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Autore: perry    26/09/2009    1 recensioni
Il ritorno a Chicago di John Carter per curarsi non si limita alla dialisi, ma diventa un complicato tentativo di risolvere una questione che aveva lasciato in sospeso per troppi anni e che ancora, anche se lui la respinge, lo tormenta...
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Abby Lockhart, John Carter
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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John Carter POV


Appena uscito dall’Aeroporto O’Hare International di Chicago, il dottor John Carter si fermò. Cercando di restare tranquillo, respirò a pieni polmoni l’aria calda e inquinata così tipica delle estati della sua città. Si guardò intorno: le strade, i marciapiedi, i palazzi, le automobili. Non era cambiato niente. Per oltre quattro anni era fuggito da una vita di fortune alternate a devastanti disgrazie, e per quanto fosse stato parecchio a Chicago negli ultimi tempi, sapeva che questa volta era diverso. E non sapeva se voleva realmente tornare nella città dove era nato, vissuto, quasi morto. Restò lì, a guardare il traffico, indeciso se proseguire o se tornare dentro e saltare sul primo volo per Parigi per gettarsi ancora tra le sue braccia, tra le braccia di Kem. Ma si rese conto che stava già sognando. Con Kem l’amore era stato immediato, era divampato come un incendio e aveva stravolto tutta la vita di Carter; ma così come la porta del futuro insieme a qualcun altro si era spalancata, con altrettanta inaudita violenza era stata chiusa, sbattuta in faccia ai due giovani innamorati. La perdita del figlio Joshua, invece che fortificare e unire la coppia, aveva costruito giorno dopo giorno uno spesso muro di mattoni che aveva ucciso il dialogo e la capacità di amarsi reciprocamente. Questi pensieri avvicinarono un po’ Carter alla sua vecchia Chicago, dove sperava di trovare un riparo per andare avanti, visto che tornare indietro ormai era impossibile, o meglio troppo doloroso. Ma allo stesso tempo il ricordo delle vecchie tragedie fecero venire a Carter l’impulso irrefrenabile di scappare, una paura terribile di ricadere nelle vecchie trappole, di ritrovarsi ancora in quei luoghi.

Prese un taxi. Non era stata una vera decisione la sua, quanto un bisogno di vivere, di provare ancora. Doveva consultare il suo nefrologo al North Western Hospital, l’unico motivo per cui era tornato a Chicago di tanto in tanto negli ultimi anni. Aveva bisogno di riprendere la dialisi in attesa del trapianto, che pareva ormai imminente. Guardando fuori dal finestrino le altre auto, i palazzi, i negozi, i ponti della metropolitana, Carter cercò di respingere i ricordi legati al cedimento dei suoi reni. Preferiva quasi ricordare l’amiloidosi contratta in Africa, che gli aveva distrutto l’unico rene che gli era rimasto. Il primo l’aveva perso 9 anni prima, in seguito alle coltellate che gli aveva inferto un paziente schizofrenico, proprio al Policlinico, il suo ospedale, quasi la sua casa. Dove lui aveva salvato la vita a tanti pazienti non era riuscito a proteggere la sua e quella della sua tirocinante e amica, Lucy Knight, morta nell’aggressione. Ricordare quegli eventi, seguiti dalla sua caduta nella dipendenza dagli analgesici, gli ricordava quanto ancora era vulnerabile, quanto ancora poteva cadere in tante trappole, quanto ancora era fragile. E adesso, solo. Non c’erano più il dottor Greene, la dottoressa Weaver, il dottor Benton, non c’era più Abby. Gli amici che l’avevano tirato fuori da quel tunnel ora non c’erano più, e ovunque lui fosse caduto ci sarebbe rimasto, non avrebbe visto alcuna mano tesa verso la sua, pronta ad afferrarlo con forza anche contro la sua volontà e la sua testardaggine. Quante volte, soprattutto negli ultimi periodi in Africa, in cui la crisi con Kem era ormai evidente, Carter si era chiesto se aveva preso la decisione giusta quando aveva scelto di andarsene, di lasciare Chicago. Se era valsa la pena lasciare il lavoro che tanto aveva amato, gli amici, i colleghi, per rincorrere un sogno che era morto con Joshua, per alimentare la speranza e la voglia di riprovare ad avere una vita con Kem, con una donna che sembrava ormai non avere più nulla da dire e da provare. Soltanto dopo si era reso conto che sua moglie era morta con suo figlio, e né nella sua mente né nel suo cuore aveva trovato la risposta alla domanda più terribile: era solo per lui, per quel bambino non ancora nato, che erano insieme?

“Signore, si sente bene?” – il tassista stava fissando Carter, che si ridestò di colpo, come se si fosse addormentato. Si guardò intorno un po’ spaesato e si rese conto di essere davanti alla sua vecchia casa, e l’angoscia lo assalì ulteriormente, ma lui riuscì a controllarla.
“Come scusi?” – riuscì a dire al tassista.
“Si sente bene? Sono 40 dollari”.
“Oh, sì, mi scusi”. Carter tirò fuori il portafogli, pagò il tassista e scese. Il suo appartamento era sempre uguale, un po’ impolverato, con ancora una piccola culla in legno posta in una stanza con la pittura colorata lasciata a metà.
Ordinò una pizza e restò lì, sul divano, vedendo la televisione ma senza realmente guardarla. Per un attimo un pensiero bizzarro attraversò la sua mente: “in fondo, mancanza della birra a parte, è tutto come prima di partire”. Questo pensiero lo consolò per un attimo, anche se in modo piuttosto superficiale. Il giorno dopo sarebbe tornato al Policlinico per chiedere alla dottoressa Banfield, la nuova sostituta del suo ex capo Kerry Weaver, un lavoro. Avrebbe ricominciato al Policlinico, avrebbe incontrato qualche vecchio collega e ne avrebbe conosciuto qualcuno nuovo. Avrebbe ripreso la vecchia routine, si sarebbe sottoposto al trapianto di rene in modo da tornare forte abbastanza da inaugurare il suo centro Joshua Carter, un grande ambulatorio moderno e attrezzato, finanziato interamente da lui. Ma sapeva che il caldo, confortante pensiero di un futuro caratterizzato dalla vecchia routine con qualche splendente novità non avrebbe fatto altro che coprire per un po’ il terribile senso di vuoto che la morte di suo figlio, l’abbandono di Chicago e l’allontanamento di Kem avevano causato in lui. Neanche l’Africa, dove aveva passato lunghi periodi a lavorare a suo rischio e pericolo in ospedali costruiti in baracche, era riuscito a riempire il suo cuore di nuova vita. Aveva salvato vite che senza di lui sarebbero state distrutte, aveva vaccinato bambini contro mille malattie, aveva capito quanto il “fetido buco” di Chicago in realtà curava persone che a Kisangani sarebbero morte per non avere avuto una medicina da cinque dollari. Aveva vissuto davvero in Africa, aveva vissuto intensamente.

Era un grande medico, e lo sapeva meglio di chiunque altro: ci sono lacerazioni per cui basta qualche punto di sutura. Ma quando le lesioni sono troppo estese, quando tutto ciò che si trova all’interno della persona è compromesso, l’unica cosa che si può fare è guardarla morire in mezzo ad atroci sofferenze.
Immerso in questi pensieri che cercava di fugare, stravolto dalla stanchezza, bisognoso dell’illusoriamente confortante vecchio domani, John Carter si addormentò.

  
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