tutto più difficile da tollerare e gestire; ti soverchia, ti rintontisce, ti lascia disteso esanime per terra, il respiro frettoloso nella paura di perdere tutto. Io ho sempre avuto il terrore di questo, mi è bastato vedere quanto mi abbia straziato la morte del Maestro Fyodor e di Isaac per provare a non amare più con una forza simile… provare, già! In verità è piuttosto stupido, non trovi? Imporre al proprio cuore di non affezionarsi agli altri è come vietargli di battere; se il cuore non batte muore, se la pianta non è nutrita si disseca… ed io, come ho potuto anche solo credere di riuscirci? Smettere di amare le persone che ci hanno lasciato è veramente possibile?! No, tu me lo dimostri ogni giorno di più…”

Tacque, la gola secca. Si inumidì le labbra, prima di raschiarsi le corde vocali. Parlare non era mai stato il suo forte, lo sapeva. Eppure, proprio per questo, doveva imporsi. Sua sorella e tutti gli altri gli avevano già ampiamente tracciato la via.

“Sono molto sciocco su questo, Marta… ho pensato di essere una guida per gli allievi che mi arrivavano, ma sono stati loro, in realtà, ad insegnarmi molto più di quanto ho preteso che apprendessero. E poi, quando non lo credevo più nemmeno possibile, sei arrivata tu a scalzare via ogni sicurezza in me, sei arrivata tu a mostrarmi quanto forte può essere un semplice fiorellino che io, fino a quel momento, reputavo debole e bisognoso di protezione, come Nonno. – le disse ancora, emozionato, alzandola un poco per posare la propria fronte sulla sua guancia – Sei arrivata tu, e ora so che, se ti dovessi perdere, sarebbe la fine per me, non mi rialzerei più, non ne avrei la forza, e questo, sì, non posso far altro che confermartelo, mi fa molta paura. Parallelamente, però, sono anche un uomo migliore grazie a voi, posso anche io accarezzarvi la testa, sorridervi per rassicurarvi quando siete spaventate, coprirvi con il lenzuolo quando fate le baruffe nel letto e sembrate non avere protezione alcuna contro questo mondo bellissimo e crudele al tempo stesso.”

La posizionò meglio perché gli sembrava che pendesse troppo da un lato, la tenne stretta ancora sulle ginocchia, mentre passandogli la mano appena sotto l’ascella, lasciò che il braccio nuovamente a ciondoloni aderisse al suo in modo da sorreggerglielo con naturalezza. La pelle di Marta era così chiara in quel momento, più della sua, che già rassomigliava ad una falce lunare. Le baciò nuovamente la fronte, dove stette per un tempo imprecisato a premere nell’estremo tentativo di cederle un po’ di energia e calore. Perché per quanto un fiore potesse essere forte, aveva bisogno, talvolta, di una mano umana che lo nutrisse e lo riparasse dal gelo.

“Hai salvato la mia anima in tutti i modi in cui un’anima può essere salvata… questo te l’ho già detto, ma bichette... – sorrise tra sé e sé nel constatare che quel nomignolo, stante la sua attitudine a saltare giù dai dirupi senza paura, le si adattasse particolarmente – Ma, forse, non a sufficienza, non quanto riesca a fare tu. Riuscirò mai a fartelo percepire?” si chiese ancora, mordendosi di riflesso il labbro nel non sapersi dare una risposta. Chiuse gli occhi, stringendola più forte a sé.

Voi mi avete dato tutto… ma io cosa riesco a dare a voi?

Avvertì un movimento a quell’ultimo pensiero che lui aveva rivolto a sé stesso, aprì le palpebre nell’accorgersi che la sorellina, a fatica, aveva iniziato debolmente a muoversi, indice di un risveglio più o meno imminente. Camus quasi sussultò a quella consapevolezza, la riadagiò delicatamente tra le coperte, sorreggendole poi il viso da un lato per accarezzarle meglio lo zigomo con il pollice.

“Brava così, Marta, respira, va tutto bene!”

Faceva fatica a riprendersi, la sua pelle era ancora troppo fredda per conciliarsi con la vita, eppure lentamente aveva preso a muovere prima le dita e poi il volto. Camus stette con lei per tutto il tempo, tenendole la mano, avvolgendola nelle coperte e lasciando che si appoggiasse completamente al suo palmo in cerca di affetto e calore.

“Marta...” la chiamò appena, soffice e delicato, aiutandola anche con il cosmo, che era in fibrillazione. Finalmente la vide riaprire gli occhi.

I loro sguardi si incatenarono. Camus avvertì concretamente il braccio della sorellina sollevarsi per poi cingergli il polso vicino, anche se con tutta la fatica del mondo, ciò lo sconvolse: stava cercando proprio la sua mano. Ruotò quindi il palmo in modo che le fosse più agevole stringerglielo, la avvertì respirare più profondamente, come acquietata, mentre, socchiudendo gli occhi gli regalò un sorriso, per quanto stentatissimo.

Sei tu… sei sempre stata tu a raggiungermi, ovunque mi trovassi, ma ora è diverso. Ora so che posso farlo anche io, nonostante non sia abile come te a muovermi nelle emozioni. Sì, posso farlo anche io, ma petite bichette, e lo farò ogni volta che ne avrai bisogno, te lo giuro!

Quel contatto, quell’incatenarsi di sguardi, non durò che un attimo, la stretta scemò fino a quasi scomparire, mentre la piccola -per lui era sempre piccola, anche se in quella visione era già un’adolescente!- reclinando la testa sul cuscino, cominciò ripetutamente a tossire. Camus si spaventò a morte per quella reazione. Si allontanò di scatto nel rendersi conto che stava, di nuovo, faticando a cavare fuori il più piccolo anelito di respiro. Temette di essere stato troppo invasivo, forse le aveva fatto male senza accorgersene. Ebbe l’istinto di chiamare aiuto, ritrovandosi spaurito in una situazione che non sapeva bene come gestire, ed era stupido perché lo aveva fatto fino a quel momento, guidato dall’istinto.

“MARTA!!!”

La voce della madre, appena sopraggiunta nella stanza, lo rinfrancò. La vide correre in direzione del letto, mentre Efesto, dietro di lei, rimaneva in disparte, forse per non farsi vedere dalla figlia più piccola, che comunque non l’avrebbe potuto scorgere in ogni caso, a giudicare dal suo precario stato fisico.

“Mamma!” la chiamò Camus, sentendosi nuovamente un bambino di cinque anni che esigeva l’aiuto del genitore. Non sapeva bene cosa dire, non sapeva fino a dove potersi spingere.

“Marta! Va tutto bene, tesoro, sono qui! SONO QUI!”

Antoinette accorse in soccorso della figlia, la aiutò a sollevarsi un po’ per permetterle di tossire e respirare meglio. La avvolse con una ulteriore coperta per trasmetterle calore, mentre lei lentamente, si acquietava e, con un lungo sospiro prolungato, veniva riaccompagnata giù a calmarsi, anche se era ancora piuttosto rigida e provata.

Piccola mia… coraggio!

Camus era frastornato, avrebbe voluto fare di più, soprattutto aveva paura che il suo intervento non fosse bastato. Fortunatamente la vide calmarsi, guidata dalle carezze della loro madre, sebbene il respiro fosse ancora paurosamente aritmico. Si sentì di tirare un sospiro di sollievo: la sua cerbiatta ce l’aveva fatta, aveva superato la brutta crisi data dallo Zero Assoluto di Hyoga.

Hyoga…

Ancora il pensiero dell’allievo gli diede una nuova, più atroce, stilettata all’addome, in un primo momento lontana, distante, come se provenisse dall’interno e l’interno fosse un luogo tanto tanto remoto, ma più il tempo scorreva più Camus dell’Acquario realizzava la ragione di quel malessere. Tornò istintivamente a trattenersi la pancia con una mano, conficcandosi le unghie nella carne nel cercare di resistere al contempo a quell’insolita pressione che gli proveniva direttamente da dentro.

“MARTA!”

Sobbalzò nuovamente nel sentire l’esclamazione tumefatta della loro madre. Rabboccò aria, inghiottì il dolore sempre più netto e invasivo per tornare così sulla sorellina. Rabbrividì nel capire che si stava nuovamente agitando senza comprendere la motivazione alla radice di quell’ennesimo peggioramento delle sue condizioni fisiche.

Che ti succede ancora? Forza, sono qua, sono...

“Coraggio, tesoro, non sei sola!” la provò a rassicurare Antoinette, vedendola girare da una parte all’altra il viso come alla ricerca di qualcosa.

“D-d-d-d...”

Sembrava volesse parlare, ma non ce la faceva.

“Non adesso, Gabbianella, non adesso!”

“D-dov’è?” chiese, rauca, strizzando dolorosamente le palpebre.

“Chi, tesoro?”

“L-lui.. il...”

Improvvisamente i suoi occhi si spalancarono a vuoto, la sua espressione si spezzò in qualcosa di tremendamente doloroso. Camus accusò lo sbalzo. Già sofferente prima, fu costretto a piegarsi in due dal dolore mentre il suo corpo veniva colto da spasmi sempre più violenti.

Ma-Marta, anf! S-sono qui, s-sono sempre stato qui!

Tentò comunque di dirle, invano, costringendosi a guardarla. Anche lei stava tremando con forza. E piangeva. Piangeva forte, finendo per sgolarsi.

“Tesoro!!!”

Anche Antoinette era paralizzata dalla sua reazione. La provò ad abbracciare per farla calmare, la tenne stretta a sé, ma la piccola non dava cenni di ripresa. A crisi si aggiungeva crisi.

C-che cosa posso fare?! S-se continua così…

“N-non c’è più, sigh!” farfugliò ad un certo Marta, tra un singhiozzo e l’altro.

“Chi, Marta?! Di chi..?”

“Il ragazzo non c’è più! E-era s-sempre con me, i-in tutti questi anni. O-ora… - Marta inghiottì a vuoto, annaspando, prima di affondare dolorosamente il volto nel petto della madre alla ricerca di un conforto – N-non lo sento più, Mami!

Sia Antoinette che Camus sgranarono gli occhi a quella rivelazione, sentendosi mancare prima il respiro e poi la terra da sotto i piedi. Entrambi, pur relegati a due dimensioni differenti e distanti, avevano capito il reale peso di quelle parole: Marta non percepiva più il fratello perché lui era appena morto sul pavimento dell’undicesima casa, ormai era evidente.

“...Respirerò, l’odore dei granai – cominciò allora a canticchiare Antoinette, per tranquillizzarla, gettando indietro il magone per fare forza alla figlia minore – e pace per chi ci sarà e per i fornai. Pioggia sarò, e pioggia tu sarai...”

Stava intonando la canzone “Diamante” di Zucchero, Camus la riconobbe subito alla prima strofa. Trattenne a forza le lacrime che bruciavano alla porta delle sue palpebre. Era infatti la ninna-nanna che la loro mamma cantava sempre quando erano piccoli; la ninna-nanna di quando Marta era ancora nel suo pancione.

“...I miei occhi si chiariranno e fioriranno i nevai.”

Marta si era ammutolita. La guardò intensamente, singhiozzò ancora una volta, prima di chiudere gli occhi e lasciarsi andare, cedendo alle carezze.

Antoinette continuò ancora un paio di strofe, prima di buttare fuori aria, sistemarla meglio sul letto e lasciarsi andare su lei, vinta a sua volta dal peso degli eventi.

“V-va tutto bene, ora va tutto bene, tesoro mio, non piangere più!” le disse, e solo quando fu certa che si fosse addormentata si abbandonò a sua volta ad un pianto continuo e silente.

Ma-mamma, non piangere neanche tu! Tu e Marta siete forti, più di me, io lo so; lo so bene. N-non dovete lasciarvi abbattere, io… io sarò comunque con voi!

Provò l’istinto di sussurrarle Camus, rotto dall’emozione nel vedere la loro madre letteralmente piegata in due dal dolore, prostrata oltre l’inverosimile. Era stanco, stremato, rimanere cosciente gli procurava uno sforzo non da poco, ma non voleva lasciarle sole, non più.

“Era… era come tu mi hai detto, alla fine. Avevi ragione.”

Il dio delle fucine, intanto, rimasto in disparte fino a quel momento, decise di prendere parola. Qualcosa gli baluginò nell’occhio limpidamente blu che entrambi, sia Marta che Camus, avevano ereditato. Non si era scomposto né tanto meno mosso in direzione della scenetta famigliare che aveva avuto luogo tra mamma e figlia, ma nel rivolgersi direttamente a Camus, facendogli capire come agire, era riuscito a salvare la vita della più piccola.

“Antoinette… ora guardami, per un momento, e ascoltami. - le disse, in tono appena più fievole, accennando un passo nella sua direzione – Vedi, le cose stanno che...”

“Il mio intrepido Camus è morto poco fa, vero? E’ per questo che Marta è stata così male. Lei… lo ha sentito morire, sebbene sia così distante da noi e non se lo ricordi.”

A Camus mancò un battito e il respiro, nell’avere quell’ulteriore conferma. La gola gli si fece secca, mentre la vista si oscurava sempre di più.

“Come lo hai capito, questo?! Non possiedi un cosmo sviluppato, non...”

“Non serve un cosmo per sapere determinate cose, si sentono con il cuore. – rispose Antoinette, rigettando indietro un singhiozzo per poi alzarsi tremolante, non prima di aver dato ancora una tenera carezza alla testolina della figlia – Sono i miei cuccioli, entrambi sono stati parte di me, qui dentro.” sussurrò, massaggiandosi il ventre con movimenti leggeri.

“Sì… - confermò poco dopo il dio, dopo una lunga pausa non verbale – Q-questo, il Camus del presente, se ne è andato.”

“E allora come è riuscito a.. - il tono le si strozzò nell’esprimerlo, incassò la testa tra le spalle e pianse altre lacrime amare, prima di ricomporsi - ...intervenire?”

“Quando è in condizioni esistenziali instabili, può farlo. - disse Efesto, prendendo poi una breve pausa prima di procedere – Il mondo che lui crea, dove può intervenire, non ha né futuro né passato. E’ un eterno presente.”

“Capisco… supponevo qualcosa di simile. E’ davvero un essere speciale, il mio bambino.”

“Non sembri sconvolta da questa rivelazione.”

“Sono sposata con un dio greco, è un po’ strano che tu ti ponga adesso il problema.”

“Suppongo tu abbia ragione.”

Antoinette annuì meccanicamente, facendosi forza nel tentare di asciugarsi le lacrime residue. Marta aveva ancora bisogno di loro, nonostante il pericolo scampato. Era salva perché era intervenuto il fratello, ma per ristabilirsi sarebbe servito tempo… parecchio!

Camus non sapeva cosa dire, avrebbe voluto gridare che lui era ancora lì per poi correre ad abbracciare la madre e la sorellina. Forse, a giudicare dai suoi poteri, avrebbe anche potuto riuscirci.

Provò a muovere un braccio nella loro direzione, ma il dolore era sempre più forte, la mente appannata. Sentiva un caldo terribile, le orecchie pulsavano. Inspirò aria, tentando di resistere ad oltranza. Stava perdendo i sensi, lo sentiva, ma c’erano ancora diverse cose che avrebbe potuto sistemare lì, non poteva permettersi di risvegliarsi proprio in un simile momento, quando la sua famiglia stava così male per causa sua.

“Antoinette… - Efesto fece passare una serie di secondi, prima di tornare a parlare. Guardò la consorte cercando le parole giuste per procedere, ma non era esattamente il suo campo – Cosa sai del potere di Marta? Come sai… che lei lo riesce a percepire così distintamente?”

“Come ti dicevo prima, Efesto, alcune cose si sentono con il cuore. So che non è un concetto di facile introspezione per te, ma è così. Al dire il vero, ci ho messo un po’ a capirlo. Anche io, come te, sono abituata a leggere i dati e i fatti, piuttosto che supposizioni, ma non c’è alcun dubbio che Marta abbia da sempre avuto questa capacità innata di sentire il fratello, sebbene non abbia ricordi stabili di lui.”

“Da… sempre?!”

“Da sempre, sì, da quando era un fagiolino. - si permise di lasciarsi andare ad una breve risata scarica tensione, prima di ricomporsi – E’ incredibile, non lo credevo nemmeno possibile, eppure la mia piccola lo ha dimostrato più e più volte nel corso della crescita.”

“Fai degli esempi, non capisco bene.”

“Certo che non lo capisci, non c’eri tu quando sono nati, né mai. Immagino che un Olimpo abbia dei progetti ben più alti che allevare due figli, ed io l’ho accettato incondizionatamente, Efesto.” gli disse, franca, non nascondendo comunque una vena di rimprovero.

“...”

“Entrambe le gravidanze non sono state facili; Camus, poi, era piuttosto fragile di salute, prima che nascesse Marta, ma è proprio questo fatto ad aver reso sorprendente l’attitudine della più piccola. - raccontò, tranquilla, gli occhi persi in quei momenti passati tanto difficili ma ugualmente preziosi – Lei… come dire, era dentro la mia pancia ma percepiva comunque i malesseri del fratello.”

“Di Camus?!”

“Di Camus, sì. Se lui era agitato lei calciava; se aveva la febbre calciava di nuovo, e così via, era quasi impossibile gestirli entrambi, e difficoltoso. – continuò lei, sedendosi sul bordo letto nel vezzeggiare la figlia dormiente – Ma è grazie a questo che si è rivelato il miracolo: Camus, quando si appoggiava con l’orecchio alla mia pancia, si acquietava, qualunque disagio avesse, e così Marta quando lui le era così vicino. Non ho razionalizzato subito la portata di un tale evento, se non quando è venuta al mondo, nascendo prematura di un mese. Dopo le cure all’ospedale, siamo riusciti a tornare a casa, tutti insieme, e lei… beh, il suo primo sorriso lo ha avuto per il fratello. Poteva percepirlo, sai? Sempre! Si voltava verso di lui, dovunque si trovasse, come se lo sapesse. Ed era così piccina, voglio dire, così microscopica, eppure… eppure ci riusciva. Iniziai quindi a convincermi che fosse legata al fratello, come… come accade per i gemelli omozigoti, sì. Studi scientifici confermano che possono ‘sentire’ l’altro.”

“Ma Marta e Camus non sono gemelli, hanno una differenza di 5 anni l’uno dall’altra!” osservò ruvido Efesto, rifiutando apparentemente quella tesi che pure aveva raccontato in prima persona al figlio maggiore fino ad un attimo prima.

Forse… sebbene ricolmo di scetticismo credeva comunque alla moglie?!

“E’ quello che mi dicevo anche io, e infatti ho navigato nel dubbio per mesi, finché… beh, un determinato fatto mi ha dato la risposta definitiva.” il viso di Antoinette si inscurì fino a traboccare di dispiacere, il suo respiro mutò, mentre, abbracciandosi il ventre, manifestava sofferenza.

“E sarebbe?”

“I fatti precedenti al giorno in cui il Nobile Shion portò via il nostro Camus...”

Camus sussultò nuovamente nell’avvertire quell’ennesima frase che cozzava con i ricordi di quel giorno fino a quel momento. Pensieri e paure ripresero a vorticare nella sua mente, la vista si annebbiò ulteriormente, sebbene a fatica tentasse di rimanere sveglio, trattenendosi la testa con una mano e la pancia con l’altra, in un impeto di ribellione.

No, doveva sapere… doveva scoprire se davvero si era opposto, se davvero quel mostro avesse provato a… ancora una volta il sorriso di sbieco di Fei Oz gli trapassò il cervello, facendogli sbarrare gli occhi e accelerare i battiti cardiaci, che oramai pulsavano nei timpani.

“Efesto, quel mostro me lo ha picchiato… a morte!”

“...”

“Ha usato una tale violenza su lui, io non me ne capacito, non me ne… sigh!”

M-mamma, anf, sono qui… ora sono qui, non pensarci. Sono vicino a voi, VOGLIO essere vicino a voi, t-ti prego, n-non…

“Quando il Nobile Shion è tornato, con Camus e Marta in braccio, io… ho percepito un forte strappo al cuore! Camus era stato appena rianimato, respirava ancora irregolarmente ed era sporco di sangue. La piccola invece era vigile, non piangeva ma aveva gli occhi gonfi di pianto, la boccuccia dischiusa ed il respiro a sua volta frenetico. Stavano male entrambi ma… lo capii poi… Marta per diretta causa del malessere del fratello. C-come… come è accaduto anche questa volta!”

Ma-Mamma!

Gli occhi di Camus gli si chiusero, divaricò a fatica le gambe per rimanere in piedi, ma ormai non c’era più alcuna scena davanti a lui, solo le loro voci… ancora le loro voci.

Non voleva separarsene. Non voleva, tutto qui!

“Camus è rimasto in coma per giorni. Ha… ha rischiato di morire, sembrava quasi che le cure, da sole, non funzionassero. Ero disperata, non sapevo cosa fare...”

Mi dispiace… non avrei mai voluto procurarti un simile dolore, non… ugh!

“E’ in quei momenti così critici che il Nobile Shion ha pensato… ha pensato...”

Che… cosa ha pensato, anf? Mamma?

“...”

Mamma!

“Marta, lei… deve essere stata lei, non ci sono altre spiegazioni.”

Che cosa? Cosa ha fatto Marta, perché non lo ricordo?! Perché quel giorno è tutto così confuso?! Perché più cerco di riportarlo alla memoria… più mi sfugge, anf?

Camus riaprì faticosamente un occhio, le rivide ancora una volta, anche se apparivano sempre più lontane e distante, quasi… sfumate. Tentò il tutto e per tutto. Tentò di concentrarsi sul viso addormentato della piccina, su quello ancora giovanile della madre che continuava a parlare con Efesto, anche se le parole non gli arrivavano più. Protrasse un braccio, che emanava dei veri e propri fasci di energia che risalivano più velocemente tramite le vene verso il cuore, come a volerlo raggiungere. Le pulsazioni cardiache martellavano sempre più forsennatamente all’interno della sua cassa toracica, più o meno al ritmo di quelle strie numerose che ora, raggiunto il torace, scendevano in direzione dell’addome, riempiendolo quasi del tutto come petali di una corolla di fiori destinata a sbocciare.

Il… Potere della Creazione! -realizzò Camus, osservandosi il ventre scalpitante- F-forse g-grazie a questo...

“Basta così, Camus, il tuo corpo è al limite, fermati! ORA fermati! Tua sorella l’hai già salvata… è sufficiente!”

Una voce femminile dietro le sue spalle -non era certo quella di sua madre, ancora seduta a poca distanza da lui- lo fece sussultare con violenza. Non ebbe comunque il tempo di indagare oltre, né tanto meno di voltarsi, perché un dolore atroce, non più sopportabile per il suo corpo giunto al limite, gli perforò nettamente l’ombelico, facendogli perdere l’equilibrio.

“Guah!”

Non finì subito a terra. Opponendosi strenuamente, riuscì a rimanere ginocchioni, ma prima ancora di poter riaprire gli occhi, una nuova stilettata nel punto di prima gli mozzò istantaneamente il respiro, facendolo stramazzare a terra senza più difesa alcuna. A stento percepì l’addome nudo, esposto, privo della protezione della maglia, rivoltata verso lo sterno, e della sua mano caduta poco più giù, immota sul pavimento.

Tutto stava perdendo di consistenza, al punto da non distinguere più nulla intorno a sé. C’era soltanto lui e quel dolore insopportabile. Lui e l’oscurità. Lui e il rimpianto di non aver capito prima come sfruttare quella dote.

Di nuovo il bruciore. Insopportabile.

E il dolore più intenso di prima.

Il ventre diede uno spasmo, lui dovette trattenerlo con l’altra mano con tutte le sue forze, mentre, spalancando gli occhi al cielo per la sofferenza, facendo leva sul braccio sotto, si voltava supino, prendendo grosse boccate d’aria perché respirare era diventato difficile.

Una nuova doglia.

E’ un’altra.

Un’altra ancora.

Partivano tutte dalla parte più profonda dell’ombelico per poi risalire.

L’addome tirava fastidiosamente, come se qualcuno gli avesse infilato un gancetto nella parte mediana del tronco e avesse cominciato a tirare. A nulla valeva trattenerlo con una mano, spingere verso il basso per contrastare quell’insana pressione che un uomo in vita sua non avrebbe mai dovuto provare. A nulla. Le contrazioni aumentarono.

Strinse i denti come meglio poteva, si disse che presto sarebbe finito, che DOVEVA finire, perché non era la prima volta che provava quella sensazione orrenda ed era già riuscito a sopravvivere. Chiuse gli occhi, sforzandosi di riportarsi sotto controllo, mentre le immagini del combattimento avvenuto nel mondo creato da Utopo riaffioravano dolorosamente nella sua mente nella loro completa, spietata, interezza.

Michela, anf! Hyoga!

Avrebbe voluto urlare per il supplizio. Non lo fece, dando tutto sé stesso nel tentare di contrastarlo.

Tutto sarebbe finito.

Anche… quel calore innaturale che lo vessava, senza dargli requie, sotto forma di due simboli a forma di triangolo che -li percepiva di nuovo!- si erano nuovamente impressi sulla sua pancia, le basi convergenti a metà ombelico, i due vertici equidistanti uno in direzione dello sterno e l’altro in direzione dell’inguine.

Sì, sarebbe finito tutto... in un modo o nell’altro!

 

 

* * *

 

 

Milo stringeva la mano abbandonata a sé stessa di Camus con un cipiglio di disperazione, quasi fremendo sul posto, mentre, con ansia crescente, osservava i movimenti sempre più trafelati intorno al letto.

Non sapeva spiegarsi cosa diavolo fosse successo. Semplicemente poco dopo una delle solite visite di controllo, il suo migliore amico aveva cominciato ad avere le convulsioni. La temperatura corporea, e così i battiti cardiaci, erano quindi saliti vertiginosamente, mentre l’ombelico aveva ripreso a spurgare sangue… più intensamente di prima!

Erano subito accorsi gli altri, Mu, Shaka e il Nobile Shion, lo avevano soccorso, ma la situazione non sembrava stabilizzarsi e lui, a giudicare dal suo contrarre ripetutamente le palpebre, visibili a fatica a causa della mascherina che gli stavano premendo sul viso, stava soffrendo molto.

Lo Scorpione si sentiva dannatamente inutile in quella circostanza, superfluo, mentre, con fremito sempre più crescente, si domandava cosa, dannazione, gli stesse succedendo. Di nuovo.

La sera prima Camus aveva dato cenni di ulteriore miglioramento al punto da potergli togliere l’elettrocardiogramma, e allora perché… perché quello?!

Riusciva solo stare lì, a tenergli almeno la mano, mentre tutt’intorno gli amici si prodigavano per lui nel tentativo di farlo star meglio, il camice completamente aperto sull’affannoso petto per tastargli minuziosamente il costato, il torace e soprattutto l’addome, così bollente più che le altre parti. Con un groppo in gola, Milo vide Mu scostargli un ciuffo dalla fronte sudata con gentilezza, prima di riscaldare tra le mani lo stetoscopio e posarglielo sul pettorale di destra, sul sinistro, scendere dai capezzoli per poi passare su entrambi i fianchi. Lo strumento si soffermò per diverso tempo su ogni zona, prima di essere ritirato con un sospiro affranto.

“Il cuore è ancora in fibrillazione.”

“Cos..?!” a Milo venne un colpo.

“Che tipologia, lo riesci a capire, Mu?”chiese subito Shaka, ancora intento a mantenere la mascherina dell’ossigeno sul volto del compagno d’armi per aiutarlo a respirare con più regolarità.

Erano giunti lì che ne era fortemente in deficit...

“Atriale, per il momento. Ma non riesco completamente a calmargliela.”

“L’iniezione di eparina non è bastata?!”

“Non… ancora.”

“Non ci voleva!” si lasciò sfuggire il Cavaliere di Virgo, affatto solito a mostrare apprensione, ma la situazione sembrava sul punto di degenerare.

“Non capisco davvero cosa gli sua successo, stamattina sembrava profondamente addormentato, non ci sono state avvisaglie di un crollo così vertiginoso, eppure...” biascicò Mu, a stento controllato, prima di posare brevemente lo stetoscopio sul letto per poter così prendere una pezza dal comodino e tamponargliela sulla fronte con gentilezza.

Altrove, più in giù, Shion stava cercando di arrestargli la nuova perdita di sangue, premendogli un fazzoletto sull’addome scalpitante, accelerato come lo stesso respiro, e battito, di Camus. Non diceva niente.

Milo si chiese per l’ennesima volta come ci riuscisse a mantenere sempre quella dannata flemma che lo contraddistingueva, sembrava peggio di Shaka, a volte, il che era tutto dire. Del resto, il Grande Sacerdote stava lì, serio in volto, come se avesse quasi tutte le risposte alle sue domande ma non le palesasse. Non a loro.

Intanto il Cavaliere della Vergine, sollevando la mascherina dal viso di Camus per poi chinarsi vicino alla sua bocca, era passato a controllargli, con l’aiuto del palmo della mano posata sul diaframma, il respiro. Parve contare qualcosa, probabilmente la frequenza, prima di sospirare e cercare il sostegno visivo di Mu.

“Il respiro si sta regolarizzando, ma il cuore è ancora sotto sforzo… rischia uno scompenso, così!”

“Sì, Shaka… - annuì Mu solo apparentemente tranquillo – L’ho auscultato prima, i battiti sono a 140 e non c’è verso di placarli, eppure dovrebbe essere in condizioni di riposo.”

“Che gli sta succedendo, quindi? Lo hai capito? Tu sai vedere molto più in là di me, Mu...”

“E’ come se… se stesse usando i suoi poteri ai massimi livelli e questi sovraccaricassero l’organo in questione.”

“Che significa, questo?! - volle sapere Milo, sgranando gli occhi, mentre le sue dita si stringevano ulteriormente su quelle di Camus – E’ qui, incosciente, non può star usando i suoi poteri!”

“Eppure è così, è affaticato! Lo dimostra sia l’accelerazione dei suoi battiti che il suo respiro!” riprese Shaka, serissimo in volto.

“Ma che diavolo sta…?”

“Qui il sanguinamento è rallentato. - li avvisò Shion, alzando il fazzoletto nel vedere che l’ombelico non spurgava quasi più – Procediamo con il nuovo bendaggio!”

Milo istintivamente si alzò, lasciandogli momentaneamente la mano, compì due passi indietro, quasi impietrito, mentre gli altri tre si accordavano su come fare. Li vide lavorare in sinergia, prendendo il corpo di Camus per poi voltarlo su un fianco, il destro, proprio dove stava lo Scorpione che ebbe un sussulto nel vedere la non reattività del suo migliore amico. Quel camice aperto, rivoltato completamente anche sulla schiena, quelle sue braccia abbandonate a sé stesse, quel suo essere alla mercé degli altri, sebbene lo mal tollerasse, per aiutarlo a combattere una cosa sconosciuta perfino per loro…

Milo si dovette appoggiare con una mano al muro, mentre Shaka, sistemandolo meglio sul cuscino, gli fletteva la testa e gli alzava meglio le braccia, piegandole davanti al viso, in modo da poter operare più agevolmente sulla pancia, su cui Shion stava già parzialmente avvolgendo un bendaggio stretto.

“La cosa che mi preoccupa maggiormente è comunque il rialzo inspiegabile della sua temperatura, nonché il suo perenne essere sotto sforzo. – il Grande Sacerdote fece infine trapelare i suoi timori, mentre legava con maestria le bende dietro la schiena di Camus – Sembra quasi non abbia mai pace, quasi fosse vittima di un sogno senza fine, non è normale!”

Mu annuì, mentre, con la mano poggiata sulla nuca dell’amico gli accarezzava i capelli con gesto delicato per provare a calmarlo: “La febbre inoltre non scende neanche con gli antipiretici, tutt’al più rimane stabile… non me lo spiego!”

Effettivamente i medicinali, trasmessi per via endovenosa, non bastavano, era chiaro. Quell’aumento spropositato delle temperatura corporea non doveva avere altre spiegazioni se non un malessere congenito, dato da ragioni interne, forse inconsce. Occorreva quindi un’azione decisa per abbassargliela, forse l’intervento di un manipolatore del ghiaccio. Lo Scorpione si ritrovò a fremere, il cellulare già in mano.

“Sommo, devo chiamare Marta?” chiese, perché Hyoga era K.O e irraggiungibile, lo sapeva, ne rimaneva un’unica possibilità.

Shion non disse niente, sembrò soppesare la situazione. Osservò dolente Camus, il suo boccheggiare, il sudore che gli imperlava il bel volto e l’espressione perennemente sofferente.

“Forse, se sua sorella fosse qui, lei...” insistette lo Scorpione, cauto.

“N-no, urgh, p-per favore, a-arf, lei no...”

Non era stato Shion a parlare, ma lo stesso Camus che, quasi miracolosamente, scrollando la testa sul cuscino prima di affondarci dolorosamente dentro, si stava strenuamente opponendo.

Sì, certo, con quali forze e come? Anzi, come poteva aver percepito anche solo quello spiraglio di mondo esterno, nelle condizioni in cui versava! Gli altri Cavalieri non lo sapevano, lo Scorpione invece sì, ma se c’era un momento per contrastare quell’insana follia era esattamente quello.

“Camus, ma...”

“N-no, anf... p-per favore, i-io de-vo proteggerla, anf, anf.”

“CAMUS! FORSE non ti stai rendendo conto della...”

“D-devo protegge-rla, Milo, a-arf... d-devo proteggerti, piccola.”

Sembrava rispondesse a lui ma, in un certo senso, non lo stava del tutto facendo. Era come se parlasse nel sonno, come se stesse combattendo contro qualcosa. E, quello, se possibile, infervorò ancora di più il Cavaliere di Scorpio.

“Non vuoi che ti veda così, lo capisco, credimi, ma… è abituata a vederti sin peggio! Camus, dammi retta, per una singola volta, hai avuto le convulsioni e hai ancora la febbre molto alta, non...”

“N-no, lasciami, anf… lascia-mi e-essere ancora un uomo per lei, ugh… un uomo e un fratello maggiore, anf!”

“CAMUS, PORCA DI QUELLA..!”

“E’ più che comprensibile che non voglia farsi vedere così dalla sorella, Milo! – intervenne pacatamente Mu, sempre continuando ad accarezzargli i capelli scarmigliati sul cuscino, legando al contempo il suo sguardo agli occhi azzurri dell’amico – Questa consapevolezza, il fatto di aver Tiamat dentro di sé, deve averlo sconvolto più di quanto sia successo a noi. Dovresti sapere come è fatto...”

“So, sì, come è fatto, ma cosa pensate di fare allora, eh? - lo Scorpione non mascherò l’agitazione, al punto da non trattenersi più – Se questa dannata febbre non scende nemmeno con gli antipiretici serve qualcuno che domini il ghiaccio, e non è che abbiamo un intero plotone a disposizione con questa dote! Hyoga sta male ed è lontano, l’unica che può fare qualcosa è Marta, che a Camus piaccia o meno! Se ne farà una ragione, oppure...”

“...Oppure potrebbe non essere necessario!”

Tutti i presenti trasalirono nell’avvertire una nuova voce palesarsi tra loro, talmente concentrati sul da farsi da non essersi resi conto del cigolare della porta che, proprio in quel momento, veniva aperta senza chiedere il permesso.

“Divino Hermes!!!” esclamarono all’unisono, riconoscendolo immediatamente.

Il dio dall’aspetto giovanile fece un cenno di assenso, chiudendola poi dietro di sé e avanzando verso di loro con il bastone in mano. Diede una breve occhiata al ragazzo steso sul letto, soffermandosi al bendaggio che gli avvolgeva l’addome e al respiro ancora terribilmente aritmico. Socchiuse un poco le palpebre, prima di buttare fuori aria e parlare.

“Potrebbe non essere necessario l’intervento di Marta, ho qui qualcosa per voi che potrebbe essergli utile.” disse, prima di tirare fuori un oggetto dalla tasca della giacca -era infatti vestito con abiti civili che lo rendevano quasi un uomo comune, se non fosse stato per la luce divina dei suoi occhi e per la straordinaria singolarità dei lineamenti!- e posarlo tra le mani del Nobile Shion.

“Che… che cosa sarebbe?” chiese Milo, mentre gli altri si disponevano in cerchio e sbirciavano incuriositi, come se si aspettassero che, in qualche modo, l’oggetto non apparisse così banale come pareva.

Apparentemente era una comunissima bustina di tè.

“Un antipiretico naturale, possiamo dire.”

“Composto da..?”

Milo sembrava scettico, inarcò un sopracciglio nello stesso momento in cui Shaka se lo portava al naso.

“E’ una miscela di erbe. Se la fate assumere per via orale a Camus, gli si scioglierà subito in bocca, abbassandogli immediatamente la temperatura corporea e placandogli le doglie.”

“Sì, ma composta da cosa?! - Milo non si fidava affatto delle divinità, insisteva a chiedere delucidazioni, preoccupato alla sola idea di fargli ingerire roba misteriosa – Fate presto a dire ‘miscela di erbe’, Divino Hermes, per quanto ne sappiamo potrebbe pure essere droga!”

“Per voi umani effettivamente potrebbe essere considerata una sostanza stupefacente, come la chiamate voi, ma ti ricordo, Cavaliere di Scorpio, che il tuo amico è per metà dio!” rispose semplicemente la divinità, senza scomporsi.

“Certo e, secondo voi, al mio amico solo perché è per metà dio, faccio assumere roba potenzialmente pericolosa! Lasciatemi dire, Sommo Hermes, che vaneggiate, non...”

“Non sembra tale, però! - lo corresse Shaka, studiando la miscela anche con gli occhi, prima di annusarla ancora – Sembra più un composto di Fagus Sylvatica, Prunella Vulgaris e Aruncus Dioicus, inoltre … c’è anche qualcos’altro che non riesco bene a inquadrare, quasi un odore di cenere, possibile?”

“Faggio, Prunella comune e Barba di Capra, sì… i miei complimenti, Cavaliere di Virgo, hai indovinato tre ingredienti su quattro; l’ultimo, a tua discolpa, non potevi capirlo: non è qualcosa che esista sulla vostra bella Terra!” si congratulò Hermes, sinceramente soddisfatto.

“Hanno tutte proprietà medicinali e antipiretiche. - constatò a sua volta Mu, sorpreso, osservando la divinità – Dove mai..?”

“Non io, Cavaliere, è stato Efesto a cercare meticolosamente gli ingredienti, a ridurli in polvere e a cuocerli, io sono stato soltanto incaricato di recarmi qui.”

Quella frase apparentemente pacifica diede invece occasione a Milo, già in fibrillazione a sua volta per la situazione snervante, di creare un nuovo pretesto per una discussione.

“Ah, il buon caro Efesto si è svegliato?! E dov’è ora lui?!” fremette, nervoso, tanto da spingere Shion a bloccargli il polso con la mano.

“Milo, un po’ di rispetto, se riesci...”

“Un po’ di rispetto un corno, Grande Sacerdote! Dov’è Efesto, mentre suo figlio sta così male?! Passi quello che è successo nel passato, ma qui...”

“Milo, ti ha detto il Divino Hermes che è stato lui a prendere i rimedi, già questo...”

“Ma lui non è qui, ci manda il compagnone, perché, Shaka?!”

“Cavaliere, - Hermes prese parola, guardandolo dritto negli occhi al punto da spingerlo a fermarsi a causa della limpidezza profusa da quel singolo sguardo – Efesto ha non poche difficoltà a relazionarsi con tutti, Divini e Mortali non c’è differenza, nutre grossi problemi di fiducia verso chiunque.”

“Saranno ben cazzi suoi se è dissociato, no?! Con Camus e Marta dovrebbe invece...”

“I suoi figli, ahimé, non fanno eccezione ma credimi… credimi quanto ti dico che ci è sinceramente legato, anche se può non sembrare!”

“E infatti non sembra.”

“Non è stato così anche per Camus? Non ti è stato difficile ottenere la sua fiducia, Milo Cavaliere di Scorpio?”

“...”

“Efesto, a suo modo, sta aiutando il figlio, anche se non in prima persona. Si è mosso lui stesso a cercare tali ingredienti per il decotto, li ha uniti, miscelati, per Camus, ma non si sentiva di venire lui, pertanto ha chiesto il favore a me. – sospirò Hermes, guardando brevemente fuori dalla finestra – E mi ha anche detto di portarvi un messaggio...”

“Che messaggio?!” volle sapere lo Scorpione, più calmo, anche se comunque spazientito.

“Dopo, Cavaliere, ora date la cura a Camus. E’ allo stremo delle forze, sta utilizzando fin troppo il suo grandioso potere.” asserì ancora Hermes, prima di tacere, appoggiandosi al muro in attesa.

“Mi sembra un’ottima priorità, questa, Divino. - sorrise Shion, grato, i suoi muscoli si rilassarono impercettibilmente, mentre diede un’occhiata indicativa al suo allievo e a Shaka – Aiutatemi a voltarlo supino.”

Girarono quindi Camus, posizionandogli nuovamente le braccia lungo i fianchi. Prevedibilmente lui, non avendone le forze, non oppose resistenza. Erano stati in grado di bloccargli l’emorragia, ma i movimenti convulsi dell’addome non si erano affatto calmati, stremandolo, ad ogni fitta, ancora di più.

Milo ne era come ipnotizzato, non riusciva ad accettare tutto quello. Lo guardava, il cuore piccolo piccolo nell’osservare i suoi muscoli ancora così tesi, la sua pelle umida di sudore che, alla luce, risaltava ancora di più tutti i lividi e le ferite impresse sul suo corpo devastato. Ingoiò a vuoto. Un singolo trauma di quella tipologia sarebbe stato troppo per chiunque, si chiese con che volontà Camus riuscisse a sopportarne uno dietro all’altro. Per amore, dedizione, voglia di continuare a vivere… cos’altro?

“Milo!”

Fu Shion a riportarlo alla realtà. Sussultò, mentre il Grande Sacerdote gli passava la bustina contenente il medicinale: “Vuoi darglielo tu? Di te… si fida!”

Lo Scorpione non aveva forze per dire alcunché, si sentiva semplicemente prosciugato. Annuì cupo, mentre, prestando attenzione, apriva la bustina.

“Cosa devo fare per… - diavolo, si sentiva un inetto con le cure – Convincerlo ad aprire la bocca?”

“Non lo devi convincere, lo obblighi! - disse pragmatico Shaka, senza troppi rigiri di parole – Così!”

E bloccando la testa di Camus perché non si potesse opporre, giacché lui aveva già provato a sfuggirgli, gli prese saldamente la mascella inferiore, costringendolo, tramite una leggera pressione, ad aprirla.

“Minchia, Shaka, sembri un macellaio! - si lagnò Milo, sinceramente scioccato dalla scena – Ricordati che è Camus, non chicchessia!”

“La delicatezza non serve in taluni casi, deve prendere la medicina nel più breve tempo possibile, non ci sono alternative!”

“Sì ma c’è modo e modo, che diamine! - quasi gli ringhiò a denti stretti, prima di abbassare lo sguardo e concentrarsi – Coraggio, amico mio, tra non molto starai meglio!” provò ad incoraggiarlo, porgendogli la bustina sulle labbra semi-aperte per poi versargliela in bocca.

Camus non oppose più resistenza, semplicemente cercò di ingerire quanto gli veniva dato, mentre Shaka, recuperando un po’ di umanità e calore che Milo disperava di rivedere nella reincarnazione di Budda, lo aiutava a deglutire.

“Fai così, Milo… - lo avvertì Shaka, solleticando la giugulare di Camus con l’indice – Gli sarà più facile!”

Lo Scorpione fece quanto gli veniva illustrato, cercando di mascherare il proprio fremito corporeo, manifestazione lampante del suo sconvolgimento. Infine lo riaccompagnarono compostamente sul cuscino e attesero. Finalmente, dopo alcuni minuti, parve lasciarsi andare. Lo videro acquietarsi, l’addome e il petto tornarono a gonfiarsi e sgonfiarsi con una parvenza di calma.

“Si è… tranquillizzato?” chiese Milo, speranzoso, sentendo i muscoli sciogliersi come se fossero un budino.

“Pare di sì… aspetta! - disse Mu, tornando a posargli lo stetoscopio sul torace – Sì, anche i battiti si stanno regolarizzando!” confermò, con una punta di sollievo che non riuscì a non mostrare.

“Possiamo ricoprirlo, quindi? - chiese speranzoso lo Scorpione, rivolgendosi con sguardo da cucciolo a Shion che stava rimuginando sul da farsi – Povero diavolo, non ne potrà più di sentirsi così maneggiato!” gli fece poi notare, scoccando una breve occhiata di avvertimento a sua buddità che se ne stava ancora lì, a massaggiare il collo e il petto di Camus per aiutarlo nell’assunzione di quella polvere misteriosa.

“Va bene, ricopritelo per il momento, ma per più tardi trovo che sia saggio ricollegare il suo corpo all’elettrocardiogramma per monitorarlo costantemente. Vorrei scongiurare, nel possibile, l’insorgere di una crisi violenta come quella di prima. - concesse alla fine il Grande Sacerdote, con un lungo sospiro scarica tensione – Shaka, Mu, poi dopo dovremo disquisire sulle prossime iniezioni di eparina...”

“L’epa-che?!” lo interrogò lo Scorpione, smarrito, rabbrividendo.

“L’iniezione di prima, Milo.” rispose Shaka, sbrigativo.

“Que-quella che gli avete fatto nella coscia?!”

“Precisamente.”

“E’… è necessaria? Non...”

“E’ da valutare. - gli scoccò un’altra occhiata Shion, di quelle che valevano più di mille parole – Anche perché luogo preferenziale per l’iniezione è la zona sottocutanea della pancia, ma ora come ora è troppo martoriata per inoculargli lì il medicinale.”

Milo inghiottì a vuoto. Ripensò alla violenza con la quale avevano fatto la prima somministrazione, senza nemmeno un minimo di preavviso, senza curarsi di essere delicati. Si inumidì le labbra, tornando sul volto del migliore amico, apparentemente addormentato.

“Lo ricopriamo, quindi, per il momento?” chiese conferma Shaka, osservando Shion, il quale acconsentì ancora una volta.

Così Mu, dopo aver adagiato meglio da un lato il viso di Camus, gli riabbottonò il camice, ricoprendolo poi con il lenzuolo fino alle spalle ad eccezione del braccio destro, che sarebbe servito per i prelievi dopo. Lasciò quindi lo spazio a Milo, che sapeva addolorato dell’intera faccenda, scambiandogli un sorriso di incoraggiamento.

“Sta meglio ora.” gli disse, gentile.

“G-già, anche perché p-peggio di prima c’è solo la morte.”

“Esagerato. - ridacchiò tenue, pur comprendendolo - Stai con lui, ne ha bisogno!”

Già, aveva bisogno di percepire una persona amica, come se non lo sapesse, poi. Lo guardò con intensità crescente, gli veniva quasi da piangere come un poppante, ma non l’avrebbe di certo fatto, men che meno lì. Tirò su con il naso, prima di chinarsi verso di lui.

“Coraggio, amico mio, è finito anche questo supplizio...” gli sussurrò lo Scorpione, carezzandogli i capelli per poi scendere sull’ovale del viso e proseguire fino alla mano, che tornò a stringergli.

Camus non rispose alla stretta, ma gli parve che si rilassasse ulteriormente, il viso lontano e assopito.

“Sei un impiastro, non la finirai mai di farmi tribolare, vero?! Né a me né a Marta… - aggiunse ancora, gli occhi un poco lucidi, prima di racchiudere la sua mano nel suo palmo – Per il momento riposa, Cam, te lo sei meritato!”

“Divino, potete illustrarci il messaggio?” chiese ad un certo punto Mu, dopo alcuni attimi di silenzio, puntando i suoi occhi profondamente verdi sulla divinità.

“Prima… una informazione da parte vostra: avete conosciuto Ermete?”

“S-sì ma questo come…?”

“Lo supponevo.”

La sua espressione si fece scura e pesante, grave, le sue iridi si allontanarono bruscamente dal gruppo. A Milo quell’accozzaglia di manifestazioni umane non sfuggirono. Lo scrutò con attenzione, riducendo le palpebre a due fessure. Si ricordò dei timori di Sonia, della sua paura che il proprio padre biologico ne fosse, in qualche modo, coinvolto.

“Non siete di certo la stessa entità...” asserì, pratico.

“No, non lo siamo.”

“Ma ne siete comunque implicato!”

“Si può dire di sì, Cavaliere di Scorpio...” ammise il dio, con un sospiro.

“Ebbene… in che modo?”

Hermes sembrava restio a trattare dell’argomento, lo aveva tirato fuori solo perché si era dovuto recare lì per soccorrere il Cavaliere dell’Acquario sotto espressa richiesta di Efesto, ma era evidente che avrebbe voluto trovarsi ben altrove. Sembrava vergognoso, colpevole, un sacco di altre cose -un’accozzaglia, per l’appunto!- che erano difficili da collegare ad una divinità dell’Olimpo. Solo alla fine, dopo aver ispezionato tutto il muro con gli occhi per poi arrivare agli sguardi, un poco discreti e curiosi, dei Cavalieri davanti a sé, decise di prendere parola.

“E’ stato un mio allievo. Il migliore.”

Gli sguardi davanti a sé si fecero univoci, trasmettendogli la concreta impressione che fossero sorpresi, quasi sbalorditi. E seppe, con distinzione, che per la sete di sapere umana, la stessa del suo discepolo prediletto, quella sola risposta non gli sarebbe bastata.

“Ermete non è il suo vero nome, ma un modo di chiamarsi che prese ad assumere quando ci separammo. - spiegò, una tetra scintilla di delusione nelle sue iridi verde bosco – In origine, si chiamava Angus.”

“A-Angus dal gaelico?” provò a chiedere Mu, sinceramente meravigliato.

“Vi parlo di un periodo storico estremamente arcaico, quasi agli albori della storia umana, o meglio, della vostra specie, l’Homo Sapiens, perché effettivamente in quel periodo erano ancora esistenti ominidi di varia origine sul vostro pianeta. – specificò il dio dei viandanti, guardando altrove – Ebbi poi altri allievi, ma mi affezionai talmente a lui al punto di concedergli una lunga vita..”

“Perciò era il vostro favorito...” capì Shion, estremamente percettivo.

“Sì, noi divinità possiamo essere molto selettive, ci fissiamo su oggetti, persone, animali, talvolta cose. Siamo, invero, molto fragili a nostra volta. - prese una pausa, chiudendo gli occhi per poi riaprirli – E’ stato così per tutti, o quasi: io avevo Angus, Atena ha sempre avuto il Cavaliere di Pegasus in ogni sua forma, il Sommo Zeus… aveva Ganimede!”

A Milo non sfuggì né l’intermezzo tra i due nomi né tanto nemmeno l’occhiata obliqua, quasi in tralice, che Hermes regalò a Camus, finalmente placato e perso nei recessi dell’incoscienza, sebbene mostrasse ancora segni di sofferenza sul suo viso.

“Era molto di più che il mio favorito... – confermò ancora Hermes, come se quella semplice frase pesasse su di lui come una condanna - Per questa ragione gli insegnati tutto; tutte le arti magiche, tutte quelle curative, tutte le forze esistenti in questo universo.”

Tacque di nuovo, sembrava aver bisogno di tempo per continuare. I Cavalieri lo seguivano in silenzio, chi non discostando minimamente lo sguardo da lui, chi regalando brevemente una fugace carezza a Camus, chi con gli occhi perennemente chiusi, come Shaka, che era tornato ad essere sua buddità completa.

“Fu un errore. - la frase giunse alle loro orecchie estremamente lapidale – Lui voleva di più, molto di più... non gli bastava questa Terra, né questo universo, perché, a suo dire, era troppo limitante per la sua sete di conoscenza. Cominciò dunque ad esercitare arti proibite...”

“Proibite… come?” volle sapere Milo, ma la divinità non sembrava intenzionata ad approfondire quell’argomento. Lo vide deglutire a vuoto, prima di procedere.

“Non lo fermai subito, ci ero troppo affezionato, ma la sua sete di conoscenza travalicò il limite. Fui costretto a scontrarmi con lui. Lo vinsi, ma non lo uccisi, non ne ero in grado e, da quel momento, si perfezionò da solo, cambiando nome, a volte passando per me, facendosi conoscere dalla gente come Hermes/Ermete, il Trismegisto, ovvero il tre volte grandissimo.”

“Sonia ha ipotizzato qualcosa di simile! - interloquì Milo, attirando l’attenzione del dio – Sosteneva che non potevate essere voi, che non era possibile, perché lui è malvagio e voi, suo padre, no.”

“A Sonia non ho mai raccontato questa storia...”

“Beh… dovreste! - il tono di Milo si acuì, l’espressione facciale si fece spietata, come sempre quando si trattava della sua piccoletta – Lei crede in voi. Sul fatto che non possiate essere la stessa persona ci avrebbe messo anche la mano sul fuoco, e non lo siete, certo, ma avete comunque avuto a che fare con lui, anzi, siete il principale responsabile delle sue nefandezze, dico male?”

“...”

“Milo!” lo avvisò Mu, trattenendolo per il polso vicino come a indicargli di fermarsi. Lo Scorpione, però, non sembrava intenzionato a retrocedere.

“Sonia non sa nulla di voi, ma si fida, gli piacete. Ha… ha sempre avuto bisogno di un padre ed io… io non potevo esserlo. - sorrise amaramente, scrollando il capo – Sono più un fratello maggiore un po’ tonto, per lei...”

“Cavaliere...”

“Ma ciò non cambia che sono stato io a farla crescere, né voi né i suoi reali fratelli, che ne erano impossibilitati! - esclamò con convinzione, cercando di sopperire il senso di prostrazione che lo aveva improvvisamente colto – Se non sarete voi a spiegarle la situazione, con i dovuti tempi, lo farò io, costi quel che costi. Lei ha diritto di sapere chi, cosa, ha fatto suo padre. Ne ha… bisogno!”

“Cavaliere, io...”

Hermes si trovava in inaspettata difficoltà. Da un lato avrebbe voluto continuare il discorso, dall’altro farlo proprio con la figlia più piccola lo metteva in soggezione. Aveva sempre pensato di avere tante parole da esprimere, merito della vicinanza che, per secoli, millenni, lui aveva scelto di mantenere con il genere umano, ma quel giorno, per la prima volta, si rese conto di essere piccolo, insignificante, davanti agli occhi celesti di un ragazzo che, per quanto reincarnato diverse volte, non avrebbe potuto competere, almeno in teoria, contro la sua esperienza celeste.

“...è complicato… - bofonchiò poi, guardandosi i piedi – Non è...”

“Non dovete le spiegazioni a noi, ma a lei, o al massimo ad Aiolia e Aiolos! - sottolineò Milo, con un leggero sorriso, prima di voltarsi – A noi basta sapere che questo Ermete non siate voi, né una vostra emanazione, che siate quindi nostro alleato.”

“Lo sono, ma… - Hermes sospirò, affranto, rendendosi conto che non sarebbe stato più in grado di continuare – D’accordo, vi spiegherò meglio un’altra volta, adesso… adesso siete più preoccupati per quello che è accaduto al vostro amico, giusto?” chiese, recuperando la concentrazione giusta e la parvenza della divinità che era.

Nella stanza ricadde un silenzio colossale. Nessuno sembrava sufficientemente preparato per esprimere i propri dubbi, né per chiedere ulteriori approfondimenti circa la brutta crisi -potenzialmente mortale, se non fossero intervenuti in fretta e furia!- che aveva colto il Cavaliere dell’Acquario.

“Che cosa gli è successo, di preciso? Perché è crollato così? Fino a ieri stava dando cenni di miglioramento!” fu Shion a tagliare in due la stasi, la mano che sorreggeva il volto pallido di Camus con una premura estremamente paterna, il pollice a solcargli ripetutamente lo zigomo nel sussurrargli un tacito ‘non arrenderti!’

“Fa parte del messaggio che vi vuole trasmettere Efesto.”

“E questo si era capito, Divino, ma cosa mai..?” intervenne anche Milo, sempre più nervoso.

“E’ il vero fulcro della Creazione, la vera essenza dei poteri di Camus.”

Silenzio intorno, solo Mu ebbe il coraggio di chiedere il seguito.

“Il vero fulcro?! Non è… il potere di generare atomi dal nulla dandogli la forma materiale del ghiaccio?”

“Quello è solo l’esordio, il potere secondario, più immediato e accessibile… il cardine risiede altrove.”

“E dove?” si aggiunse anche Shaka, aprendo garbatamente gli occhi celesti in una lieve espressione di sorpresa.

“Nei sogni. - lo accontentò placido Hermes, sorreggendo il suo sguardo, prima di farsi ancora più serio – Il crollo che ha avuto è perché sta sognando e… e il suo corpo da umano, già profondamente debilitato, non è in grado di reggere un simile sforzo. Ma ora, grazie alle erbe di suo padre Efesto, dovrebbe lentamente iniziare a migliorare!”

Era lampante, a giudicare dalle reazioni smarrite, che nessuno dei Cavalieri d’Oro presenti avesse completamente centrato la problematica. Hermes si disse che era normale: per quanto uomini straordinari e atti alla fatica, esseri viventi limitati rimanevano e il concetto espresso varcava le porte dell’infinito e dell’indefinito.

“Sapete, il Multiverso è un concetto di cui sappiamo spaventosamente poco… per poterci esprimere!”

In quell’istante, gli occhi di Shion e Mu, maestro e allievo illuminati, si accesero di consapevolezza, seguiti a corto giro da quelli di Shaka. Milo, invece, rimaneva chiuso nel suo mondo, le labbra piegate in una espressione a metà strada tra l’infastidito e il confuso. Di tanto in tanto, carezzava la chioma blu di Camus che, finalmente cheto, sembrava finalmente caduto in un sonno profondo.

Un sogno che tuttavia non è privo di compagnia…

Hermes percepì distintamente la divinità originaria dentro di lui, pur non proferendo niente a riguardo.

“Volete forse dire che..?” interloquì Shion, mostrando l’acutezza tipica di un saggio che aveva vissuto a lungo.

“I sogni possono essere spirargli di accesso ad altre realtà, talvolta giungono a noi sotto forma di suoni, immagini e odori mentre dormiamo, come se fossero dei veri e propri frammenti di vite riflesse. – spiegò pacatamente il dio, osservando un punto fermo fuori dalla finestra – Nessuno è in grado di mantenerli vividi a lungo, al risveglio, né tanto meno manipolarli a piacimento. Nessuno, eccetto… il Detentore della Creazione!”

“Questo significa che..!”

Anche Milo sgranò gli occhi, arrivando altresì a quella verità che il dio dei viandanti stava rivelando soppesando le parole e così il tono.

“Sì, Cavaliere… - gli occhi verdi di Hermes si posarono sul volto sfinito di Aquarius che, quasi a percepirlo, contrasse infastidito le palpebre – Il reale potere di Camus è quello di condizionare la realtà secondo il suo volere tramite i sogni. Praticamente...”

Di nuovo una pausa, più lunga delle precedenti. Quella dichiarazione avrebbe cambiato tutto, sia la concezione con la quale i compagni lo vedevano, sia le sorti dei mondi tutti, decretandone la fine o la salvezza, o anche… un nuovo inizio!

“...in quello spazio recondito e misterioso che sono i suoi sogni preclusi a noi tutti, lui… può essere considerato onnipotente!”

 

 

* * *

 

 

Il dolore stava finalmente scemando, insieme alle contrazioni che, raggiunto il picco massimo, erano finalmente in calo, lasciando il posto alla consueta, quanto forse più difficile da sopportare, sensazione di profanazione che non lo abbandonava mai del tutto da quando gli occhi di Fei Oz si erano posati, voraci, su di lui. Aveva ormai ricordato nei dettagli ogni cosa, le sevizie di Utopo, il male che egli aveva procurato a Michela, il dolore all’addome dopo essere stato pungolato a quel modo, ciò che ne era derivato… calore e spasmi, calore e ancora spasmi, sempre più intollerabili, e poi… quei simboli dorati a forma di triangolo che gli erano apparsi sul ventre, infondendogli un potere nuovo, colmante, che aveva rischiato di fargli perdere totalmente il controllo, smarrire sé stesso, e ferire i suoi amati allievi.

Hyoga… il pensiero tornò prepotentemente al ragazzo. Dove si era recato dopo lo scontro? Era rimasto gravemente ferito, ridotto ai minimi termini, eppure non aveva esitato a proteggerlo, a fargli sentire la sua vicinanza, ad affrontare coraggiosamente il Mago per contrapporsi a lui, al suo volere.

Camus stette un po’ lì, sdraiato, non sapeva bene dove. Socchiuse gli occhi mentre, con la mano sinistra ancora poggiata sulla pancia, avvertiva i simboli incisi nella sua carne sbiadire passo passo, sostituiti da un’enorme stanchezza che gli appesantiva la testa. Voleva solo dormire, prima di ricongiungersi con i suoi cari, con le allieve, con Marta, perché non capiva più dove si trovasse e si sentiva tanto solo e stremato.

I ricordi si erano interrotti, tutto era finito. Perché allora..?

“Sei nella parte più profonda del tuo inconscio, al sicuro. - ancora quella voce femminile dai caratteri gentili che gli pareva di aver già udito prima di stramazzare a terra – I tuoi amici là fuori si stanno operando per farti sentire meglio, e tu… hai raggiunto il tuo obiettivo, Camus, hai salvato Marta. Me ne complimento sinceramente.”

L’Acquario sbatté le palpebre febbricitante, totalmente incredulo. Intorno a lui non vi era altro che luce, non vi era più traccia del letto su cui era coricata la sorellina, né di sua madre che, in lacrime, raccontava delle sue gravidanze, e neanche della voce di suo padre Efesto, tremante come non l’aveva mai sentita prima di quel momento. No, non vi era nulla intorno a lui, solo un tiepido calore che tuttavia gli affaticava la vista… e un umanoide dalle sembianze femminili a poca distanza, in piedi, che lo guardava con riluttanza mista a curiosità.

“E’ molto caldo e confortevole, qui, Camus… - osservò ancora lei, sorridendogli leggermente nel vederlo nuovamente reattivo – Ti chiedevi prima se tua sorella fosse in grado di percepirlo, questo calore che tu vorresti infonderle con tutto te stesso e che pensi di non riuscire a mostrarle, ed io ti posso rassicurare che, sì, le forme e i colori, lo stesso tepore, sono esattamente ciò che sta provando Marta. E’ il mondo che si è creato dentro di lei dopo averti conosciuto. Su questo posso dire… di capirla, sai?”

“Urgh, chi..?” ma non riuscì né a finire la frase né a muoversi, troppo stremato per farlo. Provò l’istinto appannato di tirarsi giù la maglietta per coprirsi almeno il ventre che le stava parzialmente mostrando, ma le braccia non si muovevano, rimanendo una sulla pancia e l’altra lungo il fianco. Immobili.

Non c’era effettivamente più nulla intorno a lui in quel luogo, solo una specie di caldo nido e… quella ragazza misteriosa, non del tutto umana ma dalle sembianze antropomorfe. Lo stava osservando con occhi grandi e luminosi, celesti le sue iridi e… no, non erano solo cerulee, bensì dense di un azzurro che sfumava in oro e le illuminava lo sguardo come il tiepido sole del mattino rischiarava il cielo. Aveva lunghi capelli biondi che le ricadevano sul petto e sulla schiena, solo sulle punte un poco increspati. Tuttavia -Camus la osservò meglio, per quanto gli fosse difficile a causa della posizione cui era immobilizzato- non era quella la caratteristica principale della sua silhouette, bensì… la pelliccia! Sbatté più volte le palpebre, sforzandosi di focalizzarla a figura intera. No, non c’era margine di errore, la giovane umanoide aveva davvero delle zone del suo corpo completamente coperte da un folto manto di un bianco candido: fra tutte, dalle ginocchia fino ai fianchi e dai polsi fino ai gomiti. Altrove, invece, proprio come una qualsiasi giovane donna, vi era in bella mostra la sua pelle candida totalmente priva di protezione.

Non apparteneva quindi interamente a nessuna delle due sfere, né umana né animale.

In quell’attimo, rendendosi conto di essere guardata, un leggero rossore le solcò gli zigomi, obbligandola ad abbassare, vergognosa, lo sguardo.

Lei… gli ricordava comunque qualcosa, qualcuno, ma… chi? Camus si sentì inaspettatamente impacciato. Raccolse tempo per riuscire a parlare. Gli servì tutto, anche se, in quel luogo fittizio, forse nemmeno il concetto di divario temporale aveva un senso. Del resto… gli era stato appena detto di trovarsi nella parte più profonda del suo inconscio, giusto?

“T-tu, sei… - prese tempo per riordinare i pensieri e le parole, prima di continuare – Quei tuoi occhi tristi e gravi, come se dovessero sorreggere il peso del mondo. Mi… ci siamo già incontrati, per caso? Il tuo viso, non so perché, non mi è nuovo...” le domandò, sforzandosi di rammentare dove l’avesse già incontrata

“Ti… ricordi… di me?” chiese la ragazza, arrossendo ulteriormente.

Aveva un tono soave e delicato, composto e gentile, anche quello gli ricordò qualcosa, sebbene i fatti precedenti nell’iter dei ricordi sembrassero contraddire quel suo lato.

Camus ebbe l’istinto di posarsi l’altra mano sulla tempia, tutto quel mondo fittizio gli stava vorticando intorno, trasmettendogli un nodo al petto, quasi un senso di affaticamento. Respirò diverse volte profondamente, cercando di riportarsi per l’ennesima volta alla calma nel percepire l’ansia crescere esponenzialmente dentro di lui. Con il palmo posato sull’addome, si strinse la pelle, come a volerla ancora una volta trattenere al minimo cenno di ostilità.

“Puoi stare tranquillo e tranquillizzarti, adesso… - le disse quindi lei, accennando un passo nella sua direzione – Tua sorella è salva ed io non posso più oppormi. Hai plasmato il mondo che volevi grazie al tuo potere, ma ti chiedo di non abusarne oltre con un corpo così sfinito. Le conseguenze potrebbero essere molto gravi soprattutto per te. Ed io non vogl...” si trattenne, a disagio.

“Chi… chi sei? - volle sapere Camus dell’Acquario, come se da quella domanda dipendesse il significato stesso della sua esistenza – Perché mi sembra di conoscerti già?”

La giovane donna respirò a fondo, stringendosi a sua volta la mano sopra il seno un poco ansioso. Respirava quasi a scatti, sembrava emozionata da qualcosa. Gli occhi grandi e profondi palpitarono trepidanti.

“Ricordi tre anni e mezzo fa la Kolyma?”

“Z-Zima?! S-sei una sua emanazione?”

“No, ci siamo incontrati un poco prima, sulla strada per arrivarci...”

A quella frase i ricordi di quella missione lo investirono a ritroso. L’emorragia, il dolore al fianco trafitto, il muso triste di Zima, la sua maledizione, gli allievi, le direttive di Elisey, Bobik, nonna Nana e…

“Tamara, no… NINA, era questo il tuo vero nome! - la frase venne pronunciata in un guizzo più alto del normale – Eri sulla strada per Neksikan, quel giorno, ci siamo incrociati e tu… ti avevo condotto a Mosca, per ricominciare una nuova vita!”

A quelle parole la giovane donna sorrise tristemente, prima di riprendere a camminare nella sua direzione con passo un po’ meno malfermo. Si fermò a pochissima distanza, sufficiente per non toccarlo ma abbastanza per poterlo osservare in ogni suo particolare. Lui che era lì, steso a terra, immobile, a fissarla con occhi grandi e sgranati, la mano a coprirsi l’ombelico e così il simbolo ancora parzialmente visibile dei due triangoli con la sola base in comune e i vertici contrapposti -il segno della loro unione!- la maglia stropicciata a mostrare la nuda pelle del ventre, dalle ossa dei fianchi fino alla seconda coppia di addominali.

Era… semplicemente… perfetto. Esattamente come se lo era immaginato in tutti quei secoli trascorsi dentro di lui, nell’emozione, un giorno, di vederlo per davvero, non più con l’ausilio della sola immaginazione e degli altri sensi quali l’udito e il tatto.

Quel giorno era infine arrivato.

“Ti ringrazio per aver omesso altro e… per ricordarti di me, di lei, Camus!”

La sfumatura del suo nome giunse alle orecchie del Cavaliere con una nota di calore, come se per lei chiamarlo così fosse importante, essenziale, quasi che si fossero sempre conosciuti.

“I-io non capisco… se sei realmente tu, q-quella ragazza, perché hai questa forma? C-cosa ti è successo? Sei… umana, o animale?”

“Entrambi. - disse lei con voce bassa e delicata, prendendo a girargli intorno – Ti sentirai spaesato, è tuo diritto.”

Appariva così tanto triste, come quel giorno alla Kolyma, costretta a fare qualcosa cui era obbligata, ad essere… ciò che non era. Camminava a piedi nudi, seguendo un tragitto immaginario. Ad ogni passo lei si voltava verso di lui, pregna dell’istinto di stabilire un primo, vero, contatto, anche se solo visivo.

Camus ricambiava lo sguardo come riusciva, data la ritrosia del suo corpo a reagire, senza spicciare parola, il fiato corto. Doveva ammettere che possedeva una bellezza piuttosto inusuale, quasi antica, anche se non era completamente umana. Sebbene non si fosse mai soffermato troppo sull’altro sesso -Seraphina esclusa!- non riusciva a mostrarsi indifferente. Qualcosa in lei lo attirava inspiegabilmente come un magnete...

“Nina in effetti, è il nome che aveva questa sfortunata ragazza...”

Le labbra le si mossero lentamente nell’esprimere quel concetto, gli occhi di nuovo sfuggenti, quasi… appesantiti.

“Co-come?!” Camus non riuscì ad nascondere un’esclamazione di sorpresa.

“Tuttavia non sono lei, non lo ero neanche allora, in verità, quando tu mi hai raccolto e portato al sicuro, a Mosca. Di lei ho solo parte della forma esteriore!”

“C-che cosa vorresti..?”

“In quel momento, però, non avevo ancora i mezzi per riconoscerti...”

Camus trasalì a quelle parole, il suo corpo sussultò, quasi avesse avuto il singhiozzo. Cominciava ad assemblare gli indizi, e... a pensarci bene, non avrebbe potuto essere altri che lei, senza il minimo dubbio!

“N-non è possibile! S-saresti dunque..?!”

“Io sono Tiamat, Camus. - arrivò infine al nocciolo lei, in un nuovo sfolgorio di coraggio, bandendo le incertezze nel legare il proprio sguardo a quello del Cavaliere che riluceva di sbigottimento – Colei che dimora nel tuo grembo dai tempi del primo Aquarius: Ganimede!”

 

 

 

 

 

 

Angolo di MaikoxMilo

 

 

Ciao a tutti, eccomi di ritorno dopo mesi di latitanza. Mi dispiace per l’attesa per chi segue, ma complici gli impegni della vita reale e la demotivazione imperante per continuare a pubblicare, non posso più garantire un proseguimento della storia lineare e regolare, per cui è fattibile che a mesi di nulla seguiranno più pubblicazioni e così via. Oppure no. Non lo so bene neanche io, non è un periodo molto fortunato su EFP...

Ciò che è certo, è che, in ogni caso, continuerò a modificare la prima storia nella sua interezza e, a seguire, le altre perché hanno proprio bisogno di una ristrutturazione vera e propria.

Venendo a questa, di storia, capitolo ovviamente lungo, l’ho spezzato in tre parti per trovarmi comunque a scrivere oltre 50 pagine, tante erano le cose che volevo raccontare. Sono un caso disperato. XD

I riferimenti sono molti, alcuni derivano direttamente dalle nuove modifiche della prima storia, attualmente revisionata fino al capitolo 16 (in corso), per cui non stupitevi se non vi tornano; altri invece si riallacciano alle altre side story. Il più importante è di certo il riferimento all’essere montagna che Camus esprime con Isaac ne “Le petit Cygne” al capitolo 7. Come avete potuto vedere, ed è questa la cosa più essenziale, è che il nostro Camus è cresciuto rispetto ad allora, arrivando a capire, infine, la reale forza dei fiori prima rispetto a quanto faccia suo nonno (di cui, come avete intuito, ha preso gran parte del carattere XD); certo è che, per arrivarci, è dovuto morire anche lui non una, bensì due volte, e rischiare di rimetterci le penne in più di una occasione, ma, come ho già detto, sono molto orgogliosa di dove lo sto portando. :)

Un’altra cosa importante di questo capitolo è che tutti i ricordi a cui assiste Camus sono controllati da lui stesso, tranne l’ultimo, in cui ci si ritrova trascinato. Qualcuno lo ha condotto lì al di là della sua volontà. E’ stata Marta? Forse. Di sicuro, però, è che solo grazie alla sua volontà riesce a salvarla, sfruttando il Potere della Creazione di Tiamat.

Ho già spiegato perché ho voluto dare questo potere a Camus, rendendolo così onnipotente, almeno in teoria, visto le conseguenze che questa dote ha sul suo corpo; il fatto di avergli dato un’attitudine molto vicina alla potenza primigenia della Dea-Madre, quindi della Vita, mi piace un sacco perché ho sempre considerato il personaggio la corretta misticanza di caratteri maschili e femminili.

A proposito, avete riconosciuto la citazione di Hermes? Quel suo dire “Il Multiverso è un concetto di cui sappiamo spaventosamente poco...”è preso direttamente dalle parole di Doctor Strange nel film “Spider-Man No way home” e in altre occasioni. :)

Infine, per ultimo, un appunto su Tiamat: chi ha seguito la Sonia’s side Story si ricorderà forse che gli ultimi capitoli pubblicati si concentrando maggiormente su una missione in Siberia; missione a cui Camus partecipa come Sciamano e non come Cavaliere. Alla spedizione si aggiungono Hyoga e Isaac che, sotto la spinta di Elisey, desiderosi di aiutare il loro giovane maestro, fanno precipitare drasticamente gli eventi. Ebbene, è poco prima di questo frangente che Aquarius, sulla strada per la Kolyma, incontra “Tamara”, una giovane prostituta, che gli rivela poi il suo vero nome, “Nina”. Ebbene, questa essenza è nientepopodimeno che Tiamat stessa, o meglio, la parte “materiale” della dea che tuttavia è -dovrebbe!- essere interamente custodita dentro il ventre di Camus. Come è quindi possibile che l’abbia già incontrata “fuori”, nel mondo reale, diversi anni prima? Perché appare a lui con questa forma ambivalente? Questi e altri quesiti troveranno risposta nel prossimo capitolo, anche se non vi so dire, purtroppo, quando riuscirò a scriverlo e pubblicarlo. Vi chiedo un po’ di pazienza ^_^’

Le prossime pubblicazioni dovrebbero comunque vertere sulla storia dei piccoli Gold -grande ritorno, considerando da quanto è ferma!- che è già parzialmente scritta, e soprattutto -spero entro fine anno!- su La Melodia della Neve, in modo da riallacciare i filamenti che si sono diramati nelle altre storie. Spero potrete apprezzare entrambi.

A presto e grazie ancora a chi mi segue!

  
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