Rimasi interdetta, con la bocca
aperta e le gambe
piantate sul terreno. La mano posata sulla portiera ancora aperta.
«Alice»
deglutii «Dove. Mi. Hai. Portata?».
«Bellissimo, non
è così?» disse indicando
l’immenso e
coloratissimo edificio, posto su uno dei lati del parco commerciale di
Seattle.
«Questo è il “Mom
& Baby Planet”! Il più fornito
centro commerciale dello stato di Washington e della West Coast
che vende tutto quello che può servire ad una donna incinta
e al suo bambino!
Non è meraviglioso?!» spiegò, come se
stesse elogiando l’immensa bellezza di
un’opera d’arte.
La fissai eloquente.
La sua espressione, sul piccolo
visino, divenne secca
e dura, nulla a che vedere con quella radiosa che aveva fino a pochi
istanti
prima. «Oh, senti. Non fare storie! Ti ho anche concesso di
portarti dietro
Edward!».
Lui mi venne accanto, circondandomi
le spalle con un
braccio e baciandomi la fronte. «Ti prego di non parlare di
me come se fossi un
cagnolino» fece, con una punta di risentimento.
«Alice! Ma non dovevamo
venire qui! Non erano questi i
patti» la sgridai con disappunto.
Si sentì la risata
cristallina di Rosalie, appena
scesa dall’auto. «Credi forse che ti avrebbe
concesso di andare in quel
negozietto quattro per quattro di Port Angeles?».
«E va bene»
concessi, considerando che non ero
dell’umore adatto per litigare. Quella mattina mi ero
miracolosamente svegliata
senza alcun senso di nausea, ma appena l’avevo comunicato a
Edward, Alice e
Rosalie erano piombate in casa col chiaro intento di trascinarmi a fare
shopping. E come si dice? “Via il dente via il
dolore”. Anche perché presto
avrei avuto reali problemi con i jeans troppo stretti…
«Su, su, muoversi,
veloci! Non c’è un istante da
perdere, ci sono così tante cose da acquistare! Seguitemi e
non cedete il
passo!». Alice ci guidava come un cicerone fra i grandi
corridoi colorati con stucchevoli
colori pastello e intrisi di profumi dolciastri a base di vaniglia,
fragola, e
zucchero filato. Non mi sarei affatto stupita se la nausea fosse
tornata.
«Allora, bisogna dare un
ordine e una priorità!»
cominciò, gesticolando per aria «io direi di
cominciare a pensare e comprare in
rosa!».
Se Edward non mi avesse trattenuta
sarei sicuramente
andata sbattere contro Rosalie, improvvisamente piantata con i piedi
saldamente
a terra. «Rosa? Alice, ti
prego, ne
abbiamo discusso. Non vorrai fare un intero guardaroba rosa alla
bambina!?».
È vero che ne abbiamo
discusso, e penso fossimo
d’accordo che dovevamo convincere la bimba di essere una
femminuccia, non è
così?».
Mi voltai verso mio marito, con
un’occhiata molto
eloquente. Quella non era la prima discussione che avveniva fra Rosalie
e Alice
sulla bambina, nonché su me, e di solito si protraevano per
parecchio tempo.
Lui mi sorrise, ignorando e sue
sorelle e posando una
mano sulla mia pancia. «Come sta la nostra
piccolina?».
Sorrisi anch’io,
chiudendo gli occhi e facendo
scivolare la sua mano appena sotto la mia maglietta. Sentii
l’apprezzamento
provenire dalla bambina; quel piccolo, dolce, pezzettino di cioccolata
sospeso
in un dolce latte. «È contenta. Come sempre in
questo periodo» dissi felice,
aprendo gli occhi.
«Direi che dovremmo
mettere fine alla discussione se
vogliamo tornare a casa entro stasera».
«Già».
Misi due dita in bocca, voltandomi
determinata verso
le mie sorelle, che stavano continuando a discutere, ed emettendo un
fischio
acuto e deciso.
Si zittirono in contemporanea,
voltandosi verso di me orripilate.
«Ha fischiato?».
«No, dico, ho sentito
bene?».
«Una donna incinta, la
grazia e la tenerezza fatte
persona…».
«…ha
fischiato».
Sollevai i palmi.
«Sentite, prima che facciate i
vostri piani su cosa dovete comprare prima o dopo, ecc, ecc…
Tenete ben
presente l’unica mia piccola richiesta» dissi,
fissando Alice.
I suoi occhi divennero per un
istante neri e lontani,
poi si riscosse, con un’espressione felice.
«Perfetto!» esclamò, ricominciando
a camminare a passo sostenuto. «Allora, dicevamo, ci vuole
rapidità. Dobbiamo
comprare di tutto. Dagli scalda-latte, ai passeggini, ai vestitini,
alle pancerine, ai
giocattoli…».
«Non dobbiamo mica
comprare tutto oggi» dissi
divertita, stringendomi a Edward.
Rosalie e Alice risero
contemporaneamente. «No,
infatti, questo è solo l’inizio».
Alzai gli occhi al cielo.
«Stop!»
esclamò Alice, voltandosi con una mezza
piroetta verso di noi. «Ora, io e Rosalie, andiamo a prendere
i cataloghi, là,
e là» disse, indicando due punti alle nostre
spalle, «in modo da pianificare un
piano rapido e
efficiente. Voi due qua e qua»
continuò, facendo due mezzi archi con le braccia
«comincerete con le basi»
disse, con un ghigno sospetto in
volto.
Non feci in tempo a chiedere
spiegazioni che mi mise a
tacere con un gesto secco. Schioccò le dita due volte.
«Nicole!».
Immediatamente una commessa con una
paralisi-sorriso-facciale in volto, vestita con una salopette arancione
e una
maglietta a righe vede pastello, si presentò al nostro
cospetto, come un fungo
spuntato in mezzo alla pioggia.
«Occupati di
loro» ordinò Alice, prima di scomparire
con Rosalie al suo seguito. Non mi domandai come facesse Alice a
conoscere la
commessa di un negozio del “Mom
& Baby
qualcosa”, mi sarebbe cosato solo un inutile sforzo
mentale e tanto mal di
testa.
«Buongiorno e benvenuti
al negozio di intimissimi per
mamme» si presentò zuccherosa.
Strizzai gli occhi, reprimendo un
violento moto di
rossore e l’istinto di strangolare mia sorella.
«Allora, cara
mammina!» esclamò, posando le mani calde
sulla mia pancia.
In quel momento pensai seriamente
che di essere
provvista di un’aura dorata di luccichio. Era come se in un
istante, per lei,
nella stanza fossi esistita solo io. Che
cara! Pensai sarcastica.
«È piccina
questa pancia, non si vede quasi! A che
settimana sei?» chiese sbattendo le ciglia contro i suoi
occhi truccati.
Ovviamente, color pastello, s’intende.
Sembrava, dopo tutto, una ragazza
dolce, e io avevo
solo voglia di svagarmi un po’, e soprattutto non pensare che
mi trovavo,
insieme a Edward, in un negozio di intimo. «Beh, è
ancora un po’ presto…»
dissi, imbarazzata per i suoi modi così confidenziali,
«sono solo alla
dodicesima».
Si voltò, come se avesse
appena saputo dell’ascesa di
un nuovo messia, fugacemente verso Edward, e poi verso me, con lo
stesso
sorriso paralizzato. Poi, nuovamente, sostando molto
a lungo su Edward. Il mio luccichio era improvvisamente
scomparso, spostandosi su di lui. «Lei è il
fratello minore?» chiese trasognata,
sbattendo vigorosamente le ciglia.
Primo. Perché fratello?
Secondo. Perché minore?
Terzo. Perché
ha dato del lei a Edward quando poi
a
me a messo le mani sulla pancia?! Alzai gli occhi al cielo.
«È mio marito» dissi,
divertita.
Edward le sorrise gentilmente,
scostando le sue mani,
che ancora giacevano inerti sulla mia pancia, e accarezzandola.
«La bambina
nascerà a maggio».
Nicole, non diede nessun segno di
ripresa, anzi, sentendo la
voce di Edward si sciolse ancor di più, facendo aumentare la
mia ilarità. Infine
si defilò con un’espressione confusa, dicendoci
che
sarebbe tornata subito.
Non appena fu via scoppiai in una
fragorosa risata.
«Oddio, Edward! L’hai irretita con uno sguardo!
Sembrava non avesse mai visto
un uomo in vita sua» sghignazzai.
«Povera
ragazza» fece, contenendo un sorriso. Poi si
voltò verso di me, con aria di rimprovero. «Dovevi
per forza dirle “È mio
marito”» fece, imitando la mia voce
e marcando eccessivamente l’aggettivo possessivo.
«Ehi, mai mettersi contro
una donna incinta! E poi
l’hai sentita anche tu, no?! “Lei,
è
il fratello, minore”!».
Scoppiammo a ridere insieme.
Quando tornò, sembrava
essere ritornata normale, e tutte
le sue attenzioni
furono nuovamente canalizzate su me e la mia pancia. «Allora,
partiamo dalla
cosa più semplice, i reggiseni».
Arrossi, mordicchiandomi il labbro.
«Si deve tenere conto di
un certo aumento di taglia,
ma prima mi deve dire quale portava prima».
Farfugliai qualcosa, rossa come un
peperone, inveendo
mentalmente contro Alice e Rosalie.
«Una seconda»
rispose Edward al mio posto, togliendomi
dall’imbarazzo. Poi, quando la commessa fu distratta per
prendere dei modelli
da mostrarmi, si avvicinò al mio orecchio, stringendomi da
dietro, e disse «una
misura perfetta, una coppa di champagne».
«Edward»
sussurrai, fintamente indignata,
ridacchiando.
Finalmente, prima che ci potessimo
perdere fra
reggiseno con coppe e sostegni regolabili, anallergici, antibatterici,
con
pizzi e diversi colori, Rosalie e Alice tornarono da noi. Con loro
scegliere fu
molto più facile data l’esperienza in materia.
Edward aveva preferito rimanere in
silenzio, almeno
finché non venne il momento di scegliere le pancerine
e intervenne apprensivamente per non prenderne di troppo strette,
considerando
i problemi che c’erano stati all’inizio di
gravidanza.
Tentavo di non farmi trascinare
troppo da Rosalie e
Alice, lasciando nella maggior parte dei casi che scegliessero per me
quello
che era più giusto. Alice tenne conto della mia piccola ma
decisa richiesta e
poté sbizzarrirsi per il resto, comprandomi un intero
guardaroba di vestiti. Io
preferivo rimanere un po’ indietro, insieme a Edward, godendo
del contatto con
lui e con mia figlia.
Guardavo le donne, che mi passavano
accanto, molte
delle quali con ingombranti pancioni, accompagnate da un delizioso
clima
familiare.
«Isabella
Swan».
Mi raggelai, appena di fronte ad un
ingresso che
comunicava con un altro edifico del parco commerciale. Avevo sentito
quella
voce così poche volte… e… non mi sarei
affatto aspettata di sentirla nuovamente
in quelle circostanze. Vi voltai, stupita, fissando gli occhietti scuri
del
professor Danbaster, il
professore che aveva strepitosamente
valutato il mio dipinto de “
«La trovo in ottima
forma, non è così?» chiese
fissandomi con un sorriso sardonico, osservando poi, da sopra gli
occhialetti,
un punto accanto alla mia spalla.
Edward, notando che mi ero fermata,
stava ritornano
indietro.
Notai che i due si fissavano in
silenzio, così,
dissipando il mio rossore e la mia sorpresa, mi accinsi a presentarli.
«Mmm…
Edward, il mio professore di disegno creativo, Danbaster.
Professore, lui è Edward» deglutii
«m-mio… miomarito».
Il ghigno del professore si
allungò ancor di più, ma,
stranamente, non face alcun commento su quel punto o sulla nostra
giovane età.
Lanciò una strana occhiata astuta a Edward e gli tese le
dita sottili. «Mi
chiami pure Philip. Anche tu, Isabella».
Non ebbi il coraggio, nel disagio
naturale in cui mi
trovavo, di correggerlo e dirgli di chiamarmi Bella. Non ero abituata a
condividere quel genere di cose con Edward. Non che non volessi, ma,
semplicemente, avevo imparato a viverle in maniera più
riservata.
Lui fu molto cortese.
«È un piacere conoscerla Philip,
mia moglie mi ha parlato molto di lei».
«Già,
già» fece il professore, saettando con lo
sguardo fra me e Edward. «Spero di vederla quanto prima in
università, la sua
assenza si è fatta sentire».
Arrossi ancor di più,
scoccando un’occhiatina a
Edward. «S-sì. La… la prossima
settimana» mormorai, abbassando poi lo sguardo.
«Bene, buona giornata
dunque» si congedò, salutando.
«Buona
giornata» salutai, quando fu troppo lontano per
sentirmi. Mi portai una mano sulla pancia, continuando a tenere lo
sguardo
lontano, verso il punto in cui il professore era scomparso. Sorrisi,
contenta,
ricordandomi che fra una settimana avrei ripreso la mia carriera
universitaria.
«Edward, penso di avere molta fame» constatai,
ancora sovrappensiero.
Dato che Alice e Rosalie erano
scomparse da qualche
parte a cercare i migliori lenzuolini antibatterici-ipoallegenici-antisfregamento per la bambina,
rimasi seduta sulla
panchina, con la promessa che non mi sarei cacciata nei guai, mentre
lui andava
a prendermi qualcosa da mangiare. Sarei sempre potuta andare con lui,
ma avevo
il terrore che la tavola calda facesse insorgere nuovamente la nausea,
così
rimasi buona, buona a coccolare la bimba.
«Vedrai che ti
piacerà l’università. È vero
che non
potremmo stare con papà tutto il tempo, ma conosceremo tante
altre persone.
Anche il professor Philip, sai» mormorai, sfregando il ventre
con movimenti
circolari. Quel professore aveva un non so che di strano, e mi aveva
lasciato
un presentimento… particolare.
Probabilmente era solo
l’effetto che mi faceva la
bambina in risposta ai miei sentimenti.
Alzai il capo, in cerca di Edward.
Di solito era più
veloce. Repressi il moto d’angoscia. Quello, ne ero sicura,
era opera di quella
monella della bambina. Figuriamoci se potevo estendere il mio istinto
materno su
di lui!
Improvvisamente i miei occhi si
posarono su una
piccola vetrina, illuminata da alcune luci gialline e con le tende
arancioni.
Mi sollevai come catturata da quello che vedevo, avvicinandomi
lentamente. I
miei occhi erano fissi sull’oggetto posto esattamente al
certo di essa; mi
accorsi che avevo mosso una mano per sfiorarlo quando le mie dita
incontrarono
il freddo del doppio vetro.
«Bella». Sentii
la voce di Edward appena alle mie
spalle, ma non mi voltai, rapita com’ero da quel minuscolo
oggetto e dalle
immagini che mi aveva evocato.
Erano dei piccoli calzini bianchi
ricamati. Piccoli…
tanto, tanto piccoli. Vidi la
soffice pelle rosea di
quei minuscoli piedini, grandi quanto metà di un pollice.
Vidi dieci perfette ditine
tonde, ognuna più piccola dell’altra; dieci
cerchietti soffici e morbidi da mordere che si agitavano a destra e a
manca con
la magnifica scoordinazione degna di ogni neonato.
Sentii la mano grande e perfetta di
Edward posarsi
sulla mia, poggiata sulla vetrina.
«Penso che la nostra
bambina avrà piedini piccolini
come quelli» mormorai, ancora stregata da quello che vedevo.
Sbattei le
palpebre, cancellando le piccole goccioline che si erano formate.
«Sono
bellissimi».
Le sue labbra, in un sorriso, si
posarono sulla mia
guancia. «Lo penso anch’io» disse,
posando l’altra mano gentilmente sulla mia
pancia.
Dieci minuti dopo girovagavamo per
il centro
commerciale con un pacchetto rosa con un fiocco, contente
l’oggettino che aveva
fatto scattare la mia fantasia e l’ammirazione di Edward.
«Grazie di esserti
ricordato le caramelle» dissi,
addentandone un’altra.
Mi sorrise, guardandomi con amore.
«Non mangiarne
troppe».
Puntai un dito sul suo petto.
«Hai paura che io possa
ingrassare? Dì la verità» lo stuzzicai.
Alzò gli occhi al cielo.
«Non essere sciocca Bella,
sei magrissima».
«Mmm»
mi piantai con i pedi
a terra, avvicinandomi a lui. «Mi daresti un
bacio?» chiesi, accarezzandogli il
petto.
Sorrise, avvicinando le sue labbra
alle mie. Da quando
ci eravamo amati, nuovamente, anche fisicamente, non c’era
più stata occasione,
per un motivo o l’altro, di rifarlo. Non che ne sentissi la
così impellente
necessità… Beh, forse solo un po’.
«Edward, Bella, ma dove
vi eravate cacciati?».
Anche se non erano ancora
pienamente soddisfatte, Alice
e Rosalie decisero che potevamo tornare a casa, avevano comprato gran
parte dei
prodotti più urgenti e
preso
appuntamenti e cataloghi per gli altri.
Posai una mano sul finestrino
dell’auto, distogliendo
lo sguardo dal paesaggio, che, velocissimo, correva accanto a noi.
«Alice, te
ne prego, rallenta. Credo che alla bambina non piaccia la
velocità, non vorrai
farmi rimettere tutto il pranzo?».
Edward, seduto sul sedile
posteriore della Porsche, accanto a
me, si chinò fino a
posare delicatamente l’orecchio sulla pancia.
«Vorrei sentire anch’io le sue
emozioni».
Gli accarezzai i capelli,
sporgendomi indietro con la
schiena a lasciando che mi accarezzasse. «Puoi sempre sentire
il suo cuoricino».
Lui mi sorrise.
«Sì. Batte velocissimo» disse
contento. Nei ultimi
giorni il suono era diventato più
forte e riusciva a sentirlo con minore difficoltà.
Sorrisi, voltandomi con il capo
verso il finestrino e
osservando il tranquillo fluire del paesaggio.
«Alice» chiamai, osservando le
sempre più vicine abitazioni di Forks. «Ci lasci
da mio padre?».
Accompagnò me e Edward,
di fronte a casa, sul
vialetto, andando con Rose a sistemare tutti i nuovi acquisti a casa
nostra.
Non lo vedevo da qualche giorno, e
nonostante la mia
famiglia vampira spesso andasse da lui ad aiutarlo dopo il suo
infortunio mi
dispiaceva non riuscire a fare qualcosa io stessa.
«Bells!».
La sua espressione
gioiosa fu molto piacevole. Aveva tolto i cerotti sulla fronte e presto
sarebbe
arrivato il momento di togliere il gesso. Quando si trattava di riposo
poteva
essere più insofferente di me.
«Papà»
lo salutai, abbracciandolo goffamente, ma con
sincero affetto.
Quando ci separammo era
completamente arrossito e
potei giurare di scorgere ai lati degli occhi, fra quelle rughe che ne
dichiaravano l’età, delle minuscole goccioline.
«Non vi aspettavo fino a
domani. Come mai qui oggi?» chiese, osservando prima me e poi
Edward.
Lui mi strinse da dietro,
accarezzandomi i capelli.
«Bella voleva controllare che avessi tutto ciò di
cui hai bisogno. Ci fai
entrare? Fa freddo» disse, mimando un brivido.
Sorrisi. Sempre il solito.
«Certo, certo, entrate
pure» fece Charlie,
riprendendosi dallo stupore per quella visita inaspettata e cedendoci
il passo.
Appena dentro osservai la casa.
Tutto era in ordine
grazie all’aiuto di Alice che era stata da lui appena due
giorni prima, nonostante
le sue proteste. Eppure, mi sembrava che a quella casa mancasse il
calore di
quando ci abitavo anch’io. Mi sembrava che tutto, tranne la
poltroncina di
fronte alla Tv e il piccolo tavolino su cui venivano solitamente posate
le
birre, fosse inutilizzato. In cucina notai la lavatrice, carica di
vestiti e la
pila di piatti ancora da lavare nel lavandino. Come aveva potuto creare
quel
disordine in soli due giorni?
«Papà»
lo rimproverai, «perché non mi hai detto che
avevi bisogno di aiuto? Devi lasciarti aiutare. Oh, accidenti. Ti
prometto che
adesso che sto meglio verrò più spesso a darti
una mano. Devo dare una
rinfrescata e soprattutto» dissi schifata, notando
l’immensa quantità di pesce
surgelato e cibo in scatola nel frigo «cucinarti qualcosa di
commestibile!».
Non volli sentire ragioni e mi
tolsi immediatamente
cappotto e sciarpa, rimboccandomi le maniche mettendomi al lavoro.
Lasciai a
Edward e a mio padre, a mio rischio e pericolo, il compito di fare la
spesa e cucinare
una cena degna di tale nome, in modo che potessimo onorare
l’invito di mio
padre di mangiare da lui.
Sapevo che accettare il mio aiuto
era molto più facile
che accettare quello dei Cullen,
che in fondo, per
quanto stesse imparando a volergli bene, erano per lui degli estranei.
Cominciai
dal piano inferiore, aprendo tutti i lustri delle finestre e mi misi a
pulire,
lavare e spolverare, sgranchendo un po’ i miei muscoli che da
tanto tempo non
lavoravano. Non ero mai stata una maniaca delle pulizie, ma solitamente
me ne
ero occupata sia quando vivevo con mia madre che quando ero con mio
padre.
Mi rendeva felice prendermi cura di
lui.
«Bella, dai a
me» disse Edward prendendo la cesta con
i panni sporchi dalle mie mani, prima che potessi iniziare a scendere
le scale
rischiando di rompermi l’osso del collo.
«Dov’è
Charlie?» chiesi sottovoce, guardando di sotto.
«In cucina, sta tagliando
le carote».
Sgranai gli occhi.
«L’hai lasciato solo in cucina?».
Lui scese qualche gradino, con
estrema disinvoltura,
nonostante l’ingombro dei vestiti. «Vado da lui, tu
hai finito?».
«Quasi, rimane solo la
mia camera. Non penso che la
usi mai, ma la voglio comunque pulire. Magari la vorrà usare
per un altro
scopo». Feci spallucce.
«Va bene, fra
mezz’ora è pronto, non fare tardi».
Sorrisi, vedendolo scomparire
dietro la porta del
soggiorno, portandomi una mano alla pancia. Chiusi gli occhi quando
sentii un
forte calore sprigionarsi dentro di me. Presi un grosso respiro. Non
era mai
stata così serena.
Mi voltai verso la porta della mia
camera, lasciando
che i ricordi tornassero alla mente. Pensai al dolore e alla malinconia
che
dovevo avergli causato e quanto, anche lui, dovesse aver sofferto il
mio allontanamento.
Posai le dita, leggere, sul
copriletto, pensando a
quando Edward entrava di soppiatto in camera per dormire con me.
Sfiorai il
comodino, la pesante scrivania, il lento e rumoroso computer
preistorico. Non
avrei mai immaginato che rivedere la mia stanza mi potesse dare tutte
quelle
sensazioni.
Casualmente lo sguardo si
posò sull’armadio di legno
sbiadito. Sentii il cuore battere più veloce, ma solo dopo
qualche istante
capii perché. Vidi, come marchiate a fuoco, le impronte di
due mani calde sulle
ante. Ci doveva essere un vuoto in quell’armadio. Seconda
gruccia, la maglietta
verde. Piegati sulla terza pila, in cima, un paio di jeans scoloriti.
I vestiti che indossavo quando
Jacob era quasi
riuscito a violentarmi. Quelli che lui stesso mi aveva infilato, dopo
avermi
drogata. Che lui stesso era venuto a prendere da
quell’armadio.
Tutto mi pareva come un lontano
ricordo sbiadito, come
se in realtà dentro di me pensassi che fosse stato un sogno.
La mia razionalità
diceva no, è il contrario, ma lottava anche contro
sé stessa per affermare che
non era realmente successo.
Eppure il cuore batteva, batteva forte
come se volesse
uscire dal petto. E sentivo le guance fredde, bianche, e una forte
angoscia
stringermi lo stomaco.
La parte di me che voleva
dimostrare la realtà mi fece
muovere verso l’armadio, mentre sentivo la paura crescere
esponenzialmente.
Posai, con terrore, le mani sul
legno ruvido, pensando
che anche Jacob doveva averlo fatto.
Aprii piano, in un cigolio,
entrambi gli sportelli.
Vuoto.
C’era veramente il vuoto.
Mi lasciai scivolare a terra,
ansante.
Sorprendentemente, la consapevolezza della realtà del
passato non faceva così
paura. Posai una mano sul ventre. La bambina era riuscita a ridarmi la
vita e
una ragione per vivere, era riuscita e farmi stare bene e farmi
riemergere
dall’oblio.
Avevo la sua vita nella mia, e
crescendo mi animava
sempre più, ma quando sarebbe nata?
Avrei avuto lei, e Edward. Non
paura. No, non avrei
potuto aver paura e pensare a quell’eventualità
era un mio stupido problema che
toglieva felicità alla mia vita perfetta.
Mi asciugai le lacrime che,
servendosi della grande
quantità di tensione accumulata in pochi secondi, erano
riuscite a farsi strada
sulle mie guance. Sorrisi, sollevandomi in piedi e chiudendo le ante,
insieme
ai tristi ricordi del passato.
«Bella?». Mi
voltai, vedendo Edward fissarmi
preoccupato. «Tutto bene?» chiese, perplesso,
osservando l’autenticità del mio
sorriso.
Feci qualche passo fino a
stringermi fra le sue
braccia. «Sì, tutto bene» dissi
convinta.
Mi accarezzò i capelli.
«Ricordi quando entravi
in questa camera senza che
papà se ne accorgesse?» chiesi defilandomi dalla
sua presa e tuffandomi sul
letto.
Lui mi sorrise, cauto.
«Certo che ricordo».
Accarezzai il copriletto.
«Vieni qui» lo chiamai
maliziosa, tirandolo per la camicia.
Lui mi lasciò fare,
finché, audacemente, non incollai
con passione le mie labbra alle sue. Poteva, pur essendo immutabile,
diventare
ogni giorno sempre più bello?
Si staccò, ansante,
allontanando il mio volto con le
mani. «Bella, dobbiamo andare, la cena è
pronta».
Mi rituffai sulle sue labbra.
«Voglio stare con te»
mormorai, baciandogli e mordicchiandogli con foga la mascella
squadrata.
Lui mi accarezzò i
capelli. «Bella, c’è tuo padre di
sotto».
«Chi se ne importa. Sono
incinta, credi che non sappia
quello che facciamo?».
«Bella».
«Ha una gamba rotta, non
verrà mai fin quassù».
«Bella!».
Sbuffai, staccandomi da lui.
«Okay, okay, hai
ragione».
La cena, fortunatamente, fu
commestibile, e fu non
poca cosa considerando che era stata cucinata da mio padre e un
vampiro. Fu
molto piacevole chiacchierare con mio padre, e per fortuna fu
abbastanza
distratto da non notare Edward che passava la maggior parte del suo
cibo a me.
«Quindi avete comprato
tutto?».
«Beh sì, in
pratica sì, oggi siamo stati a Seattle e
Alice e Rosalie non si sono risparmiate, come al solito»
dissi con un sorriso.
Mio padre sorrise, a disagio. Poi
si bloccò, come se
volesse dirmi qualcosa. Saettò con lo sguardo sul tavolo,
fino ad incontrare le
patate al forno. «Ne vuoi ancora? Non mi sembra che tu abbia
mangiato molto, si
dovrebbe mangiare di più nel… tuo
stato,
no?».
Arrossii.
«Non ti preoccupare
Charlie, Bella ha mangiato
abbastanza per essere quasi nel secondo trimestre» intervenne
Edward, facendomi
l’occhiolino.
«Oh…
capisco… e quando nascerà la… creatura?» farfugliò
a bassa voce.
«L’otto
maggio».
Abbassò lo sguardo sul
suo piatto, arrossendo. «Tua
madre verrà per Natale?».
«Sì,
certo» risposi, tentando di capire dove volesse
andare a parare con le sue domande.
«Ma ci piacerebbe passere
anche del tempo con te,
sempre per Natale, Charlie, sempre se va bene» disse Edward,
prendendo la
parola, «inoltre, se ci dovessero essere altre ricorrenze,
siamo ben disposti a
passarle in famiglia».
Mio padre parve illuminarsi.
Edward mi rivolse un sorriso furbo.
«Ecco, vedete, fra due
giorni è Halloween, e io
finalmente toglierò questa dannata trappola
mortale» disse, riferendosi al suo
gesso «Al centro della comunità tutti si
raccoglieranno, anche i miei colleghi,
con le loro famiglie, per festeggiarlo» iniziò a
grattarsi la poca peluria che
ancora rimaneva sulla testa «Beh, mi chiedevo se…
vi facesse piacere venirci»
borbottò imbarazzato.
Fissai Edward, che aveva un bel
sorriso incoraggiante
sulle labbra, così mi affrettai ad accettare. «Ma
certo papà, con immenso
piacere!» dissi contenta, sollevandomi dalla sedia e andando
a baciarlo sulla
guancia.
Lui
s’irrigidì, strofinandosi le mani sui pantaloni,
arrabattandosi per recuperare le sue stampelle e dirigersi verso
Sorrisi a Edward, che, senza farsi
vedere, mi fu in un
attimo accanto, prendendomi per la vita.
«Ti amo».
«Anch’io».