John Carter POV
Appena uscito dall’Aeroporto O’Hare International
di
Chicago, il dottor John Carter si fermò. Cercando di restare
tranquillo,
respirò a pieni polmoni l’aria calda e inquinata
così tipica delle estati della
sua città. Si guardò intorno: le strade, i
marciapiedi, i palazzi, le
automobili. Non era cambiato niente. Per oltre quattro anni era fuggito
da una
vita di fortune alternate a devastanti disgrazie, e per quanto fosse
stato
parecchio a Chicago negli ultimi tempi, sapeva che questa volta era
diverso. E
non sapeva se voleva realmente tornare nella città dove era
nato, vissuto,
quasi morto. Restò lì, a guardare il traffico,
indeciso se proseguire o se
tornare dentro e saltare sul primo volo per Parigi per gettarsi ancora
tra le
sue braccia, tra le braccia di Kem. Ma si rese conto che stava
già sognando.
Con Kem l’amore era stato immediato, era divampato come un
incendio e aveva
stravolto tutta la vita di Carter; ma così come la porta del
futuro insieme a
qualcun altro si era spalancata, con altrettanta inaudita violenza era
stata
chiusa, sbattuta in faccia ai due giovani innamorati. La perdita del
figlio
Joshua, invece che fortificare e unire la coppia, aveva costruito
giorno dopo
giorno uno spesso muro di mattoni che aveva ucciso il dialogo e la
capacità di amarsi
reciprocamente. Questi pensieri avvicinarono un po’ Carter
alla sua vecchia
Chicago, dove sperava di trovare un riparo per andare avanti, visto che
tornare
indietro ormai era impossibile, o meglio troppo doloroso. Ma allo
stesso tempo
il ricordo delle vecchie tragedie fecero venire a Carter
l’impulso
irrefrenabile di scappare, una paura terribile di ricadere nelle
vecchie
trappole, di ritrovarsi ancora in quei luoghi.
Prese un taxi. Non era stata una vera
decisione la sua,
quanto un bisogno di vivere, di provare ancora. Doveva consultare il
suo
nefrologo al North Western Hospital, l’unico motivo per cui
era tornato a
Chicago di tanto in tanto negli ultimi anni. Aveva bisogno di
riprendere la
dialisi in attesa del trapianto, che pareva ormai imminente. Guardando
fuori
dal finestrino le altre auto, i palazzi, i negozi, i ponti della
metropolitana,
Carter cercò di respingere i ricordi legati al cedimento dei
suoi reni.
Preferiva quasi ricordare l’amiloidosi contratta in Africa,
che gli aveva
distrutto l’unico rene che gli era rimasto. Il primo
l’aveva perso 9 anni
prima, in seguito alle coltellate che gli aveva inferto un paziente
schizofrenico, proprio al Policlinico, il suo ospedale, quasi la sua
casa. Dove
lui aveva salvato la vita a tanti pazienti non era riuscito a
proteggere la sua
e quella della sua tirocinante e amica, Lucy Knight, morta
nell’aggressione.
Ricordare quegli eventi, seguiti dalla sua caduta nella dipendenza
dagli
analgesici, gli ricordava quanto ancora era vulnerabile, quanto ancora
poteva
cadere in tante trappole, quanto ancora era fragile. E adesso, solo. Non
c’erano più il dottor Greene, la dottoressa
Weaver, il dottor Benton, non c’era
più Abby. Gli amici che l’avevano tirato fuori da
quel tunnel ora non c’erano
più, e ovunque lui fosse caduto ci sarebbe rimasto, non
avrebbe visto alcuna
mano tesa verso la sua, pronta ad afferrarlo con forza anche contro la
sua
volontà e la sua testardaggine. Quante volte, soprattutto
negli ultimi periodi
in Africa, in cui la crisi con Kem era ormai evidente, Carter si era
chiesto se
aveva preso la decisione giusta quando aveva scelto di andarsene, di
lasciare
Chicago. Se era valsa la pena lasciare il lavoro che tanto aveva amato,
gli
amici, i colleghi, per rincorrere un sogno che era morto con Joshua,
per
alimentare la speranza e la voglia di riprovare ad avere una vita con
Kem, con
una donna che sembrava ormai non avere più nulla da dire e
da provare. Soltanto
dopo si era reso conto che sua moglie era morta con suo figlio, e
né nella sua
mente né nel suo cuore aveva trovato la risposta alla
domanda più terribile:
era solo per lui, per quel bambino non ancora nato, che erano insieme?
“Signore, si sente bene?” – il tassista
stava fissando
Carter, che si ridestò di colpo, come se si fosse
addormentato. Si guardò
intorno un po’ spaesato e si rese conto di essere davanti
alla sua vecchia
casa, e l’angoscia lo assalì ulteriormente, ma lui
riuscì a controllarla.
“Come scusi?” – riuscì a dire
al tassista.
“Si sente bene? Sono 40 dollari”.
“Oh, sì, mi scusi”. Carter
tirò fuori il portafogli, pagò il
tassista e scese. Il suo appartamento era sempre uguale, un
po’ impolverato,
con ancora una piccola culla in legno posta in una stanza con la
pittura
colorata lasciata a metà.
Ordinò una pizza e restò lì, sul
divano, vedendo la
televisione ma senza realmente guardarla. Per un attimo un pensiero
bizzarro
attraversò la sua mente: “in fondo, mancanza della
birra a parte, è tutto come
prima di partire”. Questo pensiero lo consolò per
un attimo, anche se in modo
piuttosto superficiale. Il giorno dopo sarebbe tornato al Policlinico
per
chiedere alla dottoressa Banfield, la nuova sostituta del suo ex capo
Kerry
Weaver, un lavoro. Avrebbe ricominciato al Policlinico, avrebbe
incontrato
qualche vecchio collega e ne avrebbe conosciuto qualcuno nuovo. Avrebbe
ripreso
la vecchia routine, si sarebbe sottoposto al trapianto di rene in modo
da
tornare forte abbastanza da inaugurare il suo centro Joshua Carter, un
grande
ambulatorio moderno e attrezzato, finanziato interamente da lui. Ma
sapeva che
il caldo, confortante pensiero di un futuro caratterizzato dalla
vecchia
routine con qualche splendente novità non avrebbe fatto
altro che coprire per
un po’ il terribile senso di vuoto che la morte di suo
figlio, l’abbandono di
Chicago e l’allontanamento di Kem avevano causato in lui.
Neanche l’Africa,
dove aveva passato lunghi periodi a lavorare a suo rischio e pericolo
in
ospedali costruiti in baracche, era riuscito a riempire il suo cuore di
nuova
vita. Aveva salvato vite che senza di lui sarebbero state distrutte,
aveva
vaccinato bambini contro mille malattie, aveva capito quanto il
“fetido buco”
di Chicago in realtà curava persone che a Kisangani
sarebbero morte per non
avere avuto una medicina da cinque dollari. Aveva vissuto davvero in
Africa,
aveva vissuto intensamente.
Era un grande medico, e lo sapeva
meglio di chiunque altro:
ci sono lacerazioni per cui basta qualche punto di sutura. Ma quando le
lesioni
sono troppo estese, quando tutto ciò che si trova
all’interno della persona è
compromesso, l’unica cosa che si può fare
è guardarla morire in mezzo ad atroci
sofferenze.
Immerso in questi pensieri che cercava di fugare, stravolto
dalla stanchezza, bisognoso dell’illusoriamente confortante
vecchio domani,
John Carter si addormentò.