Capitolo.1
Mi
svegliai di soprassalto, avevo avuto uno strano incubo che però non
ricordavo,
portai una mano alla testa che mi faceva molto male, come il resto del
corpo
d'altronde.
All’inizio
non ci feci caso ma, dopo essermi sfregato gli occhi varie volte, capii
di
trovarmi in un luogo assolutamente sconosciuto, ricordavo poco o niente
di cosa
era successo prima di addormentarmi, era un miracolo che sapessi almeno
come mi
chiamassi.
Mi guardai
intorno, un po’ confuso: era una stanza un po’ buia ma sulla parete
parallela
al letto su cui ero sdraiato c’era una grossa finestra che dava su un
balcone;
dalla luce che entrava nella camera riuscii a capire che probabilmente
era
quasi arrivata sera.
L’atmosfera
che si percepiva in quella stanza era straordinaria: i raggi del sole,
che
stavano per scomparire oltre l’orizzonte di palazzi, arrivavano fino al
lampadario che pendeva dal soffitto, creando spettacolari giochi di
luce.
Grazie a
questi piccoli fasci luminosi che coloravano le pareti riuscii a
intravedere
parte dell’arredamento: il pavimento di parquet scuro era coperto, ai
piedi del
letto, da un morbido tappeto bianco e lì vicino notai anche due
poltrone in
vimini, una di fronte all’altra, coperte da numerosi cuscini.
Nella
parete alla mia sinistra mi accorsi di una piccola cassettiera in noce,
sopra
di essa scintillavano alla luce solare alcune cornici e un vaso in
vetro
contenente dei fiori viola, intuii che erano quelli a dare un buon
profumo alla
stanza; riappoggiai la testa sul cuscino e chiusi gli occhi tentando di
rilassarmi e di far passare il dolore che mi martellava le ossa del
cranio.
Quando li riaprii ispirando il buon odore di glicine che proveniva dai
fiori,
rivolsi lo sguardo all’insù e mi accorsi dell’immensa fotografia appesa
alle
mie spalle: occupava tutta la parete e ritraeva una magnifica vista di
Parigi
in bianco e nero, saltava all’occhio in particolar modo la Tour Eiffel
in primo
piano; scostai le coperte e decisi di esplorare quella casa che
iniziava già a
piacermi.
Cercando
di scendere dal letto notai sul comodino un biglietto, lo presi e lo
lessi:
- Sono uscita
per fare la spesa, fai
pure come se fossi a casa tua. Erin -.
Provai a
pensare se conoscevo questa donna di nome Erin ma la mia mente era
ancora
offuscata, probabilmente dalla lunga dormita, non sapevo nemmeno come
mai fossi
a casa sua...
Quando
sarebbe tornata ci saremmo chiariti su cosa mi era successo.
Iniziai a
girare per la casa, barcollavo e ogni tanto mi scappava uno starnuto,
trovai il
bagno e decisi di farmi una doccia calda.
L’acqua mi
rilassava e sicuramente mi avrebbe aiutato, almeno un po’, a curare il
terribile raffreddore che avevo; aprii la tendina della doccia in cerca
di un
accappatoio ma purtroppo trovai solo un grosso asciugamano blu, come
quelli che
si usano in spiaggia, con sopra ricamato un enorme e vistoso
orsacchiotto
marrone contornato da cuoricini fucsia; era piuttosto imbarazzante ma
mi
accontentai.
Mentre mi osservavo nello
specchio appoggiato
al muro la mia pancia si mise a gorgogliare, sentivo un forte vuoto
allo
stomaco e dovevo subito mettere qualcosa sotto ai denti.
Mi diressi
in cucina, era una stanza molto ampia e luminosa che dava sul salotto
della
casa, dove si trovava anche la porta d’ingresso.
Cominciai
a frugare qua e la tra l’interminabile serie di cassetti e di antine,
compreso
il tavolo che spiccava al centro della cucina, ma non trovai
assolutamente
niente; a un certo punto però, voltai lo sguardo verso un angolo della
stanza e
quasi rimasi spaventato da quello che vidi: davanti a me si ergeva un
altissimo
frigorifero di ultima generazione color grigio metallizzato a due ante.
Lo
aprii con timore e rimasi quasi abbagliato dalla forte luce al neon che
emetteva, ma purtroppo anche quello era vuoto e rischiai solo di
rimanere congelato.
Osservavo
alcuni strani “rifiuti organici” abbandonati in un angolino del frigo
quando
sentii il rumore di una serratura che scattava, e la porta d’ingresso
si aprì.
***
Avevo il
fiatone! Ero salita con l’ascensore, però le cinque borse che avevo in
mano
pesavano un quintale; almeno, d’ora in avanti, avrei avuto una bella
scorta di
cibo che mi sarebbe bastata per quasi un mese. Aprii la porta con non
poca
fatica e posai le buste gialle sul pavimento senza pensare a cosa
sarebbe
potuto accadere durante la mia assenza. Mi ero assolutamente scordata
del mio
ospite, non avrei mai pensato che si sarebbe svegliato e che avrei
dovuto
preparare la cena anche per lui.
“Poveraccio”
pensai tra me, non ero mai
stata un granché capace ai fornelli.
Chiusi la
porta alle mie spalle e mi preparai a ricaricare sulle braccia il peso
delle
borse quando notai un particolare “anomalo”: il mio frigo gigante alto
più di
due metri era aperto e da sotto sbucavano due piedi nudi.
Doveva
proprio essere lui! Prima vidi la testa che fece capolino dall’anta del
frigorifero, poi il resto del corpo, e, in un istante, divenni
paonazza; nel
vedere quella scena provai un improvviso moto di imbarazzo misto a
divertimento: il ragazzo era avvolto nell’asciugamano blu che mi aveva
regalato
la nonna e aveva lo sguardo furtivo di un topo affamato, che cerca
qualcosa da
mangiare. Non riuscii a trattenermi e mi misi a ridere in modo fin
troppo
vistoso, ma rimanendo comunque tutta rossa.
-
Scusami... - dissi dopo essermi asciugata le lacrime - non sono
riuscita a
trattenermi! - poi, con un po’ di vergogna, continuai - piacere di
conoscerti
mi chiamo Erin. -
Lui
aspettò qualche minuto, guardandomi diffidente, ma poi rispose: - Io mi
chiamo
Vergil, posso sapere perché mi trovo a casa tua? -
Restai
interdetta,
mi sorse il dubbio che avesse, in qualche modo, perso la memoria e, in
effetti,
ricordai che i medici mi avevano riferito che aveva riportato delle
lesioni
alla testa. In poche parole gli spiegai di che cosa era successo da
quando lo
avevo trovato steso per terra, fino a quando lo avevano accompagnato a
casa
mia.
- Non mi
ricordo!- continuava a ripetere forse parlando con se stesso.
Provai a
fargli qualche domanda: se aveva una famiglia o qualche amico dove
andare, e
dove abitassero ma la sua memoria era completamente svanita.
Ora che lo
osservavo da vicino mi accorsi che oltre ad avere i capelli
chiarissimi, che
adesso portava all’indietro, i suoi occhi erano del colore del ghiaccio
e i
tratti del suo viso a dir poco perfetti, “Farà
il modello?” mi chiesi incuriosita; ripensai al suo nome, era
poco comune e
facevo fatica a pronunciarlo correttamente, sperai di non fare le mie
solite
gaffe in futuro. Dopo questa attenta analisi constatai che di certo non
era un
tipo che si poteva incontrare tutti i giorni e mi sentivo in qualche
modo
fortunata.
- Hai
fame? - gli chiesi dopo un po’, ricordandomi che l’avevo visto mentre
stava
frugando nel frigo.
-Abbastanza
-
Gli
suggerii di vestirsi e mentre ritornava in bagno pensai, grattandomi la
testa,
a cosa avrei potuto preparare per cena senza farlo morire avvelenato:
scavai
tra i borsoni della spesa e ne estrassi delle verdure, della carne in
scatola e
del pane, potevano andar bene per un pasto veloce.
- E’
pronto!- urlai con un sorriso da ebete stampato sulla faccia mentre
indossavo
un grembiule da cuoca, titolo che non mi era assolutamente concesso; ci
accomodammo uno di fronte all’altro e gli misi il piatto sotto al naso,
guardai
la sua faccia e percepii che era profondamente schifato, rivolsi lo
sguardo sui
nostri piatti ed effettivamente, mi resi conto che sembrava del cibo
per cani,
gli avevo fatto perdere l’appetito.
Lentamente
prese in mano la forchetta e infilzò un pezzo di carne, ma mentre stava
per
assaggiare quell’oscenità scattai come una saetta, presi i due piatti
assieme
alle posate e li buttai violentemente nel lavandino, afferrando poi il
telefono
digitai un numero che ormai avevo imparato a memoria a forza di usarlo.
- Salve,
vorrei ordinare una pizza gigante... -.
***
Dal primo
momento in cui era entrata in casa questa ragazza, avevo subito intuito
che non
era del tutto normale, benché avesse buone intenzioni mi spaventava
decisamente. Ero rimasto scioccato da come aveva lanciato i piatti nel
lavandino, e la pizza che aveva ordinato era a dir poco immensa,
infatti, non
riuscimmo nemmeno a mangiarne la metà.
- Quindi
non hai nessun posto dove andare? - mi chiese mentre sparecchiava.
- A quanto
pare, no! -
Fece una
faccia alquanto strana e poi fissandomi intensamente disse:
- Non
preoccuparti, ho deciso che ti aiuterò a recuperare la memoria, e se
non ti da
fastidio dormire sul divano, poi rimanere ancora per un po’
da me. -
Inizialmente
ripensando alla cena di quella sera ero sul punto di rifiutare ma
riflettendoci
meglio capì che era l’ unica persona che conoscessi in quel momento.
- Ti
ringrazio e ti prometto che non mi tratterrò molto a lungo, anche se la
mia
memoria non sarà tornata troverò un modo per mantenermi da solo. -
Lei guardò
l’orologio, si era fatto molto tardi e perciò decidemmo di andare a
dormire.
Mi
svegliai, con un po’ di torcicollo per via del poggiolo, sul mio nuovo
divano/letto, quando il sole era già alto ed entrava dalla finestra del
salotto
colpendomi in piena faccia; la bella dormita, a mia insaputa, mi aveva
aiutato
a guarire dal raffreddore, anche se un rimasuglio di mal di testa mi
martellava
silenzioso le tempie. Guardai il piccolo orologio sul tavolino del
salotto e
notai il solito bigliettino lasciato dalla proprietaria di casa:
-
QUESTA
MATTINA SARO’
FUORI PER VIA DELL’UNIVERSITA’
.
USA PURE
I SOLDI CHE TI HO LASCIATO SUL TAVOLO SE VUOI ANDARE A FARTI UN GIRO
PER LA
CITTA’.
DOVREI
TORNARE A CASA VERSO
LE 6:30.
Erin -
Di fianco
al pezzetto di carta strappata c’erano 100$
ma
sinceramente in quel momento non
sapevo proprio cosa farmene, quindi, presi solo pochi spiccioli ed
uscii a fare
quattro passi. Quando arrivai in strada prestai particolare attenzione
al nome
e al numero della casa e iniziai a camminare per le strade poco
trafficate,
segnando bene a mente il percorso che stavo facendo; volevo fare
colazione e,
nella prima piazza che incontrai, cercai un bar abbastanza decente.
Entrai nel
locale dirigendomi verso il bancone, apparentemente incustodito; ero
appoggiato
da un po’ di tempo al banco quando sentii una vocina che mi chiamava: -
Scusiiii hei! Dico a lei! Cosa vuole da bere? –
Guardai
più in basso e notai un omino che si agitava come un forsennato,
saltellando di
qua e di là, doveva essere per forza il barista, “o
la barista?” pensai dopo aver notato che portava dei vestiti
da
donna e anche un filo di trucco, anche se era evidente che fosse un
uomo, dato
che aveva una folta barba che gli arrivava alle orecchie. Ero rimasto
impietrito ma, cercando di non fargli notare il mio stupore ordinai un
cappuccino
e una brioche.
Era una
giornata tranquilla ma ancora per poco, perché non sapevo che i miei
guai erano
proprio dietro l’angolo: infatti, proprio mentre stavo bevendo dalla
tazzina,
qualcuno mi urtò da dietro, violentemente, facendomi versare il caffè
bollente
sui vestiti.
Mi girai
e, ancora una volta, rimasi shockato: il tipo che mi aveva urtato era
la mia
copia sputata, “un clone forse?”ma
ormai mi ero abituato alle stramberie di quella città.
- Scusami!
- disse guardando i miei vestiti, quando però rivolse lo sguardo sulla
mia
faccia, iniziò a fissarmi spaventato quanto me.
- Ci
conosciamo?- chiesi io.
- Non mi
sembra - parlava lentamente come se pensasse che fossi di un altro
pianeta – ma
forse siamo parenti, io mi chiamo Dante - e mi strinse la mano.
Ero
curioso di conoscerlo, mi propose di andare a comprare dei vestiti
nuovi nel
centro commerciale in cui era appena stato, ed io lo seguì anche perché
non
avevo nient’altro da fare, proprio come lui.
Camminando
mi raccontò che aveva perso la memoria e che una ragazza lo stava
aiutando
ospitandolo a casa sua; in quel momento stavo avendo una crisi
esistenziale,
forse era tutto frutto della mia immaginazione? Ma dopo mi dissi che
era
assolutamente impossibile, osservandolo meglio, Dante era diverso da
me: era
senz’altro un tipo estroverso, un po’ spaccone e ogni tanto mi metteva
in
imbarazzo; lo conoscevo da solo cinque minuti ma sembrava fosse un mio
vecchio
amico.
Trovai dei
semplici abiti, che non davano troppo nell’occhio e che non erano
nemmeno all’
ultima moda, invece lui iniziò a provarsi strani vestiti: si mise un
sombrero
fucsia con pailette dorate, non sapevo nemmeno dove era andato a
pescarlo, un
paio di boxer dotati di due grossi catarifrangenti sui lati, un
mantello rosso
e degli stivaloni alla texana.
Cominciò a
sfilare disinvolto tra gli scaffali del negozio ma soprattutto tra la
gente, io
lo guardavo allibito e a bocca aperta da un angolino, cercando di non
far
capire agli altri che ero in sua compagnia.
Angolo
dell’autrice:
Scusate
per lo spaventoso ritardo ma oltre al problema del “blocco d’autore” è
anche
iniziata quell’orribile tortura comunemente chiamata “scuola”.
Voglio
ringraziare chi sta leggendo la mia umile storiella e soprattutto chi
ha avuto
il coraggio di recensirla, mi piacerebbe molto se commentaste anche
questo
capitolo dicendomi cosa vi piace e non... mi interessano molto anche
degli
eventuali spunti su cosa far succedere ai nostri protagonisti!
Grazie
mille a tutti Pupa ^.^