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Autore: keska    16/11/2009    28 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Rimasi interdetta, con la bocca aperta e le gambe piantate sul terreno. La mano posata sulla portiera ancora aperta. «Alice» deglutii «Dove. Mi. Hai. Portata?».

«Bellissimo, non è così?» disse indicando l’immenso e coloratissimo edificio, posto su uno dei lati del parco commerciale di Seattle. «Questo è il “Mom & Baby Planet”! Il più fornito centro commerciale dello stato di Washington e della West Coast che vende tutto quello che può servire ad una donna incinta e al suo bambino! Non è meraviglioso?!» spiegò, come se stesse elogiando l’immensa bellezza di un’opera d’arte.

La fissai eloquente.

La sua espressione, sul piccolo visino, divenne secca e dura, nulla a che vedere con quella radiosa che aveva fino a pochi istanti prima. «Oh, senti. Non fare storie! Ti ho anche concesso di portarti dietro Edward!».

Lui mi venne accanto, circondandomi le spalle con un braccio e baciandomi la fronte. «Ti prego di non parlare di me come se fossi un cagnolino» fece, con una punta di risentimento.

«Alice! Ma non dovevamo venire qui! Non erano questi i patti» la sgridai con disappunto.

Si sentì la risata cristallina di Rosalie, appena scesa dall’auto. «Credi forse che ti avrebbe concesso di andare in quel negozietto quattro per quattro di Port Angeles?».

«E va bene» concessi, considerando che non ero dell’umore adatto per litigare. Quella mattina mi ero miracolosamente svegliata senza alcun senso di nausea, ma appena l’avevo comunicato a Edward, Alice e Rosalie erano piombate in casa col chiaro intento di trascinarmi a fare shopping. E come si dice? “Via il dente via il dolore”. Anche perché presto avrei avuto reali problemi con i jeans troppo stretti…

«Su, su, muoversi, veloci! Non c’è un istante da perdere, ci sono così tante cose da acquistare! Seguitemi e non cedete il passo!». Alice ci guidava come un cicerone fra i grandi corridoi colorati con stucchevoli colori pastello e intrisi di profumi dolciastri a base di vaniglia, fragola, e zucchero filato. Non mi sarei affatto stupita se la nausea fosse tornata.

«Allora, bisogna dare un ordine e una priorità!» cominciò, gesticolando per aria «io direi di cominciare a pensare e comprare in rosa!».

Se Edward non mi avesse trattenuta sarei sicuramente andata sbattere contro Rosalie, improvvisamente piantata con i piedi saldamente a terra. «Rosa? Alice, ti prego, ne abbiamo discusso. Non vorrai fare un intero guardaroba rosa alla bambina!?».

È vero che ne abbiamo discusso, e penso fossimo d’accordo che dovevamo convincere la bimba di essere una femminuccia, non è così?».

Mi voltai verso mio marito, con un’occhiata molto eloquente. Quella non era la prima discussione che avveniva fra Rosalie e Alice sulla bambina, nonché su me, e di solito si protraevano per parecchio tempo.

Lui mi sorrise, ignorando e sue sorelle e posando una mano sulla mia pancia. «Come sta la nostra piccolina?».

Sorrisi anch’io, chiudendo gli occhi e facendo scivolare la sua mano appena sotto la mia maglietta. Sentii l’apprezzamento provenire dalla bambina; quel piccolo, dolce, pezzettino di cioccolata sospeso in un dolce latte. «È contenta. Come sempre in questo periodo» dissi felice, aprendo gli occhi.

«Direi che dovremmo mettere fine alla discussione se vogliamo tornare a casa entro stasera».

«Già».

Misi due dita in bocca, voltandomi determinata verso le mie sorelle, che stavano continuando a discutere, ed emettendo un fischio acuto e deciso.

Si zittirono in contemporanea, voltandosi verso di me orripilate.

«Ha fischiato?».

«No, dico, ho sentito bene?».

«Una donna incinta, la grazia e la tenerezza fatte persona…».

«…ha fischiato».

Sollevai i palmi. «Sentite, prima che facciate i vostri piani su cosa dovete comprare prima o dopo, ecc, ecc… Tenete ben presente l’unica mia piccola richiesta» dissi, fissando Alice.

I suoi occhi divennero per un istante neri e lontani, poi si riscosse, con un’espressione felice. «Perfetto!» esclamò, ricominciando a camminare a passo sostenuto. «Allora, dicevamo, ci vuole rapidità. Dobbiamo comprare di tutto. Dagli scalda-latte, ai passeggini, ai vestitini, alle pancerine, ai giocattoli…».

«Non dobbiamo mica comprare tutto oggi» dissi divertita, stringendomi a Edward.

Rosalie e Alice risero contemporaneamente. «No, infatti, questo è solo l’inizio».

Alzai gli occhi al cielo.

«Stop!» esclamò Alice, voltandosi con una mezza piroetta verso di noi. «Ora, io e Rosalie, andiamo a prendere i cataloghi, là, e là» disse, indicando due punti alle nostre spalle, «in modo da pianificare un piano rapido e efficiente. Voi due qua e qua» continuò, facendo due mezzi archi con le braccia «comincerete con le basi» disse, con un ghigno sospetto in volto.

Non feci in tempo a chiedere spiegazioni che mi mise a tacere con un gesto secco. Schioccò le dita due volte. «Nicole!».

Immediatamente una commessa con una paralisi-sorriso-facciale in volto, vestita con una salopette arancione e una maglietta a righe vede pastello, si presentò al nostro cospetto, come un fungo spuntato in mezzo alla pioggia.

«Occupati di loro» ordinò Alice, prima di scomparire con Rosalie al suo seguito. Non mi domandai come facesse Alice a conoscere la commessa di un negozio del “Mom & Baby qualcosa”, mi sarebbe cosato solo un inutile sforzo mentale e tanto mal di testa.

«Buongiorno e benvenuti al negozio di intimissimi per mamme» si presentò zuccherosa.

Strizzai gli occhi, reprimendo un violento moto di rossore e l’istinto di strangolare mia sorella.

«Allora, cara mammina!» esclamò, posando le mani calde sulla mia pancia.

In quel momento pensai seriamente che di essere provvista di un’aura dorata di luccichio. Era come se in un istante, per lei, nella stanza fossi esistita solo io. Che cara! Pensai sarcastica.

«È piccina questa pancia, non si vede quasi! A che settimana sei?» chiese sbattendo le ciglia contro i suoi occhi truccati. Ovviamente, color pastello, s’intende.

Sembrava, dopo tutto, una ragazza dolce, e io avevo solo voglia di svagarmi un po’, e soprattutto non pensare che mi trovavo, insieme a Edward, in un negozio di intimo. «Beh, è ancora un po’ presto…» dissi, imbarazzata per i suoi modi così confidenziali, «sono solo alla dodicesima».

Si voltò, come se avesse appena saputo dell’ascesa di un nuovo messia, fugacemente verso Edward, e poi verso me, con lo stesso sorriso paralizzato. Poi, nuovamente, sostando molto a lungo su Edward. Il mio luccichio era improvvisamente scomparso, spostandosi su di lui. «Lei è il fratello minore?» chiese trasognata, sbattendo vigorosamente le ciglia.

Primo. Perché fratello? Secondo. Perché minore? Terzo. Perché ha dato del lei a Edward quando poi a me a messo le mani sulla pancia?! Alzai gli occhi al cielo. «È mio marito» dissi, divertita.

Edward le sorrise gentilmente, scostando le sue mani, che ancora giacevano inerti sulla mia pancia, e accarezzandola. «La bambina nascerà a maggio». 

Nicole, non diede nessun segno di ripresa, anzi, sentendo la voce di Edward si sciolse ancor di più, facendo aumentare la mia ilarità. Infine si defilò con un’espressione confusa, dicendoci che sarebbe tornata subito.

Non appena fu via scoppiai in una fragorosa risata. «Oddio, Edward! L’hai irretita con uno sguardo! Sembrava non avesse mai visto un uomo in vita sua» sghignazzai.

«Povera ragazza» fece, contenendo un sorriso. Poi si voltò verso di me, con aria di rimprovero. «Dovevi per forza dirle “È mio marito”» fece, imitando la mia voce e marcando eccessivamente l’aggettivo possessivo.

«Ehi, mai mettersi contro una donna incinta! E poi l’hai sentita anche tu, no?! “Lei, è il fratello, minore”!».

Scoppiammo a ridere insieme.

Quando tornò, sembrava essere ritornata normale, e tutte le sue attenzioni furono nuovamente canalizzate su me e la mia pancia. «Allora, partiamo dalla cosa più semplice, i reggiseni».

Arrossi, mordicchiandomi il labbro.

«Si deve tenere conto di un certo aumento di taglia, ma prima mi deve dire quale portava prima».

Farfugliai qualcosa, rossa come un peperone, inveendo mentalmente contro Alice e Rosalie.

«Una seconda» rispose Edward al mio posto, togliendomi dall’imbarazzo. Poi, quando la commessa fu distratta per prendere dei modelli da mostrarmi, si avvicinò al mio orecchio, stringendomi da dietro, e disse «una misura perfetta, una coppa di champagne».

«Edward» sussurrai, fintamente indignata, ridacchiando.

Finalmente, prima che ci potessimo perdere fra reggiseno con coppe e sostegni regolabili, anallergici, antibatterici, con pizzi e diversi colori, Rosalie e Alice tornarono da noi. Con loro scegliere fu molto più facile data l’esperienza in materia.

Edward aveva preferito rimanere in silenzio, almeno finché non venne il momento di scegliere le pancerine e intervenne apprensivamente per non prenderne di troppo strette, considerando i problemi che c’erano stati all’inizio di gravidanza.

Tentavo di non farmi trascinare troppo da Rosalie e Alice, lasciando nella maggior parte dei casi che scegliessero per me quello che era più giusto. Alice tenne conto della mia piccola ma decisa richiesta e poté sbizzarrirsi per il resto, comprandomi un intero guardaroba di vestiti. Io preferivo rimanere un po’ indietro, insieme a Edward, godendo del contatto con lui e con mia figlia.

Guardavo le donne, che mi passavano accanto, molte delle quali con ingombranti pancioni, accompagnate da un delizioso clima familiare.

«Isabella Swan».

Mi raggelai, appena di fronte ad un ingresso che comunicava con un altro edifico del parco commerciale. Avevo sentito quella voce così poche volte… e… non mi sarei affatto aspettata di sentirla nuovamente in quelle circostanze. Vi voltai, stupita, fissando gli occhietti scuri del professor Danbaster, il professore che aveva strepitosamente valutato il mio dipinto de “La Cortigiana”. «Pr…professore» balbettai, rossa e imbarazzata. «Che piacere».

«La trovo in ottima forma, non è così?» chiese fissandomi con un sorriso sardonico, osservando poi, da sopra gli occhialetti, un punto accanto alla mia spalla.

Edward, notando che mi ero fermata, stava ritornano indietro.

Notai che i due si fissavano in silenzio, così, dissipando il mio rossore e la mia sorpresa, mi accinsi a presentarli. «Mmm… Edward, il mio professore di disegno creativo, Danbaster. Professore, lui è Edward» deglutii «m-mio… miomarito». 

Il ghigno del professore si allungò ancor di più, ma, stranamente, non face alcun commento su quel punto o sulla nostra giovane età. Lanciò una strana occhiata astuta a Edward e gli tese le dita sottili. «Mi chiami pure Philip. Anche tu, Isabella».

Non ebbi il coraggio, nel disagio naturale in cui mi trovavo, di correggerlo e dirgli di chiamarmi Bella. Non ero abituata a condividere quel genere di cose con Edward. Non che non volessi, ma, semplicemente, avevo imparato a viverle in maniera più riservata.

Lui fu molto cortese. «È un piacere conoscerla Philip, mia moglie mi ha parlato molto di lei».

«Già, già» fece il professore, saettando con lo sguardo fra me e Edward. «Spero di vederla quanto prima in università, la sua assenza si è fatta sentire».

Arrossi ancor di più, scoccando un’occhiatina a Edward. «S-sì. La… la prossima settimana» mormorai, abbassando poi lo sguardo.

«Bene, buona giornata dunque» si congedò, salutando.

«Buona giornata» salutai, quando fu troppo lontano per sentirmi. Mi portai una mano sulla pancia, continuando a tenere lo sguardo lontano, verso il punto in cui il professore era scomparso. Sorrisi, contenta, ricordandomi che fra una settimana avrei ripreso la mia carriera universitaria. «Edward, penso di avere molta fame» constatai, ancora sovrappensiero.

Dato che Alice e Rosalie erano scomparse da qualche parte a cercare i migliori lenzuolini antibatterici-ipoallegenici-antisfregamento per la bambina, rimasi seduta sulla panchina, con la promessa che non mi sarei cacciata nei guai, mentre lui andava a prendermi qualcosa da mangiare. Sarei sempre potuta andare con lui, ma avevo il terrore che la tavola calda facesse insorgere nuovamente la nausea, così rimasi buona, buona a coccolare la bimba.

«Vedrai che ti piacerà l’università. È vero che non potremmo stare con papà tutto il tempo, ma conosceremo tante altre persone. Anche il professor Philip, sai» mormorai, sfregando il ventre con movimenti circolari. Quel professore aveva un non so che di strano, e mi aveva lasciato un presentimento… particolare.

Probabilmente era solo l’effetto che mi faceva la bambina in risposta ai miei sentimenti.

Alzai il capo, in cerca di Edward. Di solito era più veloce. Repressi il moto d’angoscia. Quello, ne ero sicura, era opera di quella monella della bambina. Figuriamoci se potevo estendere il mio istinto materno su di lui!

Improvvisamente i miei occhi si posarono su una piccola vetrina, illuminata da alcune luci gialline e con le tende arancioni. Mi sollevai come catturata da quello che vedevo, avvicinandomi lentamente. I miei occhi erano fissi sull’oggetto posto esattamente al certo di essa; mi accorsi che avevo mosso una mano per sfiorarlo quando le mie dita incontrarono il freddo del doppio vetro.

«Bella». Sentii la voce di Edward appena alle mie spalle, ma non mi voltai, rapita com’ero da quel minuscolo oggetto e dalle immagini che mi aveva evocato.

Erano dei piccoli calzini bianchi ricamati. Piccoli… tanto, tanto piccoli. Vidi la soffice pelle rosea di quei minuscoli piedini, grandi quanto metà di un pollice. Vidi dieci perfette ditine tonde, ognuna più piccola dell’altra; dieci cerchietti soffici e morbidi da mordere che si agitavano a destra e a manca con la magnifica scoordinazione degna di ogni neonato.

Sentii la mano grande e perfetta di Edward posarsi sulla mia, poggiata sulla vetrina.

«Penso che la nostra bambina avrà piedini piccolini come quelli» mormorai, ancora stregata da quello che vedevo. Sbattei le palpebre, cancellando le piccole goccioline che si erano formate. «Sono bellissimi».

Le sue labbra, in un sorriso, si posarono sulla mia guancia. «Lo penso anch’io» disse, posando l’altra mano gentilmente sulla mia pancia.

Dieci minuti dopo girovagavamo per il centro commerciale con un pacchetto rosa con un fiocco, contente l’oggettino che aveva fatto scattare la mia fantasia e l’ammirazione di Edward.

«Grazie di esserti ricordato le caramelle» dissi, addentandone un’altra.

Mi sorrise, guardandomi con amore. «Non mangiarne troppe».

Puntai un dito sul suo petto. «Hai paura che io possa ingrassare? Dì la verità» lo stuzzicai.

Alzò gli occhi al cielo. «Non essere sciocca Bella, sei magrissima».

«Mmm» mi piantai con i pedi a terra, avvicinandomi a lui. «Mi daresti un bacio?» chiesi, accarezzandogli il petto.

Sorrise, avvicinando le sue labbra alle mie. Da quando ci eravamo amati, nuovamente, anche fisicamente, non c’era più stata occasione, per un motivo o l’altro, di rifarlo. Non che ne sentissi la così impellente necessità… Beh, forse solo un po’.

«Edward, Bella, ma dove vi eravate cacciati?».

Anche se non erano ancora pienamente soddisfatte, Alice e Rosalie decisero che potevamo tornare a casa, avevano comprato gran parte dei prodotti più urgenti e preso appuntamenti e cataloghi per gli altri.

Posai una mano sul finestrino dell’auto, distogliendo lo sguardo dal paesaggio, che, velocissimo, correva accanto a noi. «Alice, te ne prego, rallenta. Credo che alla bambina non piaccia la velocità, non vorrai farmi rimettere tutto il pranzo?».

Edward, seduto sul sedile posteriore della Porsche, accanto a me, si chinò fino a posare delicatamente l’orecchio sulla pancia. «Vorrei sentire anch’io le sue emozioni».

Gli accarezzai i capelli, sporgendomi indietro con la schiena a lasciando che mi accarezzasse. «Puoi sempre sentire il suo cuoricino».

Lui mi sorrise. «Sì. Batte velocissimo» disse contento. Nei ultimi giorni il suono era diventato più forte e riusciva a sentirlo con minore difficoltà.

Sorrisi, voltandomi con il capo verso il finestrino e osservando il tranquillo fluire del paesaggio. «Alice» chiamai, osservando le sempre più vicine abitazioni di Forks. «Ci lasci da mio padre?».

Accompagnò me e Edward, di fronte a casa, sul vialetto, andando con Rose a sistemare tutti i nuovi acquisti a casa nostra.

Non lo vedevo da qualche giorno, e nonostante la mia famiglia vampira spesso andasse da lui ad aiutarlo dopo il suo infortunio mi dispiaceva non riuscire a fare qualcosa io stessa.

«Bells!». La sua espressione gioiosa fu molto piacevole. Aveva tolto i cerotti sulla fronte e presto sarebbe arrivato il momento di togliere il gesso. Quando si trattava di riposo poteva essere più insofferente di me.

«Papà» lo salutai, abbracciandolo goffamente, ma con sincero affetto.

Quando ci separammo era completamente arrossito e potei giurare di scorgere ai lati degli occhi, fra quelle rughe che ne dichiaravano l’età, delle minuscole goccioline. «Non vi aspettavo fino a domani. Come mai qui oggi?» chiese, osservando prima me e poi Edward.

Lui mi strinse da dietro, accarezzandomi i capelli. «Bella voleva controllare che avessi tutto ciò di cui hai bisogno. Ci fai entrare? Fa freddo» disse, mimando un brivido.

Sorrisi. Sempre il solito.

«Certo, certo, entrate pure» fece Charlie, riprendendosi dallo stupore per quella visita inaspettata e cedendoci il passo.

Appena dentro osservai la casa. Tutto era in ordine grazie all’aiuto di Alice che era stata da lui appena due giorni prima, nonostante le sue proteste. Eppure, mi sembrava che a quella casa mancasse il calore di quando ci abitavo anch’io. Mi sembrava che tutto, tranne la poltroncina di fronte alla Tv e il piccolo tavolino su cui venivano solitamente posate le birre, fosse inutilizzato. In cucina notai la lavatrice, carica di vestiti e la pila di piatti ancora da lavare nel lavandino. Come aveva potuto creare quel disordine in soli due giorni?

«Papà» lo rimproverai, «perché non mi hai detto che avevi bisogno di aiuto? Devi lasciarti aiutare. Oh, accidenti. Ti prometto che adesso che sto meglio verrò più spesso a darti una mano. Devo dare una rinfrescata e soprattutto» dissi schifata, notando l’immensa quantità di pesce surgelato e cibo in scatola nel frigo «cucinarti qualcosa di commestibile!».

Non volli sentire ragioni e mi tolsi immediatamente cappotto e sciarpa, rimboccandomi le maniche mettendomi al lavoro. Lasciai a Edward e a mio padre, a mio rischio e pericolo, il compito di fare la spesa e cucinare una cena degna di tale nome, in modo che potessimo onorare l’invito di mio padre di mangiare da lui.

Sapevo che accettare il mio aiuto era molto più facile che accettare quello dei Cullen, che in fondo, per quanto stesse imparando a volergli bene, erano per lui degli estranei. Cominciai dal piano inferiore, aprendo tutti i lustri delle finestre e mi misi a pulire, lavare e spolverare, sgranchendo un po’ i miei muscoli che da tanto tempo non lavoravano. Non ero mai stata una maniaca delle pulizie, ma solitamente me ne ero occupata sia quando vivevo con mia madre che quando ero con mio padre.

Mi rendeva felice prendermi cura di lui.

«Bella, dai a me» disse Edward prendendo la cesta con i panni sporchi dalle mie mani, prima che potessi iniziare a scendere le scale rischiando di rompermi l’osso del collo.

«Dov’è Charlie?» chiesi sottovoce, guardando di sotto.

«In cucina, sta tagliando le carote».

Sgranai gli occhi. «L’hai lasciato solo in cucina?».

Lui scese qualche gradino, con estrema disinvoltura, nonostante l’ingombro dei vestiti. «Vado da lui, tu hai finito?».

«Quasi, rimane solo la mia camera. Non penso che la usi mai, ma la voglio comunque pulire. Magari la vorrà usare per un altro scopo». Feci spallucce.

«Va bene, fra mezz’ora è pronto, non fare tardi».

Sorrisi, vedendolo scomparire dietro la porta del soggiorno, portandomi una mano alla pancia. Chiusi gli occhi quando sentii un forte calore sprigionarsi dentro di me. Presi un grosso respiro. Non era mai stata così serena.

Mi voltai verso la porta della mia camera, lasciando che i ricordi tornassero alla mente. Pensai al dolore e alla malinconia che dovevo avergli causato e quanto, anche lui, dovesse aver sofferto il mio allontanamento.

Posai le dita, leggere, sul copriletto, pensando a quando Edward entrava di soppiatto in camera per dormire con me. Sfiorai il comodino, la pesante scrivania, il lento e rumoroso computer preistorico. Non avrei mai immaginato che rivedere la mia stanza mi potesse dare tutte quelle sensazioni.

Casualmente lo sguardo si posò sull’armadio di legno sbiadito. Sentii il cuore battere più veloce, ma solo dopo qualche istante capii perché. Vidi, come marchiate a fuoco, le impronte di due mani calde sulle ante. Ci doveva essere un vuoto in quell’armadio. Seconda gruccia, la maglietta verde. Piegati sulla terza pila, in cima, un paio di jeans scoloriti.

I vestiti che indossavo quando Jacob era quasi riuscito a violentarmi. Quelli che lui stesso mi aveva infilato, dopo avermi drogata. Che lui stesso era venuto a prendere da quell’armadio.

Tutto mi pareva come un lontano ricordo sbiadito, come se in realtà dentro di me pensassi che fosse stato un sogno. La mia razionalità diceva no, è il contrario, ma lottava anche contro sé stessa per affermare che non era realmente successo.

Eppure il cuore batteva, batteva forte come se volesse uscire dal petto. E sentivo le guance fredde, bianche, e una forte angoscia stringermi lo stomaco.

La parte di me che voleva dimostrare la realtà mi fece muovere verso l’armadio, mentre sentivo la paura crescere esponenzialmente.

Posai, con terrore, le mani sul legno ruvido, pensando che anche Jacob doveva averlo fatto.

Aprii piano, in un cigolio, entrambi gli sportelli.

Vuoto.

C’era veramente il vuoto.

Mi lasciai scivolare a terra, ansante. Sorprendentemente, la consapevolezza della realtà del passato non faceva così paura. Posai una mano sul ventre. La bambina era riuscita a ridarmi la vita e una ragione per vivere, era riuscita e farmi stare bene e farmi riemergere dall’oblio.

Avevo la sua vita nella mia, e crescendo mi animava sempre più, ma quando sarebbe nata?

Avrei avuto lei, e Edward. Non paura. No, non avrei potuto aver paura e pensare a quell’eventualità era un mio stupido problema che toglieva felicità alla mia vita perfetta.

Mi asciugai le lacrime che, servendosi della grande quantità di tensione accumulata in pochi secondi, erano riuscite a farsi strada sulle mie guance. Sorrisi, sollevandomi in piedi e chiudendo le ante, insieme ai tristi ricordi del passato.

«Bella?». Mi voltai, vedendo Edward fissarmi preoccupato. «Tutto bene?» chiese, perplesso, osservando l’autenticità del mio sorriso.

Feci qualche passo fino a stringermi fra le sue braccia. «Sì, tutto bene» dissi convinta.

Mi accarezzò i capelli.

«Ricordi quando entravi in questa camera senza che papà se ne accorgesse?» chiesi defilandomi dalla sua presa e tuffandomi sul letto.

Lui mi sorrise, cauto. «Certo che ricordo».

Accarezzai il copriletto. «Vieni qui» lo chiamai maliziosa, tirandolo per la camicia.

Lui mi lasciò fare, finché, audacemente, non incollai con passione le mie labbra alle sue. Poteva, pur essendo immutabile, diventare ogni giorno sempre più bello?

Si staccò, ansante, allontanando il mio volto con le mani. «Bella, dobbiamo andare, la cena è pronta».

Mi rituffai sulle sue labbra. «Voglio stare con te» mormorai, baciandogli e mordicchiandogli con foga la mascella squadrata.

Lui mi accarezzò i capelli. «Bella, c’è tuo padre di sotto».

«Chi se ne importa. Sono incinta, credi che non sappia quello che facciamo?».

«Bella».

«Ha una gamba rotta, non verrà mai fin quassù».

«Bella!».

Sbuffai, staccandomi da lui. «Okay, okay, hai ragione».

La cena, fortunatamente, fu commestibile, e fu non poca cosa considerando che era stata cucinata da mio padre e un vampiro. Fu molto piacevole chiacchierare con mio padre, e per fortuna fu abbastanza distratto da non notare Edward che passava la maggior parte del suo cibo a me.

«Quindi avete comprato tutto?».

«Beh sì, in pratica sì, oggi siamo stati a Seattle e Alice e Rosalie non si sono risparmiate, come al solito» dissi con un sorriso.

Mio padre sorrise, a disagio. Poi si bloccò, come se volesse dirmi qualcosa. Saettò con lo sguardo sul tavolo, fino ad incontrare le patate al forno. «Ne vuoi ancora? Non mi sembra che tu abbia mangiato molto, si dovrebbe mangiare di più nel… tuo stato, no?».

Arrossii.

«Non ti preoccupare Charlie, Bella ha mangiato abbastanza per essere quasi nel secondo trimestre» intervenne Edward, facendomi l’occhiolino.

«Oh… capisco… e quando nascerà la… creatura?» farfugliò a bassa voce.

«L’otto maggio».

Abbassò lo sguardo sul suo piatto, arrossendo. «Tua madre verrà per Natale?».

«Sì, certo» risposi, tentando di capire dove volesse andare a parare con le sue domande.

«Ma ci piacerebbe passere anche del tempo con te, sempre per Natale, Charlie, sempre se va bene» disse Edward, prendendo la parola, «inoltre, se ci dovessero essere altre ricorrenze, siamo ben disposti a passarle in famiglia».

Mio padre parve illuminarsi.

Edward mi rivolse un sorriso furbo.

«Ecco, vedete, fra due giorni è Halloween, e io finalmente toglierò questa dannata trappola mortale» disse, riferendosi al suo gesso «Al centro della comunità tutti si raccoglieranno, anche i miei colleghi, con le loro famiglie, per festeggiarlo» iniziò a grattarsi la poca peluria che ancora rimaneva sulla testa «Beh, mi chiedevo se… vi facesse piacere venirci» borbottò imbarazzato.

Fissai Edward, che aveva un bel sorriso incoraggiante sulle labbra, così mi affrettai ad accettare. «Ma certo papà, con immenso piacere!» dissi contenta, sollevandomi dalla sedia e andando a baciarlo sulla guancia.

Lui s’irrigidì, strofinandosi le mani sui pantaloni, arrabattandosi per recuperare le sue stampelle e dirigersi verso la Tv.

Sorrisi a Edward, che, senza farsi vedere, mi fu in un attimo accanto, prendendomi per la vita.

«Ti amo».

«Anch’io».

   
 
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