13.
Rakovac ripose sullo scaffale la bottiglia di vodka e si lasciò scivolare in tasca la fiala di sonnifero naturale – un estratto di papavero da oppio mescolato con altre sostanze – con cui aveva corretto il Bloody Mary del sottotenente Bresciani. Lei, almeno, avrebbe avuto un risveglio piuttosto piacevole, e con ogni probabilità si sarebbe anche goduta qualche bel sogno. Manfredi e gli altri, invece, in preda com’erano a un sonno chimico, si sarebbero dovuti rassegnare a una forte emicrania per almeno dodici ore. Se il tenente non fosse stato tanto ostinato e avesse accettato la sua offerta di bersi qualcosa insieme, l’avrebbe evitata.
Si voltò a guardare i suoi uomini che, uno dopo l’altro, stavano portando via gli agenti inerti. Li avrebbero caricati sopra un furgone e, in un paio di ore, sarebbero stati di nuovo in Italia. Per trasportare il maresciallo, dovettero darsi il cambio in quattro.
I suoi occhi si fissarono sul volto rilassato di Aurora, che dormiva profondamente. Da addormentata perdeva quell’espressione di disprezzo verso l’intero genere umano che ostentava da sveglia. L’aveva adagiata accanto al tenente Manfredi. Giacevano uno accanto all’altra come due innamorati.
«Siete carini, quando dormite insieme», mormorò. «Peccato che, da svegli, siate due immensi rompicoglioni.»
Era una vera sfortuna, che agissero su fronti opposti. Quei due, nonostante disponessero di mezzi arcaici e obsoleti, erano quasi riusciti a penetrare in casa sua. E dire che aveva disposto delle guardie in punti strategici per catturarli tutti prima ancora che oltrepassassero il muro di cinta.
Erano abili, doveva riconoscerlo. Averli dalla sua parte gli avrebbe dato un immenso vantaggio.
«Ma chi potrà mai dire cosa ci riserverà il futuro», filosofeggiò.
Era più che certo che si sarebbero incontrati di nuovo, prima o poi. Il loro era solo un arrivederci. Aveva letto sufficiente ostinazione, nei loro sguardi, da essere certo che sarebbero tornati alla carica, un giorno o l’altro, appena ne avessero avuto l’occasione. Per quel che lo riguardava, avrebbe anche potuto cedere la Venere Impudica. Ma perché rinunciare alla gioia smaniosa della competizione?
E poi… sì, doveva ammetterlo. Gli avrebbe fatto piacere rivederli. Soprattutto il sottotenente Bresciani. In lei aveva scorto un fuoco raro, che gli sarebbe tanto piaciuto indagare più a fondo. Peccato che non ce ne fosse stato il tempo. Non ancora, almeno. Ma anche il tenente non era male. Rakovac non faceva distinzioni, tra uomini e donne. Se qualcuno gli piaceva, gli piaceva davvero. In tutti i sensi.
Due dei suoi uomini si avvicinarono. Uno di loro afferrò Manfredi e lo sollevò da terra senza nessuno sforzo. Quello che avrebbe dovuto prendere Aurora titubò un istante, guardandolo.
Rakovac gli indirizzò un cenno affermativo.
«Riportateli in Italia», ordinò. «E il loro furgone portatelo da uno sfasciacarrozze e fatelo scomparire per sempre.» Ammiccò. «A sbarazzarli di quel rottame e della paccottiglia che c’è sopra gli stiamo facendo un grande favore.»
Lanciò un ultimo sguardo ai visi dei due agenti in preda al sonno indotto.
«Signori, è stato un piacere, dopotutto», disse. «Arrivederci. Quando vorrete tornare, io sarò qui ad aspettarvi.»
Si voltò dall’altra parte.