“Non!
Je ne regrette…Non!
Je ne regrette rien!”
Cantò
sottovoce Haruka tentando d’imitare la dolente cadenza
di Edith Piaf.
Chiaramente non
era quello il momento di darsi ai
citazionismi, tantomeno ai classici della musica francese. Tuttavia, se
pensava
alla posizione imbarazzante cui si trovava, sentiva crescere rigogliosa
in sé la
necessità d’una giustificazione cui appigliarsi.
Di più, se si soffermava a
riflettere su quel che l’aspettava, diventava un bisogno
addirittura
impellente.
In ogni caso,
pur sentendosi ridicola, non era sua
intenzione recedere, né muoversi di lì, per cui
trattenne il fiato e rimase
immobile, in attesa.
“Perché
sono
costretta a questo? Perché?!”
Si chiese in
preda all’esasperazione e, mai come in quel
momento, avvertii d’essere
sull’orlo
delle lacrime. Lei, quella tutta d’un pezzo, proprio lei,
quella che non
piangeva mai.
Pure la
vitalità del suo pensiero ancora una volta la
salvò poiché,
al culmine della crisi, come in una sorta di catarsi, dal nirvana delle
cazzate
giunse su di lei, calando come puro spirito, una risposta ad
illuminarla.
Conosceva pochi
proverbi per la verità, ma per sua fortuna non
ignorava affatto quello che voleva in amore e guerra tutto concesso.
Per cui, pensò
per sillogismo, cedere sarebbe equivalso a perdere sia la guerra che
l’amore. Giusto?
Giustissimo,
tanto che decise seduta stante di riprendere in
mano le redini della propria vita e non soggiacere all’altrui
volontà.
“Corvo
Rosso non avrai il mio scalpo!”
Esclamò
invitta, quindi uscì dal bagno e, sprezzante del
pericolo, nonché del completo fresco di stiratura che
l’aspettava sul letto,
percorse il corridoio silenziosamente.
Ora viene il
difficile, pensò.
Già,
si trattava d’individuare da dove potesse arrivare il
suo attacco a sorpresa. Concentrata valutò le alternative:
alla sua destra
c’era la svolta che portava in cucina, a sinistra le camere
da letto, di fronte
la sala. Cosa avrebbe scelto Michiru?
Lo ignorava e
sentendo crescere la tensione si appiattì fino
a diventare tutt’uno con la rientranza della parete. Non
c’era da scherzare, anche
il minimo errore poteva esserle fatale adesso, ché tra le
mura del loro nido d’amore
aveva avuto luogo un conflitto tremendo, culminante nella spietata
caccia
all’uomo in corso. O per meglio dire, alla donna. Ma
perché star a
sottilizzare?
Tesoooooooro,
dove ti sei cacciata?
Con
raccapriccio Haruka udì il temuto richiamo farsi
più
vicino. Quella non era che l’ouverture di ciò che
poteva essere la sua caduta
dalla grazia. Trepidante ne ascoltò il soave timbro,
tentando nel frattempo di
cogliere l’eco dei passi felpati che si approssimavano.
Quella maledetta furbastra
di Michiru aveva abbandonato il suo precedente punto
d’appostamento e ora
girava a cerchi sempre più stretti in cerca di lei.
Lei, non
più amazzone, ma inerme preda.
“A
certe cose non ci si abitua facilmente.”
Pensò
risentita, ma non doveva distrarsi, poiché il suo rifugio
provvisorio non le
consentiva seguire le
traiettorie né il progredire della sua aguzzina. In ogni
caso comunque era
palese il tono sinistro che quell’appello grondante dolcezza
celava. Il
medesimo, pensò attraversata da un fremito di terrore, che
doveva avere la
vecchina di Hansel e Gretel.
Pure doveva
superare l’impasse di quella situazione precaria,
non poteva trattenersi
troppo a lungo
nello stesso luogo, perciò, scostando appena, appena il capo
dalla parete, si
diede a scrutare il pavimento fin dove le riuscì di
allungare il collo. Tutto
taceva e nulla sembrava cambiato, ma se lo sentiva nelle ossa, stava
arrivando
a ghermirla.
Sì,
stava dirigendosi dalla sua parte. E non era tanto il sesto
senso a dirglielo, quanto piuttosto l’assoluta convinzione
che, trattandosi di
stanarla, Michiru
si sarebbe dimostrata più
efficace di un cane da tartufi.
Creare una
diversione l’avrebbe senz’altro aiutata, quindi
si tolse una pantofola e la lanciò in direzione opposta alla
sua. Una mossa
efficace questa, in quanto, appena scorse la silhouette
dell’altra far capolino
alla curva del corridoio, con uno scatto degno del suo passato
d’atleta, s’involò
nella direzione opposta, ficcandosi nella prima stanza disponibile.
“Salva!”
Fece
tutt’allegra nascondendosi dietro ad un mobile e,
estremamente paga di sé stessa, prese a gloriarsi
perché la sua dolce metà,
essendo costretta a perlustrare a palmo a palmo ogni angolo, non aveva
potuto
avere il tempo d’accorgersi della sua scaltra manovra.
Purtroppo per
lei però si rese conto fin troppo presto
d’aver fatto una pessima scelta, perché, miseria
infame, aveva riparato
nell’unica stanza della casa sprovvista di
porte comunicanti.
“Porca
vacca!”
Pensò
mentre il sorriso di trionfo le appassiva sulle labbra
per lasciare spazio alla costernazione. Aveva commesso un errore
madornale e ormai
di vie di fuga non gliene rimaneva che una e una sola. E il peggio era
che
sembrava Michiru si stesse dirigendo esattamente dalla sua parte.
“A
meno che…”
Mormorò
voltandosi a fissare intensamente le portefinestre
che davano sul terrazzo. Poteva riparare sul loggione vero, fuori
però c’erano 4
gradi e addosso non aveva che l’accappatoio. Pure non
c’era tempo per
gingillarsi e lei non poteva assolutamente arrendersi. Non poteva
accidenti!
“Anzi”,
si convinse senza darsi il tempo di ripensarci e
lasciando scorrere silenziosamente l’anta, “il
ballatoio ha un valore aggiunto.
Gira tutt’intorno all’appartamento e mi
da’ la possibilità di osservarne le
mosse non vista. E prevenire è meglio che curare!”
Ne concluse
determinata mentre un freddo cane l’accoglieva.
Involontariamente
rabbrividì, rattrappendosi sotto l’esiguo
indumento e accomodandoselo più
strettamente possibile addosso, tentò
d’incoraggiarsi in qualche modo.
“In
fondo, hai visto mai un colpo di fortuna? Semmai
dovessi aver freddo, un varco lo
troverò per rientrare.”
In effetti
Haruka fidava sul dettaglio che in genere
entrambe avevano cura di lasciare uno spiraglio aperto per consentire
alla
gatta di entrare e uscire. Peccato però ignorasse che la sua
ancora di salvezza
dormiva acciambellata sul divano.
Andiamo Haruka,
non
fare l’idiota!
Vociò
Michiru da un punto equidistante, più o meno,
stimò Haruka
mentre il venticello del nord le solleticava le pudenda, in
prossimità della
cucina. E infatti non si sbagliava, tant’è che
quando si allungò cautamente
oltre il vetro della finestra, ebbe tutto l’agio di vederla
mentre cercava di
snidarla da eventuali nascondigli cui avesse potuto riparare.
Spalancò la
dispensa, provò dietro al frigo e persino sotto il tavolo
abbassandosi di
soppiatto ed agitando tra le gambe delle sedie la scopa che aveva in
pugno.
“Ma che
m’ha presa per
un sorcio?”
Si chiese
piccata Haruka mentre, parimenti stizzita, Michiru
si fermava a considerare il da farsi fissando l’orologio alla
parete.
Era quasi ora
di cena, il che voleva dire che cominciavano
ad essere veramente in ritardo e, Haruka lo sapeva perfettamente, se
c’era una cosa
che mandava in bestia la sua dolce metà, era esattamente
quella.
Haruka vieni
fuori
spontaneamente e nessuno si farà del male!
L’urlo
ammonitore fu appunto la conferma dei suoi pensieri,
Michiru era furibonda ed era evidente anche dallo slancio con il quale
aveva
ripreso la caccia. Uno screening a tappeto praticamente e, a tal punto
energico,
che le tulle del suo abito si sollevavano per quanto veloce andava.
Con occhio
critico Haruka ne osservò la mise.
“E’
splendida col turchese.”
Non
poté fare a meno di dirsi intanto che si soffiava sulle
mani completamente
prive di sensibilità.
Inoltre, notò con disappunto, per farle piacere quella
marpiona aveva persino avuto
la faccia tosta di mettersi il pendente che le aveva regalato al suo
ultimo
compleanno.
Particolare
questo che avrebbe potuto farla sentire in colpa
se non fosse stato che sapeva benissimo non l’avesse fatto
per compiacerla. Tutt’altro
casomai, perché quella cura nell’addobbarsi a
festa era diretta ad uno scopo che
con lei aveva a che fare assai poco e per il quale Michiru aveva avuto
persino
l’ardire di dirle cosa doveva mettersi addosso.
“A
me? Manco fossi una poppante!”
Mugugnò
risentita, ruminando disappunto. Niente da fare, non
le andava proprio giù e le era al punto indigesto che,
voltandosi approssimativamente
nella sua direzione e considerando che non l’avrebbe mai
saputo, né avrebbe
potuto deplorarla in proposito, succintamente le fece il gesto
dell’ombrello.
“Tié”,
pensò incattivita, “lo sapevi che non mi andava e
hai
tentato comunque di fregarmi! Ora t’attacchi!”
A questo punto,
avendo espletato questo atto da persona
matura e consapevole, la
sua mossa successiva
fu di strappare dai vasi in fiore una manciata di foglie e ramoscelli,
onde
mimetizzare la sua fin troppo visibile chioma, dopodiché
cominciò ad avanzare
rasente i davanzali progredendo abbassata sui talloni.
Così,
di finestra in finestra, assistette ad un addivieni talmente
senza senso che cominciò
a chiedersi se
per caso Michiru non avesse desistito.
Pensiero questo
che successivamente le fece ipotizzare che
in quel frangente le sue sinapsi si fossero completamente surgelate,
altrimenti
avrebbe capito subito quel che l’altra stava facendo e,
soprattutto, avrebbe
tentato in qualche modo di fermarla.
Ma
tant’è, quando ne afferrò il recondito
scopo era già
troppo tardi.
Infatti Michiru
per prima cosa si diresse all’andito e, una
volta verificato che non se la fosse filata alla chetichella,
giacché scarpe e
soprabito erano al solito posto, aveva provveduto a sprangare
l’uscio intascandone
le chiavi. Poi, sistematicamente, era balzata di camera in camera
aprendone le
porte con un calcio, controllando ogni anfratto e infine bloccandone le
aperture, esattamente come avrebbe fatto un agente della narcotici a
Tijuana.
Peccato le
mancasse un fucile a canne mozze tra le mani,
pensò Haruka assistendo allibita a quella scena, in caso
contrario il quadro
sarebbe stato completo.
Ma aveva poco
da fare l’ironica, lo sapeva, poiché tutto
quello sprangar usci aveva il solo scopo di metterla in trappola e ora
non le
restava che operare una scelta drastica per cavarsi
d’impaccio: o si buttava di
sotto, oppure si rassegnava ad essere presto agguantata e messa di
fronte al
fatto compiuto.
“MAI!”
Esclamò
pronta a combattere fino all’ultimo respiro ma,
quando constatò che l’altra stava attraversando di
gran carriera il salotto e puntava
dritta al terrazzo, non trovò niente di meglio da fare che
nascondersi dietro
al ficus nano. E il peggio fu che, per meglio confondersi con
l'ambiente,
atteggiò pure la posizione di corpo e delle braccia a guisa
in quella che
supponeva essere la forma d’ipotetici arbusti.
Poteva essere
peggio di così?
Si chiese
tremando dal freddo, mentre il suono dei tacchi di
Michiru avanzava fino ad arrestarsi a pochi metri da lei. Ne
seguì un
momentaneo silenzio, interrotto poi dal rumore inequivocabile di un
piede che
batteva impaziente al suolo.
Haruka dovresti
vergognarti!
Si
sentì apostrofare intanto che ancora giocava a fare il
camaleonte con pessimi risultati. Accidenti, forse tutto sommato il
fusto del
ficus non era coprente come aveva immaginato. Che fare adesso? Venirne
fuori
con aria da penitente o sbraitare ancora una volta le proprie
motivazioni?
Chissà,
in ogni caso tentò d’assumere un’aria il
più
dignitosa possibile e si fece avanti, anche se, con le labbra blu, le
foglie
ancora tra i capelli e l’andatura esitante con cui le si
presentò, si rese
conto di non essere esattamente la quintessenza del decoro.
Tra
l’altro, sebbene stesse evitando accuratamente di
guardarla negli occhi, riusciva
comunque
a vederne le braccia conserte e piglio tutt’altro che
amorevole con il quale la
stava affrontando. Non c’era pietà nel suo cuore?
Neanche un poco?
Ora, se vuoi
tornare
dentro, sai cosa devi garantirmi… In caso contrario, giuro,
ti lascio qua fuori
a crepare dal freddo senza neppure una scatola di fiammiferi!
Evidentemente
no, che donna senza misericordia!
A quel punto
che poteva risponderle? Certamente non era
nelle sue intenzioni far la fine della piccola fiammiferaia,
perciò chinando il
capo promise, anche se assai di malavoglia.
Con uno
strattone Michiru se la tirò appresso e in breve si
ritrovò in poltrona, avvolta nel piumone e coi piedi immersi
in una bacinella
nella quale Michiru, bollitore alla mano, continuava a versare acqua
calda.
Naturalmente
non che le cure delle quali stava venendo fatta
oggetto fossero amorevoli, anzi aveva il vago sospetto che il non
essere stata
presa ad unghiate avesse come unica motivazione il fatto che sarebbe
dovuta
essere presentabile di lì a poco.
Rabbrividì
accucciandosi ancor di più sotto la trapunta,
sapeva quel che l’aspettava e, nonostante avesse fatto di
tutto per evitarlo,
infine le toccava comunque.
Poi
sentì la mano dell’altra che le si appoggiava
sulla
fronte e ne scrutò l’espressione preoccupata
sentendo rinascere in sé la
speranza.
“Ce
l’ho?”
Chiese
trepidante augurandosi d’avere un febbrone tale da
riuscire a scampare al capestro.
Michiru
volutamente la lasciò a crogiolarsi in quella pia
illusione per qualche secondo, poi, prendendole il volto tra le mani e
piegandosi fino a trovarsi alla sua stessa altezza, ghignò
malefica.
Non ce
l’hai e ora vai
a vestirti…Ma prima mi spiegheresti una buona volta
perché ogni volta che mia
madre c’invita a cena devi montare tutto sto teatrino?!