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Autore: Mue    31/12/2009    4 recensioni
Quando uno dei concorrenti di una gara clandestina di auto volanti si schianta e finisce al San Mungo senza una gamba, la sua comparsa davanti al Wizengamot sembra inevitabile.
Ma grazie a un celebre avvocato, viene invece spedito a un Magazzino di Disincantamento e Smaltimento Magico per fare otto mesi di lavori socialmente utili.
E qui, in mezzo alle brughiere solitarie di Ilkley Moor, troverà l'occasione per riscattare i suoi peccati e forse, finalmente, perdonare se stesso.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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- Questa storia fa parte della serie 'Policromia' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Capitolo XIII




Da qualche parte, 16 ottobre

La libertà non è una condizione fisica, sociale o morale. E’ qualcosa che risiede nel cuore.
Si può volare selvaggiamente su una Firebolt 3000 ed essere nel contempo rinchiusi in solide gabbie create da se stessi. E si può vivere lavorando ore e ore in una fornace sotterranea tra fiamme incandescenti e sentirsi parte di una libertà assoluta.
Ruben non si era mai sentito oppresso, nemmeno nel lavoro più degradante che gli fosse capitato fare. E anche quando si accasciava grondante di sudore al calore del Fuoco Draconiano nel cuore della notte per smaltire artefatti oscuri, il suo cuore volava libero in alto, fuori, nel cielo. Da lei.
L’aveva amata per tutto quel tempo, in silenzio, discretamente. Si era dato al commercio clandestino per guadagnare più soldi. Aveva lavorato tante notti, al buio, per costruirle un futuro, indifferente ai giudizi della gente.
Quegli stessi giudizi a cui lei si era incatenata così strenuamente, bloccata dalla paura di fare di nuovo una scelta sbagliata, leggendo negli occhi degli altri lo stesso proprio disprezzo di sé. Perché era di questo che lei era prigioniera, più della sua stessa colpa.
Ma Ruben aveva aspettato, sperando che un giorno lei scoprisse che il buio in cui le era stato fatto credere di vivere erano solo gli occhi che le erano stati chiusi, e che le sarebbe bastato aprirli per vedere la luce.
E quando quella notte l’aveva vista uscire da quella macchina, da quell’angolo di oscurità che aveva condiviso con Roger –perché Ruben glielo aveva letto negli occhi: era stata con lui- per un attimo aveva temuto che fosse stata tutta solo un’illusione.
Che lei si fosse davvero spezzata così in profondità che, per quanto lui si sarebbe affacciato dentro di lei, non sarebbe riuscito a raggiungere i frammenti della sua anima, a ricomporli.
Avrebbe potuto salvare Roger Davies. Avrebbe potuto Smaterializzarsi a casa sua e avvisarlo, farlo venire via con loro. Ma nell’amarezza di quel momento l’invidia e la gelosia per aver violato i limiti di lei che Ruben rispettava da anni avevano preso il sopravvento, e si era detto, soddisfatto, che sarebbe stato Roger Davies a pagare il prezzo del futuro che aveva distrutto.
Perché quel futuro, Ruben lo sapeva, gli era sfuggito nel momento stesso in cui avrebbe dovuto realizzarsi. E non era stato solo Davies a portarglielo via. Era stato, ancora una volta, il passato di Cub, che lei non riusciva ancora a lasciarsi indietro, a perdonarsi. Quel maledetto passato che la allontanava da lui.
E capì che non avrebbe mai potuto ottenere ciò che voleva da lei finché non si sarebbe liberata da sola della sua prigione di colpevolezza. Finché non avrebbe ritrovato in sé la forza di tornare a guardare in faccia il mondo senza vergognarsi. Senza paura.
E lo capì quando lei, dopo un pezzo che il cigno di Cho Chang era scomparso, si rialzò da terra, dov’era crollata, e aveva sussurrato: «Devo andare.»
Ruben sapeva dove: lei si riteneva colpevole. E non sarebbe stata in pace con se stessa finché non sarebbe stata convinta di aver scontato tutto, fino alla fine.
Si era diretta alla porta e si era fermata lì, dandogli le spalle.
«Ruben» aveva mormorato, quasi inudibile. «Se da qualche parte c’è davvero un futuro, mi aspetterai lì?»
«Sì.»
Sono anni che ti aspetto, e ti aspetterò ancora, fino a quando, finalmente, mi raggiungerai.

*

«E’ pronto?»
Roger non disse niente. Non c’era proprio niente da dire: chi sarebbe stato pronto a essere processato come unico imputato per un crimine di cui non sapeva nulla fino a pochi giorni prima?
«Onestamente, Finnigan» disse invece che rispondergli, «crede che abbia qualche possibilità di tirarmene fuori?»
Finnigan esitò un momento, poi gli pose una mano sulla spalla. «Io credo alla sua innocenza, Davies.»
Roger sorrise. Non l’avrebbe mai ammesso, ma quelle parole furono più rinfrancanti di qualsiasi bugia avrebbero potuto rifilargli sulla riuscita o meno della sua difesa.
E si sentiva bene con se stesso, per la prima volta dopo molto tempo.
Aveva riflettuto molto, dopo che Finnigan gli aveva comunicato che sarebbe rimasto al suo fianco a difenderlo.
Per la prima volta dopo tutti quegli anni aveva trovato il tempo e, soprattutto, il coraggio di fermarsi a pensare. Si era sempre rifiutato di farlo, prima: temeva di andare alla deriva, fino agli angoli della propria mente che cercava di tenere nascosti agli altri e a se stesso; quegli angoli che la notte sussurravano voci e sensi di colpa nei suoi sogni; in cui strisciavano cose antiche, che non voleva rievocare.
Ma poi era arrivata lei, Marietta, e se Roger aveva potuto continuare a rifiutare di guardarsi dentro, non aveva potuto evitare di guardare dentro di lei, e vederci il riflesso di se stesso. E in lei aveva visto il bisogno di perdono che languiva anche in lui, sepolto sotto lo strato di orgoglio e di rancore verso tutto e tutti.
Ma non era il genere di perdono che si era aspettato, e se n’era reso conto solo in quella stanza, seduto sul pavimento freddo, ad aspettare di sapere se il suo futuro sarebbe morto ancora una volta prima che ne riuscisse a scorgere l’orizzonte.
Quella che era finalmente riuscito a dissotterrare era la necessità di essere perdonato da se stesso: perché colui che per primo l’aveva condannato, e solo ora lo riconosceva, era il proprio  cuore.
E quando Finnigan l’aveva guardato negli occhi, come ci si guarda da pari a pari, e non da innocente a criminale, da superiore a inferiore, da uomo a bestia, aveva realizzato di poter ricominciare. Anzi, no, di poter continuare, perché, per quanti errori avesse fatto, per quante volte avesse preso la strada sbagliata, quella era la sua vita, ed era libero di viverla senza lasciarne indietro nemmeno una briciola. Senza rinnegarla e senza rimpiangerla.
Finnigan si schiarì la voce, distogliendolo dai suoi pensieri all’improvviso. «Se non ha niente in contrario, c’è una persona con cui dovrebbe parlare prima del processo.»
Roger alzò gli occhi. «Se è per trovare un compromesso anche stavolta, no. Sono stanco dei compromessi, Finnigan.»
L’uomo di fronte a lui sorrise. «No, Davies. Le assicuro che si tratta tutt’altro che di un compromesso.»
Si diresse verso la porta della solita stanza in cui Roger, in attesa del tribunale, era stato confinato e la aprì.
Non tornò dentro per accompagnare la persona che aveva annunciato. Non ce n’era bisogno, perché quando fece il suo ingresso, per quanto il suo volto fosse cambiato, Roger la riconobbe subito.
«Cub.» Pronunciò quel nome lentamente. «O forse dovrei chiamarti Marietta?»
Lei abbassò lo sguardo a terra. «Scusa, Roger» mormorò in fretta. «Non sapevo quello che Ruben stava facendo; non sapevo nemmeno che lo stesse facendo per me e nemmeno quanto mi amasse.»
Roger fece per parlare, ma lei lo interruppe. «No, lasciami spiegare. Ti prego.»
E iniziò a raccontargli tutto, sebbene in modo confuso, le parole che inciampavano le une sulle altre, inframmezzate dai singhiozzi quando, a un certo punto, parlando della confessione di Ruben, le lacrime avevano cominciato a scenderle sulle guance.
Roger ascoltò stupito, e quando lei arrivò alla fine ogni precedente sospetto che aveva covato nei suoi confronti era sparito. A quel punto non riuscì più a trattenersi e la abbracciò di slancio con un sospiro spezzato.
Marietta cercò di respingerlo. «No, non devi. Ti prego… E’ stato uno sbaglio che non avremmo dovuto compiere… noi…»
«Non è stato uno sbaglio» ribatté lui accarezzandole la testa.
«Ma io…»
«Non mi ami, lo so» la interruppe. «E io non amo te. Ma in quel momento eravamo troppo soli, abbandonati da tutti e in balia dei nostri incubi. Non potevamo fare altro: in quel momento non poteva che andare così, capisci? Avevamo bisogno l’uno dell’altra per capire noi stessi.»
Marietta alzò finalmente lo sguardo, gli occhi pieni di lacrime. «Io… quando ho scoperto che Ruben mi amava, nonostante… nonostante…»
«Nonostante tutto? Sì, lo so. Anch’io ho scoperto un uomo che mi rispetta sebbene probabilmente sappia recitare la mia fedina penale a memoria.» Sorrise. «Forse abbiamo cercato per anni dalla parte sbagliata: credevamo di aver bisogno del perdono degli altri, ma dovevamo solo trovare il nostro.»
Marietta scosse il capo. «Ma io ora non voglio più il perdono. Pensavo che mi sarebbe bastato, ma Ruben mi ha fatto capire che c’è di più, che la vita è molto più vasta dell’innocenza.»
Roger annuì. «Sì» mormorò. «E anche più della colpevolezza. Siamo noi uomini a fermarci e a rimanere indietro.»
«Ora però siamo andati avanti» affermò Marietta. «Io e te. Ma gli altri? I giudici, i testimoni, la gente che ci sarà al tribunale oggi? A che punto saranno rimasti? Il mondo ha ancora il potere di condannarci.»
«Non ha importanza» rispose lui. «Non possono riportarci indietro, ora, indipendentemente da ciò che ci faranno. Abbiamo superato la colpa, ormai. Insieme.»
Lei sorrise, e nonostante la devastazione di ustioni del suo volto, la dolcezza della sua espressione cancellava ogni bruttezza da lei.
Non ci fu bisogno di altre parole, scuse o ringraziamenti.
Bastava la sola presenza di lei lì, con il volto finalmente scoperto e l’intenzione di mostrarlo al mondo, accompagnando Roger dentro il tribunale per condividere la condanna che li attendeva.
Avrebbero affrontato insieme il processo, senza più il bisogno di cercare a tutti i costi il perdono. Per quanto li riguardava, in cuor loro erano già in pace.
E quando avrebbero finito di scontare quel crimine che non avevano commesso, sarebbero potuti andare avanti per la loro strada, consapevoli finalmente che così come nessuno era davvero innocente, non esisteva al mondo nemmeno chi era del tutto colpevole.
E non esisteva al mondo nessuno a cui la vita avrebbe negato un po’ d’amore e di serenità: bastava solo aprire gli occhi e le braccia, e lasciarsi avvolgere dalla luce senza temere di non trovarla.



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Non ho ancora deciso se questa storia è veramente mia o qualcuno si è impossessato di me mentre ero al pc a scrivere.
Più vado avanti e più sembra troppo triste -per non dire melodrammatica- perché sia una mia creazione. E dire che non ho avuto periodi di depressione ultimamente che giustifichino la tetraggine di questa vicenda.
Per fortuna siamo al penultimo capitolo, altrimenti avrei davvero cominciato a meditare sulla possibilità di farmi vedere da uno psichiatra.
Approfitto di questa occasione per augurarvi buon anno: spero che il vostro 2010 sia luminoso e scoppiettante come un fuoco d'artificio.
Al prossimo anno!



   
 
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