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Autore: _Princess_    04/10/2009    23 recensioni
“Bitte, spring nicht!” la pregò Tom, ridendo, senza nemmeno alzarsi a sua volta.
Norja si voltò, le mani appoggiate alla ringhiera, e sollevò un sopracciglio:
“Come sarebbe a dire ‘Spring nicht’? Fino a due minuti fa volevi buttarmi giù tu!”
Tom finalmente si decise a tirarsi su e la raggiunse. In lontananza riuscivano a vedere la Porta di Brandeburgo, illuminata da potenti riflettori.
“È che mi sono appena reso conto che c’è la terrazza della mia suite, da questa parte.” Le rivelò, indicando il grande balcone che sporgeva un qualche metro sotto di loro. “Se cortesemente tu volessi buttarti dall’altro lato, potresti comodamente sfracellarti sulla terrazza della suite di Georg.”
Una folata di vento scompigliò i capelli di Norja mentre lei sollevava le braccia sopra la testa e si stiracchiava.
“Penso che andrò a buttarmi nel mio letto prima che accada l’irreparabile.” Dichiarò.
“Cioè prima che ci finisca io sfracellato sulla terrazza di Georg?” indovinò Tom.
“Prima che io mi innamori della tua brillante prontezza di spirito.” Rispose lei, e lui non capì se fosse seria o meno.
Probabilmente no.
Genere: Romantico, Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Tom Kaulitz
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Life & Troubles of a Guitar Hero' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Norja aveva dormito poco e male. Aveva passato la maggior parte della notte rigirandosi nel letto a maledire il destino per aver deciso di trascinare Tom Kaulitz su quel tetto proprio quel giorno, a quell’ora, in quel preciso istante.

Aveva il serio terrore che non sarebbe più riuscita a prendere sonno per il resto della vita.

Aveva incontrato Tom Kaulitz. Sul tetto del Ritz. Nel cuore della notte.

Se le ricordava ancora le lunghe ore che non molti anni prima aveva passato a fissare i poster dei Tokio Hotel sui muri della sua stanza, soffermandosi spesso su quello che all’epoca era stato il ragazzino con i rasta e il sorriso ammiccante. Quello in cui lei si era imbattuta sul tetto, però, non era quella stessa persona. Quello che aveva visto, sollevando gli occhi, era un uomo fatto – ancora acerbo, ma pur sempre un uomo – che non aveva quasi più niente del ragazzo che lei si era abituata a conoscere per vie indirette.

Aveva avuto paura, d’istinto, perché si era vista crollare davanti quella che forse era stata la barriera più spessa, pesante e odiata della sua vita, e vederla sparire così all’improvviso l’aveva precipitata in un indesiderato vortice di confusione.

Anche se dall’esterno il suo shock doveva essere parso brevissimo o addirittura inesistente, lei, in quel microsecondo, si era sentita spazzata via dal senso di smarrimento dovuto a quel surreale incontro.

Le era capitato di incontrare altre celebrità, da quando era diventata famosa, e se l’era brillantemente cavata con tutti.

Con Tom Kaulitz, tuttavia, la faccenda era abissalmente diversa.

Con un sospiro nervoso, Norja si riempì una tazza di avena e un’altra di gelatina di lamponi. Non aveva trovato dei pancakes in tutto il buffet. Si chiedeva come avrebbe fatto a sopravvivere alla giornata senza una dose massiccia di zuccheri e carboidrati. Alla fine le toccò ripiegare su pane e marmellata.

Un paio di signore la guardarono male mentre passava loro accanto, probabilmente a causa della tuta non esattamente chic che indossava, ma lei non si fece toccare. Il comfort prima di tutto, appena poteva.

Stava andando verso il tavolo dei tostapane, quando avvertì una presenza alle proprie spalle. Stava già per voltarsi e propinare a Julian qualche battutina sulle levatacce mattutine, quando si rese conto che la persona dietro di lei era decisamente più alta e ingombrante del suo Julian.

Un terribile presentimento le gelò la schiena.

“Buongiorno, Norvegia!” esclamò una pimpante vivace voce maschile. E si dava il caso che lei quella voce la conoscesse fin troppo bene.

Dio, no!, piagnucolò con se stessa, strizzando gli occhi. No, no, no, no! Chiunque, ma non lui!

“Non mi saluti?”

Che qualcuno mi salvi!, pregò Norja, mentre si costringeva a voltarsi. Salvatemi, per favore!

E invece nessuno la salvò, perché lui era lì, Tom Kaulitz in carne – tanta, succulenta, muscolosa carne – e ossa, e le sorrideva in modo molto perfidamente seducente.

Oh, dio…

“Buongiorno a te, spina nel fianco.” Lo salutò, con tutto il contegno e l’indifferenza di cui era capace, cercando di ignorare il fatto che la gelatina di lamponi sembrava essersi trasferita immantinente dentro alle sue ginocchia. “Noto con piacere che porti una maglietta.”

Tom allungò una mano oltre lei, sfiorandole inavvertitamente il fianco, per prendersi un piatto.

“E io noto con dispiacere che porti ancora lo stesso rossetto di ieri sera.” Osservò, servendosi di qualche fetta di pancarré. “Che colore è, rosso meretrice?”

I delicatissimi nervi di Norja fremettero pericolosamente sotto alla sua pelle.

Brutto, disgustoso, insolente idiota!

“Rosso sangue di rompipalle.” Gli rispose, tentando uno scatto verso l’angolo più appartato del salone da pranzo.

“Oh, carino!” cinguettò Tom, tallonandola, raccogliendo cose a caso dal buffet. “Te lo sei fatta fare su misura?”

Anni e anni di corsa dietro alle gonnelle – e probabilmente anche un bel po’ di palestra, a giudicare dalla mercanzia che esibiva sotto a quei tendoni canadesi che si ostinava a voler far passare per magliette – dovevano aver giovato alle sue capacità di velocista.

Norja posò il vassoio che reggeva sul tavolo libero più vicino e lo fulminò con un’occhiata omicida:

“No. Appena alzata, esco e prendo a morsi il primo rompipalle che trovo.”

“Molto ecologico.” Approvò lui, appoggiando il vassoio accanto a quello di lei. “Ma come la mettiamo con HIV e AIDS?”

“Ho dei test istantanei sempre in tasca.”

“Proprio organizzata! L’antirabica ce l’hai?”

Norja scostò bruscamente la sedia e si sedette, le mani che le prudevano.

“No.”

Per niente scoraggiato dai segnali di chiara ostilità che gli venivano lanciati, Tom afferrò la sedia che stava di fronte a lei.

Hey, hey, che cosa credi di fare?, protestò la mente di Norja, in panico. Nessuno ti ha dato il permesso di –

Ma Tom si era già seduto.

“E che succede se per sbaglio ti mordi la lingua?” le chiese.

Lei sollevò un sopracciglio.

“Sono sopravvissuta a più di cinque minuti a stretto contatto con te. Penso di essere diventata immune a malattie che ancora non sono state scoperte.”

“Ammiro la tua spiccata vivacità linguistica. Dovresti fare la scrittrice!”

“Oh, grazie! Sai, anch’io quando ti vedo nei vostri video mi dico: ‘Che bravo! Dovrebbe mettersi a suonare!’.”

Pieno di dignità, Tom infilzò una salsiccia con la forchetta e ne tagliò un boccone.

“Me li dai un paio di minuti per concentrarmi su una risata spontanea?” le domandò, portandosi la forchetta alla bocca.

“Te ne concedo uno.”

Tom finse di concentrarsi per qualche secondo, poi sbuffò.

“Mi arrendo.”

“Oh, che bellezza!” gioì Norja, speranzosa. “Te ne vai?”

“No che non me ne vado,” ribatté Tom, in tono odiosamente rassicurante, come se lei avesse temuto che lui la lasciasse in pace. “Non vedi che ho preso la colazione?”

“A proposito, da quando in qua voi divinità olimpiche vi mescolate ai comuni mortali per la colazione?”

Tom sollevò le spalle.

Norja si domandò come si potesse trasudare sensualità anche da un movimento casuale e svogliato come quello, ma si costrinse a ritirare la mandria di ormoni nell’ormonile prima che potessero scavalcare il recinto della decenza e dilagare incontrollatamente nelle sue vene.

“Così. Mi sono svegliato presto e sono venuto a vedere cosa offriva la mensa della plebe.”

“Ero convinta che per te svegliarsi presto significasse essere buttati giù dal letto alle quattro del pomeriggio.”

“Voi fans la dovete smettere di prendere per oro colato le nostre interviste,” bofonchiò lui, masticando grossolanamente una cucchiaiata di cornflakes. “Soprattutto un’attempata come te dovrebbe saperlo meglio delle bambine.”

Norja, nel frattempo, si ingozzava di pane e marmellata, cercando di non guardarlo, o di farlo il meno possibile.

È sexy anche quando mastica cornflakes a bocca piena mentre parla. Questa me la devono spiegare.

“Guarda che l’epoca in cui mi bevevo ogni singola sillaba che usciva dalle vostre bocche come ambrosia è passata da un pezzo.”

“Per caso c’erano ancora i dinosauri?”

Norja sentì una vena sulla propria tempia pulsare di irritazione. Poteva anche essere bello da far vomitare, ma di questo passo le avrebbe causato un esaurimento entro un minuto.
“Senti, ma perché non vai a importunare qualcun altro?” gli suggerì cordialmente. “Io ho un’intervista tra due ore e una sessione di autografi più comparsata a RTL nel pomeriggio, e onestamente iniziare la giornata con la tua presenza importuna non è la cosa più salutare per i miei nervi.”

“Vieni a parlare a me di interviste, sessioni di autografi, nervi delicati e presenze importune?”

“Mica ti sono venuta a cercare io.”

Tom tracannò il suo bicchiere di spremuta d’arancia in un fiato e le rivolse una spietata occhiatina angelica.

“Dai, Svezia, volevo solo fare due chiacchiere!”

Qualche valvola del cuore di Norja parve scoppiare. Era un metro e novanta di sex appeal e libidine, ma in qualche oscura maniera gli riusciva bene anche la parte del cerbiatto dall’occhio tenero.

“Le due chiacchiere sono finite settemilacinquecentottantatré chiacchiere fa.” Sbottò, inforcando una badilata di pappa d’avena e ficcandosela in bocca con rabbia.

Perché a me? Perché a me, schiere celesti?

“Lo vedi che mi odi?” protestò Tom.

Norja si sarebbe premurata di strozzarlo personalmente, se solo il suo collo non fosse stato così delittuosamente armonioso e mascolino. Le sue mani erano troppo piccole per quel tipo di omicidio.

“Ti ho detto che non ti odio!”

“E allora perché mi tratti male?”

“Ti tratto come tratto chiunque minacci la mia tranquillità!” sbraitò lei, accorgendosi troppo tardi di quanto avesse alzato la voce. I fortunatamente pochi commensali si erano voltati tutti nella sua direzione e la fissavano ammutoliti.

Tom, d’altro canto, non dava cenni di sentirsi in imbarazzo o infastidito. Si sporse in avanti, poggiò i gomiti al tavolo e il mento sulle mani giunte, sfarfallando le ciglia in direzione di Norja:

“Cosa devo fare per starti simpatico?”

Lo chiedeva come se davvero si aspettasse delle istruzioni in risposta. E sembrava assolutamente serio.

Decise di accontentarlo.
“Lasciarmi in pace.”

Tom imbronciò capricciosamente le labbra.

“Ma che senso ha starti simpatico se poi non posso parlare con te?”

Maschio, tedesco, ventuno anni, professione rockstar. Diagnosi: pazzo da legare. Non era così che, a suo tempo, Norja se l’era immaginato.

“Senti,” Si chinò in avanti, incrociando le braccia. “So che ti potrà sembrare indelicato, ma… Che cosa vuoi da me?”

Imperturbabile, Tom la imitò:

“Come cosa voglio? Ci siamo divertiti così tanto, ieri sera!”

Il suo modo di fare turbava profondamente Norja, che già di suo aveva da sempre avuto qualche problema di concentrazione. Probabilmente lui non era nemmeno consapevole dell’ingombranza della propria presenza.

“Credo che tu mi stia scambiando per un’altra.” Sottolineò, sottraendo il bricco del latte alle grinfie di Tom appena prima che potesse impossessarsene. “Io ero quella del tetto. Ti ricordi? Quella a cui hai rovinato gli anfibi e che volevi buttare giù dal cornicione.”

“Ok, parentesi omicida a parte.” Sdrammatizzò Tom, infilandosi in bocca l’ennesima cucchiaiata di cereali, gli occhi che studiavano il contenuto del vassoio di Norja. “Posso assaggiare la tua marmellata?”

“No.”

“Grazie.”

Logicamente, Tom allungò la mano e intinse un dito nella ciotolina di marmellata, portandoselo poi alla bocca per succhiarlo con gusto.

Norja era basita, e non tanto per il deliberato affronto.

Ignora il lato erotico del gesto. Ignora il lato erotico del gesto. Ignora il lato erotico del gesto, si ripeteva disperatamente, concentrandosi con zelo eccessivo sulla raffinata metodologia di stesura del burro su una fetta biscottata.
“Credo che le tue sinapsi abbiano qualche difficoltà ad associare la parola ‘no’ al concetto di negazione.” Gli disse, senza osare guardarlo, in caso il suo dito si fosse trovato ancora in prossimità delle labbra o in quei pericolosi dintorni.

Era umiliante essere di dieci anni al di sopra dell’età media delle fan più svitate ed essere notevolmente più malmessa di loro.

“Le mie che?” biascicò Tom, masticando.

“Ecco, appunto.”

“Ma mangi sempre così poco?”

“Non è poco, è una normalissima colazione.”

“Mi fai assaggiare quella specie di gelatina rosa?”

Norja indugiò un istante, riflettendo.

“Sì.” Rispose poi.

“Grazie!”

Tom fece per avventarsi sulla gelatina di lamponi, ma Norja gliela portò via appena in tempo. Lui la guardò deluso, il cucchiaio ancora fermo a mezz’aria.

“Ho detto di sì nella speranza che ti facesse l’effetto contrario di un ‘no’, ma evidentemente è solo con le proibizioni che hai dei problemi recettivi.”

“Mamma mia, che termini aulici… Si chiama ostentazione, lo sai?”

“Anche quel tuo sorrisino spavaldo.”

Tom si sciolse in una risata rilassata.

“Anziché ‘Divieto di accesso’, su quel cartello ci dovevano mettere ‘Lasciate ogni speranza voi ch’entrate’.”

“E magari anche ‘Per me si va nell’eterno dolore, per me si va tra la perduta gente’…”

“Non male come idea.” Convenne lui, annuendo. “Sicuramente più efficace del ‘Divieto d’accesso’. Devo ricordarmi di accennarla al direttore dell’hotel.”

“Buona fortuna.”

“Quelle cosine bianche che galleggiano nel tuo latte cosa sono?”

“Avena.”

“Ha un aspetto disgustoso.”

Norja represse un sospiro.

Di tutte le calamità che mi si potevano scagliare contro, perché proprio lui? Le cavallette sono passate di moda?

“Ti ho forse chiesto di analizzarmi la colazione?”

“No, è che sto cercando di capire cosa può spingere una persona sana di mente a ingoiare quella roba, ma suppongo che tu sia il soggetto sbagliato a cui chiedere.”

“Hai una parlantina degna di un Kaulitz, devo dire. Al confronto tuo fratello rischia di sembrare un pesce rosso.”

“Vedi?” Tom sollevò sfacciatamente un sopracciglio. “Certe cose sui DVD non le trovi. Bisogna conoscermi per scoprire il meglio di me.”

“E quando ti deciderai a mostrarmelo?”

“Indignitoso colpo basso.”

Norja lo studiava a tratti, un dettaglio per volta. La prima cosa che aveva notato erano stati i vestiti un po’ sciupati, poi i piccoli difetti cutanei del viso, lasciati scoperti dall’assenza di ritocchi di trucco; poi ancora si era lasciata fugacemente distrarre dalla stanchezza dei suoi occhi, opachi e gonfi di sonno arretrato o disturbato. Ora, invece, era il turno delle labbra, morbide e carnose, ma rovinate da una serie di minuscoli taglietti tipici dell’aggressivo freddo invernale.

“Devo pur difendermi dalle tue molestie.” Gli disse, strappando a forza la propria attenzione dall’oggetto delle sue considerazioni. Pensò che Tom avrebbe dovuto indossare per legge un cartello con un chiaro avvertimento stampato sopra: ‘Attenzione: la prolungata visione di questo soggetto causa dipendenza. In caso di deficit cardio-respiratori, consultare il medico con urgenza’.

Nel frattempo Tom, che era riuscito a spazzolare tutto quello di cui si era servito nella metà del tempo in cui lei aveva vuotato la tazza di avena, aveva messo su un faccino tutto occhi languidi e ammiccamenti:

“Ti sto molestando?”

Occhiata di fuoco.
“Tu che dici?”

“Ti risulterei meno molesto se tu ti dimostrassi un po’ meno indisponente nei miei confronti.” Sostenne lui, compunto.

“Mi dà fastidio averti intorno!” protestò Norja con fervore forse eccessivo. Non lo voleva offendere, ma la stava esasperando.

“Ma perché?” le chiese lui, non meno esasperato di lei, e altrettanto dispiaciuto.

“Perché sì, accidenti!”

“Mamma mia, come sei complicata! Quasi preferisco quelle che mi comunicano sconcezze tramite ultrasuoni isterici.” La osservò in tralice per qualche secondo, pensoso. “Perché non sortisco questo tipo di effetto, su di te?” ebbe poi la delicatezza di domandarle.

“Ego ferito?” tentò di svicolare lei, che iniziava a mal tollerare quella domanda insistente.

“No, sul serio.” Tom si era impuntato e non voleva mollare. “Non ti piaccio, fisicamente?”

Non c’era fair play, in quel gioco: era tremendamente sleale, da parte di Tom, tirare fuori tutti quei tiri mancini consecutivi, senza darle nemmeno modo di riprendersi tra l’uno e l’altro. I suoi occhi erano destabilizzanti. Le sue labbra erano destabilizzanti. I lineamenti del suo viso erano destabilizzanti. I suoi sorrisi erano destabilizzanti. Le sue mani erano destabilizzanti. Perfino il suo respiro era destabilizzante.

Non c’era nulla di più sciocco che chiederle se lui non le piacesse fisicamente.

“Tom, siamo obiettivi: sei così disgustosamente, irritantemente, sfacciatamente bello che ogni volta che ho la malaugurata e masochistica avventatezza di guardarti ho paura che l’imbarazzante fangirl che è relativamente assopita in me se ne torni alla carica e io finisca per sembrarti solo un’altra stupida, patetica ragazzina decerebrata.”

Aveva sciorinato quella risposta così rapidamente e nervosamente che perfino lei aveva dubbi sulla comprensibilità di quanto aveva appena detto. E infatti Tom la stava guardando con la faccia di uno che aveva tutt’altro che afferrato anche solo metà discorso.

Per fortuna, si disse Norja.

“Wow…” Tom batteva le ciglia in modo mortalmente, adorabilmente smarrito. “Non ho capito niente, ma è stato un gran bel discorso. Mi sono commosso.”

Come volevasi dimostrare, si rincuorò lei. Il suo inglese stretto doveva essere non proprio immediato per uno come lui, abituato a un impastatissimo americano.

“Te lo rifaccio in olandese?” gli propose.

Tom negò con una mano.
“No, grazie. Sei già abbastanza inquietante in una lingua che conosco.” Si riempì la bocca dell’ultima badilata di cereali, masticò grossolanamente e deglutì, pulendosi poi la bocca con il tovagliolo. “Allora,” riprese subito dopo. “Dove ce l’hai questa intervista?”

“Alexanderplatz.” Disse, senza interesse. “Classica intervista superspontanea all’aperto, al freddo, al gelo e alle intemperie. Uno spasso stratosferico, insomma.”

“Posso venire anch’io?”

Il boccone di pane che Norja stava ingoiando le si bloccò a metà gola, causandole un violento accesso di tosse.
“Scherzi?” biascicò, non appena ebbe riacquisito un minimo di regolarità respiratoria. Le lacrimavano gli occhi.

Tom non finse nemmeno di aiutarla con qualche pacca sulla schiena. Sorrise, semplicemente.

“Sì.”

Nonostante il rischio di asfissia appena scampato per miracolo, e non certo grazie al gentiluomo che la accompagnava, Norja si sentì molto risollevata.

“Sia ringraziato il cielo. È la prima buona notizia di stamattina.” Sospirò. Aveva seriamente creduto che lui volesse andare con lei all’intervista. Si passò velocemente il tovagliolo sulle labbra e lo posò sul tavolo, poi prese la borsa e si alzò in piedi, sotto allo sguardo interrogativo di Tom. “Ora, se mi vuoi scusare, vado a prepararmi.”

“Ci vediamo per pranzo?”
“Preferirei che almeno il pranzo non mi restasse sullo stomaco.”

Tom rise, scuotendo la testa.

“Che simpatica che sei!”

“Ma tu lavorare no? Ti pagano solo per essere bello?”

“Oggi siamo liberi.” Le comunicò lui. “Non sei contenta?”

Oh, sì, potrei morire…
“Come un condannato che imbocca il Miglio Verde.”

Affatto impressionato, Tom afferrò la brocca del latte, se ne versò un po’ nella tazza del caffè, e prese a sorseggiarlo.

“Allora ci vediamo più tardi?”

Lei stiracchiò rigidamente gli angoli della bocca.

“Se dio vuole, no.” Mormorò tra i denti. “Addio.”

Mentre si affrettava a lunghe falcate verso l’uscita della sala da pranzo, Norja udì distintamente la voce di Tom alle proprie spalle che esclamava:

“A dopo!”

Lei imprecò tra sé e sé.

Se fosse sopravvissuta a quella breve permanenza a Berlino, non si sarebbe mai più lamentata di niente.

 

***

 

Il Ritz-Carlton era sempre stato una garanzia per i Tokio Hotel: lussuoso, personale educato che sapeva stare al suo posto, spazi ampi e comodi e, soprattutto, clientela rara e molto esclusiva. Era bello potersi sedere tranquillamente al tavolo ed essere serviti senza avere sguardi inopportuni ad indagare ogni loro singolo movimento.

“Tom, aspetti qualcuno?”

Tom ripiombò nella realtà dopo aver fissato, e senza nemmeno rendersene conto, l’ingresso della sala per dieci minuti buoni.

“Come?” Dovette impegnarsi non poco per andare a ripescare nella memoria inconscia a breve termine quello che aveva sentito dire dalla voce di Gustav, senza però elaborarlo. “Oh, be’, no, è che…”

Stava farfugliando. Grandioso. Gli ci voleva un altro po’ di arrosto per carburare meglio.
“Lasciamolo stare,” Intervenne Bill, misericordioso come non mai. “Dev’essere il trauma della levataccia all’alba di stamattina.”

“Non era l’alba, erano le nove!” puntualizzò Tom, sbadigliando di riflesso.
“Ah, giusto,” rettificò Bill. “Volevo dire notte fonda.”

“Sai, Tom, la forchetta funziona meglio se la usi sul cibo.” Gli consigliò Georg. Tom abbassò lo sguardo: erano almeno due minuti che stava tentando di infilzare la nuda ceramica del piatto.

“Io lo dico sempre che questo qui non è a posto con la testa,” disse Bill in tono di sufficienza, servendosi con grazia una porzione di purè di patate. “Ma, no, non diamo retta a Bill, lui è troppo bello per dire qualcosa di intelligente.”

Tom non raccolse la provocazione, non per mancanza di spirito di confronto, ma perché era di nuovo intento a fissare l’enorme doppia porta dell’ingresso, da cui però non era entrato altro che una coppia di anziani signori eleganti. Non esattamente quello che si aspettava lui.

“Tom,” intervenne Georg. “Non sono sicuro se te lo abbiamo già chiesto, ma… Aspetti qualcuno?”
“Perché dovrei?” ribatté Tom, senza muovere la testa di un millimetro.

“Non so,” disse Georg. “Non fai che continuare a voltarti verso l’ingresso della sala, e dubito – spero – che non sia la maitresse ad attirarti, perché sinceramente la trovo un tantino al di sotto della media generale, e almeno un milione di chilometri al di sotto della tua.”

“Eh?”

“Lasciamo stare.”

“Hey, guardate un po’ quella!” trillò Bill ad un tratto, puntando maleducatamente il dito nella direzione in cui Tom aveva guardato fino a un attimo prima. Si girò speranzoso, e non fu una speranza vana: in fondo alla sala c’era una ragazza con vistosi capelli rossi e vestita in modo decisamente anonimo, almeno rispetto a quanto aveva visto Tom la sera precedente. Niente tinte strane tipo viola o fucsia, niente gonne ampie e lunghe, niente felpe da adolescente: Norja portava un tailleur pantalone nero sopra una semplicissima camicia bianca, un paio di decolleté nere ai piedi. Era anche truccata in modo abbastanza cupo, rispetto alla volta prima, anche se il rossetto color sangue di rompipalle era sempre lo stesso.

Bill la radiografò da capo a piedi con un’aria drammaticamente critica:

“Ho le traveggole o ha proprio i capelli raccolti in una treccia? Fa così trasandato… E sta malissimo con i vestiti che porta!”

“Hey, sta guardando da questa parte.” Notò Gustav.

Gli occhi di Norja, in effetti, puntavano dalla loro parte, e la sua espressione non poteva dirsi proprio entusiasta. Anzi.

“Sembra terrorizzata.” Osservò infatti Georg.

Ma Tom, incurante del puro orrore comparso sul viso pallido di Norja, si alzò in piedi e sventolò una mano in aria per richiamare la sua attenzione:

“Hey, Finlandia!”

Bill sollevò gli occhi sgranati su di lui:

“La conosci?”

“Più o meno.” Rispose Tom, mentre Norja faceva una piccolissima smorfia di panico. “Non vieni a salutare?” la esortò.

Dall’espressione che lei assunse, sembrava quasi che Tom le avesse chiesto di ingoiare un rospo vivo (e forse addirittura le sarebbe stato preferibile a quell’invito), ma non aveva molta scelta: tutti, membri dello staff compresi, la stavano ormai fissando dai rispettivi tavoli, in attesa.

Con una rigidità degna di una trave d’acciaio, Norja prese un lungo respiro e si incamminò verso di loro a passo tutt’altro che entusiasta. Quando arrivò a un metro dal loro tavolo, si fermò e gettò a Tom un’occhiatina tagliente.

“Ehm… Buongiorno.” Salutò timidamente, passando in rassegna non solo Bill, Gustav e Georg, ma anche le facce curiose di David, Benjamin, Dunja, Natalie e suo figlio.
“Ciao.” Fu la perplessa risposta semicorale.

“Ragazzi,” Tom le prese un polso e la attirò vicino al posto vuoto che c’era a capotavola, proprio accanto a lui. “Questa è Norja Schwartz.”

“Norja Schwartz?” si stupì Dunja. “La scrittrice?”

“Già.”

“Non ti avrei mai riconosciuta senza la mascherina.” Disse Georg, studiandola attentamente.

“Già.”

“Sei una di molte parole, vero?” commentò Bill sarcasticamente, squadrandola con occhio critico.
“Già.”

“Ciao, Norja,” Gustav le sorrise e le allungò amichevolmente la mano. “Io sono –”

Norja si ritrasse come un’anguilla minacciata da una fiocina.

“So chi siete.” Disse rapidamente. “È stato un piacere. Arrivederci.”

Fece per girare sui tacchi e sparire, proprio come aveva fatto la mattina stessa, ma Tom fu abbastanza svelto da riuscire a riacciuffarla appena in tempo.

“Aspetta, dove te ne vai?”

“A mangiare, spina nel fianco.”

“Puoi mangiare con noi.”

Per un nanosecondo l’orrore iniziale tornò a lampeggiare negli sgomenti occhi di Norja.

Perché un’offerta che farebbe collassare dalla gioia qualsiasi altra ragazza, a lei fa quest’effetto minatorio?
“Ricordi quando ti dicevo che non volevo che anche il pranzo mi restasse sullo stomaco?” sbottò Norja, le guance rosse come ciliegie. Tutti la fissavano a bocca aperta, e questo la rendeva platealmente nervosa.

“Tom, che cosa le hai fatto per meritare tanto astio?” domandò Benjamin, mentre due fossette deliziate gli apparivano nelle guance.

Tom fece spallucce.
“Non ne ho idea. Be’, a parte rovinarle le scarpe, ma è stato un incidente.”

“E volevi che mi suicidassi buttandomi sulla terrazza della suite di Georg.” Puntualizzò lei.

Georg emerse dal suo bicchiere di spremuta d’arancia con un’espressione confusa:
“Cosa c’entra la mia terrazza?”

“Siete voi che vivete con questo squinternato da una vita,” replicò lei. “Speravo che le aveste voi, delle risposte.”

“Devi scusare mio fratello, Norja.” Intervenne Bill, tamponandosi delicatamente le labbra con il tovagliolo. “Non so spiegarmi come un essere così rozzo possa essere uscito dal mio stesso embrione.”

“Su, siediti.” Gustav scostò una sedia e fece cenno a Norja di accomodarsi. “Tom lo curiamo noi.”

Lei arretrò di un passo, sempre più a disagio.

“Non è davvero il caso.”

“Non mi dirai che sei una di quelli che ci detestano!” si indignò subito Bill.

Norja perse di colpo colore.

“Tutt’altro,” pigolò, disperata. “È che…”

È che… Cosa?, si chiese Tom, divertito, intercettando il suo sguardo ansioso.

“Non ti mangiamo, promesso!” le assicurò Georg.

“No, eh?” fece lei, quasi delusa. Lanciò uno sguardo apprensivo ai tavoli vicini, occupati dai membri dello staff del gruppo, che la occhieggiavano incuriositi, e alla fine si decise a sedersi.

Era un fascio di nervi.

Tom fermò una cameriere e le fece ordinare qualcosa. Gustav le versò addirittura un po’ d’acqua per aiutarla a rilassarsi; Norja lo tracannò in un sorso, ma non sortì alcun effetto.

“Allora, com’è che vi conoscete, voi due?” volle sapere Georg, mentre si tagliava un pezzo di bistecca.
“Ieri sera le ho impedito di buttarsi dal tetto.” Affermò Tom, orgoglioso.

Gustav si accigliò:

“Sbaglio o la sua versione era diversa?”

“Veramente è stato a causa sua che stavo per farlo, ma penso sia questione di punti di vista.” Soggiunse Norja, gettando a Tom uno sguardo obliquo.
“Che cosa ci facevate sul tetto?”
“Io c’ero andata per godermi un po’ di sano relax. Poi purtroppo è arrivato lui.”

“E tu sei stata scortese fin da subito.” La rimproverò scherzosamente Tom, con una gomitata.

“Vorrei vedere se fossi stata io a rovinarti le scarpe!”

“Senti, te li pago quei maledetti anfibi, va bene?”

“Nonostante la vita degli scrittori sia ben misera, ti posso assicurare che non sono così malmessa da ridurmi ad accettare la carità.”

“Ce la regali qualche copia autografata dei tuoi libri?” si intromise Bill, senza quasi sollevare lo sguardo dal proprio piatto. La proposta gelò letteralmente Norja sul posto.
“Scherzi?”

Bill la guardò con un’espressione di sorpresa mista a perplessità:

“No. Mi piace la tua saga.”

Il rossore iniziale delle gote di Norja sembrava essere diventato solo un vago ricordo, completamente obliato dal crescente pallore che stava calandole sul viso.

“Tu hai letto i miei libri?”
“Tu hai letto i suoi libri?” le fecero eco Tom, Gustav e Georg, in coro.

Bill si strinse nelle spalle con assoluta indifferenza.

“Sì. È brava.”

“Lo posso far scrivere sulle copertine?” lo pregò lei. “‘Consigliato da Bill Kaulitz’. Potrei diventare ricca.”

Bill si strinse di nuovo nelle spalle.

“Per me non c’è problema.”

“Allora, Norja,” Gustav la interpellò proprio mentre lei si infilava in bocca un grissino. “Come mai sei a Berlino?”
“La mia casa editrice mi ha minacciata di crocefiggermi se non me ne fossi andata un po’ in giro a promuovere l’ultimo libro,” borbottò Norja, deglutendo. Alzava gli occhi solo per brevissimi istanti, e mai due volte di seguito sulla stessa persona. “Quindi sono a zonzo per l’Europa a massacrarmi il polso per migliaia di autografi, augurandomi che non mi venga un esaurimento prima di iniziare il round in Nord America. Dopo anni di perplessità, finalmente ho capito perché quando firmate voi sembra sempre che non abbiate mai preso in mano una biro in vita vostra.”

“Oh, no, loro firmavano così anche prima di consumarsi i polsi con gli autografi.” Le rivelò Georg, con una risata.

“A proposito,” intervenne Tom. “Quasi non ti riconoscevo, vestita così. Ti avevo quasi scambiata per una persona normale.”

“Vorrei poter dire lo stesso di te.”

Bill, Gustav e Georg scoppiarono a ridere, e con loro anche il resto della tavolata, che aveva inevitabilmente origliato.

“Hey, Tom, hai trovato pane per i tuoi denti, eh?” sghignazzò David, dal lato opposto del tavolo.

“Più che pane, cemento armato.” Borbottò Tom, anche se, intimamente, era consapevole del fatto di trovare Norja così interessante proprio per via di quella verve che la contraddistingueva. Lo divertiva punzecchiarsi con lei. Quello che ancora non gli era ben chiaro era se per lei fosse lo stesso, o se effettivamente non lo sopportasse. Una discreta parte di lui aveva il timore che si trattasse della seconda opzione.

“Certo che per conoscervi da poche ore avete una certa confidenza…” commentò Georg, spostando lo sguardo da Tom a lei.

Norja agitò la mano con indifferenza.

“A vedere com’è cominciata ieri sera, credevo che a quest’ora almeno uno dei due sarebbe già stato tre metri sottoterra.”

“Possibilmente tu.” Disse Tom.

“Perché proprio io?”

“Perché se tu crepi, non ci va di mezzo nessuno. Se crepo io, lascio un gruppo che senza di me non varrebbe niente e venti povere chitarre che starebbero malissimo senza il loro papino.”

“Non so…” rifletté Georg, serio. “Quel tizio che suonava qua fuori l’altro giorno era piuttosto bravo.”

“Fottiti!”

“Non essere volgare, SNF!” lo sgridò Norja, allungandogli un pugno sul braccio.

“SNF sta per Stupido Ninfomane Fallocrate?” si informò Gustav, mentre Tom si prodigava in un gemito di dolore esagerato, reggendosi il punto in cui Norja lo aveva colpito.

“Per Spina Nel Fianco, veramente, ma ora che mi ci fai pensare Stupido Ninfomane Fallocrate suona meglio!”

“Non è che adesso vi dovete alleare tutti con lei!” protestò Tom, iniziando a stancarsi del cambio di punto di vista: di solito era lui a prendere in giro.

“Ma guarda com’è carina!” chiocciò Bill, carezzando amorevolmente la testa di Norja. “Potremmo adottarla!”

Lei era visibilmente spaesata, così circondata di interesse e attenzioni. Appena Bill la aveva toccata era arrossita, ma almeno non lo aveva verbalmente aggredito. Tom avrebbe tanto voluto sapere perché si comportasse in modo così diverso, con gli altri.

“Al massimo è lei che adotta noi, visto che è quasi in età da prepensionamento.”

“Ma smettila!” lo rimbrottò Bill. “Quanti anni hai, Norja? Diciannove? Venti?”
“Venticinque tra qualche mese.”
“Sembri molto più piccola! Hai un visetto da bambina.”

“Un serio problema, se sei adulta e vaccinata e ogni volta che devi entrare in qualche locale sospettano che tu abbia falsificato la carta di identità.”

Tom schioccò la lingua.

“Non so come funzioni in Olanda, ma qui nei locali pubblici gli animali potenzialmente pericolosi non sono ammessi. La prossima volta prova a presentarti con la museruola.”

“È quello che dicono di solito a te?” ribatté lei, soave.

I ragazzi scoppiarono a ridere in faccia a Tom.

“Tom, devi impegnati di più.” Lo ammonì Georg, gli occhi umidi dalle risate. “È una spanna sopra di te, la fanciulla.”

“Questo solo perché lei con la retorica ci campa.” Grugnì lui. “Scommetto che se le pianto in mano una chitarra, vinco a occhi chiusi.”

“Quanto vogliamo scommettere?”

Tom si voltò interrogativamente verso Norja:

“Come?”
“Quanto vogliamo scommettere su una sfida tra noi due a colpi di chitarra?” rispose lei. “Facciamo mille?”

“Mille?” Tom non capiva, diceva sul serio?

“Duemila?”

Tom boccheggiò, interdetto e attonito:
“Tu suoni la chitarra?”
“Sì.” Norja sollevò fieramente il mento. “Mio padre è nell’ambiente discografico, ho preso lezioni da Brian Jones in persona.”

“E chi è?”
“Il chitarrista dei Rolling Stones.” Rispose Gustav prontamente.

Tom assunse un’espressione scioccata e molto preoccupata.

“Ah.”

Georg scoppiò a ridere.

“Che c’è?”

“Tom, dovresti vedere la tua faccia!”

“Be’, sono impressionato!”

“Sono sicuro che lo saresti ancora di più se sapessi che Brian Jones è morto nel ‘69.”

La realizzazione ci mise qualche secondo ad arrivare, ma finalmente Tom comprese: era stato di nuovo platealmente gabbato.

“Hai mentito!” accusò Norja, puntandole contro un dito.

“Ti prendevo solo in giro.”

“Quindi non sai suonare la chitarra?”

“A meno che non si tratti di una partita a Guitar Hero, no. E anche in quel caso faccio abbastanza pena.”

“Meno male.” Tom trasse un sospiro di sollievo. “Iniziavi a farmi paura.”

Il cameriere arrivò con l’ordinazione di Norja e lei si buttò sul piatto con eccessivo entusiasmo, come se non vedesse l’ora di sottrarsi alla conversazione. La lasciarono mangiare per un paio di minuti, ma poi, dopo un po’ che la studiava, Georg le chiese:

“Arrivi da un impegno mondano?”

“Una cavolo di intervista per RTL.” Biascicò lei, masticando una forchettata di insalata.

“Com’è andata?”

Un’espressione di sofferente rimembranza affiorò sul viso di lei:

“È durata il doppio di quello che doveva, quell’idiota del veejay continuava a sbagliare la pronuncia del mio nome, quella cima della sua collega non sapeva dire niente in inglese se non ‘È fantastico!’, e un telespettatore ha chiamato da casa per farmi una pretenziosa e alquanto volgare proposta di matrimonio. Ma, a parte questo, splendidamente.”

Tom si riscoprì a sorridere. Anche se non aveva mai letto nulla di suo, capì perché Norja era una scrittrice così famosa: aveva carattere nel raccontare le cose, nel scegliere toni e termini, nel comunicare.

“E dove hai imparato così bene l’inglese?” le stava domandando Gustav, intanto.
“Sui libri.”

“Beata te. I nostri facevano schifo, e gli insegnanti erano anche peggio.”
“Non sui libri di scuola. Sui libri che ho letto.”

“Che noia!” sbuffò Bill. “A questo punto tanto vale parlare del tempo!”

“Bill, non essere scortese!”

“Scusate, ma era di gran lunga più interessante guardare lei e Tom che si prendono a legnate verbali.”

“Vorrei dargli torto, ma non posso.” Sorrise Gustav.

“È proprio graziosa, vero?” affermò Bill, voltandosi verso Norja con un’espressione deliziata. “Le metterei un guinzaglio rosa e la porterei a zompettare in un parco.”

Tom spalancò gli occhi, sconvolto. Tutto poteva capire, tranne che quel ‘graziosa’. Come si faceva a ritenere ‘graziosa’ una così sboccata e maleducata?

“Graziosa? Lei?”
“Dovrei avere l’aspetto di una tenebrosa donna del mistero, non di un cucciolo di Labrador!” si lamentò lei.

“Io pensavo a un Cocker, visti i tuoi capelli.” Rifletté Bill, pensoso, squadrandola di sotto in su. “Non puoi fare il Cocker?” la pregò, implorante.

“Ma quale Cocker!” esclamò Tom, sghignazzando. “Al massimo può fare il Mastino.”

“Ti chiamerò Lilli!” decise Bill, ormai partito per la tangente. “Poi con calma ti troviamo il tuo Vagabondo, ok?”

“Sì, ti ci vedrei con un barbone!” approvò Tom.

Norja lo trafisse con uno sguardo ammonitivo:

“Buono, SNF. Non vorrei che ti venisse qualche ruga a fare tutte quelle smorfie. Ti conviene stare attento, perché se perdi il tuo appeal non vali un soldo bucato.”

Lui stavolta non riuscì a trattenersi: o lei gli confessava quale problemi avesse con lui, o la piantava.

“Mi vuoi spiegare cosa ti ho fatto, una volta per tutte?”

Norja si portò una mano alla fronte, chinando pazientemente la testa.

“Oh, no, ricomincia…”

“Tu mi detesti!”

“Come ho già detto le prime mille volte, Stupido Ninfomane Fallocrate: io non ti detesto!”

“Mi tartassi così per puro diletto, allora?”

“Sì.”

“Venticinque anni di stagionatura proprio ben riuscita, devo dire.”

Norja inspirò a fondo, gli occhi chiusi, e quando li riaprì gli parve stranamente arrendevole.

“Ti lamenti tanto di come ti tratto, ma non è che tu sia tanto più bendisposto di me.”
“Ma ho una reputazione da difendere, io!” si giustificò Tom, sfoderando un lieve sorriso sfrontato. “Guai se qualcuno sospettasse che ti trovo così adorabile!”

“La faccia prima di tutto.” Convenne Georg solennemente.

Ma Norja si era irrigidita e fissava il proprio piatto con insistenza senza fiatare.

“Groenlandia?” Tom si chinò in avanti, cercando di guardarla in faccia. “Va tutto –?”

“Scusatemi.” Mormorò rapidamente lei, scattando in piedi come se avesse preso qualche scossa, lo sguardo sempre basso, nascosto sotto alla frangetta. “Grazie della compagnia, ma ora devo andare.”

“Ma…”

“Scusatemi.” Ripeté Norja, in un tono strano che sembrava quasi sconvolto, e si volatilizzò in cinque secondi netti.

“Ha dimenticato la giacca.” Notò Gustav.

Tom guardò la sedia che aveva occupato Norja solo pochi istanti prima: la sua giacca di velluto nero, in effetti, era ancora lì.

“Tom, ma che cosa le hai detto?” gli chiese Bill, in tono accusatorio.

Tom non avrebbe saputo cosa rispondere: era perplesso quanto lui. Guardava ora la giacca sullo schienale della sedia, ora l’uscita della sala da pranzo, incapace di mettere insieme i pezzi in modo logico e comprensibile.

Una ragazza normale e sana di mente non la posso incontrare?

“Ma io… Niente... Credo.”

 

***

 

Quando Norja arrivò di fronte alla porta della propria stanza, le mani le tremavano così tanto che a malapena riuscì a reggere la tessera per infilarla correttamente nella serratura. Entrò in fretta e si richiuse la porta alle spalle, appoggiandovisi contro con la schiena mentre il suo cuore pompava così rapidamente da farla respirare a fatica.

Malediva il momento in cui il destino le aveva piazzato Tom Kaulitz davanti con quell’inaccettabile e perfida nonchalance.

Una passava la vita a perdersi in scintillanti fantasticherie utopistiche, sentendosi sicura all’interno dei solidi ed invalicabili confini dell’immaginazione, e poi un bel giorno, all’improvviso, illusione e realtà si scontravano nell’improbabile scenario del tetto di un hotel.

Era tutto dannatamente sbagliato.

Buttò la borsa a terra e quasi si strappò di dosso la sciarpa. Sperò che la sensazione di freddo che avvertiva non fosse dovuto a un principio di influenza, perché la sua agenda era così fitta di impegni che se solo avesse avuto bisogno un solo giorno di riposo, qualcuno ai piani alti avrebbe chiesto la sua testa su un vassoio d’argento.

Doveva riuscire a darsi una calmata entro un’ora, o rischiava un collasso nervoso nel bel mezzo della signing session, e la solita dose di valeriana, stavolta, non sarebbe di certo bastata.

 

***

 

La hall dell’hotel era deserta, per fortuna, e non si vedevano ficcanaso in giro. Con sollievo, Tom si avvicinò alla reception, la giacca di Norja sul braccio, e fu accolto da un uomo cordiale sulla quarantina che aveva un aspetto piuttosto altero.

“Mi scusi,” gli disse. “Sono Tom Kaulitz, alloggio qui. Mi saprebbe dire in che stanza alloggia la signorina Norja Schwartz?”

L’uomo scosse la testa senza scomporsi.

“Mi dispiace, signore, ma non posso fornirle questo tipo di informazioni.”

Calma, Tom, calma…
“Le spiego: abbiamo pranzato insieme qui in hotel, solo che quando lei se n'é andata ha dimenticato la giacca e ora gliela vorrei restituire.”

“Se vuole lasciarla a me, gliela posso far avere io.”

“No, vorrei dargliela di persona.”

“Allora non posso aiutarla.”

Tom trattenne a stento un gemito frustrato.

Dio, che palle che sei, vecchio!

“Non la può nemmeno chiamare?” insisté, supplichevole. “Solo per avvertirla che la sua giacca ce l’ho io.”

L’uomo parve ammorbidirsi impercettibilmente. Si spostò di qualche centimetro e si mise davanti a uno schermo ultrapiatto, le dita posizionate sulla tastiera.
“Che nome aveva detto?”
“Norja Schwartz. Schwartz come nero, ma con la T.”

Tom attese che lui digitasse e controllasse, ma la faccia che fece alla fine non promise nulla di buono.

“Sono spiacente, ma non mi risulta nessuna Norja Schwartz tra le prenotazioni.”

Tom si diede dell’idiota. Era ovvio che non ci fosse nessuna Norja Schwartz: il check in negli hotel richiedeva dei documenti di identità, quindi non poteva essersi registrata con il nome d’arte, ma solo con quello di battesimo.

Già, se solo lui lo avesse conosciuto, il suo nome di battesimo…

“Non può fare una ricerca? È una ragazza giovane, stravagante, non è qui da molto…”

L’uomo esibì un sorriso plastico e tirato.
“Signore, la prego, non insista.”

“Non mi costringa ad andare a bussare a tutte le dannate porte di questo dannato albergo!” sbottò Tom, esasperato. Non era abituato a non ottenere quel che voleva, e per di più questa volta ci teneva davvero. Era solo una stupida giacca, in fondo, eppure, sì, ci teneva.

“Signor Kaulitz,” gli intimò l’uomo, con falsa cortesia. “In qualità di direttore del suddetto dannato albergo, la devo pregare di non creare problemi ai miei clienti, altrimenti sarò costretto a prendere provvedimenti.”

“Va bene, va bene!” ringhiò lui, sollevando le mani in segno di resa. “Grazie tante dell’aiuto!” Poi gli voltò le spalle e se ne andò, fumante di rabbia.

Vaffanculo, Norja, o come cazzo ti chiami!, imprecò fra sé, infilando l’ascensore.

Aveva la sua giacca, erano nello stesso hotel, si conoscevano, e nemmeno sapeva come arrivare a lei. Non sapeva nemmeno se sarebbe riuscito a rivederla prima che entrambi se ne andassero.

Forse avrebbe voluto salutarla.

Forse gli sarebbe mancata.

Forse avrebbe voluto chiederle almeno un contatto.

Invece no.

Forse non era destino.

Vaffanculo, sì.

 

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Note: phew, dopo mille mila anni, ce l’ho fatta! ^^ Vi avevo detto che questa storia sarebbe stata subordinata in importanza alle altre, quindi comprenderete il ritardo. Insomma, ecco il secondo capitolo! Spero tanto che, anche se è dichiaratamente molto meno curata nella forma e nelle descrizioni, anche questa ff vi piaccia. Il titolo di questo capitolo è lo stesso di una bellissima canzone dei Massive Attack, che consiglio di ascoltare.

Ringrazio tutte voi che avete letto, commentato e aggiunto la storia tra le preferite e seguite, e mi auguro, come al solito, che continuerete così! :)

Nel prossimo capitolo vedremo Norja che cerca di godersi una delle sue poche giornate normali con la peggior zecca del mondo alle calcagna, aka Tom Kaulitz. Stay tuned! ;)

Alla prossima!

 

   
 
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