Capitolo
V: La verità che rende liberi
Quella
giornata, così piena di sorprese, così tentatrice
e al tempo stesso
rivoluzionaria, non era ancora giunta al termine. Il sole sarebbe
tramontato a
breve; già i primi riflessi color arancio si riversavano
sulla terra,
illuminandola e allungando le ombre dei passanti che si dirigevano
verso le
proprie case.
Tseng
osservò la sua ombra distendersi sulle mura di una delle
baracche dei
Bassifondi di Midgar, lo sguardo serio, la bocca serrata in una smorfia
di
disgusto.
Come
si poteva essere arrivati a quel punto? In poche ore, tutto
ciò che aveva
costruito in quei mesi, in quegli anni, era stato irrimediabilmente
distrutto.
Merda,
quanto si stava odiando…
La
colpa era sua, solo sua, che aveva taciuto per così tanto
tempo la verità,
celandola dietro le pagine di un rapporto basato su fondamenta minate
dal
silenzio. Adesso stava vivendo sulla propria pelle la conseguenza delle
menzogne che aveva alimentato per anni.
A
quanto pare, il castello di carte era crollato quando Aerith aveva
incontrato
quell’idiota di Reno: o almeno, così
quest’ultimo gli aveva riferito, quando
gli aveva parlato pochi minuti prima. A quanto pare, quel cretino aveva
spifferato
tutto su quel che davvero era successo quel giorno di parecchi anni fa
in cui
la neve cadeva fitta, concludendo raccontando anche del suo
licenziamento. Ed
Aerith aveva creduto a tutto ciò che lui le aveva detto.
Forse si era ricordata
del volto del carnefice di sua madre, o probabilmente si era solamente
lasciata
abbindolare dalle parole del Turk. Quel che davvero importava, in quel
momento,
era che lei stava contro di lui, dalla parte opposta alla sua. Era
diventata
irraggiungibile, e, ad ogni minuto che trascorreva, il crepaccio tra
loro si
allargava, e rendeva polvere tutto ciò che in passato
c’era stato tra di loro.
Allungava una mano, cercando di raggiungerla, ma lei appariva sempre
più
lontana, di spalle, mentre lui affondava nel baratro…
Si
fermò, respirando a fondo. Doveva trovare Aerith il prima
possibile, e
parlarle. Probabilmente si sentiva delusa, sola, confusa, abbandonata
dall’ultima persona di cui si era fidata. Sconvolta per
quella rivelazione, che
a lui era sempre apparsa così ovvia...
La
verità è che la conoscenza rende pienamente
padroni degli eventi. La conoscenza
che Aerith aveva acquisito in quella calda giornata di sole le aveva
cambiato
la vita per sempre. Spettava a lei, adesso, capire cosa fare: e, in
quanto a
Tseng, poteva solo sperare nel suo perdono. Che, effettivamente,
appariva
parecchio improbabile.
Immaginava
che ormai fosse tutto irrecuperabile. E come dar torto ad Aerith? Come
poteva
amare colui che ti ha impedito di essere amata, come poteva pensare di
provare
affetto per la causa delle tue più grandi sofferenze?
Non
poteva, semplice. Era del tutto impossibile pensare al perdono.
Precipitava
ancora nel baratro, cercando di risalire, annaspando per respirare
l’aria a cui
non poteva anelare… Inspirò ed espirò
profondamente, di nuovo. Doveva calmarsi.
Eppure non ci riusciva, sentiva il disprezzo e l’ira di
Aerith sulla sua pelle,
vedeva il suo sguardo pieno di risentimento, e le sue lacrime di
rabbia…
No,
non sarebbe nemmeno riuscito a parlarle, non con quel senso di colpa
che lo
dilaniava dall’interno. Non sapendo che lei sapeva.
Ma doveva farlo, doveva provare, non poteva buttare la sua ultima
speranza al
vento e lasciarla scivolare tra le sue dite, per vederla sparire per
sempre.
Non
poteva.
Continuò
a camminare, a testa alta, abbagliato dalla luce del tramonto che aveva
davanti
agli occhi, verso la chiesa. Sperava di trovarla lì, accanto
ai suoi fiori
ormai quasi del tutto avvizziti, con lo sguardo perso nel vuoto dei
suoi
pensieri.
Appena
sarebbe entrato nel polveroso atrio della chiesa, lei forse
l’avrebbe guardato,
per un attimo, senza proferir parola; poi sarebbe tornata con lo
sguardo fisso
verso i fiori, come se nessuno fosse entrato. E allora lui si sarebbe
avvicinato, ed il rumore dei suoi passi sarebbe echeggiato per la
chiesa buia,
e le avrebbe parlato, con un tono di voce pacato, raccontandole tutta
la
verità. Tutto ciò che lei aveva già
appreso da Reno, ed anche altro, tutto ciò
che non le aveva mai detto in quegli anni; e poi avrebbe terminato con
i
sentimenti che provava per lei, e con la speranza che lei capisse, che
lo
perdonasse. E poi, non riusciva più ad immaginare cosa
sarebbe successo, se
Aerith lo avesse perdonato o se, al contrario, gli avesse intimato di
sparire,
e di non farsi mai più vedere tra quelle mura, che erano
state testimoni di un
sentimento che in realtà nemmeno esisteva…
Si
fece coraggio, fece ancora un altro passo,
e un altro, oltrepassando l’ormai sgombra piazza
del mercato. Come era
solito per quell’ora, le strade stavano cominciando a
riempirsi di tipi poco
raccomandabili che Tseng non degnò nemmeno del suo
disprezzo: aveva questioni
più urgenti da risolvere.
Il
crepuscolo aveva dato una leggera tinta violacea al cielo, che ben
presto
sarebbe stata sostituita dalla notte perenne, la notte senza stelle dei
bassifondi. Doveva sbrigarsi.
Eppure,
più si avvicinava, più l’ansia si
impadroniva di lui, allungando le sue
malefiche spire nella mente di Tseng: perché doveva finire
così? Non era mai
stato orgoglioso dell’omicidio di quella donna, né
di aver messo in pericolo
Aerith. Perché allora Aerith avrebbe dovuto disprezzarlo?
Non sapeva di come il
senso di colpa l’avesse quasi ucciso, in quegli anni, e di
come l’avesse spinto
a prendersi cura di lei, fingendosi ancora un Turk, per tenerla
d’occhio? E di
come si era odiato quando si era accorto di provare qualcosa per lei,
perché
sapeva che, quando tutto sarebbe finito, non ci sarebbe più
stato posto per
l’amore, ma soltanto per l’odio e per la
disperazione?
No,
non poteva farlo, non poteva presentarsi così come se nulla
fosse. Si fermò un
momento, sedendosi su una panchina.
Un
gruppo di uomini loschi vestiti di nero lo fissarono, sospettosi a
causa della
sua uniforme, e lui rispose allo sguardo, in modo glaciale. Quelli si
allontanarono subito, scoccandogli ancora qualche occhiataccia in
lontananza.
Riprese
a combattere tra la tempesta di pensieri che gli offuscavano la mente.
Doveva
solamente fermarsi un attimo, e cercare di riflettere con
lucidità. Niente di
più semplice, no? Solamente riflettere…
Cercò
di concentrarsi, ma voci di un passato lontano si insinuavano nella sua
mente,
confondendolo.
Dannazione,
se solo fosse stato capace di riflettere per un singolo momento in pace!
Si
rialzò in piedi, mentre le voci nella sua mente si facevano
più insistenti,
sempre più vive, come se appartenessero alla
realtà. Urlavano, gridavano, lo
asfissiavano con le loro voci... non erano veri eppure gli sembrava
quasi di
vedere le figure a cui appartenevano quei timbri vocali, davanti a
lui…
Scosse
la testa, chiudendo gli occhi, la testa tra le mani. Ma che gli stava
succedendo?!
“Basta!”
esclamò ad alta voce, ed il caos nella sua testa si
fermò bruscamente, quasi in
modo innaturale.
Poi,
una mano si insinuò sulla sua spalla. Era una mano ben
curata, con le unghie
smaltate di rosso e le dita affusolate, che sicuramente apparteneva ad
una
donna. E Tseng credeva anche di sapere a chi.
“Sai,
ti dirò una cosa” cominciò la donna
dietro di lui, in tono saccente “ho sempre
pensato che tu fossi solamente un grandissimo idiota, ed adesso ne ho
pure la
conferma!”
Una
risata stridula attraversò l’aria fresca
dell’imminente sera.
Tseng
si ritrovò a sorridere sarcasticamente, insieme a quella
donna che aveva ormai
riconosciuto. “Grazie… Scarlet”
sussurrò, a denti stretti.
“No,
dico sul serio!” ribadì la donna, con la solita
arroganza che la
contraddistingueva “sei così codardo da non
riuscire nemmeno a chiarire con
Aerith per una colpa che tu hai commesso!” “Tu non
sai nulla di questa storia,
sta’ zitta!” esclamò Tseng voltandosi
verso di lei. Era uguale all’ultima volta
che lui l’aveva vista, con i capelli biondi raccolti in uno
stretto chignon e
con il suo solito vestito rosso, così poco consono ad un
ambiente come quello…
“Lo
credi davvero?” chiese lei, avvicinandosi fino a sfiorargli
la guancia con una
mano. “vorresti farmi credere che c’è
forse qualcuno che ti conosce meglio di
te stesso?” la donna scoppiò in un’altra
acuta risata, che interruppe il gelido
silenzio di quella strada. Stranamente, nessuno si voltò
verso di loro.
Tseng
riprese a camminare. “Che intendi dire?” le chiese,
certo che l’avrebbe
seguito.
“Intendo
dire che ogni cosa esiste ed esisterà in base alle scelte
che tutti noi abbiamo
compiuto nel corso della nostra vita!” rispose Scarlet, in
tono più mite,
volgendo lo sguardo agli ultimi raggi color rubino che sparivano dietro
ad una
verde collina fuori città.
“E
questo che vuol dire?!” chiese Tseng, spazientendosi.
“Ottima
domanda!” esclamò la donna, sfoderando un
sorrisetto sardonico. “Sai che me lo
sto chiedendo
anch’io?”
Tseng
sospirò. Ma che stava succedendo? Cosa voleva
quell’orribile donna da lui?
“Si,
lo so che cosa pensi, ma te l’ho già detto:
nessuno ti conosce meglio di te
stesso!” ribadì nuovamente Scarlet, accelerando il
passo.
“Vuoi
parlare chiaro, per una volta?!”
“Risparmia
il fiato per la chiacchierata con Aerith, piuttosto!” rispose
la donna, non
lasciandosi sfuggire l’occasione per sputare un po’
di veleno sulla faccenda.
Tseng
provò l’impulso di uccidere anche lei,
così come aveva fatto con Elmyra. Si
voltò verso la donna, pronto a scoccarle
un’occhiata carica di odio, ma lei era
sparita, dissolta come se fosse stata portata via da una folata di
vento. Si
guardò intorno, ma non la vide da nessuna parte. Forse se
l’era soltanto immaginata.
Probabilmente
stava solo impazzendo.
I
suoi passi producevano lievi tonfi, e nella sua testa le voci si
susseguivano,
in un entropia di suoni di cui non riusciva a comprendere quasi nulla.
Proseguiva, senza ormai avere nulla che potesse dissuaderlo dai suoi
propositi.
In lontananza, vedeva già le guglie della chiesa nella
quale, ne era certo,
avrebbe trovato Aeirth.
Poi
un’altra mano lo afferrò per il braccio,
bloccandolo. Voltandosi, riconobbe
Reno, con lo sguardo carico di determinazione e che sembrava non voler
mollare
la presa.
Tseng
si ritrovò a sbuffare. Adesso si ci metteva pure lui?
“Lasciami
andare!” esclamò, cercando di divincolarsi dalla
stretta dell’altro.
“Mi
vuoi spiegare che diamine stai facendo?!” urlò
Reno di rimando, senza prestare
attenzione alle parole di Tseng.
“Vado
da Aerith, per cercare di rimediare al casino che hai
combinato!” sibilò lui di
rimando.
“Che
tu hai combinato, vorrai
dire!”
rispose Reno, seguendolo. “Io non ho colpa! Ricordi che ho
cercato di fermarti,
quattro anni fa?”
“Senti…”
Tseng si coprì gli occhi con una mano, abbassando il capo.
Perché Reno non
capiva? E perché, in fondo, lui sapeva che il Turk aveva
ragione?
“E’
ovvio che Aerith sarà furiosa con te! Che senso avrebbe
andare alla chiesa,
adesso?” domandò Reno, interrompendolo.
Tseng
non rispose. Continuò a camminare, ignorando il ragazzo che
stava alle sue
spalle. Lui gridò, per un’ultima volta:
“Fermati!”, poi non parlò
più, forse
sparì, come Scarlet aveva fatto prima di lui.
Il
suo mal di testa era aumentato di molto… non era certo di
sentirsi molto bene.
La testa gli girava, come se avesse la febbre. Si tastò la
fronte,
distrattamente, ma non notò nulla di anormale nella sua
temperatura.
Era
a pochi metri dalla chiesa, ormai, riusciva ad intravederla attraverso
la
fievole luce dei lampioni che costeggiavano il vicolo. Il suo cuore
batteva
forte, così forte da fargli quasi male. Non sentiva
più nessuna voce, o alcun
rumore, che turbasse la quiete dei Bassifondi. Respirò a
fondo, arrivò davanti
alla porta di legno che tante volte, con leggerezza, aveva
già oltrepassato.
Perché quella volta sembrava così difficile?
Allungò
una mano e toccò la fredda maniglia della porta. Sembrava
così difficile da
aprire…
“Aspetta”
sussurrò una voce alle sue spalle. Una voce ben calibrata,
dolce, una voce
calda e piena di sentimento, con una sfumatura di maturità
nella voce che si
acquisisce solo con l’età. Tseng aveva
già sentito quella voce, in verità: una
volta soltanto, in una particolare occasione; ma gli era rimasta
impressa, e,
da allora, aveva sentito ogni notte, nei suoi incubi, quella donna
gridare a
sua figlia di mettersi al sicuro...
Lentamente,
Elmyra emerse dall’oscurità, con un sorriso dolce
sul viso, osservandolo. Aveva
i vestiti del giorno della morte, ancora macchiati del suo stesso
sangue, forse
perché quella era stata l’unica occasione in cui
Tseng aveva potuto conoscerla.
Il suo sguardo era fiero, pieno di una determinazione che il ragazzo
non le
aveva mai notato, in quel fatidico giorno.
Si
avvicinò, e non seppe nemmeno cosa dire. Voleva dirle
qualcosa, però; che gli
dispiaceva di averla uccisa e che quel gesto gli era costato un
permanente
senso di colpa che lo dilaniava ogni giorno. Ne avrebbe avute di cose
da dire,
eppure restava in silenzio, incapace di articolare qualunque suono. Il
mal di
testa era ancora aumentato, e faceva fatica anche a
respirare…
“Non
trovi che sia una splendida notte?” chiese la donna,
osservando gli sprazzi di
cielo che si intravedevano da sotto il piatto. Sembrava tranquilla,
serena,
incurante della ferita che le attraversava il torace e da cui sgorgava
sangue
scarlatto.
“Lei...
lei è…?” chiese Tseng, balbettando,
anche se sapeva già la risposta.
“Si,
Tseng” la donna si voltò verso di lui, seria.
“Io sono la donna che hai ucciso
4 anni fa”.
Tseng
aspettò che Elmyra parlasse ancora, ma lei non sembrava
intenzionata a farlo.
Capì che stava
aspettando. Stava
aspettando che Tseng si decidesse a declamare tutto ciò che,
in quegli anni,
aveva pensato su quella mattinata d’Inverno di ormai
parecchio tempo prima.
Aprì
la bocca, ancora incerto su cosa dire.
“M-mi
dispiace” biascicò, con un sussurro appena udibile
e che subito si perse in
quella nera notte.
“E
per quale motivo?” chiese la donna, sorridendo. Come aveva
fatto prima Scarlet,
anche lei portò una mano sulla sua spalla. Ma a differenza
di quello di
Scarlet, quel tocco infondeva coraggio, decisione, determinazione.
“Per…
per averla uccisa!” esclamò Tseng, a testa bassa,
non avendo il coraggio di
guardarla.
Un
attimo dopo, sentì Elmyra ridere. Istintivamente
alzò lo sguardo, e vide il
viso della donna invaso dall’allegria e dalla
vitalità.
“Ma
andiamo, credi che un paio di scuse possano cambiare ciò che
è accaduto?”
chiese la donna. Osservò per un momento la sua ferita, poi
riprese, come se
nulla fosse: “Le scuse non servono a nulla, Tseng. Quello che
davvero è servito
a farti meritare il perdono è stato il senso di colpa che
hai provato durante
l’arco di questi quattro anni! E’ stato un cammino
duro, guidato dalla redenzione,
dal riscatto verso gli errori del passato, verso
un’espiazione lontana, quasi
un’inafferrabile chimera che tu hai continuato a perseguire,
anche quando tutto
sembrava perduto! Nessuno può biasimarti per aver taciuto la
verità ad Aerith,
così come nessuno potrà avere nulla da ridire sul
coraggio che hai dimostrato
venendo qui, a discapito di tutto ciò che potevi provare.
Tutti questi gesti ti
hanno portato a ciò che più anelavi. La completa
espiazione dalle tue colpe!
Fidati, so di te più di quanto non ne sappia tu
stesso!”.
Tseng
sorrise. Eppure era un sorriso forzato: quel mal di testa non lo
abbandonava, e
tutto appariva sempre più sfocato… eppure si
sentiva allo stesso tempo bene
davvero per la prima volta, bene con sé stesso, anche
se…
“E’
normale sentirsi così?” chiese Tseng dopo qualche
minuto di silenzio, cercando
di osservare il cielo, come prima aveva fatto Elmyra.
“Così
come?” chiese lei, guardandolo curiosa.
“Come
se avessi ancora qualcosa da fare prima dell’espiazione
assoluta” sussurrò
Tseng, tutto d’un fiato. Guardò la porta di legno
che aveva davanti: pochi
metri lo separavano da lei… “Devo
farmi perdonare da Aerith?” chiese, senza neanche pensarci
su, in attesa di
avere una risposta.
La
voce della donna si fece grave. Quando rispose, una nota dolente si
percepì
nella sua voce, che suonò triste, simile ad un rimpianto.
“Non ne avresti
nemmeno il tempo” sussurrò, chinando la testa,
affranta.
E
Tseng capì a cosa stava andando incontro, e che non
c’era nessuna via che
potesse impedire quello che stava per accadere.
“C’è
qualcosa che posso fare per rimediare del tutto, prima
di…?” chiese, senza
aspettarsi nessuna risposta in particolare.
Elmyra
gli si avvicinò e gli accarezzò il volto,
lentamente.
“Chiudi
gli occhi” sussurrò poi, mentre la voce si faceva
rotta dal pianto.
Tseng
sbatté le palpebre un’ultima volta, dando
un’occhiata di sfuggita al mondo. Il
suo sguardo si chiuse sulla chiesa che era stata protagonista della sua
storia,
e che gli sorrideva amorevolmente, come per indicargli che stava
facendo la
cosa giusta. Sorrise, senza neanche avere un buon motivo, anche se non
era
riuscito a rivedere Aerith, per un’ultima volta. Sorrise e,
per la prima volto
dopo tanti anni, pianse. Soltanto poche lacrime, ma che valsero come
quelle di
un’intera vita.
Si
sentì meglio, come liberato da un ulteriore peso. Si sedette
con la schiena
poggiata alla porta della chiesa, con gli occhi serrati.
Riuscì a sentire il
profumo di uno dei fiori che non erano ancora morti. C’era
ancora speranza per
Aerith, ne era sicuro.
“Grazie”
sussurrò ad Elmyra, o forse a sé stesso. Un
momento dopo, senza una ragione ben
precisa, si sentì abbandonare e, al chiaro della luce
spettrale di un lampione
lì vicino, morì.
Tseng
non seppe mai cosa successe in seguito a quella notte: non seppe mai
del pianto
disperato di Aerith, alla vista del suo corpo immobile e privo di vita,
la
mattina seguente, e
non seppe di come
lei, in seguito, fu l’unica persona ad andare a trovarlo,
ogni giorno, nella
sua eterna dimora. Non seppe nemmeno di come la ragazza si
pentì, e di come
capì che in tutto quel tempo Tseng era cambiato, e che aveva
ormai raggiunto
l’espiazione che tanto aveva desiderato mentre stava con lei.
Sì, Tseng rimase
all’oscuro dei fatti posteriori alla sua morte, per
l’eternità; ma morì con il
sorriso tra le labbra, con uno dei pochi sorrisi che avessero mai
attraversato
quel volto tanto imperturbabile.
Morì
con il sorriso della verità che rende liberi, e con la
certezza che, in un
altro luogo diverso da lì, un luogo che forse nemmeno
esisteva, un giovane e
inesperto Tseng aveva evitato, per una volta, di premere il grilletto
che
avrebbe cambiato per sempre la sua vita. Era quasi riuscito a vederlo,
quel
giovane ragazzino pallido, mentre catturava il trafficante di Materie e
salvava
la donna. Ed era quasi riuscito ad udire, mentre i sensi lo
abbandonavano, la
voce di una bambina, una bambina che era Aerith Gainsborough, e che
sussurrava,
in maniera appena udibile: Grazie.
FINE
Azz,
mi dispiace che sia finita qui! xD Questo contest è stato
una così bella
esperienza! Ho incontrato persone simpaticissime e, tutto sommato, mi
sono
divertito un mondo a scrivere questa fan fic, che spero vi piaccia!
(ogni
riferimento a fatti,
persone o a Zio Al
è PURAMENTE casuale
xD).
Volevo
spendere un minuto del mio tempo a ringraziare Valy, la mitica
organizzatrice
del contest, che ha saputo creare questa sfida magnificamente e che ha
diffuso,
in questo modo, l’amore per una coppia così bella
all’interno del fandom di
FFVII. Grazie davvero, Zia Perifrastica! xD
Perdonate
la banalità, è l’una di notte e non so
cos’altro aggiungere! Anzi, in verità
qualcosa da aggiungere ci sarebbe…
Zia
Polly, we love you! XD